Esce a, distanza di due anni, il seguito di "Roma Disco Playlist -1965-1995" (sempre per VoloLibero).
"Disco Playlist Italia 1975-2025" è un maniacale elenco di 246 playlist (con relativo QR Code per ascoltarle), con 4.500 brani che documentano il lavoro di 196 DJ in 180 discoteche di tutte le regioni italiane, dal 1977 al 1995.
Scorrendole troviamo grandi sorprese, brani oscuri, hit dimenticate e una cultura della discoteca che esula dal consunto concetto di "musica commerciale da ballo", tra soul, Philly Sound, elettronica, new wave e altro.
La lista dei protagonisti è spesso nota e prestigiosa (da Cecchetto a Fiorello, Jovanotti, Roberto D'Agostino, Mozart, Ringo etc).
Il tutto contestualizzato all'epoca, gli anni di riferimento, con tanto di interviste, foto, note.
Tanto specifico quanto interessante.
Cristiano Colaizzi / Corrado Rizza
Disco Playlist Italia 1975-1995
VoloLibero Edizioni
318 pagine
35 euro
mercoledì, ottobre 15, 2025
martedì, ottobre 14, 2025
Kneecap: breve cronaca una risata
Continua la saga dei KNEECAPP, una della relatà più interesaanti, attive(iste), sia musicalmente che a livello sociale e culturale in circolazione.
Quando la musica torna a contare non solo sulle piattaforme o nelle recensioni.
Ce ne rendiconta, come sempre, l'amico MICHELE SAVINI.
Le precedenti puntate di "The Auld Triangle: narrazioni dalla repubblica d'Irlanda" qui: https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
Oggi torniamo a parlare dei Kneecap, con l’auspicio di mettere finalmente la parola fine ad un capitolo giudiziario che ha poco a che fare con la musica. Una band che ha fatto parlare così tanto di sé negli ultimi mesi, che ormai perfino il silenzio su di loro suona come una dichiarazione, perché fingere di ignorarli è praticamente impossibile.
Stavolta sarò celere, tutti i dettagli dell’intera vicenda li trovate qui nelle precedenti puntate:
Kneecap: il peso delle parole: https://tonyface.blogspot.com/2025/05/kneecapp-il-peso-delle-parole.html
Kneecap : More Blacks, More Dogs, More Irish, Mo Chara: https://tonyface.blogspot.com/2025/07/kneecapp-more-blacks-more-dogs-more.html
Qualche settimana fa si è tenuto l’atto conclusivo del processo a Liam Óg Ó Annaidh, in arte Mo Chara, membro del trio nordirlandese dei Kneecap, accusato di terrorismo per aver esposto, durante un concerto londinese nel novembre 2024, una bandiera di Hezbollah, organizzazione considerata illegale nel Regno Unito.
Da parte sua, la band sostiene che le accuse siano motivate politicamente e non giuridicamente, mirate a silenziare chi, come loro, denuncia le ingiustizie, in particolare la situazione che da mesi colpisce Gaza.
Già nella precedente udienza la difesa aveva contestato la legittimità dell’accusa, rilevando che il procedimento non era stato avviato entro i sei mesi stabiliti dalla legge. La controversia legale su cui verteva il processo riguardava soprattutto interpretazioni giuridiche e questioni procedurali, piuttosto che sulla natura politica dell’accusa.
L’appuntamento perciò era per venerdì 26 settembre alla Woolwich Crown Court di Londra, per l’ultimo round di una partita a scacchi tra il governo britannico e il controverso trio hip hop di Belfast. Già il giorno precedente all’udienza, la Metropolitan Police di Londra, aveva invocato la sezione 14 della legge sull’ordine pubblico, che vietava l’assembramento fuori dalla Woolwich Crown Court per ragioni di sicurezza. I fan dei Kneecap, accompagnati da moltissimi attivisti pro Palestina, avevano infatti organizzato un vero e proprio show di solidarietà nei confronti della band nella precedente udienza, giocando un ruolo importante nel mostrare da che parte stava l’opinione pubblica.
Perciò la mossa di vietare i sostenitori pacifici della band rappresentava l’ennesimo tentativo da parte dell’establishment di ridurre al minimo il clamore e di far apparire come “problematici” i sostenitori del trio di Belfast.
Ma più di ogni altra cosa, nascondeva una verità innegabile: tra le file dell’accusa serpeggiava paura.
Paura di non essere in grado di vincere la partita né sui punti né sul piano morale, mentre i Kneecap, come un branco di squali che percepisce il sangue della preda, avanzavano decisi, mostrando tutta la loro forza e determinazione.
Arrivo davanti alla Woolwich Crown Court con il solito inconfondibile stile, quello che, se accompagnato dal groove implacabile di “Little Green Bag” dei George Baker Selection, trasformerebbe il piazzale in un set tarantiniano.
Tutta la crew dei Kneecap si presenta infatti incappucciata, con l’ormai iconico passamontagna tricolore, come a dire: “Ecco che arrivano i terroristi…” e sfoggiando un silenzioso ma palpabile ottimismo.
All’interno del tribunale, mentre il magistrato Paul Goldspring si prepara a leggere la sentenza, l’aria è densa di tensione. Il giudice conferma quanto già sostenuto dalla difesa: l’accusa è proceduralmente errata, poiché i permessi necessari non sono stati ottenuti entro il termine legale previsto dalla legge sul terrorismo del Regno Unito.
Secondo il Terrorism Act 2000 infatti, il Crown Prosecution Service (CPS) aveva sei mesi di tempo per ottenere i consensi necessari dal Procuratore Generale, con scadenza fissata per il 21 maggio 2025. Peccato che i consensi siano arrivati solamente il giorno dopo, il 22 maggio.
Traduzione: per sole 24 ore di ritardo, l’intero procedimento è crollato come un castello di carte e l’accusa completamente archiviata. Decisione accolta dagli applausi dell’aula e uscita trionfale dalla porta principale, dove qualche sostenitore e numerosi giornalisti attendevano le prime parole di Mo Chara, che arrivano intrise della solita sobrietà che contraddistingue il clan Kneecap.
«Un enorme grazie al mio team legale.
Darragh, Jude, Blinne, Brenda, Gareth e a tutto lo staff della Phoenix Law.
Un ringraziamento speciale anche alla mia interprete Susan.
Tutto questo procedimento non ha mai riguardato me, né la minaccia alla sicurezza pubblica, né il “terrorismo”, una parola usata dal vostro governo per screditare le persone che opprimete. Ha sempre riguardato Gaza.
Su cosa succede se osi parlare.
Noi, essendo irlandesi, conosciamo l’oppressione, il colonialismo, la carestia e il genocidio.
L’abbiamo sofferto e ancora lo soffriamo sotto “il vostro impero”.
I vostri tentativi di metterci a tacere sono falliti, perché noi abbiamo ragione e voi avete torto.
Non staremo zitti.
Abbiamo detto che vi avremmo combattuti nei vostri tribunali e che avremmo vinto.
E così è stato.
Se qualcuno su questo pianeta è colpevole di terrorismo, è lo Stato britannico.
Free Palestine!
Tiocfaidh ár lá»
Il capitolo conclusivo di questa vicenda lascia dietro di sé pesanti strascichi da entrambe le parti della barricata.
La parziale “vittoria” per la band di Belfast non cancella il peso del circo mediatico orchestrato dal governo inglese che ha inciso pesantemente sulle attività del gruppo, tra spese giudiziarie e ingenti perdite economiche derivanti dalla cancellazione di molte date del tour, con il Canada ultimo dei paesi a rendere noto che là non sono i benvenuti. Ma, a conti fatti, è pur sempre preferibile a una condanna per terrorismo firmata Londra …
Per il governo britannico, l’ennesima figuraccia istituzionale, aggravata dall’imbarazzo di aver invocato l’arsenale antiterrorismo per poi inciampare su sé stesso, cadendo rovinosamente sul dettaglio più banale: un termine scaduto e autorizzazioni mancanti.
Un passo falso che non solo evidenzia la goffaggine burocratica del Regno Unito, ma finisce per alimentare la narrativa voluta dai Kneecap: quella di artisti perseguitati per le loro posizioni politiche.
“Non ci prenderete mai …” sembrano gridare.
Nell’aula ormai vuota della Woolwich Crown Court resta solo l’eco delle loro risate.
«La nostra vendetta sarà la risata dei nostri figli», diceva Bobby Sands, il militante repubblicano nordirlandese morto durante lo sciopero della fame del 1981.
Oggi il suono di quelle risate rimbalza tagliente, beffardo e liberatorio.
Proprio come Bobby e i suoi compagni sognavano 40 anni fa.
Quando la musica torna a contare non solo sulle piattaforme o nelle recensioni.
Ce ne rendiconta, come sempre, l'amico MICHELE SAVINI.
Le precedenti puntate di "The Auld Triangle: narrazioni dalla repubblica d'Irlanda" qui: https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
Oggi torniamo a parlare dei Kneecap, con l’auspicio di mettere finalmente la parola fine ad un capitolo giudiziario che ha poco a che fare con la musica. Una band che ha fatto parlare così tanto di sé negli ultimi mesi, che ormai perfino il silenzio su di loro suona come una dichiarazione, perché fingere di ignorarli è praticamente impossibile.
Stavolta sarò celere, tutti i dettagli dell’intera vicenda li trovate qui nelle precedenti puntate:
Kneecap: il peso delle parole: https://tonyface.blogspot.com/2025/05/kneecapp-il-peso-delle-parole.html
Kneecap : More Blacks, More Dogs, More Irish, Mo Chara: https://tonyface.blogspot.com/2025/07/kneecapp-more-blacks-more-dogs-more.html
Qualche settimana fa si è tenuto l’atto conclusivo del processo a Liam Óg Ó Annaidh, in arte Mo Chara, membro del trio nordirlandese dei Kneecap, accusato di terrorismo per aver esposto, durante un concerto londinese nel novembre 2024, una bandiera di Hezbollah, organizzazione considerata illegale nel Regno Unito.
Da parte sua, la band sostiene che le accuse siano motivate politicamente e non giuridicamente, mirate a silenziare chi, come loro, denuncia le ingiustizie, in particolare la situazione che da mesi colpisce Gaza.
Già nella precedente udienza la difesa aveva contestato la legittimità dell’accusa, rilevando che il procedimento non era stato avviato entro i sei mesi stabiliti dalla legge. La controversia legale su cui verteva il processo riguardava soprattutto interpretazioni giuridiche e questioni procedurali, piuttosto che sulla natura politica dell’accusa.
L’appuntamento perciò era per venerdì 26 settembre alla Woolwich Crown Court di Londra, per l’ultimo round di una partita a scacchi tra il governo britannico e il controverso trio hip hop di Belfast. Già il giorno precedente all’udienza, la Metropolitan Police di Londra, aveva invocato la sezione 14 della legge sull’ordine pubblico, che vietava l’assembramento fuori dalla Woolwich Crown Court per ragioni di sicurezza. I fan dei Kneecap, accompagnati da moltissimi attivisti pro Palestina, avevano infatti organizzato un vero e proprio show di solidarietà nei confronti della band nella precedente udienza, giocando un ruolo importante nel mostrare da che parte stava l’opinione pubblica.
Perciò la mossa di vietare i sostenitori pacifici della band rappresentava l’ennesimo tentativo da parte dell’establishment di ridurre al minimo il clamore e di far apparire come “problematici” i sostenitori del trio di Belfast.
Ma più di ogni altra cosa, nascondeva una verità innegabile: tra le file dell’accusa serpeggiava paura.
Paura di non essere in grado di vincere la partita né sui punti né sul piano morale, mentre i Kneecap, come un branco di squali che percepisce il sangue della preda, avanzavano decisi, mostrando tutta la loro forza e determinazione.
Arrivo davanti alla Woolwich Crown Court con il solito inconfondibile stile, quello che, se accompagnato dal groove implacabile di “Little Green Bag” dei George Baker Selection, trasformerebbe il piazzale in un set tarantiniano.
Tutta la crew dei Kneecap si presenta infatti incappucciata, con l’ormai iconico passamontagna tricolore, come a dire: “Ecco che arrivano i terroristi…” e sfoggiando un silenzioso ma palpabile ottimismo.
All’interno del tribunale, mentre il magistrato Paul Goldspring si prepara a leggere la sentenza, l’aria è densa di tensione. Il giudice conferma quanto già sostenuto dalla difesa: l’accusa è proceduralmente errata, poiché i permessi necessari non sono stati ottenuti entro il termine legale previsto dalla legge sul terrorismo del Regno Unito.
Secondo il Terrorism Act 2000 infatti, il Crown Prosecution Service (CPS) aveva sei mesi di tempo per ottenere i consensi necessari dal Procuratore Generale, con scadenza fissata per il 21 maggio 2025. Peccato che i consensi siano arrivati solamente il giorno dopo, il 22 maggio.
Traduzione: per sole 24 ore di ritardo, l’intero procedimento è crollato come un castello di carte e l’accusa completamente archiviata. Decisione accolta dagli applausi dell’aula e uscita trionfale dalla porta principale, dove qualche sostenitore e numerosi giornalisti attendevano le prime parole di Mo Chara, che arrivano intrise della solita sobrietà che contraddistingue il clan Kneecap.
«Un enorme grazie al mio team legale.
Darragh, Jude, Blinne, Brenda, Gareth e a tutto lo staff della Phoenix Law.
Un ringraziamento speciale anche alla mia interprete Susan.
Tutto questo procedimento non ha mai riguardato me, né la minaccia alla sicurezza pubblica, né il “terrorismo”, una parola usata dal vostro governo per screditare le persone che opprimete. Ha sempre riguardato Gaza.
Su cosa succede se osi parlare.
Noi, essendo irlandesi, conosciamo l’oppressione, il colonialismo, la carestia e il genocidio.
L’abbiamo sofferto e ancora lo soffriamo sotto “il vostro impero”.
I vostri tentativi di metterci a tacere sono falliti, perché noi abbiamo ragione e voi avete torto.
Non staremo zitti.
Abbiamo detto che vi avremmo combattuti nei vostri tribunali e che avremmo vinto.
E così è stato.
Se qualcuno su questo pianeta è colpevole di terrorismo, è lo Stato britannico.
Free Palestine!
Tiocfaidh ár lá»
Il capitolo conclusivo di questa vicenda lascia dietro di sé pesanti strascichi da entrambe le parti della barricata.
La parziale “vittoria” per la band di Belfast non cancella il peso del circo mediatico orchestrato dal governo inglese che ha inciso pesantemente sulle attività del gruppo, tra spese giudiziarie e ingenti perdite economiche derivanti dalla cancellazione di molte date del tour, con il Canada ultimo dei paesi a rendere noto che là non sono i benvenuti. Ma, a conti fatti, è pur sempre preferibile a una condanna per terrorismo firmata Londra …
Per il governo britannico, l’ennesima figuraccia istituzionale, aggravata dall’imbarazzo di aver invocato l’arsenale antiterrorismo per poi inciampare su sé stesso, cadendo rovinosamente sul dettaglio più banale: un termine scaduto e autorizzazioni mancanti.
Un passo falso che non solo evidenzia la goffaggine burocratica del Regno Unito, ma finisce per alimentare la narrativa voluta dai Kneecap: quella di artisti perseguitati per le loro posizioni politiche.
“Non ci prenderete mai …” sembrano gridare.
Nell’aula ormai vuota della Woolwich Crown Court resta solo l’eco delle loro risate.
«La nostra vendetta sarà la risata dei nostri figli», diceva Bobby Sands, il militante repubblicano nordirlandese morto durante lo sciopero della fame del 1981.
Oggi il suono di quelle risate rimbalza tagliente, beffardo e liberatorio.
Proprio come Bobby e i suoi compagni sognavano 40 anni fa.
lunedì, ottobre 13, 2025
Ed Sullivan Show
Riprendo l'articolo che ho dedicato nelle pagine del "Manifetso2 nella sezione "Alias", a Ed Sullivan.
La figura di Ed Sullivan appartiene all’infinito passato (morì nel 1974) e raramente esce (perlomeno in Europa) dal cliché di colui che portò per la prima volta i Beatles sugli schermi televisivi americani nel febbraio 1964.
L’esibizione di John, Paul, George e Ringo fu vista da oltre 70 milioni di spettatori, creando una sorta di rivoluzione culturale e artistica, in una nazione socialmente ancora molto chiusa e refrattaria a tutto ciò che non apparteneva alla “tradizione”. Elvis e il giro rock ‘n’ roll erano stati in breve tempo assorbiti dal mainstream e le fiamme di rivolta velocemente spente.
L’esibizione dei Beatles indusse migliaia di giovani ragazzi e ragazze ad adottare uno stile estetico diverso, un approccio più libertario e antitetico alle tipiche regole del “bravo americano”, in tantissimi (da Bruce Springsteen a Tom Petty, Billy Joel, Gene Simmons dei Kiss, Joe Perry degli Aerosmith, Nancy Wilson, Mark Mothersbaugh dei Devo, tra i tanti) decisero di imparare a suonare uno strumento e diventare come i Beatles.
Se questo evento è stato probabilmente il picco mediatico della sua carriera, in realtà Ed Sullivan fu, ben da prima, un importante innovatore, soprattutto da un punto di vista sociale.
Lo descrive alla perfezione un recente documentario a lui dedicato, “Sunday Best” (disponibile nella piattaforma Netflix).
Il suo “Ed Sullivan Show” andò in onda dal 1948 al 1971 nei canali della CBS, dalle 20 alle 21 di ogni domenica.
Fu il primo show televisivo a introdurre ospiti di colore mischiati a quelli bianchi, operazione ardita, inedita e inaudita per i tempi, in cui ai neri erano riservati pochissimi e ben delimitati spazi (il primo show condotto da un afroamericano fu il “Nat King Cole Show” in onda tra il 1956 e 1957 con spettacoli di 15 minuti o mezzora).
Nel suo programma incominciarono ad apparire talenti immensi come Sammy Davis Jr, Harry Belafonte, Louis Armstrong, Count Basie, Duke Ellington, Ella Fitzgerald, Cab Calloway.
Successivamente diede particolare spazio agli artisti della Motown Records ma anche a personaggi meno orecchiabili come Bo Diddley (con cui ebbe un epico scontro a causa della decisione del musicista di suonare un altro brano rispetto a quanto concordato, allungando il tempo a lui riservato).
Come testimonia la presentatrice Oprah Winfrey nel documentario: “Immagina di avere dieci anni e vivere in una famiglia povera, guardare lo show di Ed Sullivan, in una cultura in cui in televisione non esistevano persone nere, vedere per la prima volta qualcuno che ti somigliava e rappresentava, letteralmente, una possibilità e una speranza”.
Nel programma era ospitata la più ampia gamma di esibizioni artistiche, da musicisti jazz, rock ‘n’roll, blues, soul, classici, ad attori, comici, balletti, spettacoli vaudeville, monologhi, celebri atleti (Sullivan aveva alle spalle una lunga e prestigiosa carriera come giornalista sportivo). Gli artisti, con qualche rara eccezione, si esibivano sempre dal vivo.
Non faceva distinzioni sul colore della pelle o appartenenza etnica, guardava esclusivamente al talento e allo spessore degli ospiti.
Il tutto nella lucida consapevolezza che le cose andavano cambiate ma soprattutto che stavano cambiando.
"Nella conduzione del mio spettacolo, non ho mai chiesto a un artista la sua religione, la sua razza o le sue idee politiche. Gli artisti vengono coinvolti in base alle loro capacità. Credo che questa sia un'altra qualità del nostro spettacolo, che ha contribuito a conquistare un pubblico vasto e fedele."
Pur ricevendo numerose pressioni da parte degli sponsor del Sud degli States, ancora apertamente segregazionisti, proseguì nella sua linea (peraltro rifiutando rapporti con le ditte dichiaratamente razziste), che, alla fine, risultò vincente. Anche in quella parte, ancora socialmente retrograda dell’America, gli ascolti erano più che buoni.
“Rispetto a un teatro tutti quelli che guardano il mio show hanno un posto in prima fila”.
Nel corso degli anni il suo fiuto per le novità non venne mai meno.
I Beatles tornarono altre volte, arrivarono i Rolling Stones, Animals, Doors, Aretha Franklin, James Brown e tanti altri esponenti della nuova scena musicale degli anni Sessanta.
L’apertura mentale di Sullivan non era però politicamente accoppiata a una visione così aperta.
Esplicitamente anticomunista, fu sempre “vigile” nell’evitare che artisti troppo schierati potessero in qualche modo “turbare” il clima dello spettacolo.
Nonostante ciò invitò Harry Belafonte (che non faceva mistero delle sue simpatie di sinistra) e perfino Bob Dylan, la cui esibizione era prevista per il maggio del 1963, in concomitanza con l’uscita del secondo album The Freewheelin' Bob Dylan da cui decise di suonare Talkin' John Birch Paranoid Blues, brano incluso solo nelle prime copie del disco e poi depennato per decisione dell’etichetta. Una canzone (poi recuperata in The Bootleg Series Volumes 1-3 (Rare & Unreleased) 1961-1991) in cui si prendeva gioco dell’organizzazione di ultradestra “John Birch Society”.
Il giorno della trasmissione, la CBS mise il veto all'esecuzione del pezzo, ritenuto troppo polemico, nonostante lo staff non avesse sollevato alcuna obiezione.
A Dylan fu chiesto di scegliere un'altra canzone, ma decise di non partecipare al programma, in segno di protesta contro la censura. Sullivan prese la parte del cantautore in numerose interviste, successive al clamore sollevato dalla vicenda.
Non di meno era attentissimo a monitorare i testi delle canzoni per impedire che il suo pubblico potesse ascoltare versi con riferimenti a carattere sessuale o attinente alla droga.
I Rolling Stones accettarono di buon grado di cambiare “Let’s Spend the Night Together” in Let’s Spend Some Time Together”, molto meno peccaminoso. Anche i Doors furono bacchettati sulla parola “higher” (sotto inteso di “andare in alto”, grazie all’uso di droghe) in “Light My Fire”.
Jim Morrison accettò di sostituirla ma durante l’esibizione la cantò ugualmente. Alla fine un collaboratore di Sullivan disse alla band:
“Al signor Sullivan piacete veramente tanto e pensava di farvi venire almeno altre sei volte. Ma non farete mai piùparte dello show”.
Anche con i Byrds si scontrò sempre per lo stesso motivo, per il brano “Eight Miles High”.
Probabilmente con il tempo si rese conto di quanto fosse puerile la sua presa di posizione e lasciò, successivamente, che Sly and the Family Stone portassero sul sul suo palco la ben più esplicita “I Want to Take You Higher”. Nonostante il grande successo ottenuto per un ventennio, alla fine degli anni Sessanta, la società era cambiata notevolmente, i gusti dei giovani si erano spostati verso nuove forme di comunicazione, la stessa televisione aveva preso altre modalità di intrattenimento.
L’ingessato conduttore settantenne, algido e rigido, costantemente in giacca e cravatta perse progressivamente il suo appeal. Gli spettatori calarono e con essi gli sponsor, lo show era ormai sinonimo di vecchio e di passato (per quanto così recente) e nel marzo del 1971 la CBS decise di cancellare il programma. Ed Sullivan produsse qualche ulteriore speciale ma con scarso successo.
Morì nel 1974.
“Mi sembra giusto che quando vai in una Tv nazionale, che il minimo che tu possa fare con questo grande privilegio, sia cercare di fare qualcosa per avvicinare le persone”.
Raramente qualcuno/a, con questa potenzialità a disposizione è riuscito/a a fare tanto.
La figura di Ed Sullivan appartiene all’infinito passato (morì nel 1974) e raramente esce (perlomeno in Europa) dal cliché di colui che portò per la prima volta i Beatles sugli schermi televisivi americani nel febbraio 1964.
L’esibizione di John, Paul, George e Ringo fu vista da oltre 70 milioni di spettatori, creando una sorta di rivoluzione culturale e artistica, in una nazione socialmente ancora molto chiusa e refrattaria a tutto ciò che non apparteneva alla “tradizione”. Elvis e il giro rock ‘n’ roll erano stati in breve tempo assorbiti dal mainstream e le fiamme di rivolta velocemente spente.
L’esibizione dei Beatles indusse migliaia di giovani ragazzi e ragazze ad adottare uno stile estetico diverso, un approccio più libertario e antitetico alle tipiche regole del “bravo americano”, in tantissimi (da Bruce Springsteen a Tom Petty, Billy Joel, Gene Simmons dei Kiss, Joe Perry degli Aerosmith, Nancy Wilson, Mark Mothersbaugh dei Devo, tra i tanti) decisero di imparare a suonare uno strumento e diventare come i Beatles.
Se questo evento è stato probabilmente il picco mediatico della sua carriera, in realtà Ed Sullivan fu, ben da prima, un importante innovatore, soprattutto da un punto di vista sociale.
Lo descrive alla perfezione un recente documentario a lui dedicato, “Sunday Best” (disponibile nella piattaforma Netflix).
Il suo “Ed Sullivan Show” andò in onda dal 1948 al 1971 nei canali della CBS, dalle 20 alle 21 di ogni domenica.
Fu il primo show televisivo a introdurre ospiti di colore mischiati a quelli bianchi, operazione ardita, inedita e inaudita per i tempi, in cui ai neri erano riservati pochissimi e ben delimitati spazi (il primo show condotto da un afroamericano fu il “Nat King Cole Show” in onda tra il 1956 e 1957 con spettacoli di 15 minuti o mezzora).
Nel suo programma incominciarono ad apparire talenti immensi come Sammy Davis Jr, Harry Belafonte, Louis Armstrong, Count Basie, Duke Ellington, Ella Fitzgerald, Cab Calloway.
Successivamente diede particolare spazio agli artisti della Motown Records ma anche a personaggi meno orecchiabili come Bo Diddley (con cui ebbe un epico scontro a causa della decisione del musicista di suonare un altro brano rispetto a quanto concordato, allungando il tempo a lui riservato).
Come testimonia la presentatrice Oprah Winfrey nel documentario: “Immagina di avere dieci anni e vivere in una famiglia povera, guardare lo show di Ed Sullivan, in una cultura in cui in televisione non esistevano persone nere, vedere per la prima volta qualcuno che ti somigliava e rappresentava, letteralmente, una possibilità e una speranza”.
Nel programma era ospitata la più ampia gamma di esibizioni artistiche, da musicisti jazz, rock ‘n’roll, blues, soul, classici, ad attori, comici, balletti, spettacoli vaudeville, monologhi, celebri atleti (Sullivan aveva alle spalle una lunga e prestigiosa carriera come giornalista sportivo). Gli artisti, con qualche rara eccezione, si esibivano sempre dal vivo.
Non faceva distinzioni sul colore della pelle o appartenenza etnica, guardava esclusivamente al talento e allo spessore degli ospiti.
Il tutto nella lucida consapevolezza che le cose andavano cambiate ma soprattutto che stavano cambiando.
"Nella conduzione del mio spettacolo, non ho mai chiesto a un artista la sua religione, la sua razza o le sue idee politiche. Gli artisti vengono coinvolti in base alle loro capacità. Credo che questa sia un'altra qualità del nostro spettacolo, che ha contribuito a conquistare un pubblico vasto e fedele."
Pur ricevendo numerose pressioni da parte degli sponsor del Sud degli States, ancora apertamente segregazionisti, proseguì nella sua linea (peraltro rifiutando rapporti con le ditte dichiaratamente razziste), che, alla fine, risultò vincente. Anche in quella parte, ancora socialmente retrograda dell’America, gli ascolti erano più che buoni.
“Rispetto a un teatro tutti quelli che guardano il mio show hanno un posto in prima fila”.
Nel corso degli anni il suo fiuto per le novità non venne mai meno.
I Beatles tornarono altre volte, arrivarono i Rolling Stones, Animals, Doors, Aretha Franklin, James Brown e tanti altri esponenti della nuova scena musicale degli anni Sessanta.
L’apertura mentale di Sullivan non era però politicamente accoppiata a una visione così aperta.
Esplicitamente anticomunista, fu sempre “vigile” nell’evitare che artisti troppo schierati potessero in qualche modo “turbare” il clima dello spettacolo.
Nonostante ciò invitò Harry Belafonte (che non faceva mistero delle sue simpatie di sinistra) e perfino Bob Dylan, la cui esibizione era prevista per il maggio del 1963, in concomitanza con l’uscita del secondo album The Freewheelin' Bob Dylan da cui decise di suonare Talkin' John Birch Paranoid Blues, brano incluso solo nelle prime copie del disco e poi depennato per decisione dell’etichetta. Una canzone (poi recuperata in The Bootleg Series Volumes 1-3 (Rare & Unreleased) 1961-1991) in cui si prendeva gioco dell’organizzazione di ultradestra “John Birch Society”.
Il giorno della trasmissione, la CBS mise il veto all'esecuzione del pezzo, ritenuto troppo polemico, nonostante lo staff non avesse sollevato alcuna obiezione.
A Dylan fu chiesto di scegliere un'altra canzone, ma decise di non partecipare al programma, in segno di protesta contro la censura. Sullivan prese la parte del cantautore in numerose interviste, successive al clamore sollevato dalla vicenda.
Non di meno era attentissimo a monitorare i testi delle canzoni per impedire che il suo pubblico potesse ascoltare versi con riferimenti a carattere sessuale o attinente alla droga.
I Rolling Stones accettarono di buon grado di cambiare “Let’s Spend the Night Together” in Let’s Spend Some Time Together”, molto meno peccaminoso. Anche i Doors furono bacchettati sulla parola “higher” (sotto inteso di “andare in alto”, grazie all’uso di droghe) in “Light My Fire”.
Jim Morrison accettò di sostituirla ma durante l’esibizione la cantò ugualmente. Alla fine un collaboratore di Sullivan disse alla band:
“Al signor Sullivan piacete veramente tanto e pensava di farvi venire almeno altre sei volte. Ma non farete mai piùparte dello show”.
Anche con i Byrds si scontrò sempre per lo stesso motivo, per il brano “Eight Miles High”.
Probabilmente con il tempo si rese conto di quanto fosse puerile la sua presa di posizione e lasciò, successivamente, che Sly and the Family Stone portassero sul sul suo palco la ben più esplicita “I Want to Take You Higher”. Nonostante il grande successo ottenuto per un ventennio, alla fine degli anni Sessanta, la società era cambiata notevolmente, i gusti dei giovani si erano spostati verso nuove forme di comunicazione, la stessa televisione aveva preso altre modalità di intrattenimento.
L’ingessato conduttore settantenne, algido e rigido, costantemente in giacca e cravatta perse progressivamente il suo appeal. Gli spettatori calarono e con essi gli sponsor, lo show era ormai sinonimo di vecchio e di passato (per quanto così recente) e nel marzo del 1971 la CBS decise di cancellare il programma. Ed Sullivan produsse qualche ulteriore speciale ma con scarso successo.
Morì nel 1974.
“Mi sembra giusto che quando vai in una Tv nazionale, che il minimo che tu possa fare con questo grande privilegio, sia cercare di fare qualcosa per avvicinare le persone”.
Raramente qualcuno/a, con questa potenzialità a disposizione è riuscito/a a fare tanto.
Etichette:
Cultura 60's
venerdì, ottobre 10, 2025
I 500 grandi dischi del rock
Anche CLASSIC ROCK ha pensato bene di fare la classifica dei 500 MIGLIORI ALBUM ROCK di sempre.
Attraverso una scelta preventiva dei redattori si è arrivati alla lista finale.
Da parte mia ho scritto una cinquantina di schede (da Paul Weller ai Beatles, dai Bad Brains ai Black Flag, dai Sonic Youth a Patti Smith, da "Quadrophenia" a "Sandinista").
Il GIOCO è già stato fatto decine di volte e ovviamente tale rimane, altrettanto ovviamente è tutto opinabile, discutibile e grande sarà lo scandalo perché c'è questo e non quello e che, per me, vedere "Stanley Road" di Paul Weller al 452° posto dietro a "Hair of the dog" dei Nazareth fa friggere il sangue. Ma è appunto un gioco.
Un modo per fare conoscere ai più giovani quello che è (stato) il rock e per i più attempati ricordarsi di tanti titoli dimenticati.
L'aspetto più scontato ed evidente è la presenza in stragrande maggioranza di album dagli anni Sessanta alla fine degli Ottanta.
In TUTTE le edicole.
Attraverso una scelta preventiva dei redattori si è arrivati alla lista finale.
Da parte mia ho scritto una cinquantina di schede (da Paul Weller ai Beatles, dai Bad Brains ai Black Flag, dai Sonic Youth a Patti Smith, da "Quadrophenia" a "Sandinista").
Il GIOCO è già stato fatto decine di volte e ovviamente tale rimane, altrettanto ovviamente è tutto opinabile, discutibile e grande sarà lo scandalo perché c'è questo e non quello e che, per me, vedere "Stanley Road" di Paul Weller al 452° posto dietro a "Hair of the dog" dei Nazareth fa friggere il sangue. Ma è appunto un gioco.
Un modo per fare conoscere ai più giovani quello che è (stato) il rock e per i più attempati ricordarsi di tanti titoli dimenticati.
L'aspetto più scontato ed evidente è la presenza in stragrande maggioranza di album dagli anni Sessanta alla fine degli Ottanta.
In TUTTE le edicole.
giovedì, ottobre 09, 2025
Not Moving - But It's Not VIDEO
Il nuovo video dei NOT MOVING dall'album "That's All Folks!" (LaPop / La Tempesta Dischi) disponibile in CD e vinile dal 17 ottobre.
https://www.youtube.com/watch?v=Foxxqa8ouR0
Credits
Rita Lilith Oberti – vocals
Dome La Muerte – guitars
Antonio Bacciocchi – drums
Iride Volpi – guitars, backing vocals
Recorded and video released at Elfo Studio, Tavernago (Piacenza)
Mixed by Matt Bordin
Archive footage courtesy of the Not Moving Archive
Directed and edited by Silvia Biagioni — https://silbia.it
Director of Photography: Andrea Vaccari
Color Grading: Diego Diaz
🎧 Stream here: https://lnk.to/butitsnot
Lyrics – “But It’s Not” (Oberti/Petrosino)
And (is) the day
Same old day
Becoming light blue
And the world
Is over my dreams
Becoming strong blue
Oh, it’s a Holy Day
Wild Time
It’s like a vacation
But it’s not
Rainy days
Wet old days
Dreams all becoming blue
And sweet hearts
Went all wrong
Becoming violent blue
Oh, it’s a Holy Day
Wild mind
It’s like a vacation
But it’s not
https://www.youtube.com/watch?v=Foxxqa8ouR0
Credits
Rita Lilith Oberti – vocals
Dome La Muerte – guitars
Antonio Bacciocchi – drums
Iride Volpi – guitars, backing vocals
Recorded and video released at Elfo Studio, Tavernago (Piacenza)
Mixed by Matt Bordin
Archive footage courtesy of the Not Moving Archive
Directed and edited by Silvia Biagioni — https://silbia.it
Director of Photography: Andrea Vaccari
Color Grading: Diego Diaz
🎧 Stream here: https://lnk.to/butitsnot
Lyrics – “But It’s Not” (Oberti/Petrosino)
And (is) the day
Same old day
Becoming light blue
And the world
Is over my dreams
Becoming strong blue
Oh, it’s a Holy Day
Wild Time
It’s like a vacation
But it’s not
Rainy days
Wet old days
Dreams all becoming blue
And sweet hearts
Went all wrong
Becoming violent blue
Oh, it’s a Holy Day
Wild mind
It’s like a vacation
But it’s not
Etichette:
Not Moving
mercoledì, ottobre 08, 2025
Ronnie Wood - Fearless Anthology 1965-2025
Uno dei più grandi chitarristi rock in assoluto.
Che ovviamente non significa virtuoso solista o funambolico esecutore di pirotecnie strumentali.
Basta vederlo sul palco con gli Stones, rifinire tutto, tessere trame, unire tasselli ritmici, vero pilastro della band.
E' appena uscita una compilation che raccoglie SESSANTA ANNI di carriera, con brani scelti nell'immenso repertorio in cui ha suonato, dai Birds ai Creation, dal Jeff Beck Group al primo Rod Stewart solista, i Faces, i Rolling Stones, i suoi innumerevoli (sempre di alta qualità) sforzi solisti (tra cui il divertentissimo twist "A certain girl" con la voce di Chrissie Hynde).
Rock 'n' roll, rhythm and blues, reggae, rocksteady ("Take It Easy"), funk.
Ascoltarla di seguito è un piacere e ci conferma l'incredibile percorso di un grandissimo musicista.
Che ovviamente non significa virtuoso solista o funambolico esecutore di pirotecnie strumentali.
Basta vederlo sul palco con gli Stones, rifinire tutto, tessere trame, unire tasselli ritmici, vero pilastro della band.
E' appena uscita una compilation che raccoglie SESSANTA ANNI di carriera, con brani scelti nell'immenso repertorio in cui ha suonato, dai Birds ai Creation, dal Jeff Beck Group al primo Rod Stewart solista, i Faces, i Rolling Stones, i suoi innumerevoli (sempre di alta qualità) sforzi solisti (tra cui il divertentissimo twist "A certain girl" con la voce di Chrissie Hynde).
Rock 'n' roll, rhythm and blues, reggae, rocksteady ("Take It Easy"), funk.
Ascoltarla di seguito è un piacere e ci conferma l'incredibile percorso di un grandissimo musicista.
Etichette:
Dischi
lunedì, ottobre 06, 2025
Van Morrison - Jackie Wilson Said (I'm in Heaven When You Smile)
"Jackie Wilson Said (I'm in Heaven When You Smile)" è un omaggio sincero e devoto a uno dei suoi ispiratori, il soul man Jackie Wilson, da parte di VAN MORRISON, dall'album del luglio 1972 "Saint Dominic's Preview", poi ripresa dai Dexy's Midnight Runners in Too Rye Ay" nel 1982 (in modo non troppo lontano dall'originale).
Il primo demo è del gennaio 1972. Quando a fine mese la band entrò in studio registrò la canzone in diretta alla prima take.
Il chitarrista Doug Messenger ricordò: "Alla fine rimanemmo tutti in silenzio: ce l'avevamo fatta in una sola volta? Van ne volle fare un'altra, ma si fermò dopo qualche battuta perché sentiva che non funzionava. 'Penso che ce l'abbiamo già".
Le sovraincisioni di fiati furono aggiunte in seguito.
Lo stesso Van Morrison ammise che anche il cantato era ispirato da quello, molto distintivo di Jackie Wilson (che a sua volta fu palesemente imitato da Kevin Rowland in gran parte della carriera con i Dexy's Midnight Runners.
Il brano è diventato una costante nel repertorio live di Van Morrison.
Van Morrison - Jackie Wilson Said (I'm in Heaven When You Smile)
https://www.youtube.com/watch?v=TY0_1VN7h8c
La versione dei Dexy's Midnight Runners fu pubblicata come singolo nell'agosto 1982 e arrivò al quinto posto delle classifiche inglesi (dopo il successo di "Come On Eileen", scelta all'ultimo momento come primo 45 giri al posto della cover di Van Morrison).
Van avrebbe dovuto partecipare al brano ma alla fine si limitò a un parlato finale che venne però tagliato nel mixaggio.
Kevin Rowland & Dexys Midnight Runners - Jackie Wilson Said (I'm In Heaven When You Smile)
https://www.youtube.com/watch?v=A1vAQM4W02E
Altre versioni:
Syl Johnson: https://www.youtube.com/watch?v=ycrr6v9XLJA
David Campbell: https://www.youtube.com/watch?v=ozxEHY280Z0
Head Automatica: https://www.youtube.com/watch?v=5tcZijeZeaA
Nel testo compare il diretto riferimento a Jackie Wilson e alla sua hit "Reet Petite"
Da, da, da, da, da,
Jackie Wilson said
It was "Reet-Petite"
Kinda love you got
Knock me off my feet
Let it all hang out
Oh, let it all hang out.
And you know
I'm so wired-up
Don't need no coffee in my cup
Let it all hang out
Let it all hang out.
Watch this:
Ding-a-ling-a-ling
Ding-a-ling-a-ling-ding
I'm in heaven, I'm in heaven
I'm in heaven, when you smile
When you smile, when you smile
When you smile.
And when you walk
Across the road
You make my heart go
Boom-boom-boom
Let it all hang out
Baby, let it all hang out
And ev'ry time
You look that way
Honey chile, you make my day
Let it all hang out
Like the man said: let it all hang out.
Il primo demo è del gennaio 1972. Quando a fine mese la band entrò in studio registrò la canzone in diretta alla prima take.
Il chitarrista Doug Messenger ricordò: "Alla fine rimanemmo tutti in silenzio: ce l'avevamo fatta in una sola volta? Van ne volle fare un'altra, ma si fermò dopo qualche battuta perché sentiva che non funzionava. 'Penso che ce l'abbiamo già".
Le sovraincisioni di fiati furono aggiunte in seguito.
Lo stesso Van Morrison ammise che anche il cantato era ispirato da quello, molto distintivo di Jackie Wilson (che a sua volta fu palesemente imitato da Kevin Rowland in gran parte della carriera con i Dexy's Midnight Runners.
Il brano è diventato una costante nel repertorio live di Van Morrison.
Van Morrison - Jackie Wilson Said (I'm in Heaven When You Smile)
https://www.youtube.com/watch?v=TY0_1VN7h8c
La versione dei Dexy's Midnight Runners fu pubblicata come singolo nell'agosto 1982 e arrivò al quinto posto delle classifiche inglesi (dopo il successo di "Come On Eileen", scelta all'ultimo momento come primo 45 giri al posto della cover di Van Morrison).
Van avrebbe dovuto partecipare al brano ma alla fine si limitò a un parlato finale che venne però tagliato nel mixaggio.
Kevin Rowland & Dexys Midnight Runners - Jackie Wilson Said (I'm In Heaven When You Smile)
https://www.youtube.com/watch?v=A1vAQM4W02E
Altre versioni:
Syl Johnson: https://www.youtube.com/watch?v=ycrr6v9XLJA
David Campbell: https://www.youtube.com/watch?v=ozxEHY280Z0
Head Automatica: https://www.youtube.com/watch?v=5tcZijeZeaA
Nel testo compare il diretto riferimento a Jackie Wilson e alla sua hit "Reet Petite"
Da, da, da, da, da,
Jackie Wilson said
It was "Reet-Petite"
Kinda love you got
Knock me off my feet
Let it all hang out
Oh, let it all hang out.
And you know
I'm so wired-up
Don't need no coffee in my cup
Let it all hang out
Let it all hang out.
Watch this:
Ding-a-ling-a-ling
Ding-a-ling-a-ling-ding
I'm in heaven, I'm in heaven
I'm in heaven, when you smile
When you smile, when you smile
When you smile.
And when you walk
Across the road
You make my heart go
Boom-boom-boom
Let it all hang out
Baby, let it all hang out
And ev'ry time
You look that way
Honey chile, you make my day
Let it all hang out
Like the man said: let it all hang out.
Etichette:
Songs
venerdì, ottobre 03, 2025
Not Moving - But It's Not
I Not Moving tornano con l’album conclusivo della loro storia iniziata nel 1981: “That’s All Folks!”, in uscita il 17 ottobre per La Tempesta Dischi / LaPop.
Il primo singolo “But It’s Not” è un manifesto del loro sound, tra punk, Rolling Stones, rock’n’roll, glam e blues.
Un riflesso di un lungo cammino fatto di palchi, dischi, illusioni e delusioni, alti e bassi, “wild time” con una “wild mind”, in quella che è sempre sembrata una vacanza: “But It’s Not”.
👉 Link pre-save https://lnk.to/butitsnot (su Spotify, Apple Music, Deezer, Tidal, Amazon Music).
#NotMoving #ThatsAllFolks #LaTempesta
BUT IT'S NOT
And (is) the day
Same old day
Becoming light blue
And the world
Is over my dreams
Becoming strong blue
Oh is an Holy Day
Wild Time
It's like a vacation
But It's not
Rainy days
Wet old days
Dreams (all) becoming blue
And sweet hearts
Went all wrong
Becoming violent blue
Oh (is) an Holy Day
Wild mind
It's like a vacation
But It's Not
Clic per un like:
https://www.facebook.com/profile.php?id=100051397366697
Il primo singolo “But It’s Not” è un manifesto del loro sound, tra punk, Rolling Stones, rock’n’roll, glam e blues.
Un riflesso di un lungo cammino fatto di palchi, dischi, illusioni e delusioni, alti e bassi, “wild time” con una “wild mind”, in quella che è sempre sembrata una vacanza: “But It’s Not”.
👉 Link pre-save https://lnk.to/butitsnot (su Spotify, Apple Music, Deezer, Tidal, Amazon Music).
#NotMoving #ThatsAllFolks #LaTempesta
BUT IT'S NOT
And (is) the day
Same old day
Becoming light blue
And the world
Is over my dreams
Becoming strong blue
Oh is an Holy Day
Wild Time
It's like a vacation
But It's not
Rainy days
Wet old days
Dreams (all) becoming blue
And sweet hearts
Went all wrong
Becoming violent blue
Oh (is) an Holy Day
Wild mind
It's like a vacation
But It's Not
Clic per un like:
https://www.facebook.com/profile.php?id=100051397366697
Etichette:
Not Moving
giovedì, ottobre 02, 2025
Devo
Riprendo l'approfondimento che ho scritto per l'inserto "Alias" de "Il Manifesto" sui DEVO, lo scorso sabato.
Difficilmente chi ha vissuto gli anni tra il 1977 e i primi Ottanta riuscì a percepire la portata enorme di quello che stava artisticamente accadendo nella musica, inizialmente tra Londra e New York, immediatamente dopo in mezzo mondo.
Il punk e la new wave diedero il via all’attività di centinaia, migliaia, di gruppi, con variabili sonore e creative diversissime, spesso geniali, sconvolgenti, travolgenti.
In molti arrivarono inaspettatamente (per i tempi) al successo e a un posto nell’Olimpo del “rock” (dai Sex Pistols, ai Ramones, Clash, Talking Heads, Blondie, per citare i più noti), altri rimasero nel dimenticatoio.
In mezzo una lunga lista di splendidi dischi e artisti, il cui spessore creativo riluce ancora oggi per innovazione e capacità compositiva.
La suddetta repentina divulgazione del “verbo” della new wave arrivò, ben presto, dalle metropoli alla profonda provincia, forse ancora più adatta ad accogliere le istanze rivoltose di una gioventù che non aveva nulla con cui sfogare le proprie aspirazioni e il proprio desiderio di qualcosa di nuovo.
Un’onda che giunse perfino in Ohio, nella grigia “capitale della gomma”, Akron.
E’ qui che, addirittura nel 1973, parte l’avventura di una delle band più personali e originali nella storia del rock, i DEVO.
La cui nascita e primigenio sviluppo (fino al successo che trovarono dal secondo album in poi) viene ripercorsa con abbondanza di dettagli e un ricchissimo compendio fotografico (con immagini uniche e inedite) nel libro “Devo. In principio era la fine. L’incredibile storia dei DEVO e della loro fondazione” di Jade Dellinger e David Giffels, tradotto in italiano da Matteo Torcinovich per Hellnation Libri.
“Aveva una patina infernale e deprimente, una specie di strato di lattice sporco che riempiva l’aria, e così era la gente di Akron. I loro figli erano pronti a cadere nel baratro in qualsiasi momento. Erano talmente abbattuti che stavano per dare di matto. Tutto ciò si adattava perfettamente ai movimenti artistici del Novecento, Espressionismo, Dada e altro. Avevamo una visione tutta nostra, una visione di gomma. Siamo cresciuti come sfigati in Ohio, circondati da negozi per forniture per la pulizia, fabbriche di pneumatici, cataloghi di attrezzature industriali, guanti di gomma. Invece di vergognarcene o di cercare di negarlo, li abbiamo utilizzati” (Jerry Casale, bassista della band).
“Akron era la seconda città più grigia d’America, dopo Seattle. Condividevamo un certo disprezzo per un luogo in cui un gran numero di giovani non aveva futuro, a parte quello di lavorare in quelle fabbriche di gomma calde e sporche” (Mark Mothersbaugh, voce e tastiere).
Prima del celebre e fondamentale esordio del 1978, “Question: Are We Not Men? Answer: We Are Devo!”, prodotto nientemeno che da Brian Eno (dopo una fortunosa vicenda di una cassetta portata a Iggy Pop a un concerto, passata a David Bowie, in tour con lui e approdata al celebre musicista e produttore.
Cose che potevano accadere “una volta”), uno degli album più rivoluzionari e sorprendenti di sempre, la band ci mise più di un lustro per affinare sonorità e soprattutto immagine.
A cui si aggiunse un concept unico, filosofia portante della vicenda del gruppo, la “Devo-luzione”, una teoria in base alla quale l'umanità, invece che continuare a evolversi, avrebbe incominciato a regredire, come dimostra(va) la mentalità gretta della società statunitense, all’opposto dell’idealismo pseudo progressista e di presunta guida culturale e sociale del mondo, americano.
Non fu mai compreso appieno quanto il loro messaggio, radicale, anti sistema, la loro critica feroce al capitalismo americano, alle sciocche nostalgie per le tradizioni ("di un mondo che non è mai esistito"), non sia mai stato recepito, se non marginalmente (come malinconicamente evidenzia il recente doc su Netflix, “Devo” di Chris Smith) ma siano sempre stati considerati solo una band bizzara se non addirittura sciocca e caricaturale.
“Non eravamo veramente musicisti pop. Eravamo scienziati, reporter musicali. Siamo stati influenzati più dagli artisti pop multimediali e concettuali dell’epoca che dalla musica che si trasmetteva alla radio. Artisti visivi, come Andy Warhol, artisti degli anni Sessanta che avevano a che fare con concetti e idee. Volevamo far parte di questo, piuttosto che sederci con una chitarra in mano per il resto della nostra vita a scrivere canzoni. Vedevamo il mondo intero, la tecnologia e tutte le cose naturali e artificiali, come un potenziale materiale attraverso cui trasmettere il nostro messaggio”. (Mark Mothersbaugh).
I DEVO seppero condensare un immaginario futurista con le movenze robotiche dei musicisti sul palco (mutuate dalla lezione dei Kraftwerk) e un vestiario che rappresentava, sarcasticamente, quello della classe operaia della loro città, con tute gialle da lavoratori dell’industria chimica e tecnologica.
I DEVO erano un collettivo.
La band intendeva presentarsi come un gruppo unito, composto da lavoratori senza volto, con chitarre e sintetizzatori nella cassetta degli attrezzi.
Colonna sonora: una musica mai sentita che prendeva e rivoltava/devolveva il rock‘n’roll in una nuova miscela, ardita, arrembante, in cui new wave, elettronica, punk e sperimentazione, si univano a creare un nuovo ibrido pop.
Il manifesto del gruppo fu la rivisitazione sincopata e stravolta di “Satisfaction” dei Rolling Stones. Mick Jagger concesse con molto piacere il permesso di pubblicare una versione così irriverente, che poco o niente conservava di quella originale.
All’epoca fu stupefacente immaginare cosa poteva prefigurare una simile base di partenza. Anche perché, nell’esordio, la band affiancò brani come “Mongoloid” (difficile, se non impossibile, che con un titolo così, al giorno d’oggi, il brano potrebbe essere pubblicato) o “Uncontrollable Urge”, dall’imprevedibile ritmo in 7/4 che evidenziava la preparazione tecnica dei musicisti della band.
L’effetto colse di sorpresa tutti.
Basti pensare che la prestigiosa rivista “Creem” lo mise al primo posto tra gli album New Wave dell’anno ma i lettori votarono i DEVO al terzo tra i “migliori” gruppi e allo stesso posto tra i “peggiori”. Il famoso critico Lester Bangs li liquidò come “musica giocattolo”.
Ebbero la benedizione del pubblico del CBGB’S New Yorkese (pare che quasi tutti i gruppi passati per di lì abbiamo avuto un qualche tipo di successo) e di quello californiano e in breve sfondarono. Non durò molto (anche a causa di un processo legale intentato da Bob Lewis, tra i fondatori e ideologi del gruppo, che tagliò economicamente le gambe alla band) ma arrivarono ben presto anche al successo commerciale, dopo l’interlocutorio “Duty Now For The Future” (1979) con “Freedom Of Choice” (1980) e “New Traditionalists” (1981) e una serie di azzeccati singoli che diluivano in pop elettronico le precedenti intuizioni.
Il resto è normale amministrazione artistica.
Come chiosa il sopracitato libro, paradossalmente, i DEVO arrivarono ad autocitarsi involontariamente:
“I DEVO si sono devoluti. La loro storia degli anni Ottanta include tutti i clichés dei documentari rock: abuso di droghe, relazione tese, compromessi commerciali e passi falsi artistici”.
Cambiano le formazioni, la band resta a lungo silente, torna periodicamente ad esibirsi, si susseguono compilation, tributi, documentari, una vodka con il loro nome, l’arrivo nella Rock And Roll Hall Of Fame nel 2018.
Scompaiono membri storici come Bob Casale e Alan Myers ma il mito resiste, grazie alla creazione di un immaginario inimitabile e unico e a una delle migliori e più intriganti idee mai concepite all’interno della storia de rock.
“Anche se fin dall’inizio abbiamo sempre detto, con grande consapevolezza, che l’inizio era la fine e che la verità sulla Devolution incarnava questa idea ovvero che la fine arriva sempre inaspettata. La fine precisa non la capisci mai, non puoi prevederla ed è proprio questo lo scherzo perverso della faccenda”. (Jerry Casale)
Difficilmente chi ha vissuto gli anni tra il 1977 e i primi Ottanta riuscì a percepire la portata enorme di quello che stava artisticamente accadendo nella musica, inizialmente tra Londra e New York, immediatamente dopo in mezzo mondo.
Il punk e la new wave diedero il via all’attività di centinaia, migliaia, di gruppi, con variabili sonore e creative diversissime, spesso geniali, sconvolgenti, travolgenti.
In molti arrivarono inaspettatamente (per i tempi) al successo e a un posto nell’Olimpo del “rock” (dai Sex Pistols, ai Ramones, Clash, Talking Heads, Blondie, per citare i più noti), altri rimasero nel dimenticatoio.
In mezzo una lunga lista di splendidi dischi e artisti, il cui spessore creativo riluce ancora oggi per innovazione e capacità compositiva.
La suddetta repentina divulgazione del “verbo” della new wave arrivò, ben presto, dalle metropoli alla profonda provincia, forse ancora più adatta ad accogliere le istanze rivoltose di una gioventù che non aveva nulla con cui sfogare le proprie aspirazioni e il proprio desiderio di qualcosa di nuovo.
Un’onda che giunse perfino in Ohio, nella grigia “capitale della gomma”, Akron.
E’ qui che, addirittura nel 1973, parte l’avventura di una delle band più personali e originali nella storia del rock, i DEVO.
La cui nascita e primigenio sviluppo (fino al successo che trovarono dal secondo album in poi) viene ripercorsa con abbondanza di dettagli e un ricchissimo compendio fotografico (con immagini uniche e inedite) nel libro “Devo. In principio era la fine. L’incredibile storia dei DEVO e della loro fondazione” di Jade Dellinger e David Giffels, tradotto in italiano da Matteo Torcinovich per Hellnation Libri.
“Aveva una patina infernale e deprimente, una specie di strato di lattice sporco che riempiva l’aria, e così era la gente di Akron. I loro figli erano pronti a cadere nel baratro in qualsiasi momento. Erano talmente abbattuti che stavano per dare di matto. Tutto ciò si adattava perfettamente ai movimenti artistici del Novecento, Espressionismo, Dada e altro. Avevamo una visione tutta nostra, una visione di gomma. Siamo cresciuti come sfigati in Ohio, circondati da negozi per forniture per la pulizia, fabbriche di pneumatici, cataloghi di attrezzature industriali, guanti di gomma. Invece di vergognarcene o di cercare di negarlo, li abbiamo utilizzati” (Jerry Casale, bassista della band).
“Akron era la seconda città più grigia d’America, dopo Seattle. Condividevamo un certo disprezzo per un luogo in cui un gran numero di giovani non aveva futuro, a parte quello di lavorare in quelle fabbriche di gomma calde e sporche” (Mark Mothersbaugh, voce e tastiere).
Prima del celebre e fondamentale esordio del 1978, “Question: Are We Not Men? Answer: We Are Devo!”, prodotto nientemeno che da Brian Eno (dopo una fortunosa vicenda di una cassetta portata a Iggy Pop a un concerto, passata a David Bowie, in tour con lui e approdata al celebre musicista e produttore.
Cose che potevano accadere “una volta”), uno degli album più rivoluzionari e sorprendenti di sempre, la band ci mise più di un lustro per affinare sonorità e soprattutto immagine.
A cui si aggiunse un concept unico, filosofia portante della vicenda del gruppo, la “Devo-luzione”, una teoria in base alla quale l'umanità, invece che continuare a evolversi, avrebbe incominciato a regredire, come dimostra(va) la mentalità gretta della società statunitense, all’opposto dell’idealismo pseudo progressista e di presunta guida culturale e sociale del mondo, americano.
Non fu mai compreso appieno quanto il loro messaggio, radicale, anti sistema, la loro critica feroce al capitalismo americano, alle sciocche nostalgie per le tradizioni ("di un mondo che non è mai esistito"), non sia mai stato recepito, se non marginalmente (come malinconicamente evidenzia il recente doc su Netflix, “Devo” di Chris Smith) ma siano sempre stati considerati solo una band bizzara se non addirittura sciocca e caricaturale.
“Non eravamo veramente musicisti pop. Eravamo scienziati, reporter musicali. Siamo stati influenzati più dagli artisti pop multimediali e concettuali dell’epoca che dalla musica che si trasmetteva alla radio. Artisti visivi, come Andy Warhol, artisti degli anni Sessanta che avevano a che fare con concetti e idee. Volevamo far parte di questo, piuttosto che sederci con una chitarra in mano per il resto della nostra vita a scrivere canzoni. Vedevamo il mondo intero, la tecnologia e tutte le cose naturali e artificiali, come un potenziale materiale attraverso cui trasmettere il nostro messaggio”. (Mark Mothersbaugh).
I DEVO seppero condensare un immaginario futurista con le movenze robotiche dei musicisti sul palco (mutuate dalla lezione dei Kraftwerk) e un vestiario che rappresentava, sarcasticamente, quello della classe operaia della loro città, con tute gialle da lavoratori dell’industria chimica e tecnologica.
I DEVO erano un collettivo.
La band intendeva presentarsi come un gruppo unito, composto da lavoratori senza volto, con chitarre e sintetizzatori nella cassetta degli attrezzi.
Colonna sonora: una musica mai sentita che prendeva e rivoltava/devolveva il rock‘n’roll in una nuova miscela, ardita, arrembante, in cui new wave, elettronica, punk e sperimentazione, si univano a creare un nuovo ibrido pop.
Il manifesto del gruppo fu la rivisitazione sincopata e stravolta di “Satisfaction” dei Rolling Stones. Mick Jagger concesse con molto piacere il permesso di pubblicare una versione così irriverente, che poco o niente conservava di quella originale.
All’epoca fu stupefacente immaginare cosa poteva prefigurare una simile base di partenza. Anche perché, nell’esordio, la band affiancò brani come “Mongoloid” (difficile, se non impossibile, che con un titolo così, al giorno d’oggi, il brano potrebbe essere pubblicato) o “Uncontrollable Urge”, dall’imprevedibile ritmo in 7/4 che evidenziava la preparazione tecnica dei musicisti della band.
L’effetto colse di sorpresa tutti.
Basti pensare che la prestigiosa rivista “Creem” lo mise al primo posto tra gli album New Wave dell’anno ma i lettori votarono i DEVO al terzo tra i “migliori” gruppi e allo stesso posto tra i “peggiori”. Il famoso critico Lester Bangs li liquidò come “musica giocattolo”.
Ebbero la benedizione del pubblico del CBGB’S New Yorkese (pare che quasi tutti i gruppi passati per di lì abbiamo avuto un qualche tipo di successo) e di quello californiano e in breve sfondarono. Non durò molto (anche a causa di un processo legale intentato da Bob Lewis, tra i fondatori e ideologi del gruppo, che tagliò economicamente le gambe alla band) ma arrivarono ben presto anche al successo commerciale, dopo l’interlocutorio “Duty Now For The Future” (1979) con “Freedom Of Choice” (1980) e “New Traditionalists” (1981) e una serie di azzeccati singoli che diluivano in pop elettronico le precedenti intuizioni.
Il resto è normale amministrazione artistica.
Come chiosa il sopracitato libro, paradossalmente, i DEVO arrivarono ad autocitarsi involontariamente:
“I DEVO si sono devoluti. La loro storia degli anni Ottanta include tutti i clichés dei documentari rock: abuso di droghe, relazione tese, compromessi commerciali e passi falsi artistici”.
Cambiano le formazioni, la band resta a lungo silente, torna periodicamente ad esibirsi, si susseguono compilation, tributi, documentari, una vodka con il loro nome, l’arrivo nella Rock And Roll Hall Of Fame nel 2018.
Scompaiono membri storici come Bob Casale e Alan Myers ma il mito resiste, grazie alla creazione di un immaginario inimitabile e unico e a una delle migliori e più intriganti idee mai concepite all’interno della storia de rock.
“Anche se fin dall’inizio abbiamo sempre detto, con grande consapevolezza, che l’inizio era la fine e che la verità sulla Devolution incarnava questa idea ovvero che la fine arriva sempre inaspettata. La fine precisa non la capisci mai, non puoi prevederla ed è proprio questo lo scherzo perverso della faccenda”. (Jerry Casale)
Etichette:
Cultura 70's
Iscriviti a:
Post (Atom)