Personaggio strano e particolare, cantante e compositrice molto sottovalutata, assurta a una buona popolarità agli inizi degli anni Settanta con tre buoni album e poi scomparsa dalla scena.
Inglese, nata nel 1946, arrivò progressivamente alla musica con esperienze minori (Ed and the Intruders in particolare) fino a quando il suo bell'aspetto e una voce potente e black non la portò alla possibilità di firmare per la Apple Records.
Scelse invece la Invictus, l'etichetta fomdata dai mitici Brian Holland, Lamont Dozier e Eddie Holland, che avevano da poco lasciato la Motown, dopo essersi spostata a Detroit.
Incontrò lì Jeffrey Bowen, futuro marito, che aveva, pure lui, appena abbandonato la Motown e cercò di lanciare Ruth come la "Diana Ross bianca". I New Play Starring Ruth Copeland, pubblicarono, con scarso successo, il singolo "The Music Box" / "A Gift of Me" nel 1969.
Bowen le fece conoscere George Clinton, mente dei Parliament. Ruth fu chiamata a produrre (e a scrivere due brani) "Osmium" , l'album di debutto della band, nel 1970.
Nel 1971 Ruth Copeland pubblica il suo primo album solista "Self Portrait", pubblicato nell'ottobre 1971, accompagnata da vari membri di Funkadelic/Parliament oltre a Dennis Coffey dei Funk Brothers. Un lavoro tanto vario (tra soul, funk, folk, perfino "Un Bel Di" da "Madama Butterfly").
Ha l'opportunità di andare in tour, supportata da membri dei Funkadelic, con Sly and the Family Stone (in un periodo già ultratossico di Sly con cui rompe i rapporti e viene sostanzialmente cacciata).
Il secondo album "I Am What I Am" del 1971 è invece un piccolo gioiello funk soul con influenze West Coast, con due strepitose cover degli Stones, gli otto minuti infuocati di "Gimme Shelter" e i sette di "Play with fire" e canzoni piene (spesso scritte con George Clinton) di groove con la sua voce tra Grace Slick, Julie Driscoll, Betty Davis e Janis Joplin a troneggiare.
Suona anche prima di David Bowie il 28 settembre 1972 alla Carnegie Hall di New York ma con sacrso successo.
Chiude la carriera cinque anni dopo con "Take Me to Baltimore" con musicisti d'eccellenza come Bob Kulick e Dick Wagner (Lou Reed, Alice Cooper, Kiss etc), Steve Jordan (attuale batterista degli Stones) i fiati dei fratelli Michael e Randy Brecker le percussioni di Jimmy Maelen (ha suonato con "tutti").
Compone con lei alcuni brani Daryl Hall.
Non andrà bene e sparirà ben presto dalla circolazione.
Lascia la musica e si dedica al lavoro alla The Blue Book Building & Construction Network, la directory informativa per l'industria edile americana, fino alla pensione.
Gimme shelter
https://www.youtube.com/watch?v=jT_y6X58gkY
You're love been so good to me
https://www.youtube.com/watch?v=6UObKvytj2Y
giovedì, marzo 13, 2025
mercoledì, marzo 12, 2025
Gaznevada e "Going Underground" di Lisa Bosi
Riprendo l'articolo che ho dedicato ai GazNevada e al docufilm "Going Underground" di Lisa Bosi, nelle pagine di "Alias" de "Il Manifesto" di sabato scorso.
E' un documento acre nella sua modalità, talvolta perfino spietata, nel fotografare le cose così come erano in “Going Underground”, il docufilm di Lisa Bosi per Sonne Film e Wanted Cinema, sulla storia dei Gaznevada (fresco vincitore della undicesima edizione del SeeYouSound Festival di Torino come Best Documentary).
Probabilmente la migliore per attitudine e creatività. Hanno lasciato dischi e canzoni importanti (da “Mamma dammi la benza” e “Nevadagaz” all'album “Sick soundtrack” del 1980, anno in cui affiancarono Edoardo Bennato nel brano omonimo nel suo album “Uffa uffa”, vero e proprio hardcore punk ante litteram per l'Italia). Mischiavano punk e la new wave più aspra e sperimentale (A Bologna c’erano band che ancora suonavano progressive, rock, blues, rock blues, jazz-rock e comunque sound già codificati con testi più o meno “ribelli”. Noi suonavamo i Ramones…Ciro Pagano, ai tempi Robert Squibb, chitarrista).
I Gaznevada ebbero il coraggio e il pregio di non arenarsi sul sound che loro stessi avevano creato ma si spostarono velocemente e freneticamente verso nuovi orizzonti, approdando a una dance evoluta e contaminata.
Come spesso accade non furono capiti, né si comprese che lo spirito primigenio del punk era quello di provocare, di bruciare come una fiammata, di disorientare, confondere, di non lasciarsi fossilizzare.
E gli strali di “traditori” giunsero subito e con puntualità.
Ancora Ciro Pagano:
Noi eravamo ragazzi irrequieti mossi da un’insaziabile urgenza creativa. Ci stancavamo subito di quel che facevamo e così abbandonammo il rock demenziale di “Mamma dammi la benza” ancor prima che venisse coniato il termine di rock demenziale, brano peraltro che abbiamo riproposto in chiave elettronica nel 2024. Poi dopo la pubblicazione della cassettina nel marzo del 1979, il momento punk della band, eravamo già interessati alla new wave e no wave, e poi l’elettronica e ancora il dancefloor di “I.C. Love Affair”, uno dei brani a cui sono più legato, e poi ancora cambiamenti di sound, di formazione, di luoghi, di etichette discografiche. Adesso siamo in uscita con tre inediti contenuti nel docufilm e il sound va ancora una volta in altra direzione: si siamo dei traditori, evoluti però.
Un aspetto inusuale in operazioni analoghe è la totale mancanza nel documentario di toni agiografici e celebrativi, di dichiarazioni di esterni su quanto fossero bravi e importanti.
Anzi, la pellicola non ci risparmia nulla di quello che accadeva in quegli anni, funestati dall'eroina, dalla repressione di stato, dall'annientamento del dissenso ideologico.
La registra Lisa Bosi lo mette bene in chiaro:
Non è mai semplice raccontare la vita di qualcun altro perché un regista è sempre un filtro, non è mai uno specchio, volente o nolente. Nel caso dei Gaznevada la sfida per me era trasmettere anche esteticamente la “crudeltà” e originalità della band. Volevo che il pubblico si sentisse risucchiato nell’underground di una città che era stata letta in modo vivido da Andrea Pazienza.
Come disse lui, parlando di uno dei suoi personaggi più famosi, ispirato proprio a Ciro dei Gaznevada, “Zanardi è cattivo quanto può esserlo un’antenna RAI, cioè è un ripetitore”. Loro percepivano perfettamente cosa accedeva attorno e si rifugiavano nella “Fabbrica dei Sogni”.
Sono stata molto fortunata a trovare due produttori come Sonne Film e Wanted Cinema che mi hanno dato piena libertà espressiva. Nel film, per esempio, ritorna in maniera compulsiva una clip sull’eroina. Fa parte di una mia estetica disturbante. Amo registi come Gaspar Noè, che non mettono mai a proprio agio lo spettatore. Bisogna essere disposti ad uscire dalla propria zona di comfort per intraprendere viaggi come quello che ripercorre la storia dei Gaznevada. E magari alzarsi dalla poltrona alla fine del film e chiedersi se si sta vivendo la vita che si desiderava.
Il taglio della pellicola è molto particolare.
I Gaznevada ne sono i protagonisti, certo, ma è quello che “parla” intorno a loro a dare il ritmo, a buttarci in faccia e colpirci allo stomaco, con vicende mai sufficientemente approfondite nel modo corretto.
Ciro Pagano:
Sono stati scritti diversi libri e girati alcuni documentari su di noi e sulla casa di via Clavature, la Traumfabrik (luoghi storici della controcultura bolognese dei tempi. NdR), più in generale su quel periodo, ma personalmente ho sempre rifiutato di parteciparvi. Quando conoscemmo Lisa la prima volta, e poi nei successivi incontri, lei mi diede una lettura visionaria dei Gaznevada di quegli anni e della storia che li coinvolgeva.
Anche un argomento “ruvido” come quello delle droghe ha varie sfaccettature e dipendono tutte dal punto di vista con le quali le osservi. Possono essere interpretate e raccontate in tanti modi e questo nonostante la drammaticità e la sofferenza che questo tipo di storie porta con sé.
Lisa lo ha fatto in modo visionario, cupo, amorevole e la sua curiosità ci ha convinto: Going Underground è diventato il nostro racconto. Bologna ardeva di creatività, di stimoli, di vitalità.
Ne finì arsa viva ma ha lasciato un segno indelebile nella nostra (contro)cultura.
Dice ancora Lisa Bosi:
Personalmente penso che non sia un caso che Bologna sia diventata la città della musica UNESCO.
Sono varie le storie musicali che in questa città hanno scritto pagine importanti, indelebili. Pensiamo anche alle posse per esempio. Io sono nata a Bologna e faccio fatica a staccarmene. Come scrisse Guccini “Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po’ molli”, è meno elegante di Milano, non ti toglie il fiato come Roma, ma quando sei con lei il tempo si ferma e la mente fa pensieri sinceri. Sai che con lei puoi essere veramente te stesso, senza false ideologie. È una madre che non ti stressa, ti lascia fare il tuo cammino, nel bene e nel male, nelle cantine e sopra i suoi colli. Anche i Gaznevada non ne uscirono indenni, tra lutti, enormi difficoltà, successo e declino, problemi di ogni tipo.
Allo scioglimento della band, Ciro Pagano troverà un nuovo successo con la techno dei Datura, gli altri si disperderanno in altre esperienze.
In “Going underground” si sente risuonare la frase “ci sentivamo tutti dei geni, lo sapevamo”. Personalmente credo lo fossero e con il senno di poi (e non di quei tempi, che di senno ce n'era poco in giro) potessero diventare dei nuovi Devo o Talking Heads ma l'importante è che non siano rimasti rimpianti, come testimonia ancora Ciro Pagano:
Personalmente non ho nessun rimpianto: a volte le cose si muovono in una direzione giusta altre volte no, è importante però che si muovano. Questa cosa che ci sentissimo tutti geni innescava conflitti importanti tra noi, e tra noi e gli altri. Erano conflitti dai quali nascevano molto spesso anche le nostre produzioni e non solo quelle musicali, penso alla realizzazione delle copertine, la scrittura dei testi, l’immagine della band. Il fatto è che noi pensavamo di essere la nostra musica. E’ eccessivo lo so, ma il nostro modo di essere Gaznevada era di appartenenza totale e non eravamo simpatici a tutti: c’è sempre un prezzo da pagare.
Il documentario rende giustizia a una band geniale e a un periodo inimitabile, nel bene e nel (spesso molto) male e si candida ad essere una delle migliori testimonianze dell'epoca.
Un'esperienza che ha piantato semi e radici ma, paradossalmente, allo stesso tempo ha, alla fine dell'opera, bruciato la pianta, lasciando, per quanto preziosa, solo cenere.
Ovvero la perfetta incarnazione del primo spirito punk.
E' un documento acre nella sua modalità, talvolta perfino spietata, nel fotografare le cose così come erano in “Going Underground”, il docufilm di Lisa Bosi per Sonne Film e Wanted Cinema, sulla storia dei Gaznevada (fresco vincitore della undicesima edizione del SeeYouSound Festival di Torino come Best Documentary).
Probabilmente la migliore per attitudine e creatività. Hanno lasciato dischi e canzoni importanti (da “Mamma dammi la benza” e “Nevadagaz” all'album “Sick soundtrack” del 1980, anno in cui affiancarono Edoardo Bennato nel brano omonimo nel suo album “Uffa uffa”, vero e proprio hardcore punk ante litteram per l'Italia). Mischiavano punk e la new wave più aspra e sperimentale (A Bologna c’erano band che ancora suonavano progressive, rock, blues, rock blues, jazz-rock e comunque sound già codificati con testi più o meno “ribelli”. Noi suonavamo i Ramones…Ciro Pagano, ai tempi Robert Squibb, chitarrista).
I Gaznevada ebbero il coraggio e il pregio di non arenarsi sul sound che loro stessi avevano creato ma si spostarono velocemente e freneticamente verso nuovi orizzonti, approdando a una dance evoluta e contaminata.
Come spesso accade non furono capiti, né si comprese che lo spirito primigenio del punk era quello di provocare, di bruciare come una fiammata, di disorientare, confondere, di non lasciarsi fossilizzare.
E gli strali di “traditori” giunsero subito e con puntualità.
Ancora Ciro Pagano:
Noi eravamo ragazzi irrequieti mossi da un’insaziabile urgenza creativa. Ci stancavamo subito di quel che facevamo e così abbandonammo il rock demenziale di “Mamma dammi la benza” ancor prima che venisse coniato il termine di rock demenziale, brano peraltro che abbiamo riproposto in chiave elettronica nel 2024. Poi dopo la pubblicazione della cassettina nel marzo del 1979, il momento punk della band, eravamo già interessati alla new wave e no wave, e poi l’elettronica e ancora il dancefloor di “I.C. Love Affair”, uno dei brani a cui sono più legato, e poi ancora cambiamenti di sound, di formazione, di luoghi, di etichette discografiche. Adesso siamo in uscita con tre inediti contenuti nel docufilm e il sound va ancora una volta in altra direzione: si siamo dei traditori, evoluti però.
Un aspetto inusuale in operazioni analoghe è la totale mancanza nel documentario di toni agiografici e celebrativi, di dichiarazioni di esterni su quanto fossero bravi e importanti.
Anzi, la pellicola non ci risparmia nulla di quello che accadeva in quegli anni, funestati dall'eroina, dalla repressione di stato, dall'annientamento del dissenso ideologico.
La registra Lisa Bosi lo mette bene in chiaro:
Non è mai semplice raccontare la vita di qualcun altro perché un regista è sempre un filtro, non è mai uno specchio, volente o nolente. Nel caso dei Gaznevada la sfida per me era trasmettere anche esteticamente la “crudeltà” e originalità della band. Volevo che il pubblico si sentisse risucchiato nell’underground di una città che era stata letta in modo vivido da Andrea Pazienza.
Come disse lui, parlando di uno dei suoi personaggi più famosi, ispirato proprio a Ciro dei Gaznevada, “Zanardi è cattivo quanto può esserlo un’antenna RAI, cioè è un ripetitore”. Loro percepivano perfettamente cosa accedeva attorno e si rifugiavano nella “Fabbrica dei Sogni”.
Sono stata molto fortunata a trovare due produttori come Sonne Film e Wanted Cinema che mi hanno dato piena libertà espressiva. Nel film, per esempio, ritorna in maniera compulsiva una clip sull’eroina. Fa parte di una mia estetica disturbante. Amo registi come Gaspar Noè, che non mettono mai a proprio agio lo spettatore. Bisogna essere disposti ad uscire dalla propria zona di comfort per intraprendere viaggi come quello che ripercorre la storia dei Gaznevada. E magari alzarsi dalla poltrona alla fine del film e chiedersi se si sta vivendo la vita che si desiderava.
Il taglio della pellicola è molto particolare.
I Gaznevada ne sono i protagonisti, certo, ma è quello che “parla” intorno a loro a dare il ritmo, a buttarci in faccia e colpirci allo stomaco, con vicende mai sufficientemente approfondite nel modo corretto.
Ciro Pagano:
Sono stati scritti diversi libri e girati alcuni documentari su di noi e sulla casa di via Clavature, la Traumfabrik (luoghi storici della controcultura bolognese dei tempi. NdR), più in generale su quel periodo, ma personalmente ho sempre rifiutato di parteciparvi. Quando conoscemmo Lisa la prima volta, e poi nei successivi incontri, lei mi diede una lettura visionaria dei Gaznevada di quegli anni e della storia che li coinvolgeva.
Anche un argomento “ruvido” come quello delle droghe ha varie sfaccettature e dipendono tutte dal punto di vista con le quali le osservi. Possono essere interpretate e raccontate in tanti modi e questo nonostante la drammaticità e la sofferenza che questo tipo di storie porta con sé.
Lisa lo ha fatto in modo visionario, cupo, amorevole e la sua curiosità ci ha convinto: Going Underground è diventato il nostro racconto. Bologna ardeva di creatività, di stimoli, di vitalità.
Ne finì arsa viva ma ha lasciato un segno indelebile nella nostra (contro)cultura.
Dice ancora Lisa Bosi:
Personalmente penso che non sia un caso che Bologna sia diventata la città della musica UNESCO.
Sono varie le storie musicali che in questa città hanno scritto pagine importanti, indelebili. Pensiamo anche alle posse per esempio. Io sono nata a Bologna e faccio fatica a staccarmene. Come scrisse Guccini “Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po’ molli”, è meno elegante di Milano, non ti toglie il fiato come Roma, ma quando sei con lei il tempo si ferma e la mente fa pensieri sinceri. Sai che con lei puoi essere veramente te stesso, senza false ideologie. È una madre che non ti stressa, ti lascia fare il tuo cammino, nel bene e nel male, nelle cantine e sopra i suoi colli. Anche i Gaznevada non ne uscirono indenni, tra lutti, enormi difficoltà, successo e declino, problemi di ogni tipo.
Allo scioglimento della band, Ciro Pagano troverà un nuovo successo con la techno dei Datura, gli altri si disperderanno in altre esperienze.
In “Going underground” si sente risuonare la frase “ci sentivamo tutti dei geni, lo sapevamo”. Personalmente credo lo fossero e con il senno di poi (e non di quei tempi, che di senno ce n'era poco in giro) potessero diventare dei nuovi Devo o Talking Heads ma l'importante è che non siano rimasti rimpianti, come testimonia ancora Ciro Pagano:
Personalmente non ho nessun rimpianto: a volte le cose si muovono in una direzione giusta altre volte no, è importante però che si muovano. Questa cosa che ci sentissimo tutti geni innescava conflitti importanti tra noi, e tra noi e gli altri. Erano conflitti dai quali nascevano molto spesso anche le nostre produzioni e non solo quelle musicali, penso alla realizzazione delle copertine, la scrittura dei testi, l’immagine della band. Il fatto è che noi pensavamo di essere la nostra musica. E’ eccessivo lo so, ma il nostro modo di essere Gaznevada era di appartenenza totale e non eravamo simpatici a tutti: c’è sempre un prezzo da pagare.
Il documentario rende giustizia a una band geniale e a un periodo inimitabile, nel bene e nel (spesso molto) male e si candida ad essere una delle migliori testimonianze dell'epoca.
Un'esperienza che ha piantato semi e radici ma, paradossalmente, allo stesso tempo ha, alla fine dell'opera, bruciato la pianta, lasciando, per quanto preziosa, solo cenere.
Ovvero la perfetta incarnazione del primo spirito punk.
Etichette:
Cultura 80's
martedì, marzo 11, 2025
Lance Henson - Entità /Entities
Lance Henson è Cheyenne, Oglala e Cajun e membro della confraternita dei Soldati Cane (Dog Soldiers) Cheyenne, della Native American Church (il culto del peyote) e dell’American Indian Movement.
Ha spesso rappresentato la propria tribù nel Gruppo di lavoro dei popoli indigeni presso le Nazioni Unite a Ginevra.
Ha pubblicato circa cinquanta raccolte, che sono state tradotte in ventisette lingue. È anche co-autore di due pièces teatrali.
Il nuovo libro di poesie lo coglie alle prese con l'attualità, tra guerre e violenza ma, come sempre, con una spiritualità intensa, profonda, ancestrale.
"Nonostante le stragi, la distruzione, la follia e dell' "odio infuocato" degli infami, del calpestio degli "stivali dei folli", nonostante tutto, i popoli nativi resistono nella parola dei loro poeti."
Il volume si presenta con il testo a fronte, come traccia essenziale del dire necessariamente in più lingue – southern cheyenne/tsistsistas, inglese (che per Lance è la lingua del nemico), italiano.
"Sono sul crinale
In America appena
da qualche tra furore e libertà".
Lance Henson
Entità /Entities
Forum Edizioni
128 pagine
18 euro
Ha spesso rappresentato la propria tribù nel Gruppo di lavoro dei popoli indigeni presso le Nazioni Unite a Ginevra.
Ha pubblicato circa cinquanta raccolte, che sono state tradotte in ventisette lingue. È anche co-autore di due pièces teatrali.
Il nuovo libro di poesie lo coglie alle prese con l'attualità, tra guerre e violenza ma, come sempre, con una spiritualità intensa, profonda, ancestrale.
"Nonostante le stragi, la distruzione, la follia e dell' "odio infuocato" degli infami, del calpestio degli "stivali dei folli", nonostante tutto, i popoli nativi resistono nella parola dei loro poeti."
Il volume si presenta con il testo a fronte, come traccia essenziale del dire necessariamente in più lingue – southern cheyenne/tsistsistas, inglese (che per Lance è la lingua del nemico), italiano.
"Sono sul crinale
In America appena
da qualche tra furore e libertà".
Lance Henson
Entità /Entities
Forum Edizioni
128 pagine
18 euro
Etichette:
Libri
lunedì, marzo 10, 2025
Jazz on a Summer's Day
Bert Stern, fotografo (successivamente con Vogue) filma il Jazz Festival di Newport in Rhode Island del 1958.
Due anni dopo realizza il film "Jazz on a Summer's Day" (ne esiste una versione italiana con il titolo "Jazz in un giorno d'estate", pubblicata nel 1960) in cui raccoglie spezzoni delle esibizioni di vere e proprie star del jazz (Thelonious Monk, Gerry Mulligan, Jimmy Giuffre, Louis Armstrong, Chico Hamilton, Anita O' Day), del blues e gospel (Mahalia Jackson, Dinah Washington, Big Maybelle) e un brano di Chuck Berry, una "Sweet Little Sixteen" jazz n roll. In scaletta ma non ripreso, Ray Charles).
Qualità delle immagini modernissima e superba, di livello eccelso.
Ma quello che risalta è lo sguardo sul pubblico, il look, le movenze, gli sguardi, i balli, un'ingenuità di fondo, la COOLNESS diffusa.
Un documento preziosissimo che coglie un momento di transizione nell'estetica e nella musica.
Pura eccellenza.
Il film è qua:
https://www.youtube.com/watch?v=DKAPRqQ8q9Y&t=1970s
Due anni dopo realizza il film "Jazz on a Summer's Day" (ne esiste una versione italiana con il titolo "Jazz in un giorno d'estate", pubblicata nel 1960) in cui raccoglie spezzoni delle esibizioni di vere e proprie star del jazz (Thelonious Monk, Gerry Mulligan, Jimmy Giuffre, Louis Armstrong, Chico Hamilton, Anita O' Day), del blues e gospel (Mahalia Jackson, Dinah Washington, Big Maybelle) e un brano di Chuck Berry, una "Sweet Little Sixteen" jazz n roll. In scaletta ma non ripreso, Ray Charles).
Qualità delle immagini modernissima e superba, di livello eccelso.
Ma quello che risalta è lo sguardo sul pubblico, il look, le movenze, gli sguardi, i balli, un'ingenuità di fondo, la COOLNESS diffusa.
Un documento preziosissimo che coglie un momento di transizione nell'estetica e nella musica.
Pura eccellenza.
Il film è qua:
https://www.youtube.com/watch?v=DKAPRqQ8q9Y&t=1970s
Etichette:
Film
venerdì, marzo 07, 2025
Phil Daniels & The Cross
Nel pieno del successo per l'interpretazione di Jimmy in "Quadrophenia", Phil Daniels sfruttò l'opportunità di pubblicare un album, omonimo, a suo nome.
Contrariamente a quanto si può supporre non fu un'attività improvvisata ad hoc.
In realtà militava già da tempo in una band, i Renoir, cantando con un timbro parecchio distinguibile, suonando più che discretamente la chitarra e componendo.
Al suo fianco Peter-Hugo Daley, pure lui futuro attore televisivo e teatrale ma anche nei film "Breaking glass", "Gangs of New York", "Absolute beginners" e "Sognie delitti" di Woody Allen.
Come ha testimoniato lo stesso Phil Daniels pare che il futuro Johnny Rotten abbia provato a entrare nella band, chiedendo un provino ma fu rifiutato.
Curiosamente Daniels fu scelto al posto di Rotten per il protagonista di "Quadrophenia".
"Non molto tempo dopo l'uscita di Quadrophenia, ricordo che Gary Kemp (futuro Spandau Ballet) venne a vedere i Renoir e mi disse "Guarda, questa musica è bella, ma non andrà da nessuna parte.
Se vuoi ottenere un contratto discografico, forse dovresti reinventarti come una band mod".
Il revival mod era in pieno svolgimento a quel tempo.
La band di Gary all'epoca si chiamava Makers, non erano ancora diventati gli Spandau Ballet."
"Tra Quadrophenia e Breaking Glass, il progetto Renoir è andato a farsi benedire, e sono arrivati Phil Daniels e The Cross.
Alla fine, il disco che abbiamo finito per fare non ha avuto abbastanza successo da fare davvero una grande differenza".
L'album, ascoltato oggi, ha parecchie pecche e risente di una scarsa messa a fuoco, talvolta dispersivo ma è interessante (e sorprendente) constatare quanto molte canzoni siano spesso vicine a quello che ascolteremo anni dopo da Arctic Monkeys e soprattutto Blur, fan dichiarati dell'album e che vollero Phil Daniels e il suo marcato accento cockney nella title track di "Parklife" nel 1994 (Phil sarà poi anche sul palco con gli Who come narratore nel tour "Quadrophenia" nel 2012/13).
Ci sono anche brani di stampo reggae e ska e una prevalente impostazione che riportano ai Madness meno "giamaicani" e più pop soul (vedi "The Liberty of Norton Folgate").
"Non avevamo un gran suono nell'album.
E' un divertente mix di influenze.
C'é "Shout Across The River", che era il titolo di un'opera teatrale di Poliakoff che ho finito per non fare perché ho ottenuto la parte in "Zulu Dawn".
C'era anche "News at Ten", che era la mia canzone di protesta per il Sud Africa, "Cromer Aroma" parlava di Kings Cross e "Wet Day in London" parlava di mio padre e della sua tecnica per far rivivere i pesci tropicali.
Penso ancora che fosse un buon album, ma la gente era davvero contraria al fatto che facessi entrambe le cose.
Quando giravamo Breaking Glass, l'NME mi disse che il mio album non era granché.
Pensavano che fossi salito sul carrozzone, l'ennesimo attore che cercava di avere popolarità facendo il cantante. Quindi Phil Daniels e The Cross furono in un certo senso liquidati".
Stralci di intervista (molto interessante) del 2016 tratti da qui:
https://louderthanwar.com/phil-daniels-cross-actor-phil-daniels-looks-back-music-career-punk/
Contrariamente a quanto si può supporre non fu un'attività improvvisata ad hoc.
In realtà militava già da tempo in una band, i Renoir, cantando con un timbro parecchio distinguibile, suonando più che discretamente la chitarra e componendo.
Al suo fianco Peter-Hugo Daley, pure lui futuro attore televisivo e teatrale ma anche nei film "Breaking glass", "Gangs of New York", "Absolute beginners" e "Sognie delitti" di Woody Allen.
Come ha testimoniato lo stesso Phil Daniels pare che il futuro Johnny Rotten abbia provato a entrare nella band, chiedendo un provino ma fu rifiutato.
Curiosamente Daniels fu scelto al posto di Rotten per il protagonista di "Quadrophenia".
"Non molto tempo dopo l'uscita di Quadrophenia, ricordo che Gary Kemp (futuro Spandau Ballet) venne a vedere i Renoir e mi disse "Guarda, questa musica è bella, ma non andrà da nessuna parte.
Se vuoi ottenere un contratto discografico, forse dovresti reinventarti come una band mod".
Il revival mod era in pieno svolgimento a quel tempo.
La band di Gary all'epoca si chiamava Makers, non erano ancora diventati gli Spandau Ballet."
"Tra Quadrophenia e Breaking Glass, il progetto Renoir è andato a farsi benedire, e sono arrivati Phil Daniels e The Cross.
Alla fine, il disco che abbiamo finito per fare non ha avuto abbastanza successo da fare davvero una grande differenza".
L'album, ascoltato oggi, ha parecchie pecche e risente di una scarsa messa a fuoco, talvolta dispersivo ma è interessante (e sorprendente) constatare quanto molte canzoni siano spesso vicine a quello che ascolteremo anni dopo da Arctic Monkeys e soprattutto Blur, fan dichiarati dell'album e che vollero Phil Daniels e il suo marcato accento cockney nella title track di "Parklife" nel 1994 (Phil sarà poi anche sul palco con gli Who come narratore nel tour "Quadrophenia" nel 2012/13).
Ci sono anche brani di stampo reggae e ska e una prevalente impostazione che riportano ai Madness meno "giamaicani" e più pop soul (vedi "The Liberty of Norton Folgate").
"Non avevamo un gran suono nell'album.
E' un divertente mix di influenze.
C'é "Shout Across The River", che era il titolo di un'opera teatrale di Poliakoff che ho finito per non fare perché ho ottenuto la parte in "Zulu Dawn".
C'era anche "News at Ten", che era la mia canzone di protesta per il Sud Africa, "Cromer Aroma" parlava di Kings Cross e "Wet Day in London" parlava di mio padre e della sua tecnica per far rivivere i pesci tropicali.
Penso ancora che fosse un buon album, ma la gente era davvero contraria al fatto che facessi entrambe le cose.
Quando giravamo Breaking Glass, l'NME mi disse che il mio album non era granché.
Pensavano che fossi salito sul carrozzone, l'ennesimo attore che cercava di avere popolarità facendo il cantante. Quindi Phil Daniels e The Cross furono in un certo senso liquidati".
Stralci di intervista (molto interessante) del 2016 tratti da qui:
https://louderthanwar.com/phil-daniels-cross-actor-phil-daniels-looks-back-music-career-punk/
Etichette:
Dischi,
Mod Heroes
giovedì, marzo 06, 2025
Belfast Celtic
L'amico MICHELE SAVINI prosegue la ricerca di elementi interessanti e particolari dell'Irlanda meno conosciuta.
Gli altri racconti sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
Irlanda del Nord.
Una terra che porta ancora con sé le cicatrici di un conflitto etnico-religioso mai risolto, che ha segnato in maniera indelebile la sua storia e che, talvolta, si intreccia perfino con il calcio.
Qui, nel cuore pulsante di Belfast, dove le strade raccontano storie di lotta e speranza, si erge la memoria di una squadra che ha lasciato un segno indelebile non solo nello sport, ma anche nell'anima di un'intera comunità.
All'incrocio tra la Falls Road, un'area residenziale prevalentemente cattolica e di ispirazione repubblicana, e la Donegal Road, sorgeva lo storico Celtic Park, sede del leggendario Belfast Celtic Football Club. Fondato nel 1891, il club ha vissuto una storia ricca di successi, ma anche di sfide e controversie, riflettendo le tensioni politiche e sociali dell'Irlanda del Nord, caratterizzate nel corso dei decenni da crescenti divisioni dovute all’occupazione britannica.
Belfast si presentava come un microcosmo di conflitti etnici e religiosi, con una popolazione divisa tra unionisti, principalmente protestanti, che desideravano rimanere parte del Regno Unito, e nazionalisti, per lo più cattolici, che aspiravano a un'Irlanda unita e indipendente.
In questo contesto complesso, il Belfast Celtic si è affermato come un emblema di orgoglio per la comunità cattolica e nazionalista, diventando un punto di riferimento per gli immigrati e le famiglie della classe operaia, che cercavano un senso di appartenenza.
Le partite del club trascendevano il semplice ambito sportivo, trasformandosi in autentici eventi politici e culturali.
I tifosi si univano non solo per sostenere la squadra, ma anche per riaffermare la loro identità in una società che spesso li emarginava.
Emersa in un periodo in cui il calcio era un modo per le comunità di esprimere la propria identità ha vissuto nel corso della sua storia un cammino non privo di ostacoli, fino al suo scioglimento finale nel 1949.
I fondatori si erano ispirati al più noto Celtic Glasgow F.C., il club degli emigrati irlandesi in Scozia, adottandone gli stessi colori, le strisce orizzontali verdi e bianche e appunto ribattezzando il loro stadio nella Fall Road con lo stesso nome del più noto Celtic Park di Glasgow, dandogli addirittura lo stesso nomignolo, “The Paradise”.
Già negli anni '20 e '30, il club si trovò a dover affrontare non solo avversari sul campo, ma anche le crescenti tensioni politiche che avvolgevano l'Irlanda del Nord visto che la violenza settaria e le divisioni sociali che caratterizzavano il paese durante questo periodo e che influenzarono anche il mondo del calcio.
Dopo secoli di ostracismo nei confronti della cultura locale, gaelica e cattolica, nel 1921 il trattato anglo-irlandese divise l’Ulster: tre contee entrarono a far parte della Repubblica d’Irlanda, mentre le altre sei rimasero legate al Regno Unito formando l’Irlanda del Nord con capitale Belfast.
Con la proclamazione dello Stato Libero d’Irlanda anche il campionato venne diviso in due: “The Irish Football Association” al nord e la “Football Association of the Irish Free State” (oggi “Football Association of Ireland”) nel resto del paese.
Le frizioni tra la due fazioni aumentarono in maniera esponenziale e con essa gli episodi di violenza alle partite di calcio tra Club di diversa “ideologia”, spesso caratterizzati dall'uso di armi da fuoco, il che portò il Belfast Celtic nel 1921 ad abbandonare il campionato per diversi anni, a causa delle crescenti preoccupazioni riguardo la sicurezza dei propri giocatori e tifosi.
Questo non impedì al club di sopravvivere e di ritornare a competere nel campionato nord-irlandese nel 1924, quando la situazione sembrava essersi apparentemente calmata, riprendendo la striscia di vittorie interrotta qualche anno prima. Tra il 1925 e il 1948 i celtici di Belfast alzarono il titolo nazionale al cielo ben 11 volte e la coppa in 7 occasioni.
Tuttavia, un nuovo e definitivo capitolo della sua storia era ormai imminente.
Uno dei Murales che ricordano il Belfast Celtic
Le tensioni all’interno del paese erano tutt’altro che sopite, come dimostreranno i Troubles qualche anno dopo, e gli episodi di violenza continuarono all’interno del calcio nordirlandese, raggiungendo il culmine in occasione del Boxing Day del 1948, durante il derby tra i “Big Two”, i due club più importanti del paese. Da un lato appunto il Belfast Celtic, dall’altro la sua diretta antitesi, il Linfield FC.
Fondato nel 1886 da operai protestanti nella Sandy Row, un'area di Belfast notoriamente ostile ai cattolici, rappresenta la massima espressione della comunità anglicana e lealista.
All'interno del club esiste una sorta di regola non scritta che impedisce l'ingaggio di giocatori cattolici o comunque non protestanti e i suoi colori sociali, quel Blu che richiama ai Rangers di Glasgow, sembrano voler accentuare ancora di più la netta separazione dai cugini biancoverdi del Belfast Celtic.
La partita tra Belfast Celtic e Linfield F.C. del campionato 1948/1949 è ricordata come uno degli eventi più drammatici e controversi nella storia del calcio nordirlandese.
Quel pomeriggio del 27 dicembre 1948 il freddo e la pioggia avvolgono Windsor Par, stadio del Linfield FC.
Il cielo è plumbeo e gli ignari 30.000 spettatori seduti sulle tribune non hanno idea che, di lì a poco, saranno testimoni di un dramma che cambierà per sempre il corso della storia del calcio nordirlandese con ripercussioni che si sarebbero fatte sentire per decenni.
Il Linfield era in testa alla classifica, con 3 punti in più dei rivali cittadini e una vittoria del campionato mancava da troppo tempo a Windsor Park, in quella Belfast protestante e lealista, che negli ultimi anni aveva dovuto assistere in maniera impotente al dominio dei cugini cattolici dei Celtic. L’attaccante del Belfast Celtic Jimmy Jones Tra le file dei Belfast Celtic, ovvero l’altro lato della “barricata” tutte le speranza erano riposte nel bomber Jimmy Jones.
La formidabile macchina da gol, alla sua seconda stagione con i bianco-verdi, aveva già annotato ben 27 centri in 19 partite, condite da 6 triplette.
Tanto che il club aveva anche respinto un’offerta di trasferimento di 16.000 sterline dal Newcastle United per trattenere il giocatore a Belfast.
Inoltre, Jones adorava giocare al Windsor Park contro i Blues e i suoi 6 gol nei precedenti tre incontri ne erano la prova.
A questo va aggiunto che Jimmy proveniva da una famiglia protestante della contea di Armagh e che da giovane era stato scartato proprio dal Linfield, particolare abbastanza rilevante per la logica lealista, che vede il suo indossare la maglia degli storici rivali come un vero a proprio tradimento.
La partita è ovviamente tutt’altro che tranquilla, con entrate al limite della correttezza e un'atmosfera così carica che si poteva tagliare con il coltello.
Alla fine del primo tempo il Linfield rimane in nove uomini a causa degli infortuni di Russell e Bryson in un periodo in cui le sostituzioni nel calcio non erano ancora ammesse. L’ultimo dei due fu causato da un’entrata troppo dura dell’idolo dei Belfast Celtic Jimmy Jones, causando a Bryson la frattura della gamba.
La notizia fu prontamente comunicata a tutti i 30.000 spettatori dello stadio dallo speaker, il che contribuì ad intensificare ulteriormente l’atmosfera ostile già fomentata dalle forze speciale britanniche nella "Spion Kop", la curva dei padroni di casa.
Un’espulsione per parte riduce ulteriormente il numero dei giocatori in campo e quando i Celtic passano in vantaggio a pochi minuti dalla fine, grazie ad un calcio di rigore di Harry Walker, il titolo sembra volare nelle mani dei seguaci di San Patrizio.
Perciò, quando all’ultimo minuto arriva il pareggio lealista per mano di Simpson, la pressione accumulata sugli spalti di Windsor Park esplode definitivamente, con relativa invasione di campo perpetrata dei sostenitori del Linfield e la susseguente caccia all’uomo.
George Hazlett, l'ala del Celtic racconta “Al momento dell’invasione, quando ho visto i poliziotti che avrebbero dovuto essere neutrali, lanciare i loro berretti in aria in segno di gioia, ho capito che non avremmo avuto nessuna protezione da parte loro … “.
Il bersaglio principale è ovviamente “il traditore” Jimmy Jones, che verrà assalito da una trentina di tifosi del Linfield inferociti che gli spezzeranno una gamba.
Il rapido trasporto in ospedale e le abili doti dello zelante chirurgo ortopedico di Belfast Jimmy Withers, non solo gli salvano la vita ma evitano anche l’amputazione dell’arto.
Questo permetterà miracolosamente a Jimmy di continuare la sua carriera da bomber nelle serie minori con altre 200 reti fino al giorno del suo ritiro, con la gamba destra leggermente più corta della sinistra …
Jimmy Jones posa davanti al murales a lui dedicato
All’indomani del disastro, Il consiglio di amministrazione del Belfast Celtic, ancora sconvolto dall’assenza di protezione da parte della polizia, accusò la stessa di essere rimasta passiva durante l'attacco e di non aver compiuto alcuna azione per prevenirlo.
Inoltre, i dirigenti del club ritenevano che la risposta della Irish Football Association fosse stata del tutto inadeguata, con la chiusura di Windsor park per i due susseguenti match casalinghi come unica sanzione.
Decisero perciò di prendere la situazione in mano e di ritirarsi dal campionato corrente, quello del 1948/1949, come segno di protesta (al suo posto viene preso dai Crusader FC, un club del nord di Belfast).
Era ormai palese a tutti, che non erano più considerati i benvenuti.
È la fine del Belfast Celtic, che dopo una breve tournée’ degli Stai Uniti ritornerà in patria e deciderà di non iscriversi al successivo campionato e scomparendo definitivamente. Da quel giorno il calcio nordirlandese non sarà più come prima.
Perderà la sua storica e più rappresentativa squadra, fino a quel momento detentrice di ben 19 titoli nazionali.
Gran parte del tifo dei gloriosi bianco-verdi nordirlandesi confluirà nel sostegno ai citati cugini scozzesi del Glasgow Celtic, prima squadra britannica, ricordiamolo, ad alzare al cielo una Coppa dei Campioni nel 1967.
"Quando non avevamo nulla, avevamo il Belfast Celtic."
Questa espressione, condivisa da molti sostenitori del club, cattura l'essenza di una squadra che ha significato molto di più di un semplice team calcistico diventando un simbolo di orgoglio, identità e resistenza per la comunità cattolica e nazionalista della citta di Belfast.
Gli altri racconti sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
Irlanda del Nord.
Una terra che porta ancora con sé le cicatrici di un conflitto etnico-religioso mai risolto, che ha segnato in maniera indelebile la sua storia e che, talvolta, si intreccia perfino con il calcio.
Qui, nel cuore pulsante di Belfast, dove le strade raccontano storie di lotta e speranza, si erge la memoria di una squadra che ha lasciato un segno indelebile non solo nello sport, ma anche nell'anima di un'intera comunità.
All'incrocio tra la Falls Road, un'area residenziale prevalentemente cattolica e di ispirazione repubblicana, e la Donegal Road, sorgeva lo storico Celtic Park, sede del leggendario Belfast Celtic Football Club. Fondato nel 1891, il club ha vissuto una storia ricca di successi, ma anche di sfide e controversie, riflettendo le tensioni politiche e sociali dell'Irlanda del Nord, caratterizzate nel corso dei decenni da crescenti divisioni dovute all’occupazione britannica.
Belfast si presentava come un microcosmo di conflitti etnici e religiosi, con una popolazione divisa tra unionisti, principalmente protestanti, che desideravano rimanere parte del Regno Unito, e nazionalisti, per lo più cattolici, che aspiravano a un'Irlanda unita e indipendente.
In questo contesto complesso, il Belfast Celtic si è affermato come un emblema di orgoglio per la comunità cattolica e nazionalista, diventando un punto di riferimento per gli immigrati e le famiglie della classe operaia, che cercavano un senso di appartenenza.
Le partite del club trascendevano il semplice ambito sportivo, trasformandosi in autentici eventi politici e culturali.
I tifosi si univano non solo per sostenere la squadra, ma anche per riaffermare la loro identità in una società che spesso li emarginava.
Emersa in un periodo in cui il calcio era un modo per le comunità di esprimere la propria identità ha vissuto nel corso della sua storia un cammino non privo di ostacoli, fino al suo scioglimento finale nel 1949.
I fondatori si erano ispirati al più noto Celtic Glasgow F.C., il club degli emigrati irlandesi in Scozia, adottandone gli stessi colori, le strisce orizzontali verdi e bianche e appunto ribattezzando il loro stadio nella Fall Road con lo stesso nome del più noto Celtic Park di Glasgow, dandogli addirittura lo stesso nomignolo, “The Paradise”.
Già negli anni '20 e '30, il club si trovò a dover affrontare non solo avversari sul campo, ma anche le crescenti tensioni politiche che avvolgevano l'Irlanda del Nord visto che la violenza settaria e le divisioni sociali che caratterizzavano il paese durante questo periodo e che influenzarono anche il mondo del calcio.
Dopo secoli di ostracismo nei confronti della cultura locale, gaelica e cattolica, nel 1921 il trattato anglo-irlandese divise l’Ulster: tre contee entrarono a far parte della Repubblica d’Irlanda, mentre le altre sei rimasero legate al Regno Unito formando l’Irlanda del Nord con capitale Belfast.
Con la proclamazione dello Stato Libero d’Irlanda anche il campionato venne diviso in due: “The Irish Football Association” al nord e la “Football Association of the Irish Free State” (oggi “Football Association of Ireland”) nel resto del paese.
Le frizioni tra la due fazioni aumentarono in maniera esponenziale e con essa gli episodi di violenza alle partite di calcio tra Club di diversa “ideologia”, spesso caratterizzati dall'uso di armi da fuoco, il che portò il Belfast Celtic nel 1921 ad abbandonare il campionato per diversi anni, a causa delle crescenti preoccupazioni riguardo la sicurezza dei propri giocatori e tifosi.
Questo non impedì al club di sopravvivere e di ritornare a competere nel campionato nord-irlandese nel 1924, quando la situazione sembrava essersi apparentemente calmata, riprendendo la striscia di vittorie interrotta qualche anno prima. Tra il 1925 e il 1948 i celtici di Belfast alzarono il titolo nazionale al cielo ben 11 volte e la coppa in 7 occasioni.
Tuttavia, un nuovo e definitivo capitolo della sua storia era ormai imminente.
Uno dei Murales che ricordano il Belfast Celtic
Le tensioni all’interno del paese erano tutt’altro che sopite, come dimostreranno i Troubles qualche anno dopo, e gli episodi di violenza continuarono all’interno del calcio nordirlandese, raggiungendo il culmine in occasione del Boxing Day del 1948, durante il derby tra i “Big Two”, i due club più importanti del paese. Da un lato appunto il Belfast Celtic, dall’altro la sua diretta antitesi, il Linfield FC.
Fondato nel 1886 da operai protestanti nella Sandy Row, un'area di Belfast notoriamente ostile ai cattolici, rappresenta la massima espressione della comunità anglicana e lealista.
All'interno del club esiste una sorta di regola non scritta che impedisce l'ingaggio di giocatori cattolici o comunque non protestanti e i suoi colori sociali, quel Blu che richiama ai Rangers di Glasgow, sembrano voler accentuare ancora di più la netta separazione dai cugini biancoverdi del Belfast Celtic.
La partita tra Belfast Celtic e Linfield F.C. del campionato 1948/1949 è ricordata come uno degli eventi più drammatici e controversi nella storia del calcio nordirlandese.
Quel pomeriggio del 27 dicembre 1948 il freddo e la pioggia avvolgono Windsor Par, stadio del Linfield FC.
Il cielo è plumbeo e gli ignari 30.000 spettatori seduti sulle tribune non hanno idea che, di lì a poco, saranno testimoni di un dramma che cambierà per sempre il corso della storia del calcio nordirlandese con ripercussioni che si sarebbero fatte sentire per decenni.
Il Linfield era in testa alla classifica, con 3 punti in più dei rivali cittadini e una vittoria del campionato mancava da troppo tempo a Windsor Park, in quella Belfast protestante e lealista, che negli ultimi anni aveva dovuto assistere in maniera impotente al dominio dei cugini cattolici dei Celtic. L’attaccante del Belfast Celtic Jimmy Jones Tra le file dei Belfast Celtic, ovvero l’altro lato della “barricata” tutte le speranza erano riposte nel bomber Jimmy Jones.
La formidabile macchina da gol, alla sua seconda stagione con i bianco-verdi, aveva già annotato ben 27 centri in 19 partite, condite da 6 triplette.
Tanto che il club aveva anche respinto un’offerta di trasferimento di 16.000 sterline dal Newcastle United per trattenere il giocatore a Belfast.
Inoltre, Jones adorava giocare al Windsor Park contro i Blues e i suoi 6 gol nei precedenti tre incontri ne erano la prova.
A questo va aggiunto che Jimmy proveniva da una famiglia protestante della contea di Armagh e che da giovane era stato scartato proprio dal Linfield, particolare abbastanza rilevante per la logica lealista, che vede il suo indossare la maglia degli storici rivali come un vero a proprio tradimento.
La partita è ovviamente tutt’altro che tranquilla, con entrate al limite della correttezza e un'atmosfera così carica che si poteva tagliare con il coltello.
Alla fine del primo tempo il Linfield rimane in nove uomini a causa degli infortuni di Russell e Bryson in un periodo in cui le sostituzioni nel calcio non erano ancora ammesse. L’ultimo dei due fu causato da un’entrata troppo dura dell’idolo dei Belfast Celtic Jimmy Jones, causando a Bryson la frattura della gamba.
La notizia fu prontamente comunicata a tutti i 30.000 spettatori dello stadio dallo speaker, il che contribuì ad intensificare ulteriormente l’atmosfera ostile già fomentata dalle forze speciale britanniche nella "Spion Kop", la curva dei padroni di casa.
Un’espulsione per parte riduce ulteriormente il numero dei giocatori in campo e quando i Celtic passano in vantaggio a pochi minuti dalla fine, grazie ad un calcio di rigore di Harry Walker, il titolo sembra volare nelle mani dei seguaci di San Patrizio.
Perciò, quando all’ultimo minuto arriva il pareggio lealista per mano di Simpson, la pressione accumulata sugli spalti di Windsor Park esplode definitivamente, con relativa invasione di campo perpetrata dei sostenitori del Linfield e la susseguente caccia all’uomo.
George Hazlett, l'ala del Celtic racconta “Al momento dell’invasione, quando ho visto i poliziotti che avrebbero dovuto essere neutrali, lanciare i loro berretti in aria in segno di gioia, ho capito che non avremmo avuto nessuna protezione da parte loro … “.
Il bersaglio principale è ovviamente “il traditore” Jimmy Jones, che verrà assalito da una trentina di tifosi del Linfield inferociti che gli spezzeranno una gamba.
Il rapido trasporto in ospedale e le abili doti dello zelante chirurgo ortopedico di Belfast Jimmy Withers, non solo gli salvano la vita ma evitano anche l’amputazione dell’arto.
Questo permetterà miracolosamente a Jimmy di continuare la sua carriera da bomber nelle serie minori con altre 200 reti fino al giorno del suo ritiro, con la gamba destra leggermente più corta della sinistra …
Jimmy Jones posa davanti al murales a lui dedicato
All’indomani del disastro, Il consiglio di amministrazione del Belfast Celtic, ancora sconvolto dall’assenza di protezione da parte della polizia, accusò la stessa di essere rimasta passiva durante l'attacco e di non aver compiuto alcuna azione per prevenirlo.
Inoltre, i dirigenti del club ritenevano che la risposta della Irish Football Association fosse stata del tutto inadeguata, con la chiusura di Windsor park per i due susseguenti match casalinghi come unica sanzione.
Decisero perciò di prendere la situazione in mano e di ritirarsi dal campionato corrente, quello del 1948/1949, come segno di protesta (al suo posto viene preso dai Crusader FC, un club del nord di Belfast).
Era ormai palese a tutti, che non erano più considerati i benvenuti.
È la fine del Belfast Celtic, che dopo una breve tournée’ degli Stai Uniti ritornerà in patria e deciderà di non iscriversi al successivo campionato e scomparendo definitivamente. Da quel giorno il calcio nordirlandese non sarà più come prima.
Perderà la sua storica e più rappresentativa squadra, fino a quel momento detentrice di ben 19 titoli nazionali.
Gran parte del tifo dei gloriosi bianco-verdi nordirlandesi confluirà nel sostegno ai citati cugini scozzesi del Glasgow Celtic, prima squadra britannica, ricordiamolo, ad alzare al cielo una Coppa dei Campioni nel 1967.
"Quando non avevamo nulla, avevamo il Belfast Celtic."
Questa espressione, condivisa da molti sostenitori del club, cattura l'essenza di una squadra che ha significato molto di più di un semplice team calcistico diventando un simbolo di orgoglio, identità e resistenza per la comunità cattolica e nazionalista della citta di Belfast.
mercoledì, marzo 05, 2025
Alessandro Pagani, Massimiliano Zatini - I Punkinari
Molto divertente e gustosa la marmorea staticità di due calciatori perennemente in panchina a scambiarsi freddure, sempre di spalle, lo sguardo rivolto verso un immaginario campo di calcio, mentre trascorrono le stagioni.
"Hanno fatto l'autopsia su un cinese morto".
"E allora?".
"Si apre un giallo".
"Ieri ho seminato dei bei papaveri".
"Quando sbocceranno saranno stupefacenti"
etc. etc.
Decine di tavole, ben disegnate e sceneggiate, un inno alla (talvolta disperata) nullafacenza, al "do nothing", all'attesa consapevole che tanto non entrerai mai in campo.
Alessandro Pagani, Massimiliano Zatini
I Punkinari
Nepturanus
128 pagine
15 euro
"Hanno fatto l'autopsia su un cinese morto".
"E allora?".
"Si apre un giallo".
"Ieri ho seminato dei bei papaveri".
"Quando sbocceranno saranno stupefacenti"
etc. etc.
Decine di tavole, ben disegnate e sceneggiate, un inno alla (talvolta disperata) nullafacenza, al "do nothing", all'attesa consapevole che tanto non entrerai mai in campo.
Alessandro Pagani, Massimiliano Zatini
I Punkinari
Nepturanus
128 pagine
15 euro
Etichette:
Libri
martedì, marzo 04, 2025
Bristol Northern Soul Club International
Pordenone 22.02.2025
L'amico Soulful Jules ci rendiconta la splendida serata NORTHERN SOUL che si è tenuta a Pordenone il 22 febbraio 2025.
Foto di Emma Ryan.
https://www.instagram.com/emmaryanart/
Partiamo dalla fine.
Un centinaio di soulies, disposti su tre file, sopra e sotto il palco, volti raggianti e sudati; ghigni e sorrisi.
In alto, al centro, lo striscione BRISTOL NORTHERN SOUL CLUB retto da un gruppo di ventenni inglesi.
In basso, un po’ sfasato sulla destra, il banner Keep On Pordenon con dietro un pisano, un pordenonese e un inglese. Tutto attorno, gente da mezza Italia, dal Regno Unito, dall’Austria e dalla Spagna.
Click.
Questo è quanto rimane dei duecentocinquanta appassionati che hanno trascorso il sabato a Pordenone, a pensarci pare incredibile che il sogno un po’ offuscato e confuso di qualche mese fa si sia materializzato in modo così netto, che l’azzardo di usare una sala grande come quella del Capitol sia stato ripagato da una giornata indimenticabile.
Ma come ci siamo arrivati fino a qui?
Cosa c'entra Bristol con Pordenone?
Facciamo un passo indietro.
Era ottobre quando il Capitol mi ha chiesto di organizzare un evento da loro, ero a Venezia con una comitiva di inglesi, scozzesi e spagnoli che avevo accompagnato a farsi un giro in occasione del nostro Soul Weekender a Pordenone.
Il Capitol è un ex cinema degli anni ’70 che da un po’ di tempo è diventato una sala per concerti e stand-up comedy.
Il locale è atmosferico, ha un’acustica quasi perfetta ma serve un sacco di gente per creare un ambiente caldo e garantire un clima di festa, motivo per cui i nostri party vengono di solito organizzati all’Astro, un club più piccolo e più semplice da gestire.
Mi sa che ero nei pressi di Piazzale Roma quando è arrivato il messaggio di uno dei gestori con la proposta di alcune date.
Prima di rispondergli ho temporeggiato, perché stavo andando in aeroporto a Treviso, a recuperare il cuore, l’anima e le gambe del Bristol Northern Soul Club.
In via del tutto eccezionale, Levanna, Eve e Schaeffer avevano acconsentito a organizzare un workshop di ballo per noi a Pordenone.
A dire il vero, l’evento di ottobre era praticamente sold out, non serviva nemmeno l’input del corso di ballo, anzi, a molti puristi dà pure fastidio come concetto, e in parte è una cosa che condivido.
Perché se già non è facile definire che cos’è il Northern Soul, ancora più complesso è provare a descrivere l’atmosfera di un Northern Soul Allnighter a chi non c’è mai stato o non ne ha idea.
E per quella legge non scritta delle sottoculture e delle scene musicali, certe cose non andrebbero nemmeno spiegate, o ne fai parte o stai fuori.
Vai al bar, in discoteca, in parrocchia, fai altro che io ho il mio giro e non ho bisogno di te.
Se vuoi imparare a ballare occorre varcare la soglia, addentrarsi in locali bui e maleodoranti, tirare fino all’alba in mezzo a gente losca, senza per questo aspettarti che qualcuno ti saluti o sia gentile con te, no, te lo devi guadagnare in pista il rispetto, possono volerci anche dei mesi, se non di più.
Questa è stata la norma fino a una decina di anni fa, forse ancora lo è in certi ambienti ma è abbastanza evidente che la crisi economica, culturale e sociale che sta avviluppando il nostro paese ha decimato scene, eventi e raduni che una volta potevano contare su svariate centinaia di persone e che oggi si reggono in piedi grazie agli sforzi e all’entusiasmo di pochi veterani, generalmente sopra la cinquantina.
Ricambio generazionale non se ne vede e le prospettive sono abbastanza deprimenti, motivo per cui abbiamo pensato che un workshop potesse fungere da stimolo a chi apprezza la musica ma non ha mai avuto la possibilità o il desiderio di lasciarsi andare in un club, con le luci soffuse e i bassi che ti prendono lo stomaco e ti portano in giro per la pista da ballo.
Il corso di ottobre è andato molto bene, ci ha permesso di avvicinare diverse persone della nostra zona che non avevamo mai visto e prima che i ragazzi di Bristol ripartissero, li ho portati a dare un’occhiata al Capitol, perché si rendessero conto delle potenzialità della sala.
Da lì è nata l’idea di organizzare una serata Bristol Northern Soul Club International a Pordenone, è stato definito un budget, piuttosto importante, che ci permettesse di portare in Italia una quindicina di ballerini e la macchina si è messa in moto.
Perché proprio con quelli di Bristol?
Perché sono amici e ci si capisce senza tante parole, sin dall’inizio avevamo concordato che questa cosa non la facevamo per guadagnare, nel loro gruppo ci sono alcuni tra i migliori ballerini di sempre, a livello di pubblicità la cosa avrebbe aiutato non poco.
Cinque mesi passano veloci e sabato 22 febbraio ci troviamo alle 3 del pomeriggio per il primo workshop.
L’impostazione è abbastanza naturale e organica.
Una breve introduzione sull’evoluzione degli stili di ballo dai sixties ai giorni nostri e i partecipanti iniziano a zompettare sul dancefloor, in maniera spontanea, istintiva; Levanna si sposta tra i partecipanti per mostrare alcuni step ed è tutto un fiorire di sorrisi, visi lucidi; i passi si allargano su brani come Don’t Pity Me di Joanie Sommers, Catch That Teardrop dei 5 Royales, Betty O’Brien e il rhythm & blues patinato di She’ll Be Gone, la produzione elegante di You’ve Been Cheating degli Impressions e il classico modern She’s Gone degli Hamilton Movement.
Breve pausa e stessa formula per il gruppo delle 5, che al posto del tè ha scelto il talco e il soul uptempo, oltre a qualche Campari soda.
Col fatto che il locale è in centro, l’orario di chiusura è previsto all’una per cui alle 8 precise parte il primo disco; in consolle Schaeffer, un ragazzo di ventidue anni che ha già macinato centinaia di chilometri sui dancefloor di Bristol e di mezza Europa.
Parte con dei classici sixties che scaldano la pista, il gioco di luci all’interno della sala è davvero spettacolare, il sound perfetto, manca solo la gente.
Per quanto le prevendite siano andate abbastanza bene, abbiamo bisogno di un tot di biglietti alla porta per non rimetterci, o per non rimetterci troppo.
Questa è di solito la mezz’ora più difficile per un organizzatore, un occhio rivolto al party e l’altro all’ingresso, ogni minuto interminabile, la gente arriva, va al bar a prendersi un drink e per te il mondo si muove al rallentatore, o troppo in fretta, dipende.
In questi casi sono io che mi sposto, provo a muovere un po’ le cose, un salto in consolle per un gesto di incoraggiamento al dj, un giro alla porta a controllare l’affluenza, un balletto senza tanta convinzione e così via.
Tanto non cambia nulla.
Per fortuna il pubblico inizia ad affluire, l’ambiente si scalda e la pista si riempie.
È il turno di Eve, la madre di Schaeffer e Levanna, per molti aspetti il nucleo energetico del club inglese che ogni settimana registra regolarmente il sold out alle serate di Bristol.
Eve continua con dei classici di sixties e club soul come I Can’t Change di Lorraine Chandler, New York In The Dark degli Ad Libs.
Sulle note dello strumentale Breakaway i dancer di Bristol salgono sul palco per una breve esibizione di spaccate e piroette in stile Wigan, erano anni che in Italia non si trovava una tale concentrazione di ballerini così bravi in un club.
La serata è davvero partita, adesso posso godermela e seguire il flusso.
v Jorg Record Shack è un amico che gestisce un negozio di dischi a Vienna, ha una collezione incredibile e come dj non sbaglia mai un colpo, quando è il suo momento manda la pista in subbuglio con Sam Dees – Lonely For You Baby e ipnotizza tutti con Have Some Everybody dei Flaming Emeralds, un brano uptempo caratterizzato da un ritmo percussivo, uno di quegli scherzi dell’industria discografica, sembra un disco registrato a metà anni sessanta e invece è uscito nel 1977, in piena era Disco.
A seguire Levanna, una ragazza di ventisette anni che è diventata improvvisamente famosa una decina di anni fa, quando ha pubblicato un video su youtube in cui ballava sulle note di Happy di Pharrell Williams.
La clip è diventata virale al punto che lo stesso Williams ha invitato la ragazza sul palco per la premiazione dei Brit Awards del 2014.
Ho incontrato Levanna in giro per i soul weekender europei, poi, un paio di anni fa, mi ha invitato a mettere i dischi a Bristol alle loro serate e da lì ho imparato a conoscere la persona che va oltre l’immagine della pretty ballerina, ho avuto modo di apprezzare l’appassionata di musica e la promoter che solleva decine di chili di attrezzatura, che si sbatte per il soundcheck e perché ogni dettaglio sia a posto prima dell’inizio della serata, la giovane donna che si prende cura di tutti gli ospiti durante il party, in particolare di quelli che il giorno dopo non finiscono nelle foto o nei reels dei social.
Il suo è un set collaudato che coinvolge il pubblico, anche per l’uso del microfono, con cui introduce Move On Up di Curtis Mayfield, Happy dei Velvet Hammer, il brano che seguiva la canzone di Pharrell Williams nel video che l’ha lanciata.
E non ha tutti i torti quando dice che se siamo qui stasera è grazie a questa canzone, a quel clip uscito oltre un decennio fa e che ora sembra archeologia.
Probabilmente sono uno dei pochi a cogliere il significato delle sue parole ma non importa, la gente alza le mani, la segue durante Pow Wow di Manny Corchado e The Night di Frankie Valli.
È una serata speciale, non solo per noi italiani, anche gli inglesi se la stanno godendo, così come gli spagnoli e gli austriaci, la vista di centinaia di corpi che si muovono all’unisono è uno spettacolo unico, emozione e sentimento, tanto cuore, muscoli e un pizzico di cervello, quella che gli inglesi chiamano togetherness e che da noi viene tradotta come unione, coesione, connessione, integrazione, armonia e altri termini che ancora non bastano a definire lo spirito, la gioia del momento.
L’unica nota in agrodolce è l’età media dei partecipanti, a parte i ragazzi di Bristol, nessuna new entry sotto i trent’anni, giusto le figlie teenager di un appassionato di musica.
Rimane comunque la soddisfazione di avere messo in piedi un evento che rimarrà nella memoria, essere riusciti a portare per una notte il Northern Soul in centro a Pordenone, in uno dei locali più belli del Nord Est.
Speriamo di replicare il prossimo anno, se non prima.
Keepin On Pordenon!
Foto di Emma Ryan.
https://www.instagram.com/emmaryanart/
Partiamo dalla fine.
Un centinaio di soulies, disposti su tre file, sopra e sotto il palco, volti raggianti e sudati; ghigni e sorrisi.
In alto, al centro, lo striscione BRISTOL NORTHERN SOUL CLUB retto da un gruppo di ventenni inglesi.
In basso, un po’ sfasato sulla destra, il banner Keep On Pordenon con dietro un pisano, un pordenonese e un inglese. Tutto attorno, gente da mezza Italia, dal Regno Unito, dall’Austria e dalla Spagna.
Click.
Questo è quanto rimane dei duecentocinquanta appassionati che hanno trascorso il sabato a Pordenone, a pensarci pare incredibile che il sogno un po’ offuscato e confuso di qualche mese fa si sia materializzato in modo così netto, che l’azzardo di usare una sala grande come quella del Capitol sia stato ripagato da una giornata indimenticabile.
Ma come ci siamo arrivati fino a qui?
Cosa c'entra Bristol con Pordenone?
Facciamo un passo indietro.
Era ottobre quando il Capitol mi ha chiesto di organizzare un evento da loro, ero a Venezia con una comitiva di inglesi, scozzesi e spagnoli che avevo accompagnato a farsi un giro in occasione del nostro Soul Weekender a Pordenone.
Il Capitol è un ex cinema degli anni ’70 che da un po’ di tempo è diventato una sala per concerti e stand-up comedy.
Il locale è atmosferico, ha un’acustica quasi perfetta ma serve un sacco di gente per creare un ambiente caldo e garantire un clima di festa, motivo per cui i nostri party vengono di solito organizzati all’Astro, un club più piccolo e più semplice da gestire.
Mi sa che ero nei pressi di Piazzale Roma quando è arrivato il messaggio di uno dei gestori con la proposta di alcune date.
Prima di rispondergli ho temporeggiato, perché stavo andando in aeroporto a Treviso, a recuperare il cuore, l’anima e le gambe del Bristol Northern Soul Club.
In via del tutto eccezionale, Levanna, Eve e Schaeffer avevano acconsentito a organizzare un workshop di ballo per noi a Pordenone.
A dire il vero, l’evento di ottobre era praticamente sold out, non serviva nemmeno l’input del corso di ballo, anzi, a molti puristi dà pure fastidio come concetto, e in parte è una cosa che condivido.
Perché se già non è facile definire che cos’è il Northern Soul, ancora più complesso è provare a descrivere l’atmosfera di un Northern Soul Allnighter a chi non c’è mai stato o non ne ha idea.
E per quella legge non scritta delle sottoculture e delle scene musicali, certe cose non andrebbero nemmeno spiegate, o ne fai parte o stai fuori.
Vai al bar, in discoteca, in parrocchia, fai altro che io ho il mio giro e non ho bisogno di te.
Se vuoi imparare a ballare occorre varcare la soglia, addentrarsi in locali bui e maleodoranti, tirare fino all’alba in mezzo a gente losca, senza per questo aspettarti che qualcuno ti saluti o sia gentile con te, no, te lo devi guadagnare in pista il rispetto, possono volerci anche dei mesi, se non di più.
Questa è stata la norma fino a una decina di anni fa, forse ancora lo è in certi ambienti ma è abbastanza evidente che la crisi economica, culturale e sociale che sta avviluppando il nostro paese ha decimato scene, eventi e raduni che una volta potevano contare su svariate centinaia di persone e che oggi si reggono in piedi grazie agli sforzi e all’entusiasmo di pochi veterani, generalmente sopra la cinquantina.
Ricambio generazionale non se ne vede e le prospettive sono abbastanza deprimenti, motivo per cui abbiamo pensato che un workshop potesse fungere da stimolo a chi apprezza la musica ma non ha mai avuto la possibilità o il desiderio di lasciarsi andare in un club, con le luci soffuse e i bassi che ti prendono lo stomaco e ti portano in giro per la pista da ballo.
Il corso di ottobre è andato molto bene, ci ha permesso di avvicinare diverse persone della nostra zona che non avevamo mai visto e prima che i ragazzi di Bristol ripartissero, li ho portati a dare un’occhiata al Capitol, perché si rendessero conto delle potenzialità della sala.
Da lì è nata l’idea di organizzare una serata Bristol Northern Soul Club International a Pordenone, è stato definito un budget, piuttosto importante, che ci permettesse di portare in Italia una quindicina di ballerini e la macchina si è messa in moto.
Perché proprio con quelli di Bristol?
Perché sono amici e ci si capisce senza tante parole, sin dall’inizio avevamo concordato che questa cosa non la facevamo per guadagnare, nel loro gruppo ci sono alcuni tra i migliori ballerini di sempre, a livello di pubblicità la cosa avrebbe aiutato non poco.
Cinque mesi passano veloci e sabato 22 febbraio ci troviamo alle 3 del pomeriggio per il primo workshop.
L’impostazione è abbastanza naturale e organica.
Una breve introduzione sull’evoluzione degli stili di ballo dai sixties ai giorni nostri e i partecipanti iniziano a zompettare sul dancefloor, in maniera spontanea, istintiva; Levanna si sposta tra i partecipanti per mostrare alcuni step ed è tutto un fiorire di sorrisi, visi lucidi; i passi si allargano su brani come Don’t Pity Me di Joanie Sommers, Catch That Teardrop dei 5 Royales, Betty O’Brien e il rhythm & blues patinato di She’ll Be Gone, la produzione elegante di You’ve Been Cheating degli Impressions e il classico modern She’s Gone degli Hamilton Movement.
Breve pausa e stessa formula per il gruppo delle 5, che al posto del tè ha scelto il talco e il soul uptempo, oltre a qualche Campari soda.
Col fatto che il locale è in centro, l’orario di chiusura è previsto all’una per cui alle 8 precise parte il primo disco; in consolle Schaeffer, un ragazzo di ventidue anni che ha già macinato centinaia di chilometri sui dancefloor di Bristol e di mezza Europa.
Parte con dei classici sixties che scaldano la pista, il gioco di luci all’interno della sala è davvero spettacolare, il sound perfetto, manca solo la gente.
Per quanto le prevendite siano andate abbastanza bene, abbiamo bisogno di un tot di biglietti alla porta per non rimetterci, o per non rimetterci troppo.
Questa è di solito la mezz’ora più difficile per un organizzatore, un occhio rivolto al party e l’altro all’ingresso, ogni minuto interminabile, la gente arriva, va al bar a prendersi un drink e per te il mondo si muove al rallentatore, o troppo in fretta, dipende.
In questi casi sono io che mi sposto, provo a muovere un po’ le cose, un salto in consolle per un gesto di incoraggiamento al dj, un giro alla porta a controllare l’affluenza, un balletto senza tanta convinzione e così via.
Tanto non cambia nulla.
Per fortuna il pubblico inizia ad affluire, l’ambiente si scalda e la pista si riempie.
È il turno di Eve, la madre di Schaeffer e Levanna, per molti aspetti il nucleo energetico del club inglese che ogni settimana registra regolarmente il sold out alle serate di Bristol.
Eve continua con dei classici di sixties e club soul come I Can’t Change di Lorraine Chandler, New York In The Dark degli Ad Libs.
Sulle note dello strumentale Breakaway i dancer di Bristol salgono sul palco per una breve esibizione di spaccate e piroette in stile Wigan, erano anni che in Italia non si trovava una tale concentrazione di ballerini così bravi in un club.
La serata è davvero partita, adesso posso godermela e seguire il flusso.
v Jorg Record Shack è un amico che gestisce un negozio di dischi a Vienna, ha una collezione incredibile e come dj non sbaglia mai un colpo, quando è il suo momento manda la pista in subbuglio con Sam Dees – Lonely For You Baby e ipnotizza tutti con Have Some Everybody dei Flaming Emeralds, un brano uptempo caratterizzato da un ritmo percussivo, uno di quegli scherzi dell’industria discografica, sembra un disco registrato a metà anni sessanta e invece è uscito nel 1977, in piena era Disco.
A seguire Levanna, una ragazza di ventisette anni che è diventata improvvisamente famosa una decina di anni fa, quando ha pubblicato un video su youtube in cui ballava sulle note di Happy di Pharrell Williams.
La clip è diventata virale al punto che lo stesso Williams ha invitato la ragazza sul palco per la premiazione dei Brit Awards del 2014.
Ho incontrato Levanna in giro per i soul weekender europei, poi, un paio di anni fa, mi ha invitato a mettere i dischi a Bristol alle loro serate e da lì ho imparato a conoscere la persona che va oltre l’immagine della pretty ballerina, ho avuto modo di apprezzare l’appassionata di musica e la promoter che solleva decine di chili di attrezzatura, che si sbatte per il soundcheck e perché ogni dettaglio sia a posto prima dell’inizio della serata, la giovane donna che si prende cura di tutti gli ospiti durante il party, in particolare di quelli che il giorno dopo non finiscono nelle foto o nei reels dei social.
Il suo è un set collaudato che coinvolge il pubblico, anche per l’uso del microfono, con cui introduce Move On Up di Curtis Mayfield, Happy dei Velvet Hammer, il brano che seguiva la canzone di Pharrell Williams nel video che l’ha lanciata.
E non ha tutti i torti quando dice che se siamo qui stasera è grazie a questa canzone, a quel clip uscito oltre un decennio fa e che ora sembra archeologia.
Probabilmente sono uno dei pochi a cogliere il significato delle sue parole ma non importa, la gente alza le mani, la segue durante Pow Wow di Manny Corchado e The Night di Frankie Valli.
È una serata speciale, non solo per noi italiani, anche gli inglesi se la stanno godendo, così come gli spagnoli e gli austriaci, la vista di centinaia di corpi che si muovono all’unisono è uno spettacolo unico, emozione e sentimento, tanto cuore, muscoli e un pizzico di cervello, quella che gli inglesi chiamano togetherness e che da noi viene tradotta come unione, coesione, connessione, integrazione, armonia e altri termini che ancora non bastano a definire lo spirito, la gioia del momento.
L’unica nota in agrodolce è l’età media dei partecipanti, a parte i ragazzi di Bristol, nessuna new entry sotto i trent’anni, giusto le figlie teenager di un appassionato di musica.
Rimane comunque la soddisfazione di avere messo in piedi un evento che rimarrà nella memoria, essere riusciti a portare per una notte il Northern Soul in centro a Pordenone, in uno dei locali più belli del Nord Est.
Speriamo di replicare il prossimo anno, se non prima.
Keepin On Pordenon!
Etichette:
Mod,
Northern Soul
lunedì, marzo 03, 2025
Blind Alley - Live Tuxedo 1982
Nei primi anni Ottanta le uscite discografiche di band underground italiane erano centellinate, rare, difficili da trovare, soprattutto se relative all'ambito mod e affini.
Nel 1983 uscì il primo singolo dei Four By Art e l'anno successivo quello degli Underground Arrows.
Per il resto c'erano solo le cassette.
Quando il primo e unico 45 giri dei BLIND ALLEY, pubblicato dalla Shirak nel 1983, mi arrivò a casa fu motivo di grande giubilo, nonostante a quel punto la band fosse alla fine della breve carriera, iniziata nel 1980.
Non erano propriamente una mod band ma suonavano canzoni molto vicine allo spirito del 1979 e ai Jam, con l'aggiunta di punk, power pop, i primi Elvis Costello e Joe Jackson, il piglio dei Clash.
Gigi Restagno, prima della prematura scomparsa, proseguì con altre sonorità con Defear, Difference e Misfits (dove ritrovò il chitarrista Luca Bertoglio), Marco Ciari invece rimase fedele al gusto Sixties con i Party Kids, prima di approdare a Franti e Fratelli di Soledad.
Onde Italiane pubblica ora un ottimo live, registrato il 24 novembre 1982, con 13 brani che se fossero usciti all'epoca avrebbero costituito un album imperdibile.
Ora testimoniano la qualità e lo spessore compositivo di una band eccellente.
La registrazione è più che buona, l'eccellente cover di "Modern world" dei Jam testimonia quale fosse la principale matrice di riferimento.
https://www.facebook.com/onde.italiane
info@ondeitaliane.it
Nel 1983 uscì il primo singolo dei Four By Art e l'anno successivo quello degli Underground Arrows.
Per il resto c'erano solo le cassette.
Quando il primo e unico 45 giri dei BLIND ALLEY, pubblicato dalla Shirak nel 1983, mi arrivò a casa fu motivo di grande giubilo, nonostante a quel punto la band fosse alla fine della breve carriera, iniziata nel 1980.
Non erano propriamente una mod band ma suonavano canzoni molto vicine allo spirito del 1979 e ai Jam, con l'aggiunta di punk, power pop, i primi Elvis Costello e Joe Jackson, il piglio dei Clash.
Gigi Restagno, prima della prematura scomparsa, proseguì con altre sonorità con Defear, Difference e Misfits (dove ritrovò il chitarrista Luca Bertoglio), Marco Ciari invece rimase fedele al gusto Sixties con i Party Kids, prima di approdare a Franti e Fratelli di Soledad.
Onde Italiane pubblica ora un ottimo live, registrato il 24 novembre 1982, con 13 brani che se fossero usciti all'epoca avrebbero costituito un album imperdibile.
Ora testimoniano la qualità e lo spessore compositivo di una band eccellente.
La registrazione è più che buona, l'eccellente cover di "Modern world" dei Jam testimonia quale fosse la principale matrice di riferimento.
https://www.facebook.com/onde.italiane
info@ondeitaliane.it
domenica, marzo 02, 2025
Ringo Starr, batterista a Correggio (Reggio Emilia) martedì 4 marzo
Martedì 4 marzo:
La Galera C.so Cavour 19/a, Correggio (Reggio Emilia)
Ore 21.30
Presentazione di "Ringo Starr. Batterista" con Fabrizio Tavernelli.
Prossimamente:
Martedì 15 aprile: Genova
Sabato 3 maggio: Modena "Buk Festival" ore 11.30
Sabato 3 maggio: Cremona "Arcipelago" - Il Cortile del Vinile ore 18
Venerdì 16 maggio: Torino "Salone del Libro"
Recensioni recenti:
Rumore MowMag
https://mowmag.com/culture/e-se-il-beatle-brutto-fosse-anche-un-batterista-coi-controcaz-i-antonio-bacciocchi-e-il-libro-su-ringo-starr
La Galera C.so Cavour 19/a, Correggio (Reggio Emilia)
Ore 21.30
Presentazione di "Ringo Starr. Batterista" con Fabrizio Tavernelli.
Prossimamente:
Martedì 15 aprile: Genova
Sabato 3 maggio: Modena "Buk Festival" ore 11.30
Sabato 3 maggio: Cremona "Arcipelago" - Il Cortile del Vinile ore 18
Venerdì 16 maggio: Torino "Salone del Libro"
Recensioni recenti:
Rumore MowMag
https://mowmag.com/culture/e-se-il-beatle-brutto-fosse-anche-un-batterista-coi-controcaz-i-antonio-bacciocchi-e-il-libro-su-ringo-starr
Etichette:
I me mine
Iscriviti a:
Post (Atom)