L'amico MICHELE SAVINI prosegue la ricerca di elementi interessanti e particolari dell'Irlanda meno conosciuta.
Gli altri racconti sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
ERIN GO BRAGH
Se qualcuno di voi non lo avesse notato (e non serve essere fanatici di musica o social per saperlo), gli Oasis hanno dato il via al loro tour mondiale, uno degli eventi più chiacchierati degli ultimi mesi, che ha riportato i fratelli Gallagher insieme su un palco per la prima volta dopo 16 anni. Cardiff, Manchester, Londra, Edimburgo e Dublino sono le prime tappe di una tournée internazionale che, si dice, potrebbe durare anche per tutto il 2026.
(Oasis sul palco a Dublino con la bandiera Erin Go Bragh)
Durante le prime date del tour Oasis Live '25, i fan più attenti avranno sicuramente notato un dettaglio particolare sul palco.
Oltre allo stemma del Manchester City e alla sagoma in cartone di Pep Guardiola, su uno degli amplificatori della band compariva un altro “vessillo” portafortuna: la bandiera verde con l’arpa dorata, conosciuta come Erin Go Bragh.
“Erin Go Bragh” è un motto irlandese, spesso associato al nazionalismo repubblicano, che significa letteralmente “Irlanda per sempre”. Nato durante la ribellione del 1798, riapparve nei secoli successivi, soprattutto nei periodi di lotta per l’indipendenza dall’occupazione britannica, diventando un simbolo di resistenza e orgoglio nazionale.
Per gli Oasis, rappresenta un modo chiaro di ribadire il proprio legame con quelle radici, un tratto fondamentale per comprendere l’identità del gruppo.
Tutti e cinque i membri originali della band, infatti, hanno origini irlandesi. Perciò, i concerti di Dublino allo stadio di Croke Park, previsti per il 16 e 17 agosto scorsi, assumevano un significato speciale sia per i fan locali sia per la band stessa. Se Manchester è la loro città natale, Dublino e l’Irlanda non sono da meno: le loro esibizioni qui racchiudono sempre un significato particolare, legato alle radici irlandesi dei fratelli Gallagher e al forte legame culturale che li unisce a questa terra.
“Croker”, come viene affettuosamente chiamato Croke Park, è considerato il tempio dei giochi gaelici per antonomasia.
Nel 1920, fu anche teatro di uno dei massacri più tragici della storia irlandese, quando le truppe britanniche irruppero durante una partita di calcio gaelico tra Dublino e Tipperary e spararono sulla folla di circa 15.000 spettatori, uccidendo 14 civili.
Per Noel questa è la quarta performance qui.
L’ultima volta aprì per gli U2 con i suoi High Flying Birds nel 2017.
La prima, invece, risale ai primi anni ’80, quando da adolescente, giocò una partita amichevole con il CLG Oisín, un club di calcio gaelico di Manchester per cui i fratelli Gallagher giocavano da bambini.
(Una foto del giovane Noel Gallagher durante una partita amichevole di calcio gaelico a Croke Park)
Noel e Liam Gallagher, infatti, sono cresciuti in un ambiente profondamente legato alla cultura irlandese.
Fin da giovani hanno frequentato gli Irish Social Club a Manchester, hanno giocato a football gaelico e visitato regolarmente la loro terra d’origine durante l’estate. Questa forte eredità culturale è stata trasmessa loro direttamente dai genitori, Thomas e Peggy, entrambi nati in Irlanda.
Il padre, Thomas Gallagher, proveniva da Duleek, un piccolo paese nella contea di Meath, mentre la madre, Peggy Sweeney, era originaria di Charlestown, nella contea di Mayo. Entrambi emigrarono a Manchester alla fine degli anni ’60, in cerca di migliori opportunità di lavoro e una vita più stabile.
E sebbene il turbolento rapporto con il padre, segnato anche da episodi di violenza fisica, avrebbe potuto allontanarli dalle loro radici irlandesi, è stato invece il forte legame con la madre a mantenerli profondamente legati alle proprie origini gaeliche.
Peggy, che si dice possa essere proprio qui stasera a Croke Park per assistere a uno degli show del Live 25, rappresenta il cuore pulsante della famiglia. Se tutta la combriccola dei Gallagher infatti, composta da figli, parenti e amici, ha seguito praticamente tutti i concerti di questo tour, sembra che Peggy abbia deciso di muoversi soltanto per la data di Dublino, dove potrà godersi lo spettacolo insieme a tutta la sua famiglia, in arrivo direttamente dalla contea di Mayo.
A lei, tutti i fan degli Oasis devono molto, non solo perché ha dato alla luce i due fratelli che hanno reso grande la band, ma anche perché si dice sia tra le principali artefici di questa attesissima reunion.
È lei che continuava a ricordargli di non pronunciare la seconda G in Gallagher (cognome di origine irlandese che va pronunciato “Gallaher”, con la G muta) e a ripetergli all’infinito, fin da bambini: «Siete inglesi “solo” perché siete nati qui», ricorda Noel.
Il principale compositore degli Oasis ha anche rivelato in diverse interviste che il verso di Don’t Look Back in Anger, “stand up beside the fireplace, take that look from off your face”, si riferisce proprio a quando sua madre li costringeva a posare accanto al caminetto, in uniforme scolastica, per scattare foto da inviare ai parenti rimasti a Charlestown e Duleek.
Ed è proprio il paesino di Charlestown della contea di Mayo dove risiede la famiglia di Peggy, che ha giocato, se vogliamo, un piccolo ma decisivo ruolo in questo trionfale ritorno degli Oasis.
Nel documentario su Liam Gallagher As It Was, pubblicato nel 2019, come raccontato dal fratello Paul, si scopre che proprio lì, al pub locale JJ Finan, scoccò la scintilla che spinse Liam a rilanciarsi con una carriera solista dopo lo scioglimento dei Beady Eye.
Durante una sessione di bevute al pub, una maratona di 8 ore e 30 pinte di Guinness (sì, TRENTA!!!), qualcuno gli mette in mano una chitarra:
Liam si anima ed esegue per la prima volta Bold, una delle canzoni che finirà poi nel suo primo album solista.
Uno dei presenti tira fuori un telefono, riprende tutto ed il gioco è fatto: il video fa il giro del mondo, scatenando l’isteria dei fan. Liam prende coraggio e intraprende la carriera solista, quella stessa carriera che negli ultimi dieci anni ha avvicinato milioni di nuovi giovanissimi fan alla musica degli Oasis.
Insomma, senza quel video e senza quelle trenta pinte in quel pub di Charlestown, chissà se oggi saremmo qui a parlare di reunion e di concerti a Croke Park.
(Noel, Paul, Liam con la madre Peggy)
Il forte rapporto con la madre e i frammenti di ricordi familiari che emergono dai racconti dei fratelli Gallagher richiamano la massiccia ondata migratoria irlandese tra gli anni ’50 e ’70, quando molte famiglie, spinte dalla crisi economica e dalla scarsità di lavoro, si trasferirono nelle città industriali britanniche come Manchester, Leeds e Liverpool, portando con sé la loro lingua, la loro musica e una forte identità culturale.
Queste tradizioni si preservavano e si tramandavano nonostante le difficoltà di adattamento ad un nuovo contesto sociale, spesso segnato da condizioni di lavoro dure e da un ambiente urbano complesso.
L’Inghilterra degli anni ’70-‘80 era ancora un paese profondamente segnato dal razzismo verso i “Paddies” (termine dispregiativo usato per indicare gli irlandesi) che venivano guardati con sospetto e ostilità, soprattutto durante i periodi più intensi delle durissime campagne dell’IRA. Quegli anni, segnati dall’eco delle bombe che risuonavano in tutta la Gran Bretagna, hanno inevitabilmente influenzato l’ambiente in cui i fratelli Gallagher sono cresciuti.
Noel ricorda un episodio avvenuto durante il viaggio di ritorno a Manchester, dopo una delle tante vacanze estive passate a trovare sua nonna nella contea di Mayo, quando l’auto di famiglia fu perquisita dai soldati britannici.
«Quando sei con i tuoi genitori, ti senti al sicuro, ma quando tirano fuori tuo zio Paddy dall’auto, vieni mandato in una stanza da solo e i militari arrivano con i cani e controllano la macchina con gli specchi sotto il telaio …??? All’epoca non capivo davvero cosa stessero cercando…Ero abbastanza grande da sentirne parlare al telegiornale, ma ancora troppo piccolo per comprenderlo fino in fondo».
(Da sinistra a destra: Noel, Liam e Paul durante una delle vacanze estive nella contea di Mayo).
Il paese era un crocevia di culture e spesso teatro di conflitti legati a identità etniche e sociali; in questo contesto, la comunità irlandese trovava rifugio e sostegno negli Irish Social Clubs, luoghi di aggregazione fondamentali per preservare le proprie tradizioni. Nati per iniziativa di emigrati irlandesi e spesso legati ad associazioni parrocchiali o comitati locali, gli Irish Social Club erano molto più di semplici pub: rappresentavano veri e propri centri comunitari per la diaspora irlandese, soprattutto per chi era emigrato in cerca di lavoro durante i grandi flussi migratori dagli anni ’50 in poi. All’interno si esibivano gruppi e DJ di musica country e folk irlandese, creando un vero e proprio microcosmo d’Irlanda, un angolo di patria lontano da casa.
Nonostante i rapporti difficili con il padre, l’esperienza negli Irish Social Club di Manchester, dove Thomas Gallagher faceva il DJ, ha influenzato profondamente Noel.
Lui e suo fratello Paul accompagnavano spesso il padre, aiutandolo a portare i dischi e a preparare le serate.
In quei lunghissimi pomeriggi ascoltavano brani di The Chieftains, The Dubliners e Daniel O'Donnell, ma anche le coinvolgenti Irish rebel songs che animavano quei luoghi, contribuendo a creare quell’energia esplosiva e quel senso di ribellione che caratterizzeranno la musica degli Oasis.
Quelle canzoni, cantate in coro come epici inni, racchiudevano lo stesso spirito corale e trascinante dei brani più famosi della band: un’energia collettiva che si alimenta proprio nel momento in cui le si canta insieme.
La musica degli Oasis, infatti, è permeata da un atteggiamento di sfida e autoaffermazione che richiama da vicino le lotte per l’indipendenza irlandese, dove la ribellione contro l’autorità e l’oppressione ha sempre avuto una forte carica emotiva e di protesta.
Lo stesso Noel ha definito Definitely Maybe come «il suono di cinque cattolici irlandesi di seconda generazione che escono da un complesso popolare. C’è una natura ribelle in Definitely Maybe, un atteggiamento di sfida, ed è la stessa ribellione e sfida che caratterizzano l’animo irlandese».
Ma se da un lato esiste questo forte senso di appartenenza alla propria identità irlandese, è forse proprio il desiderio di fuggire dall’ambiente legato al rapporto tormentato con il padre che ha spinto Noel a cercare una via di fuga nella musica. Non voleva restare intrappolato in quell’ambiente, in qualche modo imposto dalla figura paterna, né farsi soffocare dalla nostalgia irlandese che caratterizzava la comunità degli immigrati a Manchester.
C’era il punk là fuori, un’esplosione di energia e ribellione che stava scuotendo il paese, e Noel non aveva alcuna intenzione di passare tutta la vita a cantare vecchie canzoni tradizionali, strafatto di Guinness (e non certo per la Guinness).
Voleva essere libero di fare e cantare quello che voleva, come avrebbe scritto anni dopo nei versi di Whatever: "I'm free to be whatever I, Whatever I choose, and I'll sing the blues if I want."
Non si tratta di un rifiuto delle proprie origini, ma semplicemente di una realtà complessa e sfaccettata. Noel Gallagher non può definirsi né completamente irlandese né del tutto inglese: è il prodotto d’immigrati irlandesi di seconda generazione, sospeso a cavallo tra due mondi.
Nato a Manchester da genitori originari dell’Irlanda, la sua eredità è un mosaico di culture e identità. Le radici dei suoi genitori affondano nel duro suolo irlandese, ma l’anima di Noel è stata plasmata dal ronzio industriale dell’Inghilterra settentrionale e dall’atmosfera vibrante della sua scena musicale.
(una foto del recente show degli Oasis a Croke Park, sabato 16.08.25)
Questo “melting pot” culturale, nato dalla crescente presenza delle comunità irlandesi nelle città del nord d’Inghilterra, ha profondamente influenzato e rimodellato il panorama del rock britannico dagli anni ’50 in poi. Se diamo un’occhiata nel dettaglio alle origini di alcuni dei più grandi gruppi pop della storia del Regno Unito, scopriremo una fortissima influenza irlandese, proveniente da migranti di seconda, terza e quarta generazione.
Molti di questi artisti divennero inevitabilmente i modelli musicali del giovane Noel.
John Lennon e tutti e quattro i Beatles avevano radici irlandese.
I loro avi, erano tutti fuggiti dalla verde Irlanda durante gli anni della Grande Carestia che colpi l’isola tra il 1845 al 1852.
Così come i genitori di John Lydon dei Sex Pistols, immigrati irlandesi a Londra, con la madre originaria di Cork e il padre di Tuam, nella contea di Galway.
I principali compositori degli Smiths, altra band amatissima dal giovane Noel, hanno anch’essi fortissime ascendenze irlandesi, di cui si può trovare traccia anche in alcune delle loro canzoni. Morrissey, autore di “Irish Blood, English Heart” e “This is not your country” ha entrambi i genitori provenienti dal quartiere di Crumlin, a Dublino (lo stesso che ha dato i natali a Phil Linotts dei Thin Lizzy) e ha vissuto parecchi anni nella capitale irlandese.
Stesso discorso per Johnny Marr, le cui radici affondano ad Athy, nella contea di Kildare: i suoi genitori emigrarono negli anni ’60 e continuarono a cantargli canzoni tradizionali irlandesi per tutta la sua infanzia. Come molti dei fan più attenti degli Smiths sapranno, uno dei pezzi più celebrati della band, Please, Please, Please, Let Me Get What I Want, si chiamava originariamente “The Irish Waltz”, perché fu proprio il senso di nostalgia e malinconia tipico delle ballate dei migranti irlandesi lontani da casa a ispirarne la melodia.
George Byrne, noto giornalista e critico musicale della rivista Hot Press, una volta, durante un’intervista a metà degli anni ’90, con il sorriso sulle labbra, definì gli Oasis “la migliore band irlandese dai tempi degli Smiths” e, chissà, forse non si sbagliava di molto.”
Ed è proprio Noel a spiegare meglio di chiunque altro come il legame profondo con l’Irlanda sia il segreto dietro il successo degli Oasis:
“C’è della rabbia nella musica degli Oasis, lascia che te lo spieghi.
Se dico alla gente che c’è rabbia nella musica, potrebbe pensare a urla e grida, ma esiste anche un tipo di rabbia “gioiosa”.
Quando gli irlandesi sono tristi, sono le persone più tristi al mondo; quando sono felici, sono le persone più felici al mondo. Quando bevono, sono le persone più ubriache al mondo. C’è una regola per gli irlandesi e una regola diversa per tutti gli altri.
Siamo irlandesi, io e Liam.
Non c’è sangue inglese in noi, e chi lo sa capisce che c’è il bere normale e poi c’è il bere irlandese.
Il bere irlandese può essere infinito.
Gli Oasis non avrebbero mai potuto esistere, essere così grandi, così importanti, così imperfetti, così amati e odiati, se non fossimo stati tutti prevalentemente irlandesi.»
Noel Gallagher
Visualizzazione post con etichetta The Auld Triangle: narrazioni dalla Repubblica d'Irlanda. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta The Auld Triangle: narrazioni dalla Repubblica d'Irlanda. Mostra tutti i post
giovedì, agosto 21, 2025
martedì, agosto 12, 2025
Slane Castle
L'amico MICHELE SAVINI prosegue la ricerca di elementi interessanti e particolari dell'Irlanda meno conosciuta.
Gli altri racconti sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
Oggi viaggiamo fino alla suggestiva County Meath, cuore pulsante della campagna irlandese, per scoprire uno dei luoghi più iconici e leggendari della musica dal vivo in Irlanda: Slane Castle. Situato nel villaggio di Slane, a poco più di un’ora da Dublino, ed elegantemente arroccato sulla cima di una collina sopra il fiume Boyne, questo castello (in gaelico Caisleán Bhaile Shláine) fu costruito alla fine del XVIII secolo dalla famiglia anglo-irlandese dei Conyngham, insediatasi in Irlanda poco più di un secolo prima.
La recente scomparsa di Lord Henry Conyngham, l’uomo che ha trasformato questa storica tenuta in un vero santuario della musica, offre l’occasione per celebrare la sua straordinaria visione e riflettere sull’eredità che ha lasciato.
Dopo una lunga battaglia contro un tumore polmonare, Lord Henry si è spento all’età di 74 anni, lasciando un’impronta indelebile nel panorama culturale e musicale irlandese. Principalmente conosciuto con il nome di Lord Mount Charles, assunse la gestione della tenuta di Slane nel 1976, a soli 25 anni, dopo essere tornato da Londra, dove lavorava per la casa editrice Faber & Faber.
In quel periodo ricevette una telefonata dal padre, Frederick, che gli comunicò che, a causa delle pesanti imposte fiscali, sarebbe stato costretto a lasciare Slane e vendere tutto, a meno che non fosse tornato per occuparsene. Decise così di rientrare in patria per salvare il patrimonio di famiglia, cercando nuovi modi per rendere la tenuta sostenibile.
Henry trasformò le stalle e gli annessi della tenuta in un ristorante e in un nightclub, prima di rivolgere la sua attenzione al grande campo adiacente al castello.
Notò infatti il dolce declivio del pendio verso il fiume Boyne e si rese conto che formava un vero e proprio anfiteatro naturale ideale per spettacoli all’aperto.
L’inclinazione del terreno permetteva non solo di creare posti a sedere senza bisogno di opere di sterro, ma anche di offrire una bellezza paesaggistica unica e un’acustica sorprendentemente efficace.
L’erba e la pendenza dolce assorbono e riflettono il suono in modo simile agli antichi anfiteatri di pietra, riducendo l’eco e garantendo una proiezione chiara fino alle ultime file
. Quando si rese conto che il luogo poteva ospitare circa 80.000 persone, il resto venne da sé.
(Philip Lynott dei Thin Lizzy sul palco di Slane nel 1981)
Il debutto fu il 16 agosto 1981, con la band dei Thin Lizzy come headliner e dei giovanissimi U2 come band di supporto.
L’esordio di Slane Castle come sede di concerti avvenne in un periodo turbolento, durante gli scioperi della fame nel pieno dei Troubles, quando le tenute anglo-irlandesi erano spesso nel mirino, e organizzare concerti rock in Irlanda implicava rischi non indifferenti.
Nel pieno dello sciopero della fame del 1981, Lord Henry ricevette minacce personali affinché annullasse l’evento, ma non fece marcia indietro, dichiarando con determinazione: «Costi quel che costi, lo spettacolo si farà».
Nonostante tutto, il concerto fu un successo.
Circa 18.000 persone parteciparono all’evento, contribuendo in modo decisivo al successo dell’iniziativa e alla salvaguardia del castello grazie ai proventi raccolti.
La definitiva consacrazione arrivò l’anno seguente, il 24 luglio 1982, quando i Rolling Stones trascinarono 70.000 persone nella Boyne Valley per la loro esibizione, trasformando Slane Castle in una tappa imprescindibile dei grandi tour internazionali.
Sul palco salirono infatti Bob Dylan (1984), Bruce Springsteen (che si dice abbia portato circa 100.000 spettatori nel 1985), Queen (1986) e David Bowie (1987), prima di fermarsi per qualche anno a causa di un incendio scoppiato nel 1991 che danneggiò gran parte della tenuta.
(Una folla di 70.000 persone al concerto dei Rolling Stones a Slane, luglio 1982)
Dopo un’assenza di cinque anni, la più lunga dall’inizio dell’evento nel 1981, Slane tornò nel 1992.
I cinque concerti degli anni ’90 ebbero come headliner Guns N’ Roses, Neil Young, R.E.M. (con gli Oasis come band di supporto), The Verve e Robbie Williams.
Negli anni 2000 Slane Castle consolidò la sua fama internazionale grazie a performance memorabili di grandi artisti, come i Red Hot Chili Peppers, che nel 2003 registrarono il celebre concerto poi pubblicato nell’edizione video Live at Slane Castle, e gli U2, tornati nel 2001 con un’esibizione iconica immortalata nel live U2 Go Home – Live from Slane Castle.
Proprio la band di Bono e The Edge è tra le più legate a Slane Castle: oltre alle esibizioni dal vivo, nel maggio del 1984 gli U2 vi si stabilirono per alcune settimane per registrare l’album The Unforgettable Fire. Per l’occasione, il salotto del castello fu trasformato in studio di registrazione e la sala da ballo venne utilizzata per girare alcune scene del videoclip di Pride. (Bono durante l’esibizione degli U2 a Slane nel 2001)
Numerosi sono gli aneddoti leggendari che si raccontano sulle iconiche performance nella valle del Boyne.
Nel 1992, si dice che Axl Rose fosse ubriaco in un pub di Dublino e irrintracciabile, a pochi minuti dall’inizio del concerto, tanto che Lord Henry dovette organizzare un elicottero speciale per portarlo a Slane Castle, mentre Slash e gli altri membri della band si rilassavano pescando nel fiume dietro il palco.
David Bowie, nella sua unica esibizione a Slane nel 1987, arrivò sul palco con la disarmante tranquillità che lo caratterizzava.
Lo stesso Lord Henry raccontò in un’intervista a Hot Press
“Quando Bowie è salito sul palco a Slane, è stato come se tutto si fosse fermato per un attimo. Aveva quella presenza magnetica che ti cattura subito. Ricordo che eravamo nel backstage, seduti vicino al fiume Boyne chiacchierando, quando lui ha guardato l’orologio e mi ha detto: “Oh Henry, penso sia ora che io salga sul palco.” Si è alzato, ha attraversato con calma il ponticello sul fiume e con nonchalance è salito sul palco. Ho pensato solo: “È incredibile riuscire a essere così tranquilli e sicuri di sé.” Ma, d’altra parte, lui era un personaggio straordinario.»
(David Bowie, Slane Castle 1987)
Per chi fosse interessato, tutte le line-up complete dei concerti tenutisi a Slane Castle dal 1981 al 2019, inclusi gli eventuali gruppi di supporto, sono disponibili sul sito ufficiale del castello:
https://www.slanecastle.ie/concerts/1981-2019/
Oltre alla musica, Slane Castle ha ampliato la sua offerta culturale e imprenditoriale: nel 2015 la famiglia Conyngham ha aperto all’interno della tenuta la distilleria di whisky irlandese “Slane Irish Whiskey”, contribuendo a valorizzare la storia e il patrimonio della tenuta.
Con la scomparsa di Lord Henry, il futuro di Slane Castle, uno dei luoghi più emblematici della musica dal vivo irlandese, passa nelle mani del figlio Alex Conyngham, deciso a proseguire l’eredità del padre. Il nuovo padrone di casa ha confermato di essere al lavoro su un evento di grande portata per il 2026 e in contatto con diversi promoter e artisti, con l’obiettivo di far tornare la storica location all’aperto della contea di Meath al centro della scena rock internazionale.
La mia esperienza personale a Slane risale al 20 giugno 2009, quando sul leggendario palco della County Meath si esibirono gli Oasis, con l’album Dig Out Your Soul ancora fresco di stampa. Ad accompagnarli c’erano Prodigy e Kasabian.
(Il sottoscritto e il mio amico Emanuele a Slane 2009)
Quel giorno eravamo 90.000, come riportarono i giornali nei giorni successivi.
Ho ricordi frammentati dell’evento, momenti unici e irripetibili che custodisco gelosamente.
Ricordo il viaggio d’andata su autobus gremiti di fan (ognuno dei quali sembrava una copia di Liam Gallagher), la dolce camminata all’interno della tenuta, una buona mezz’ora di saliscendi tra le colline della Boyne Valley, prima che si aprisse davanti a noi lo spettacolo dell’anfiteatro naturale affacciato sul fiume.
La potenza travolgente dei Kasabian.
Gli occhi fuori dalle orbite di Keith Flint davanti a una folla ruggente.
Una giornata di sole fantastica e tutt’altro che scontata.
Le note di Fucking in the Bushes che annunciano l’ingresso degli Oasis, l’esplosione del pubblico, un concerto che diventa una maratona.
Le distorsioni ipnotiche di I Am The Walrus a chiudere il tutto con la folla completamente in estasi e la lunga attesa durata fino alle 6 del mattino in cerca del primo autobus per tornare a Dublino.
Quello che ignoravamo era che quella sarebbe stata l’ultima volta che avremmo visto gli Oasis dal vivo.
Solo 69 giorni dopo infatti, il 28 agosto 2009, Noel avrebbe ufficialmente annunciato la fine della band.
(La folla di Slane Castle durante il concerto degli Oasis, 20 Giugno 2009)
Lo stesso Noel Gallagher, in un’intervista alla rivista Hot Press, ha descritto così l’esperienza di suonare a Slane:
«L’adrenalina che ti dà quando esci su quel palco è incredibile. Hai davanti un anfiteatro di persone che impazziscono, un fiume alle tue spalle e una residenza signorile in stile Downton Abbey sulla cima della collina. Come fai a non dare il massimo quando ti trovi davanti a tutto questo?»
Gli altri racconti sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
Oggi viaggiamo fino alla suggestiva County Meath, cuore pulsante della campagna irlandese, per scoprire uno dei luoghi più iconici e leggendari della musica dal vivo in Irlanda: Slane Castle. Situato nel villaggio di Slane, a poco più di un’ora da Dublino, ed elegantemente arroccato sulla cima di una collina sopra il fiume Boyne, questo castello (in gaelico Caisleán Bhaile Shláine) fu costruito alla fine del XVIII secolo dalla famiglia anglo-irlandese dei Conyngham, insediatasi in Irlanda poco più di un secolo prima.
La recente scomparsa di Lord Henry Conyngham, l’uomo che ha trasformato questa storica tenuta in un vero santuario della musica, offre l’occasione per celebrare la sua straordinaria visione e riflettere sull’eredità che ha lasciato.
Dopo una lunga battaglia contro un tumore polmonare, Lord Henry si è spento all’età di 74 anni, lasciando un’impronta indelebile nel panorama culturale e musicale irlandese. Principalmente conosciuto con il nome di Lord Mount Charles, assunse la gestione della tenuta di Slane nel 1976, a soli 25 anni, dopo essere tornato da Londra, dove lavorava per la casa editrice Faber & Faber.
In quel periodo ricevette una telefonata dal padre, Frederick, che gli comunicò che, a causa delle pesanti imposte fiscali, sarebbe stato costretto a lasciare Slane e vendere tutto, a meno che non fosse tornato per occuparsene. Decise così di rientrare in patria per salvare il patrimonio di famiglia, cercando nuovi modi per rendere la tenuta sostenibile.
Henry trasformò le stalle e gli annessi della tenuta in un ristorante e in un nightclub, prima di rivolgere la sua attenzione al grande campo adiacente al castello.
Notò infatti il dolce declivio del pendio verso il fiume Boyne e si rese conto che formava un vero e proprio anfiteatro naturale ideale per spettacoli all’aperto.
L’inclinazione del terreno permetteva non solo di creare posti a sedere senza bisogno di opere di sterro, ma anche di offrire una bellezza paesaggistica unica e un’acustica sorprendentemente efficace.
L’erba e la pendenza dolce assorbono e riflettono il suono in modo simile agli antichi anfiteatri di pietra, riducendo l’eco e garantendo una proiezione chiara fino alle ultime file
. Quando si rese conto che il luogo poteva ospitare circa 80.000 persone, il resto venne da sé.
(Philip Lynott dei Thin Lizzy sul palco di Slane nel 1981)
Il debutto fu il 16 agosto 1981, con la band dei Thin Lizzy come headliner e dei giovanissimi U2 come band di supporto.
L’esordio di Slane Castle come sede di concerti avvenne in un periodo turbolento, durante gli scioperi della fame nel pieno dei Troubles, quando le tenute anglo-irlandesi erano spesso nel mirino, e organizzare concerti rock in Irlanda implicava rischi non indifferenti.
Nel pieno dello sciopero della fame del 1981, Lord Henry ricevette minacce personali affinché annullasse l’evento, ma non fece marcia indietro, dichiarando con determinazione: «Costi quel che costi, lo spettacolo si farà».
Nonostante tutto, il concerto fu un successo.
Circa 18.000 persone parteciparono all’evento, contribuendo in modo decisivo al successo dell’iniziativa e alla salvaguardia del castello grazie ai proventi raccolti.
La definitiva consacrazione arrivò l’anno seguente, il 24 luglio 1982, quando i Rolling Stones trascinarono 70.000 persone nella Boyne Valley per la loro esibizione, trasformando Slane Castle in una tappa imprescindibile dei grandi tour internazionali.
Sul palco salirono infatti Bob Dylan (1984), Bruce Springsteen (che si dice abbia portato circa 100.000 spettatori nel 1985), Queen (1986) e David Bowie (1987), prima di fermarsi per qualche anno a causa di un incendio scoppiato nel 1991 che danneggiò gran parte della tenuta.
(Una folla di 70.000 persone al concerto dei Rolling Stones a Slane, luglio 1982)
Dopo un’assenza di cinque anni, la più lunga dall’inizio dell’evento nel 1981, Slane tornò nel 1992.
I cinque concerti degli anni ’90 ebbero come headliner Guns N’ Roses, Neil Young, R.E.M. (con gli Oasis come band di supporto), The Verve e Robbie Williams.
Negli anni 2000 Slane Castle consolidò la sua fama internazionale grazie a performance memorabili di grandi artisti, come i Red Hot Chili Peppers, che nel 2003 registrarono il celebre concerto poi pubblicato nell’edizione video Live at Slane Castle, e gli U2, tornati nel 2001 con un’esibizione iconica immortalata nel live U2 Go Home – Live from Slane Castle.
Proprio la band di Bono e The Edge è tra le più legate a Slane Castle: oltre alle esibizioni dal vivo, nel maggio del 1984 gli U2 vi si stabilirono per alcune settimane per registrare l’album The Unforgettable Fire. Per l’occasione, il salotto del castello fu trasformato in studio di registrazione e la sala da ballo venne utilizzata per girare alcune scene del videoclip di Pride. (Bono durante l’esibizione degli U2 a Slane nel 2001)
Numerosi sono gli aneddoti leggendari che si raccontano sulle iconiche performance nella valle del Boyne.
Nel 1992, si dice che Axl Rose fosse ubriaco in un pub di Dublino e irrintracciabile, a pochi minuti dall’inizio del concerto, tanto che Lord Henry dovette organizzare un elicottero speciale per portarlo a Slane Castle, mentre Slash e gli altri membri della band si rilassavano pescando nel fiume dietro il palco.
David Bowie, nella sua unica esibizione a Slane nel 1987, arrivò sul palco con la disarmante tranquillità che lo caratterizzava.
Lo stesso Lord Henry raccontò in un’intervista a Hot Press
“Quando Bowie è salito sul palco a Slane, è stato come se tutto si fosse fermato per un attimo. Aveva quella presenza magnetica che ti cattura subito. Ricordo che eravamo nel backstage, seduti vicino al fiume Boyne chiacchierando, quando lui ha guardato l’orologio e mi ha detto: “Oh Henry, penso sia ora che io salga sul palco.” Si è alzato, ha attraversato con calma il ponticello sul fiume e con nonchalance è salito sul palco. Ho pensato solo: “È incredibile riuscire a essere così tranquilli e sicuri di sé.” Ma, d’altra parte, lui era un personaggio straordinario.»
(David Bowie, Slane Castle 1987)
Per chi fosse interessato, tutte le line-up complete dei concerti tenutisi a Slane Castle dal 1981 al 2019, inclusi gli eventuali gruppi di supporto, sono disponibili sul sito ufficiale del castello:
https://www.slanecastle.ie/concerts/1981-2019/
Oltre alla musica, Slane Castle ha ampliato la sua offerta culturale e imprenditoriale: nel 2015 la famiglia Conyngham ha aperto all’interno della tenuta la distilleria di whisky irlandese “Slane Irish Whiskey”, contribuendo a valorizzare la storia e il patrimonio della tenuta.
Con la scomparsa di Lord Henry, il futuro di Slane Castle, uno dei luoghi più emblematici della musica dal vivo irlandese, passa nelle mani del figlio Alex Conyngham, deciso a proseguire l’eredità del padre. Il nuovo padrone di casa ha confermato di essere al lavoro su un evento di grande portata per il 2026 e in contatto con diversi promoter e artisti, con l’obiettivo di far tornare la storica location all’aperto della contea di Meath al centro della scena rock internazionale.
La mia esperienza personale a Slane risale al 20 giugno 2009, quando sul leggendario palco della County Meath si esibirono gli Oasis, con l’album Dig Out Your Soul ancora fresco di stampa. Ad accompagnarli c’erano Prodigy e Kasabian.
(Il sottoscritto e il mio amico Emanuele a Slane 2009)
Quel giorno eravamo 90.000, come riportarono i giornali nei giorni successivi.
Ho ricordi frammentati dell’evento, momenti unici e irripetibili che custodisco gelosamente.
Ricordo il viaggio d’andata su autobus gremiti di fan (ognuno dei quali sembrava una copia di Liam Gallagher), la dolce camminata all’interno della tenuta, una buona mezz’ora di saliscendi tra le colline della Boyne Valley, prima che si aprisse davanti a noi lo spettacolo dell’anfiteatro naturale affacciato sul fiume.
La potenza travolgente dei Kasabian.
Gli occhi fuori dalle orbite di Keith Flint davanti a una folla ruggente.
Una giornata di sole fantastica e tutt’altro che scontata.
Le note di Fucking in the Bushes che annunciano l’ingresso degli Oasis, l’esplosione del pubblico, un concerto che diventa una maratona.
Le distorsioni ipnotiche di I Am The Walrus a chiudere il tutto con la folla completamente in estasi e la lunga attesa durata fino alle 6 del mattino in cerca del primo autobus per tornare a Dublino.
Quello che ignoravamo era che quella sarebbe stata l’ultima volta che avremmo visto gli Oasis dal vivo.
Solo 69 giorni dopo infatti, il 28 agosto 2009, Noel avrebbe ufficialmente annunciato la fine della band.
(La folla di Slane Castle durante il concerto degli Oasis, 20 Giugno 2009)
Lo stesso Noel Gallagher, in un’intervista alla rivista Hot Press, ha descritto così l’esperienza di suonare a Slane:
«L’adrenalina che ti dà quando esci su quel palco è incredibile. Hai davanti un anfiteatro di persone che impazziscono, un fiume alle tue spalle e una residenza signorile in stile Downton Abbey sulla cima della collina. Come fai a non dare il massimo quando ti trovi davanti a tutto questo?»
venerdì, luglio 11, 2025
Kneecapp. More Blacks, More Dogs, More Irish, Mo Chara
Con l'amico MICHELE SAVINI, il nostro inviato i nquel di Dublino, stiamo seguendo le funamboliche vicende dei KNEECAPP, costantemente al centro delle cronache con vicende musicali e socio/ politiche. Si aggiungono nuovi capitoli che Michele ci rendiconta in dettaglio nella sua rubrica.
I precedenti capitoli su varie storie irlandesi" sono qua:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
Un furgoncino con montato un maxischermo staziona davanti alla Corte di Westminster, nel cuore di Londra. Sullo schermo, a caratteri cubitali, campeggia il motto: “More Blacks, More Dogs, More Irish, Mo Chara”.
È il 18 giugno e sta per aprirsi il primo capitolo del processo ai Kneecap, il trio rap nordirlandese finito sotto accusa per incitamento alla violenza e al terrorismo. Quella frase, provocatoria e potente, richiama e ribalta uno degli slogan più infami del razzismo britannico del dopoguerra: “No Blacks, No Dogs, No Irish”, che un tempo appariva sulle vetrine di negozi e pub nel Regno Unito.
Simbolo di esclusione e discriminazione, quel cartello è diventato col tempo un’icona della memoria razziale e dell’oppressione subita da intere comunità migranti, in particolare quella caraibica e quella irlandese.
Nel 2016, nel sud di Londra, una giovane coppia (lei di origini giamaicane, lui irlandese) decide di ribaltare quel messaggio discriminatorio. Stampano una maglietta con la scritta “More Blacks, More Dogs, More Irish”, rivendicando con orgoglio l’unione tra oppressi. Il rifiuto diventa così una risposta ironica e provocatoria, con l’obiettivo di capovolgere il pregiudizio storico e trasformare un divieto in un invito: più neri, più cani, più irlandesi...
Il “Mo Chara” aggiunto dai Kneecap in Gaelico significa “amico mio” ed è anche il nome d’arte di Liam Óg Ó Annaidh, membro del trio accusato di incitamento alla violenza e terrorismo a causa di un video risalente ad un concerto del novembre del 2023, in cui veniva filmato mentre incitava alla morte di parlamentari britannici e raccoglieva una bandiera di Hezbollah lanciata su palco, e gridava “Up Hamas, Up Hezbollah”.
Qui di seguito la puntata precedente con tutti i dettagli di quello che era successo:
https://tonyface.blogspot.com/2025/05/kneecapp-il-peso-delle-parole.html
Centinaia di sostenitori, fan e attivisti pro Palestina si sono radunati fin dalle prime ore del mattino davanti al tribunale di Londra per sostenere i Kneecap.
Un’ondata di bandiere irlandesi e palestinesi ha colorato la scena, mentre risuonavano con forza gli slogan “Free Mo Chara” e “Free Palestine”.
Balli, tamburi, fumogeni e performance improvvisate di numerosi artisti accorsi sul posto hanno trasformato la protesta in una vibrante dimostrazione di solidarietà e resistenza.
Tra la folla, tante facce familiari, incluso questo “ragazzo”, presente con sua figlia Leah, che ancora una volta non ha esitato a mostrare con orgoglio da che parte sta. L’arrivo dei Kneecap in tribunale ha lo stesso tono delle loro performance dal vivo: sfacciato, teatrale, carico di sicurezza e provocazione.
Kefiah palestinese sulle spalle, sorriso stampato in faccia e una spavalderia degna del miglior Liam Gallagher.
Il boato della folla presente dimostra ancora una volta l’enorme interesse mediatico che il trio riesce sempre a suscitare. Quasi da far pensare che davanti a Westminster fossero arrivati i Rolling Stones invece che due ventenni in tracksuit e un tipo con un passamontagna in testa.
Dentro e fuori in poco più di 30 minuti. Quello che sia successo veramente all’interno del tribunale è ovviamente noto solo a pochi presenti, ma le indiscrezioni che circolano sembrano ancora una volta spingere l’ago della bilancia dalla parte dei Kneecap, e non solo dal punto di vista giudiziario.
È importante evidenziare che la battaglia legale ruota intorno a competenze giuridiche e punti di diritto, più che al fondamento politico dell’accusa.
Sebbene il pubblico ministero Michael Bisgrove abbia chiarito che il processo non verte sulle opinioni politiche del rapper, legittime espressioni di solidarietà verso i palestinesi, ma insiste sul gesto legato all’organizzazione terrorista, la difesa si è dimostrata preparata e con un sorprendente asso nella manica.
Il team di avvocati dei Kneecap è stato più volte definito un vero e proprio “Dream Team” (sembra che uno dei componenti sia uno degli avvocati di Julian Assange), prova che, nonostante le date annullate, le vendite del merchandising vanno piuttosto bene.
La difesa, sotto la guida di Brenda Campbell, ha presentato una mozione per chiedere l’archiviazione del procedimento, sostenendo che i fatti contestati siano avvenuti oltre il termine di sei mesi previsto dalla legge per l’avvio delle indagini. L’accusa, da parte sua, si oppone alla richiesta e un’udienza è stata fissata per il 20 agosto per discutere la questione.
Nel frattempo, Mo Chara è stato “rilasciato su cauzione” e se la mozione verrà respinta dovrà scegliere se dichiararsi colpevole o, come già sostenuto precedentemente, dichiararsi innocente e intraprendere la battaglia giudiziaria.
Ed è proprio a questo punto che inizia il vero “spettacolo”.
Come se non fosse già abbastanza esilarante pensare che, dopo la sonora batosta presa nei loro stessi tribunali lo scorso novembre quando la band ha vinto la causa sui fondi non stanziati, il Governo Britannico rischi ora un altro scivolone epico con la questione della prescrizione, ecco che i Kneecap tornano a mettere in scena il loro solito show, una provocazione studiata per ridicolizzare l’accusatore e ribaltare le carte in tavola.
Mo Chara infatti, dopo aver confermato il suo nome, ha fatto sapere tramite il suo team di avvocati di aver bisogno di un interprete di irlandese per il processo.
Sorprendentemente, il magistrato ha dichiarato di non essere riuscito a trovarne uno disponibile e, tra le risate generali, ha chiesto se per caso ce ne fosse uno presente in sala.
Le risate sono esplose in un boato quando dal finale dell’aula è arrivata la proposta – evidentemente ironica – di usare DJ Próvai come traduttore, mentre i membri della band se la ridevano sotto i baffi.
Dico sorprendentemente per quelli che non hanno visto il film dei Kneecap e non sanno che (spoiler) quello che è successo in tribunale è la falsa riga del chiacchieratissimo biopic della band, dove appunto il personaggio interpretato da Mo Chara si rifiuta di rispondere ad un interrogatorio in inglese e il traduttore (DJ Provaj) corre in suo aiuto traducendo un po’ quello che gli pare e lo toglie dai guai.
Insomma, una mossa prevedibile come la pioggia in Irlanda, con Westminster che si lascia sorprendere, cadendo dritto nella trappola dell’ironia, l’arma più affilata e collaudata nell’arsenale dei Kneecap. Bene ma non benissimo.
Il magistrato si è impegnato a trovare un interprete di Gaelico per la seguente udienza.
Seguiranno aggiornamenti dopo il 20 agosto.
Nel frattempo la band ha tenuto la chiacchieratissima performance a Glastonbury, che fino all’ultimo è sembrata sul punto di essere annullata ma che alla fine è andata regolarmente in scena.
O più o meno. Anche qui infatti la tempistica nel complicare le cose a proprio sfavore da parte della BBC risulta a tratti esilarante.
Al processo dei Kneecap infatti è seguito un serratissimo tentativo da parte dell’establishment per tentare di cancellare la loro esibizione al famoso festival nella Worthy Farm, con il primo ministro inglese Keir Starmer e una serie di grossi nomi (non ben identificabili) del music business del Regno unito che avevano fatto di tutto perché questo non avvenisse, esercitando forti pressioni sull’organizzazione del festival. Questo ha ovviamente portato ulteriore attenzione mediatica intorno alla performance, prevista al West Holts stage alle 16:00 di sabato pomeriggio, che oltretutto era trasmessa in diretta sul Iplayer della BBC e quindi visibile in tutto il regno unito. Alle 16:00 in punto, proprio qualche minuto prima che i Kneecap salissero sul palco.
La BBC ha interrotto il live streaming senza dare troppe spiegazioni e annunciando che una registrazione della performance sarebbe stata poi disponibile in serata (come prevedibile, prontamente editata e censurata in più parti con cura istituzionale).
Quello che forse non avevano calcolato era che prima dei Kneecap, sullo stesso palco si esibiva Bob Vylan, un altro che non le manda certo a dire. Perciò tutti coloro che erano già collegati in attesa della performance della band irlandese, hanno assistito al finale di quella del duo punk rap inglese, farcita di slogan pro Palestina e pesanti insulti contro l’IDF, le Forze di Difesa Israeliane. Quando i Kneecap fanno il loro ingresso sul palco, l’atmosfera al West Holts Stage è elettrica.
La folla è talmente numerosa che, già mezz’ora prima dell’inizio, l’organizzazione si vede costretta a chiudere l’accesso all’arena per superamento della capienza. La loro esibizione è, come sempre, travolgente e coinvolge tutti i circa 30.000 spettatori presenti, con il palco a malapena visibile tra una marea di bandiere, per lo più palestinesi e irlandesi. Il trio ha proposto un set rumoroso, caotico, altamente teatrale, distribuendo frecciatine un po’ a tutti: dal primo ministro inglese Keir Starmer fino a Rod Stewart, che la settimana precedente aveva dichiarato ai media britannici che il Regno Unito dovrebbe “dare una possibilità a Nigel Farage". Un’energia che ti arriva dritta in faccia, senza filtri né scuse, senza chiedere il permesso e senza nemmeno fingere un briciolo di sobrietà, cosa che, del resto, nessuno ormai si aspetta più dal polemico trio di Belfast.
Eroina dalla giornata e ulteriore grattacapo per la BBC, la quarantaquattrenne gallese Helen Wilson presente tra la folla ,che ha deciso di trasmettere via Tik Tok la diretta streaming dell’ intera esibizione dei Kneecap, regalando a migliaia di spettatori da casa ( circa un milione e mezzo) un’ ora di performance selvaggia, hackerando la censura con stile e guadagnandosi i ringraziamenti diretti della band.
Ah, dimenticavo…
Mentre l’establishment cerca di capire se i Kneecap siano più pericolosi con un microfono in mano o dentro un’aula di tribunale, loro fanno quello che sanno fare meglio: macinare beat e provocazioni. L’ultimo colpo? Una nuova canzone, RECAP, frutto della produzione con il produttore britannico Mozey.
La traccia è una furiosa esplosione sonora, con un drum & bass pesante e frenetico unito a elementi di post punk e a un testo potentissimo che, alternando come sempre versi in gaelico e in inglese, “dissano” neanche troppo velatamente Kemi Badenoch, la politica conservatrice che lo scorso anno aveva tentato di bloccare i fondi destinati alla band (poi smentita dal tribunale) definendola una “Wally” (stupida) e auspicando il declino della sua carriera politica.
Di seguito, il video e la traduzione di alcuni passaggi del brano giusto per rendere l’idea del tono e dei contenuti:
VIDEO:
https://www.youtube.com/watch?v=nXFM81b-gBk&list=RDnXFM81b-gBk&start_radio=1
“Facciamoci un giro in banca, datemi i soldi di Kemi e portatele i miei ringraziamenti
Chiamalo risarcimento, Badenoch sei una “wank”
Hai cercato di rubare i miei soldi ma sono tornato a riprendermeli indietro.
Na na na, Sparisci per sempre
Ecco il Riepilogo dei Kneecap da West Belfast.
Na na na, Sparisci per sempre
Dicono DJ Próvaí, Móglaí Bap e Mo Chara”
E ancora:
“Non sei come la “Iron Lady”, la tua carriere marcirà… Maggie dorme ancora nella sua scatola
Belfast e Derry gridano “FUCK BADENOCH”
E l’immancabile finale, che suona più o meno cosi:
“Ci hai provato, Kemi.
Peccato per le elezioni.
Non ti abbattere eh, si va avanti
Free Palestine”
Non so se sarà realmente la fine della carriera politica della povera Kemi, ma se aveva già pochi amici nella West Belfast, ora li ha definitivamente persi.
Continua ….
I precedenti capitoli su varie storie irlandesi" sono qua:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
Un furgoncino con montato un maxischermo staziona davanti alla Corte di Westminster, nel cuore di Londra. Sullo schermo, a caratteri cubitali, campeggia il motto: “More Blacks, More Dogs, More Irish, Mo Chara”.
È il 18 giugno e sta per aprirsi il primo capitolo del processo ai Kneecap, il trio rap nordirlandese finito sotto accusa per incitamento alla violenza e al terrorismo. Quella frase, provocatoria e potente, richiama e ribalta uno degli slogan più infami del razzismo britannico del dopoguerra: “No Blacks, No Dogs, No Irish”, che un tempo appariva sulle vetrine di negozi e pub nel Regno Unito.
Simbolo di esclusione e discriminazione, quel cartello è diventato col tempo un’icona della memoria razziale e dell’oppressione subita da intere comunità migranti, in particolare quella caraibica e quella irlandese.
Nel 2016, nel sud di Londra, una giovane coppia (lei di origini giamaicane, lui irlandese) decide di ribaltare quel messaggio discriminatorio. Stampano una maglietta con la scritta “More Blacks, More Dogs, More Irish”, rivendicando con orgoglio l’unione tra oppressi. Il rifiuto diventa così una risposta ironica e provocatoria, con l’obiettivo di capovolgere il pregiudizio storico e trasformare un divieto in un invito: più neri, più cani, più irlandesi...
Il “Mo Chara” aggiunto dai Kneecap in Gaelico significa “amico mio” ed è anche il nome d’arte di Liam Óg Ó Annaidh, membro del trio accusato di incitamento alla violenza e terrorismo a causa di un video risalente ad un concerto del novembre del 2023, in cui veniva filmato mentre incitava alla morte di parlamentari britannici e raccoglieva una bandiera di Hezbollah lanciata su palco, e gridava “Up Hamas, Up Hezbollah”.
Qui di seguito la puntata precedente con tutti i dettagli di quello che era successo:
https://tonyface.blogspot.com/2025/05/kneecapp-il-peso-delle-parole.html
Centinaia di sostenitori, fan e attivisti pro Palestina si sono radunati fin dalle prime ore del mattino davanti al tribunale di Londra per sostenere i Kneecap.
Un’ondata di bandiere irlandesi e palestinesi ha colorato la scena, mentre risuonavano con forza gli slogan “Free Mo Chara” e “Free Palestine”.
Balli, tamburi, fumogeni e performance improvvisate di numerosi artisti accorsi sul posto hanno trasformato la protesta in una vibrante dimostrazione di solidarietà e resistenza.
Tra la folla, tante facce familiari, incluso questo “ragazzo”, presente con sua figlia Leah, che ancora una volta non ha esitato a mostrare con orgoglio da che parte sta. L’arrivo dei Kneecap in tribunale ha lo stesso tono delle loro performance dal vivo: sfacciato, teatrale, carico di sicurezza e provocazione.
Kefiah palestinese sulle spalle, sorriso stampato in faccia e una spavalderia degna del miglior Liam Gallagher.
Il boato della folla presente dimostra ancora una volta l’enorme interesse mediatico che il trio riesce sempre a suscitare. Quasi da far pensare che davanti a Westminster fossero arrivati i Rolling Stones invece che due ventenni in tracksuit e un tipo con un passamontagna in testa.
Dentro e fuori in poco più di 30 minuti. Quello che sia successo veramente all’interno del tribunale è ovviamente noto solo a pochi presenti, ma le indiscrezioni che circolano sembrano ancora una volta spingere l’ago della bilancia dalla parte dei Kneecap, e non solo dal punto di vista giudiziario.
È importante evidenziare che la battaglia legale ruota intorno a competenze giuridiche e punti di diritto, più che al fondamento politico dell’accusa.
Sebbene il pubblico ministero Michael Bisgrove abbia chiarito che il processo non verte sulle opinioni politiche del rapper, legittime espressioni di solidarietà verso i palestinesi, ma insiste sul gesto legato all’organizzazione terrorista, la difesa si è dimostrata preparata e con un sorprendente asso nella manica.
Il team di avvocati dei Kneecap è stato più volte definito un vero e proprio “Dream Team” (sembra che uno dei componenti sia uno degli avvocati di Julian Assange), prova che, nonostante le date annullate, le vendite del merchandising vanno piuttosto bene.
La difesa, sotto la guida di Brenda Campbell, ha presentato una mozione per chiedere l’archiviazione del procedimento, sostenendo che i fatti contestati siano avvenuti oltre il termine di sei mesi previsto dalla legge per l’avvio delle indagini. L’accusa, da parte sua, si oppone alla richiesta e un’udienza è stata fissata per il 20 agosto per discutere la questione.
Nel frattempo, Mo Chara è stato “rilasciato su cauzione” e se la mozione verrà respinta dovrà scegliere se dichiararsi colpevole o, come già sostenuto precedentemente, dichiararsi innocente e intraprendere la battaglia giudiziaria.
Ed è proprio a questo punto che inizia il vero “spettacolo”.
Come se non fosse già abbastanza esilarante pensare che, dopo la sonora batosta presa nei loro stessi tribunali lo scorso novembre quando la band ha vinto la causa sui fondi non stanziati, il Governo Britannico rischi ora un altro scivolone epico con la questione della prescrizione, ecco che i Kneecap tornano a mettere in scena il loro solito show, una provocazione studiata per ridicolizzare l’accusatore e ribaltare le carte in tavola.
Mo Chara infatti, dopo aver confermato il suo nome, ha fatto sapere tramite il suo team di avvocati di aver bisogno di un interprete di irlandese per il processo.
Sorprendentemente, il magistrato ha dichiarato di non essere riuscito a trovarne uno disponibile e, tra le risate generali, ha chiesto se per caso ce ne fosse uno presente in sala.
Le risate sono esplose in un boato quando dal finale dell’aula è arrivata la proposta – evidentemente ironica – di usare DJ Próvai come traduttore, mentre i membri della band se la ridevano sotto i baffi.
Dico sorprendentemente per quelli che non hanno visto il film dei Kneecap e non sanno che (spoiler) quello che è successo in tribunale è la falsa riga del chiacchieratissimo biopic della band, dove appunto il personaggio interpretato da Mo Chara si rifiuta di rispondere ad un interrogatorio in inglese e il traduttore (DJ Provaj) corre in suo aiuto traducendo un po’ quello che gli pare e lo toglie dai guai.
Insomma, una mossa prevedibile come la pioggia in Irlanda, con Westminster che si lascia sorprendere, cadendo dritto nella trappola dell’ironia, l’arma più affilata e collaudata nell’arsenale dei Kneecap. Bene ma non benissimo.
Il magistrato si è impegnato a trovare un interprete di Gaelico per la seguente udienza.
Seguiranno aggiornamenti dopo il 20 agosto.
Nel frattempo la band ha tenuto la chiacchieratissima performance a Glastonbury, che fino all’ultimo è sembrata sul punto di essere annullata ma che alla fine è andata regolarmente in scena.
O più o meno. Anche qui infatti la tempistica nel complicare le cose a proprio sfavore da parte della BBC risulta a tratti esilarante.
Al processo dei Kneecap infatti è seguito un serratissimo tentativo da parte dell’establishment per tentare di cancellare la loro esibizione al famoso festival nella Worthy Farm, con il primo ministro inglese Keir Starmer e una serie di grossi nomi (non ben identificabili) del music business del Regno unito che avevano fatto di tutto perché questo non avvenisse, esercitando forti pressioni sull’organizzazione del festival. Questo ha ovviamente portato ulteriore attenzione mediatica intorno alla performance, prevista al West Holts stage alle 16:00 di sabato pomeriggio, che oltretutto era trasmessa in diretta sul Iplayer della BBC e quindi visibile in tutto il regno unito. Alle 16:00 in punto, proprio qualche minuto prima che i Kneecap salissero sul palco.
La BBC ha interrotto il live streaming senza dare troppe spiegazioni e annunciando che una registrazione della performance sarebbe stata poi disponibile in serata (come prevedibile, prontamente editata e censurata in più parti con cura istituzionale).
Quello che forse non avevano calcolato era che prima dei Kneecap, sullo stesso palco si esibiva Bob Vylan, un altro che non le manda certo a dire. Perciò tutti coloro che erano già collegati in attesa della performance della band irlandese, hanno assistito al finale di quella del duo punk rap inglese, farcita di slogan pro Palestina e pesanti insulti contro l’IDF, le Forze di Difesa Israeliane. Quando i Kneecap fanno il loro ingresso sul palco, l’atmosfera al West Holts Stage è elettrica.
La folla è talmente numerosa che, già mezz’ora prima dell’inizio, l’organizzazione si vede costretta a chiudere l’accesso all’arena per superamento della capienza. La loro esibizione è, come sempre, travolgente e coinvolge tutti i circa 30.000 spettatori presenti, con il palco a malapena visibile tra una marea di bandiere, per lo più palestinesi e irlandesi. Il trio ha proposto un set rumoroso, caotico, altamente teatrale, distribuendo frecciatine un po’ a tutti: dal primo ministro inglese Keir Starmer fino a Rod Stewart, che la settimana precedente aveva dichiarato ai media britannici che il Regno Unito dovrebbe “dare una possibilità a Nigel Farage". Un’energia che ti arriva dritta in faccia, senza filtri né scuse, senza chiedere il permesso e senza nemmeno fingere un briciolo di sobrietà, cosa che, del resto, nessuno ormai si aspetta più dal polemico trio di Belfast.
Eroina dalla giornata e ulteriore grattacapo per la BBC, la quarantaquattrenne gallese Helen Wilson presente tra la folla ,che ha deciso di trasmettere via Tik Tok la diretta streaming dell’ intera esibizione dei Kneecap, regalando a migliaia di spettatori da casa ( circa un milione e mezzo) un’ ora di performance selvaggia, hackerando la censura con stile e guadagnandosi i ringraziamenti diretti della band.
Ah, dimenticavo…
Mentre l’establishment cerca di capire se i Kneecap siano più pericolosi con un microfono in mano o dentro un’aula di tribunale, loro fanno quello che sanno fare meglio: macinare beat e provocazioni. L’ultimo colpo? Una nuova canzone, RECAP, frutto della produzione con il produttore britannico Mozey.
La traccia è una furiosa esplosione sonora, con un drum & bass pesante e frenetico unito a elementi di post punk e a un testo potentissimo che, alternando come sempre versi in gaelico e in inglese, “dissano” neanche troppo velatamente Kemi Badenoch, la politica conservatrice che lo scorso anno aveva tentato di bloccare i fondi destinati alla band (poi smentita dal tribunale) definendola una “Wally” (stupida) e auspicando il declino della sua carriera politica.
Di seguito, il video e la traduzione di alcuni passaggi del brano giusto per rendere l’idea del tono e dei contenuti:
VIDEO:
https://www.youtube.com/watch?v=nXFM81b-gBk&list=RDnXFM81b-gBk&start_radio=1
“Facciamoci un giro in banca, datemi i soldi di Kemi e portatele i miei ringraziamenti
Chiamalo risarcimento, Badenoch sei una “wank”
Hai cercato di rubare i miei soldi ma sono tornato a riprendermeli indietro.
Na na na, Sparisci per sempre
Ecco il Riepilogo dei Kneecap da West Belfast.
Na na na, Sparisci per sempre
Dicono DJ Próvaí, Móglaí Bap e Mo Chara”
E ancora:
“Non sei come la “Iron Lady”, la tua carriere marcirà… Maggie dorme ancora nella sua scatola
Belfast e Derry gridano “FUCK BADENOCH”
E l’immancabile finale, che suona più o meno cosi:
“Ci hai provato, Kemi.
Peccato per le elezioni.
Non ti abbattere eh, si va avanti
Free Palestine”
Non so se sarà realmente la fine della carriera politica della povera Kemi, ma se aveva già pochi amici nella West Belfast, ora li ha definitivamente persi.
Continua ….
venerdì, giugno 20, 2025
The Poets – Alone Am I / Locked in A Room (Target) 1968
L'amico MICHELE SAVINI prosegue la ricerca di elementi interessanti e particolari dell'Irlanda meno conosciuta.
Torniamo questa volta al 1968 e una band oscura che ha lasciato un solo 45 giri: The Poets.
Gli altri racconti sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
C’era una volta uno scantinato buio e umido, con dentro quattro ragazzi armati di strumenti e un’urgenza sonora che anticipava i tempi.
Non è un caso isolato: è la traiettoria condivisa da centinaia di band garage e beat, nate nell’esigenza creativa di un’epoca in fermento, mai esplose e rimaste ai margini della scena ma non della passione.
I loro nomi si persero nel rumore, ma dietro lasciarono dischi rari, registrazioni sbiadite, racconti tramandati solo da chi c’era. Sono storie minori, ma non per questo meno significative: frammenti dimenticati di un mosaico musicale che merita di essere ricomposto.
Tra queste storie sotterranee, ce n’è una che vale la pena riportare in superficie: quella dei The Poets, band di Irlandese attiva a metà degli anni ’60.
Il loro unico singolo pubblicato nel 1968 dall’etichetta Irlandese Target Records e la seguente pubblicazione nel Regno Unito per la più nota Pye Record, fu per anni erroneamente attribuito al celebre gruppo freakbeat scozzese con lo stesso nome, autore di "That's the Way It's Got to Be", uno dei classici del genere.
Il fatto che le due band condividessero lo stesso nome e fossero attive nello stesso periodo aveva alimentato l’equivoco: dopotutto, la band scozzese aveva pubblicato dischi con etichette come Decca e Immediate tra il 1964 e il 1971.
Non sembrava quindi assurdo pensare che avessero inciso anche per la Pye.
Tuttavia, la verità è un’altra: questi Poets erano una formazione completamente diversa, originaria di Dublino, e di loro si sa ancora oggi molto poco.
La storia dei Poets irlandesi inizia nel 1965, quando Pat Devine (chitarra), Gerry Martin (chitarra), Steve Gilchrist (basso) e Bob Murphy (sax) fondano un gruppo chiamato The Heartbeats. Nel 1967, il gruppo evolve in una showband semi-professionale con l’ingresso di Paul Conroy (organo), Charlie Herbert (chitarra solista, con Devine che passa al sax) e Gary Power (voce solista).
Le showband erano gruppi musicali molto popolari in Irlanda negli anni ’60, solitamente numerosissimi sul palco e delle vere e proprie macchine da intrattenimento. Attiravano grandi folle ogni sera, offrendo un repertorio eclettico fatto di pop, hit internazionali e a volte anche un po’ di cabaret, ma raramente proponevano materiale originale o alcun tipo di sperimentazione.
Power e Herbert iniziano a scrivere diversi brani originali, prevalentemente ballate lente, nella speranza di attirare l’attenzione del pubblico locale. Tuttavia, alla fine del 1967, Power lascia il gruppo per tentare la carriera solista, e probabilmente a seguito di questa uscita nasce ufficialmente la band The Poets.
Nonostante non sia chiara la formazione esatta che ha inciso il celebre singolo, entrambi i lati del disco sono accreditati al chitarrista Charles Herbert, il che suggerisce un suo ruolo chiave nella composizione e realizzazione dei due brani.
Il singolo in questione comprende due tracce.
E se sul lato A appare ‘Alone Am I’, una ballata malinconica, dominata da armonica e organo, con quel tipico tono natalizio che si addice a una showband irlandese, sul lato B, invece, come spesso accade, troviamo il vero gioiello: ‘Locked In A Room’.
Si tratta di un pezzo freakbeat di altissimo livello, energico e coinvolgente, caratterizzato da una chitarra solista marcata, un sax vibrante, armonie vocali raffinate e una batteria incalzante che spinge il brano con grande intensità.
v Il tema natalizio sul lato A fa pensare a un’uscita verso la fine del 1968, in linea con l’usanza, particolarmente diffusa negli anni ’60 e ’70, di pubblicare un singolo a tema festivo in prossimità del Natale, spesso con l’intento di ottenere maggiore visibilità o passaggi radiofonici durante quel periodo dell’anno.
Negli anni successivi, il 45 giri è diventato un piccolo oggetto di culto, sempre più ricercato dai collezionisti di rarità garage e beat, anche grazie alla qualità del suo lato B, spesso incluso in compilazioni di freakbeat e rock psichedelico, che lo rende un vero e proprio “Nuggets” irlandese.
Nel 1969, alcuni ex membri dei Poets e degli Heartbeats diedero vita alla soul-showband The Arrows, il cui secondo singolo, “One Step, Two Step”, fu ancora una volta firmato da Charlie Herbert, a dimostrazione di una vena compositiva che non si era ancora esaurita.
I The Arrows finiranno per diventare la nuova band di supporto di Dickie Rock, il famoso crooner irlandese che aveva abbandonato la sua storica formazione, la Miami Showband, per intraprendere la carriera solista.
Ma la vera eredità dei Poets rimane racchiusa in quei due brani dimenticati.
Due canzoni, un singolo, un nome condiviso con un’altra band.
E una storia che, come tante negli anni Sessanta, riaffiora oggi solo nei racconti degli appassionati e nei solchi consumati di un 45 giri introvabile.
Alone Am I:
https://www.youtube.com/watch?v=SXv5PgOkUS4&list=RDSXv5PgOkUS4&start_radio=1
Locked in A Room:
https://www.youtube.com/watch?v=dGTlkHoefaA&feature=youtu.be
Torniamo questa volta al 1968 e una band oscura che ha lasciato un solo 45 giri: The Poets.
Gli altri racconti sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
C’era una volta uno scantinato buio e umido, con dentro quattro ragazzi armati di strumenti e un’urgenza sonora che anticipava i tempi.
Non è un caso isolato: è la traiettoria condivisa da centinaia di band garage e beat, nate nell’esigenza creativa di un’epoca in fermento, mai esplose e rimaste ai margini della scena ma non della passione.
I loro nomi si persero nel rumore, ma dietro lasciarono dischi rari, registrazioni sbiadite, racconti tramandati solo da chi c’era. Sono storie minori, ma non per questo meno significative: frammenti dimenticati di un mosaico musicale che merita di essere ricomposto.
Tra queste storie sotterranee, ce n’è una che vale la pena riportare in superficie: quella dei The Poets, band di Irlandese attiva a metà degli anni ’60.
Il loro unico singolo pubblicato nel 1968 dall’etichetta Irlandese Target Records e la seguente pubblicazione nel Regno Unito per la più nota Pye Record, fu per anni erroneamente attribuito al celebre gruppo freakbeat scozzese con lo stesso nome, autore di "That's the Way It's Got to Be", uno dei classici del genere.
Il fatto che le due band condividessero lo stesso nome e fossero attive nello stesso periodo aveva alimentato l’equivoco: dopotutto, la band scozzese aveva pubblicato dischi con etichette come Decca e Immediate tra il 1964 e il 1971.
Non sembrava quindi assurdo pensare che avessero inciso anche per la Pye.
Tuttavia, la verità è un’altra: questi Poets erano una formazione completamente diversa, originaria di Dublino, e di loro si sa ancora oggi molto poco.
La storia dei Poets irlandesi inizia nel 1965, quando Pat Devine (chitarra), Gerry Martin (chitarra), Steve Gilchrist (basso) e Bob Murphy (sax) fondano un gruppo chiamato The Heartbeats. Nel 1967, il gruppo evolve in una showband semi-professionale con l’ingresso di Paul Conroy (organo), Charlie Herbert (chitarra solista, con Devine che passa al sax) e Gary Power (voce solista).
Le showband erano gruppi musicali molto popolari in Irlanda negli anni ’60, solitamente numerosissimi sul palco e delle vere e proprie macchine da intrattenimento. Attiravano grandi folle ogni sera, offrendo un repertorio eclettico fatto di pop, hit internazionali e a volte anche un po’ di cabaret, ma raramente proponevano materiale originale o alcun tipo di sperimentazione.
Power e Herbert iniziano a scrivere diversi brani originali, prevalentemente ballate lente, nella speranza di attirare l’attenzione del pubblico locale. Tuttavia, alla fine del 1967, Power lascia il gruppo per tentare la carriera solista, e probabilmente a seguito di questa uscita nasce ufficialmente la band The Poets.
Nonostante non sia chiara la formazione esatta che ha inciso il celebre singolo, entrambi i lati del disco sono accreditati al chitarrista Charles Herbert, il che suggerisce un suo ruolo chiave nella composizione e realizzazione dei due brani.
Il singolo in questione comprende due tracce.
E se sul lato A appare ‘Alone Am I’, una ballata malinconica, dominata da armonica e organo, con quel tipico tono natalizio che si addice a una showband irlandese, sul lato B, invece, come spesso accade, troviamo il vero gioiello: ‘Locked In A Room’.
Si tratta di un pezzo freakbeat di altissimo livello, energico e coinvolgente, caratterizzato da una chitarra solista marcata, un sax vibrante, armonie vocali raffinate e una batteria incalzante che spinge il brano con grande intensità.
v Il tema natalizio sul lato A fa pensare a un’uscita verso la fine del 1968, in linea con l’usanza, particolarmente diffusa negli anni ’60 e ’70, di pubblicare un singolo a tema festivo in prossimità del Natale, spesso con l’intento di ottenere maggiore visibilità o passaggi radiofonici durante quel periodo dell’anno.
Negli anni successivi, il 45 giri è diventato un piccolo oggetto di culto, sempre più ricercato dai collezionisti di rarità garage e beat, anche grazie alla qualità del suo lato B, spesso incluso in compilazioni di freakbeat e rock psichedelico, che lo rende un vero e proprio “Nuggets” irlandese.
Nel 1969, alcuni ex membri dei Poets e degli Heartbeats diedero vita alla soul-showband The Arrows, il cui secondo singolo, “One Step, Two Step”, fu ancora una volta firmato da Charlie Herbert, a dimostrazione di una vena compositiva che non si era ancora esaurita.
I The Arrows finiranno per diventare la nuova band di supporto di Dickie Rock, il famoso crooner irlandese che aveva abbandonato la sua storica formazione, la Miami Showband, per intraprendere la carriera solista.
Ma la vera eredità dei Poets rimane racchiusa in quei due brani dimenticati.
Due canzoni, un singolo, un nome condiviso con un’altra band.
E una storia che, come tante negli anni Sessanta, riaffiora oggi solo nei racconti degli appassionati e nei solchi consumati di un 45 giri introvabile.
Alone Am I:
https://www.youtube.com/watch?v=SXv5PgOkUS4&list=RDSXv5PgOkUS4&start_radio=1
Locked in A Room:
https://www.youtube.com/watch?v=dGTlkHoefaA&feature=youtu.be
venerdì, maggio 09, 2025
Kneecapp: il peso delle parole
L'amico MICHELE SAVINI prosegue la ricerca di elementi interessanti e particolari dell'Irlanda meno conosciuta.
Torniamo ad aggiornare le intense e interessanti vicende dei KNEECAPP.
Gli altri racconti sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
Kneecap, Kneecap e ancora Kneecap.
È impossibile ignorarli, anche volendo.
Il controverso trio hip hop di Belfast, di cui avevamo già ampiamente discusso lo scorso anno per la sua attitudine provocatoria e i testi taglienti, torna a far parlare di sé. Ma questa volta, non per scelta.
I tre musicisti sembrano infatti coinvolti in una situazione ben più seria, che li trascina nuovamente sotto i riflettori e nel mirino del fuoco “nemico”.
Sono infatti finiti al centro di un’indagine da parte del dipartimento di polizia antiterrorismo del Regno Unito a causa di due video emersi recentemente e risalenti ad una loro esibizione del novembre 2023, che mostrano membri della band invocare la morte di parlamentari britannici ("L'unico conservatore buono è un conservatore morto.
Uccidete il vostro parlamentare locale") e gridare "Viva Hamas, viva Hezbollah".
Frasi che hanno destato il dissenso trasversale dell’intero mondo politico (con in testa a tutti il Partito Tory) ma anche delle famiglie del deputato laburista Jo Cox e quella del conservatore David Amess, due parlamentari entrambi assassinati nell’ultimo decennio.
L’indagine per terrorismo e le pressioni da parte della polizia britannica hanno ovviamente portato la cancellazione della maggior parte delle esibizioni dei Kneecap previste per l’estate 2025 nel Regno Unito (molte di queste già sold out) con le autorità e la gran parte dei politici che stanno spingendo affinché vengano esclusi anche dalla programmazione del Festival di Glastonbury.
E ad amplificare ulteriormente il clima di intimidazione, si sono aggiunte le minacce di morte ricevute dalla band, come rivelato dal loro manager.
Ma facciamo un passo indietro.
Poche settimane prima, a metà aprile, i Kneecap si sono esibiti al prestigioso Festival di Coachella negli Stati Uniti, partecipando ad entrambe le date del celebre evento californiano e, come da tradizione, portando in scena il consueto mix di musica e attivismo, con forti messaggi politici sul conflitto a Gaza e il sostegno alla causa palestinese, proiettati sui giganteschi schermi LED del palco.
Parole evidentemente troppo ruvide per la sensibilità del moralismo americano e il patinato pubblico di Coachella, tanto che qualcuno non ha apprezzato. La più indignata è sembrata Sharon Osborne, moglie del cantante dei Black Sabbath Ozzy Osborne e già nota per le sue posizioni apertamente filoisraeliane.
L’ex giudice di X Factor ha criticato l’organizzazione del festival per aver permesso che Coachella si trasformasse in una vetrina per l’espressione politica, accusando la band di incitamento all’odio, di sostenere organizzazioni terroristiche e affermando che non dovrebbe essere autorizzata a esibirsi negli Stati Uniti.
"Vi esorto ad unirvi a me nel sostenere la revoca del visto di lavoro dei Kneecap", ha “tuonato” ai suoi follower su Twitter lo scorso 22 aprile.
Vero che la condotta dei Kneecap sul palco è quanto di più lontano ci possa essere da una performance sobria e rispettosa delle convenzioni tradizionali, ma sentirsi fare la predica dalla moglie di uno che negli anni ’80 staccava la testa a un pipistrello sul palco fa decisamente sorridere.
Lapidaria la risposta della band “Dovrebbe riascoltare War Pigs….”
Un richiamo nemmeno troppo velato alla storica canzone antiguerra dei Black Sabbath, zeppa di immagini apocalittiche, dove si parla di corpi che bruciano, macchine della guerra, menti plagiate, streghe e messe nere …
Gli organizzatori del Festival in loro difesa, hanno dichiarato che “non erano assolutamente al corrente delle intenzioni politiche della band”.
Evidentemente pensavano di aver ingaggiato la Taylor Swift di turno e che il passamontagna indossato sul palco fosse semplicemente un rimedio contro il freddo irlandese …
Fatto sta che il Dipartimento di Stato US sta valutando la revoca del visto per possibili rischi legati all’immigrazione e alla sicurezza pubblica, il tutto mentre la band è attesa per una serie di concerti negli Stati Uniti e in Canada nei prossimi mesi.
E come se la tempistica fosse una coincidenza, pochi giorni dopo ecco l’investigazione per terrorismo da parte delle autorità britanniche per i sopracitati video.
Cosi alla fine i Kneecap, per la gioia di tutti quelli che da tempo aspettavano di vederli fare marcia indietro, hanno dovuto scusarsi.
Lo hanno fanno con un comunicato in cui prendono le distanze da Hamas e Hezbollah porgono le loro scuse alle famiglie dei deputati David Amess e Jo Cox ma ribadiscono anche di essere vittime di una forte campagna diffamatoria da parte dei media per via della loro posizione politiche e di come si stia cercando di spostare l’attenzione mediatica su di loro invece che su quello che sta succedendo a Gaza, facendoci credere che le parole possano fare più danni di un genocidio.
Sulla scia della tempesta mediatica e politica, a loro sostegno si sono espresse numerose figure di spicco della scena musicale, inclusi tantissimi artisti Britannici ed Irlandesi, che hanno firmato una dichiarazione di supporto al gruppo.
Paul Weller, Primal Scream, Pulp, Massive Attack, Fontaines DC, Idles, Sleaford Mods, Lankum, alcuni dei nomi che hanno firmato la lettera promossa dalla casa discografica del gruppo, la Heavenly Recordings, in sostegno ai Kneecap e in nome della libertà di espressione.
Qui di seguito la traduzione e la lista completa dei firmatari:
“La scorsa settimana si è assistito a un chiaro e concertato tentativo di censurare e, in definitiva, rimuovere la band Kneecap dagli schermi. A Westminster e sui media britannici, importanti personalità politiche si sono apertamente impegnate in una campagna per rimuovere i Kneecap dall'attenzione pubblica, con velate minacce riguardo alle loro già programmate esibizioni a concerti, eventi all'aperto e festival musicali, tra cui Glastonbury.
È agghiacciante notare come anche figure e personalità influenti dell'industria musicale in generale stiano tentando di influenzare questa campagna intimidatoria.
Come artisti, sentiamo il bisogno di dichiarare la nostra opposizione a qualsiasi repressione politica della libertà artistica. In una democrazia, nessuna figura politica o partito politico dovrebbe avere il diritto di dettare chi suona o non suona a festival musicali o concerti che saranno apprezzati da migliaia di persone.
Condividere le opinioni politiche dei Kneecap è irrilevante: è nell'interesse fondamentale di ogni artista che ogni espressione creativa sia protetta in una società che valorizza la cultura, e che questa campagna di interferenza sia condannata e ridicolizzata. Inoltre, è anche dovere delle figure chiave della leadership nell’industria musicale difendere attivamente la libertà di espressione artistica, piuttosto che cercare di mettere a tacere le opinioni che si oppongono alle proprie “.
Firmata da : Annie Mac, Beoga, Bicep, Biig Piig, Blindboy Boatclub, Bob Vylan, Christy Moore, Damien Dempsey, Delivery, Dexys, English Teacher, Enter Shikari, Fontaines DC, Gemma Dunleavy, Gurriers, Idles, Iona Zajac, Jelani Blackman, John Francis Flynn, Joshua Idehen, Katy J Pearson, Kojaque, Lankum, Lisa O’Neill, Lowkey, Massive Attack, Martyn Ware, Paul Weller, Peter Perrett, Poor Creature, Primal Scream, Pulp, Roisin El Cherif, SHirley Manson, Sleaford Mods, Soft Play, The Mary Wallopers, The Pogues, Thin Lizzy, Toddla T.
A sostegno dei Kneecap, ma leggermente fuori dal coro, è intervenuto anche il musicista e attivista Billy Bragg.
Pur non avendo firmato la lettera a favore del gruppo (a suo dire, semplicemente perché non gli è stato chiesto) ha scelto di pubblicarne una propria in cui manifesta il proprio sostegno al trio, denunciando la campagna mediatica ostile condotta nei loro confronti, ma al tempo stesso criticando la mancanza di sfumature del comunicato cofirmato dagli artisti e ribadendo che la libertà di espressione comporta anche responsabilità e conseguenze.
Intervento che ho trovato particolarmente interessante e di cui riporto qui di seguito la traduzione:
Mi fa piacere vedere che diversi artisti hanno firmato una lettera in difesa dei Kneecap contro i tentativi di escluderli da vari festival, a seguito di commenti fatti durante concerti più di due anni fa.
La band si è scusata per il dolore causato alle famiglie dei parlamentari assassinati e ha preso le distanze da Hamas e Hezbollah. Dopo aver fatto questo passo, credo che meritino di essere reintegrati nei festival da cui sono stati esclusi, e anche confermati in quelli in cui sono già in programma. Tuttavia, non sono sicuro che mi sarei sentito a mio agio nel firmare quella lettera (non mi è stato chiesto).
Il mio problema è che il testo manca di sfumature e di comprensione rispetto alle ragioni per cui è scoppiata tutta questa polemica. Cercando di evitare le complessità della questione e sostenendo che la politica delle opinioni di un artista sia irrilevante, i firmatari sostengono che l’unico principio in gioco sia la libertà di espressione. Io non sono d’accordo.
Anche Andrew Tate usa questa giustificazione per evitare le accuse di misoginia. L’assolutismo sulla libertà di parola ha trasformato Twitter in un concentrato nauseabondo di odio di destra e bullismo sessista. Rock Against Racism è stato fondato proprio sull’idea che gli artisti non dovrebbero poter dire tutto ciò che vogliono senza conseguenze.
Se vogliamo vivere in una società dove tutti possono esprimere liberamente le proprie opinioni, dobbiamo considerare due altri aspetti fondamentali.
Primo: bisogna garantire pari spazio alle opinioni altrui.
Secondo: per impedire che questi diritti vengano abusati da chi li sfrutta per minacciare o discriminare, dobbiamo accettare che le parole hanno delle conseguenze.
In pratica, ciò significa che dobbiamo fare attenzione a non compromettere gli argomenti ponderati e legittimi che vogliamo sostenere – “Libertà per la Palestina”, “Fermare il genocidio” – con affermazioni superficiali per cui poi siamo costretti a scusarci. Credo che la lettera degli artisti sarebbe stata molto più forte, così come la causa per reintegrare i Kneecap, se avesse riconosciuto questa dinamica fondamentale invece di cercare di mettere da parte ogni altra considerazione.
I Kneecap sono stati alleati espliciti del popolo palestinese, e le loro critiche a Israele sono, a mio parere, del tutto giustificate. Solo i sostenitori più ciechi di Israele possono oggi negare che ciò che viene perpetrato a Gaza sia un genocidio. Lo so perché ho discusso con queste persone proprio su questa terminologia nei social. Le grafiche mostrate dai Kneecap al Coachella, e le dichiarazioni fatte dal palco, non sono antisemite: sono anti-Israele. È una distinzione importante: l’antisemitismo è discriminazione basata sull’etnia e, come ogni forma di razzismo, deve essere sempre contrastato.
Il diritto di protestare contro il comportamento di uno Stato è una libertà fondamentale da difendere. Adottare leggi che rendano illegale farlo è il segno distintivo di un regime totalitario.
E non prendiamoci in giro: la band è stata punita per le dichiarazioni anti-Israele fatte al Coachella.
Le lamentele di Sharon Osbourne hanno scatenato la stampa di destra, che si è messa a scavare nel web in cerca di un pretesto per attaccare la band – e, purtroppo, l’hanno trovato.
Sebbene alcuni possano sostenere che ci siano argomenti a favore di Hamas, ciò non può avvenire ignorando l’uccisione di 815 civili israeliani, tra cui 36 bambini, il 7 ottobre. Allo stesso modo, non è possibile sostenere Israele senza riconoscere l’orrenda strage di oltre 40.000 civili palestinesi, più di 14.500 dei quali bambini, secondo l’UNICEF.
Il peso dell’argomento morale contro Israele si basa sul fatto che colpire civili è un crimine di guerra.
E per quanto la punizione inflitta alla popolazione di Gaza abbia raggiunto proporzioni estreme, questo principio non va dimenticato. Se speriamo un giorno di vedere Netanyahu sotto processo all’Aia, dobbiamo anche accettare che chi ha ucciso civili il 7 ottobre dovrebbe essere giudicato per gli stessi crimini. Ignorare questo fatto mina il sostegno alla causa palestinese, perché implica che non tutti i bambini morti valgano allo stesso modo.
E, come i Kneecap hanno scoperto, conferisce anche il controllo della narrazione ai propri nemici.
Va anche detto che le persone che chiedono il bando dei Kneecap sono le stesse che gridano contro la “cancel culture” ogni volta che qualcuno della loro parte politica viene messo sotto accusa. Il fatto che nessuno tra questi reazionari, che tanto difendono il diritto di offendere, sia intervenuto in difesa della band, dimostra quanto siano ipocriti e mossi solo da interessi personali.
Né dovremmo sentirci tranquilli con l’idea che i Kneecap possano essere perseguiti per dichiarazioni avventate fatte durante un concerto.
Il fatto è che, sul palco, nella foga del momento, si dicono cose stupide.
In contesti più pacati, la band ha chiarito di non sostenere il bersagliamento dei civili, siano essi non-combattenti o parlamentari, richiamandosi all’esperienza della loro comunità durante i Troubles.
Così facendo, riconoscono implicitamente che la libertà di espressione ha dei limiti, e che certe cose non si possono dire senza pagarne le conseguenze.
Forse, se affrontassero alcune di queste complessità in un’intervista, contestualizzando le loro affermazioni e le reazioni che ne sono seguite, pur difendendo il loro diritto a denunciare un genocidio, si potrebbe stemperare il clima e ottenere un sostegno più ampio affinché i Kneecap possano esibirsi come previsto quest’estate. Quello che non credo aiuti, né loro, né chiunque voglia partecipare a un dibattito su questioni altamente controverse, è pretendere, in modo assoluto, che gli artisti possano dire qualunque cosa senza conseguenze.
Viviamo in un’epoca in cui l’agire senza limiti viene esaltato da chi crede che la forza fisica, la ricchezza smisurata, la fama o la competenza tecnologica diano il diritto di fare tutto ciò che si vuole. Eppure, la libertà, e la possibilità di goderne, si fonda sul fatto che nessuno sia al di sopra della legge.
La libertà, intesa come diritto di esprimersi con parole e azioni, non è di per sé sufficiente a definire lo stato di essere liberi, perché, senza uguaglianza, la libertà è solo privilegio. E, come i nostri cugini americani stanno scoprendo a loro spese, la libertà senza responsabilità equivale alla tirannia.
Nel frattempo, il botta e risposta tra Sharon Osbourne e i Kneecap non sembra placarsi.
Pochi giorni fa la Osborne è tornata sull’ argomento “suggerendo” ai rapper di prendere esempio dagli U2, lodando Bono per il suo sostegno pacifico senza incitare alla violenza.
Già, Bono.
Il leader degli U2, che in passato si è sempre professato contro ogni tipo di guerra è stato insolitamente tiepido e moderato quando si è parlato del conflitto a Gaza, e sospettosamente silenzioso, in particolare negli ultimi mesi. E non è certo la sua assenza tra i firmatari della lettera a favore dei Kneecap a sorprendere, fatto per molti ampiamente prevedibile.
C’è chi sostiene infatti che lui e tutto il clan U2 abbiano interessi economici diretti con molte società israeliane, come la Leumi Bank, istituto di credito coinvolto in attività nei territori palestinesi occupati, che ha recentemente stanziato un prestito di 45 milioni di dollari per rilevare il Clarence Hotel a Dublino, di cui Bono e The Edge erano co-proprietari. O la trasmissione in streaming del loro tour nordamericano dello scorso anno affidata alla Meerkat, una società con sede a Tel Aviv che si dice finanzi anche l’esercito di Netanyahu.
Sarà forse questo ciò che intendeva la cara Sharon…?
Continua…
Torniamo ad aggiornare le intense e interessanti vicende dei KNEECAPP.
Gli altri racconti sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
Kneecap, Kneecap e ancora Kneecap.
È impossibile ignorarli, anche volendo.
Il controverso trio hip hop di Belfast, di cui avevamo già ampiamente discusso lo scorso anno per la sua attitudine provocatoria e i testi taglienti, torna a far parlare di sé. Ma questa volta, non per scelta.
I tre musicisti sembrano infatti coinvolti in una situazione ben più seria, che li trascina nuovamente sotto i riflettori e nel mirino del fuoco “nemico”.
Sono infatti finiti al centro di un’indagine da parte del dipartimento di polizia antiterrorismo del Regno Unito a causa di due video emersi recentemente e risalenti ad una loro esibizione del novembre 2023, che mostrano membri della band invocare la morte di parlamentari britannici ("L'unico conservatore buono è un conservatore morto.
Uccidete il vostro parlamentare locale") e gridare "Viva Hamas, viva Hezbollah".
Frasi che hanno destato il dissenso trasversale dell’intero mondo politico (con in testa a tutti il Partito Tory) ma anche delle famiglie del deputato laburista Jo Cox e quella del conservatore David Amess, due parlamentari entrambi assassinati nell’ultimo decennio.
L’indagine per terrorismo e le pressioni da parte della polizia britannica hanno ovviamente portato la cancellazione della maggior parte delle esibizioni dei Kneecap previste per l’estate 2025 nel Regno Unito (molte di queste già sold out) con le autorità e la gran parte dei politici che stanno spingendo affinché vengano esclusi anche dalla programmazione del Festival di Glastonbury.
E ad amplificare ulteriormente il clima di intimidazione, si sono aggiunte le minacce di morte ricevute dalla band, come rivelato dal loro manager.
Ma facciamo un passo indietro.
Poche settimane prima, a metà aprile, i Kneecap si sono esibiti al prestigioso Festival di Coachella negli Stati Uniti, partecipando ad entrambe le date del celebre evento californiano e, come da tradizione, portando in scena il consueto mix di musica e attivismo, con forti messaggi politici sul conflitto a Gaza e il sostegno alla causa palestinese, proiettati sui giganteschi schermi LED del palco.
Parole evidentemente troppo ruvide per la sensibilità del moralismo americano e il patinato pubblico di Coachella, tanto che qualcuno non ha apprezzato. La più indignata è sembrata Sharon Osborne, moglie del cantante dei Black Sabbath Ozzy Osborne e già nota per le sue posizioni apertamente filoisraeliane.
L’ex giudice di X Factor ha criticato l’organizzazione del festival per aver permesso che Coachella si trasformasse in una vetrina per l’espressione politica, accusando la band di incitamento all’odio, di sostenere organizzazioni terroristiche e affermando che non dovrebbe essere autorizzata a esibirsi negli Stati Uniti.
"Vi esorto ad unirvi a me nel sostenere la revoca del visto di lavoro dei Kneecap", ha “tuonato” ai suoi follower su Twitter lo scorso 22 aprile.
Vero che la condotta dei Kneecap sul palco è quanto di più lontano ci possa essere da una performance sobria e rispettosa delle convenzioni tradizionali, ma sentirsi fare la predica dalla moglie di uno che negli anni ’80 staccava la testa a un pipistrello sul palco fa decisamente sorridere.
Lapidaria la risposta della band “Dovrebbe riascoltare War Pigs….”
Un richiamo nemmeno troppo velato alla storica canzone antiguerra dei Black Sabbath, zeppa di immagini apocalittiche, dove si parla di corpi che bruciano, macchine della guerra, menti plagiate, streghe e messe nere …
Gli organizzatori del Festival in loro difesa, hanno dichiarato che “non erano assolutamente al corrente delle intenzioni politiche della band”.
Evidentemente pensavano di aver ingaggiato la Taylor Swift di turno e che il passamontagna indossato sul palco fosse semplicemente un rimedio contro il freddo irlandese …
Fatto sta che il Dipartimento di Stato US sta valutando la revoca del visto per possibili rischi legati all’immigrazione e alla sicurezza pubblica, il tutto mentre la band è attesa per una serie di concerti negli Stati Uniti e in Canada nei prossimi mesi.
E come se la tempistica fosse una coincidenza, pochi giorni dopo ecco l’investigazione per terrorismo da parte delle autorità britanniche per i sopracitati video.
Cosi alla fine i Kneecap, per la gioia di tutti quelli che da tempo aspettavano di vederli fare marcia indietro, hanno dovuto scusarsi.
Lo hanno fanno con un comunicato in cui prendono le distanze da Hamas e Hezbollah porgono le loro scuse alle famiglie dei deputati David Amess e Jo Cox ma ribadiscono anche di essere vittime di una forte campagna diffamatoria da parte dei media per via della loro posizione politiche e di come si stia cercando di spostare l’attenzione mediatica su di loro invece che su quello che sta succedendo a Gaza, facendoci credere che le parole possano fare più danni di un genocidio.
Sulla scia della tempesta mediatica e politica, a loro sostegno si sono espresse numerose figure di spicco della scena musicale, inclusi tantissimi artisti Britannici ed Irlandesi, che hanno firmato una dichiarazione di supporto al gruppo.
Paul Weller, Primal Scream, Pulp, Massive Attack, Fontaines DC, Idles, Sleaford Mods, Lankum, alcuni dei nomi che hanno firmato la lettera promossa dalla casa discografica del gruppo, la Heavenly Recordings, in sostegno ai Kneecap e in nome della libertà di espressione.
Qui di seguito la traduzione e la lista completa dei firmatari:
“La scorsa settimana si è assistito a un chiaro e concertato tentativo di censurare e, in definitiva, rimuovere la band Kneecap dagli schermi. A Westminster e sui media britannici, importanti personalità politiche si sono apertamente impegnate in una campagna per rimuovere i Kneecap dall'attenzione pubblica, con velate minacce riguardo alle loro già programmate esibizioni a concerti, eventi all'aperto e festival musicali, tra cui Glastonbury.
È agghiacciante notare come anche figure e personalità influenti dell'industria musicale in generale stiano tentando di influenzare questa campagna intimidatoria.
Come artisti, sentiamo il bisogno di dichiarare la nostra opposizione a qualsiasi repressione politica della libertà artistica. In una democrazia, nessuna figura politica o partito politico dovrebbe avere il diritto di dettare chi suona o non suona a festival musicali o concerti che saranno apprezzati da migliaia di persone.
Condividere le opinioni politiche dei Kneecap è irrilevante: è nell'interesse fondamentale di ogni artista che ogni espressione creativa sia protetta in una società che valorizza la cultura, e che questa campagna di interferenza sia condannata e ridicolizzata. Inoltre, è anche dovere delle figure chiave della leadership nell’industria musicale difendere attivamente la libertà di espressione artistica, piuttosto che cercare di mettere a tacere le opinioni che si oppongono alle proprie “.
Firmata da : Annie Mac, Beoga, Bicep, Biig Piig, Blindboy Boatclub, Bob Vylan, Christy Moore, Damien Dempsey, Delivery, Dexys, English Teacher, Enter Shikari, Fontaines DC, Gemma Dunleavy, Gurriers, Idles, Iona Zajac, Jelani Blackman, John Francis Flynn, Joshua Idehen, Katy J Pearson, Kojaque, Lankum, Lisa O’Neill, Lowkey, Massive Attack, Martyn Ware, Paul Weller, Peter Perrett, Poor Creature, Primal Scream, Pulp, Roisin El Cherif, SHirley Manson, Sleaford Mods, Soft Play, The Mary Wallopers, The Pogues, Thin Lizzy, Toddla T.
A sostegno dei Kneecap, ma leggermente fuori dal coro, è intervenuto anche il musicista e attivista Billy Bragg.
Pur non avendo firmato la lettera a favore del gruppo (a suo dire, semplicemente perché non gli è stato chiesto) ha scelto di pubblicarne una propria in cui manifesta il proprio sostegno al trio, denunciando la campagna mediatica ostile condotta nei loro confronti, ma al tempo stesso criticando la mancanza di sfumature del comunicato cofirmato dagli artisti e ribadendo che la libertà di espressione comporta anche responsabilità e conseguenze.
Intervento che ho trovato particolarmente interessante e di cui riporto qui di seguito la traduzione:
Mi fa piacere vedere che diversi artisti hanno firmato una lettera in difesa dei Kneecap contro i tentativi di escluderli da vari festival, a seguito di commenti fatti durante concerti più di due anni fa.
La band si è scusata per il dolore causato alle famiglie dei parlamentari assassinati e ha preso le distanze da Hamas e Hezbollah. Dopo aver fatto questo passo, credo che meritino di essere reintegrati nei festival da cui sono stati esclusi, e anche confermati in quelli in cui sono già in programma. Tuttavia, non sono sicuro che mi sarei sentito a mio agio nel firmare quella lettera (non mi è stato chiesto).
Il mio problema è che il testo manca di sfumature e di comprensione rispetto alle ragioni per cui è scoppiata tutta questa polemica. Cercando di evitare le complessità della questione e sostenendo che la politica delle opinioni di un artista sia irrilevante, i firmatari sostengono che l’unico principio in gioco sia la libertà di espressione. Io non sono d’accordo.
Anche Andrew Tate usa questa giustificazione per evitare le accuse di misoginia. L’assolutismo sulla libertà di parola ha trasformato Twitter in un concentrato nauseabondo di odio di destra e bullismo sessista. Rock Against Racism è stato fondato proprio sull’idea che gli artisti non dovrebbero poter dire tutto ciò che vogliono senza conseguenze.
Se vogliamo vivere in una società dove tutti possono esprimere liberamente le proprie opinioni, dobbiamo considerare due altri aspetti fondamentali.
Primo: bisogna garantire pari spazio alle opinioni altrui.
Secondo: per impedire che questi diritti vengano abusati da chi li sfrutta per minacciare o discriminare, dobbiamo accettare che le parole hanno delle conseguenze.
In pratica, ciò significa che dobbiamo fare attenzione a non compromettere gli argomenti ponderati e legittimi che vogliamo sostenere – “Libertà per la Palestina”, “Fermare il genocidio” – con affermazioni superficiali per cui poi siamo costretti a scusarci. Credo che la lettera degli artisti sarebbe stata molto più forte, così come la causa per reintegrare i Kneecap, se avesse riconosciuto questa dinamica fondamentale invece di cercare di mettere da parte ogni altra considerazione.
I Kneecap sono stati alleati espliciti del popolo palestinese, e le loro critiche a Israele sono, a mio parere, del tutto giustificate. Solo i sostenitori più ciechi di Israele possono oggi negare che ciò che viene perpetrato a Gaza sia un genocidio. Lo so perché ho discusso con queste persone proprio su questa terminologia nei social. Le grafiche mostrate dai Kneecap al Coachella, e le dichiarazioni fatte dal palco, non sono antisemite: sono anti-Israele. È una distinzione importante: l’antisemitismo è discriminazione basata sull’etnia e, come ogni forma di razzismo, deve essere sempre contrastato.
Il diritto di protestare contro il comportamento di uno Stato è una libertà fondamentale da difendere. Adottare leggi che rendano illegale farlo è il segno distintivo di un regime totalitario.
E non prendiamoci in giro: la band è stata punita per le dichiarazioni anti-Israele fatte al Coachella.
Le lamentele di Sharon Osbourne hanno scatenato la stampa di destra, che si è messa a scavare nel web in cerca di un pretesto per attaccare la band – e, purtroppo, l’hanno trovato.
Sebbene alcuni possano sostenere che ci siano argomenti a favore di Hamas, ciò non può avvenire ignorando l’uccisione di 815 civili israeliani, tra cui 36 bambini, il 7 ottobre. Allo stesso modo, non è possibile sostenere Israele senza riconoscere l’orrenda strage di oltre 40.000 civili palestinesi, più di 14.500 dei quali bambini, secondo l’UNICEF.
Il peso dell’argomento morale contro Israele si basa sul fatto che colpire civili è un crimine di guerra.
E per quanto la punizione inflitta alla popolazione di Gaza abbia raggiunto proporzioni estreme, questo principio non va dimenticato. Se speriamo un giorno di vedere Netanyahu sotto processo all’Aia, dobbiamo anche accettare che chi ha ucciso civili il 7 ottobre dovrebbe essere giudicato per gli stessi crimini. Ignorare questo fatto mina il sostegno alla causa palestinese, perché implica che non tutti i bambini morti valgano allo stesso modo.
E, come i Kneecap hanno scoperto, conferisce anche il controllo della narrazione ai propri nemici.
Va anche detto che le persone che chiedono il bando dei Kneecap sono le stesse che gridano contro la “cancel culture” ogni volta che qualcuno della loro parte politica viene messo sotto accusa. Il fatto che nessuno tra questi reazionari, che tanto difendono il diritto di offendere, sia intervenuto in difesa della band, dimostra quanto siano ipocriti e mossi solo da interessi personali.
Né dovremmo sentirci tranquilli con l’idea che i Kneecap possano essere perseguiti per dichiarazioni avventate fatte durante un concerto.
Il fatto è che, sul palco, nella foga del momento, si dicono cose stupide.
In contesti più pacati, la band ha chiarito di non sostenere il bersagliamento dei civili, siano essi non-combattenti o parlamentari, richiamandosi all’esperienza della loro comunità durante i Troubles.
Così facendo, riconoscono implicitamente che la libertà di espressione ha dei limiti, e che certe cose non si possono dire senza pagarne le conseguenze.
Forse, se affrontassero alcune di queste complessità in un’intervista, contestualizzando le loro affermazioni e le reazioni che ne sono seguite, pur difendendo il loro diritto a denunciare un genocidio, si potrebbe stemperare il clima e ottenere un sostegno più ampio affinché i Kneecap possano esibirsi come previsto quest’estate. Quello che non credo aiuti, né loro, né chiunque voglia partecipare a un dibattito su questioni altamente controverse, è pretendere, in modo assoluto, che gli artisti possano dire qualunque cosa senza conseguenze.
Viviamo in un’epoca in cui l’agire senza limiti viene esaltato da chi crede che la forza fisica, la ricchezza smisurata, la fama o la competenza tecnologica diano il diritto di fare tutto ciò che si vuole. Eppure, la libertà, e la possibilità di goderne, si fonda sul fatto che nessuno sia al di sopra della legge.
La libertà, intesa come diritto di esprimersi con parole e azioni, non è di per sé sufficiente a definire lo stato di essere liberi, perché, senza uguaglianza, la libertà è solo privilegio. E, come i nostri cugini americani stanno scoprendo a loro spese, la libertà senza responsabilità equivale alla tirannia.
Nel frattempo, il botta e risposta tra Sharon Osbourne e i Kneecap non sembra placarsi.
Pochi giorni fa la Osborne è tornata sull’ argomento “suggerendo” ai rapper di prendere esempio dagli U2, lodando Bono per il suo sostegno pacifico senza incitare alla violenza.
Già, Bono.
Il leader degli U2, che in passato si è sempre professato contro ogni tipo di guerra è stato insolitamente tiepido e moderato quando si è parlato del conflitto a Gaza, e sospettosamente silenzioso, in particolare negli ultimi mesi. E non è certo la sua assenza tra i firmatari della lettera a favore dei Kneecap a sorprendere, fatto per molti ampiamente prevedibile.
C’è chi sostiene infatti che lui e tutto il clan U2 abbiano interessi economici diretti con molte società israeliane, come la Leumi Bank, istituto di credito coinvolto in attività nei territori palestinesi occupati, che ha recentemente stanziato un prestito di 45 milioni di dollari per rilevare il Clarence Hotel a Dublino, di cui Bono e The Edge erano co-proprietari. O la trasmissione in streaming del loro tour nordamericano dello scorso anno affidata alla Meerkat, una società con sede a Tel Aviv che si dice finanzi anche l’esercito di Netanyahu.
Sarà forse questo ciò che intendeva la cara Sharon…?
Continua…
giovedì, marzo 06, 2025
Belfast Celtic
L'amico MICHELE SAVINI prosegue la ricerca di elementi interessanti e particolari dell'Irlanda meno conosciuta.
Gli altri racconti sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
Irlanda del Nord.
Una terra che porta ancora con sé le cicatrici di un conflitto etnico-religioso mai risolto, che ha segnato in maniera indelebile la sua storia e che, talvolta, si intreccia perfino con il calcio.
Qui, nel cuore pulsante di Belfast, dove le strade raccontano storie di lotta e speranza, si erge la memoria di una squadra che ha lasciato un segno indelebile non solo nello sport, ma anche nell'anima di un'intera comunità.
All'incrocio tra la Falls Road, un'area residenziale prevalentemente cattolica e di ispirazione repubblicana, e la Donegal Road, sorgeva lo storico Celtic Park, sede del leggendario Belfast Celtic Football Club. Fondato nel 1891, il club ha vissuto una storia ricca di successi, ma anche di sfide e controversie, riflettendo le tensioni politiche e sociali dell'Irlanda del Nord, caratterizzate nel corso dei decenni da crescenti divisioni dovute all’occupazione britannica.
Belfast si presentava come un microcosmo di conflitti etnici e religiosi, con una popolazione divisa tra unionisti, principalmente protestanti, che desideravano rimanere parte del Regno Unito, e nazionalisti, per lo più cattolici, che aspiravano a un'Irlanda unita e indipendente.
In questo contesto complesso, il Belfast Celtic si è affermato come un emblema di orgoglio per la comunità cattolica e nazionalista, diventando un punto di riferimento per gli immigrati e le famiglie della classe operaia, che cercavano un senso di appartenenza.
Le partite del club trascendevano il semplice ambito sportivo, trasformandosi in autentici eventi politici e culturali.
I tifosi si univano non solo per sostenere la squadra, ma anche per riaffermare la loro identità in una società che spesso li emarginava.
Emersa in un periodo in cui il calcio era un modo per le comunità di esprimere la propria identità ha vissuto nel corso della sua storia un cammino non privo di ostacoli, fino al suo scioglimento finale nel 1949.
I fondatori si erano ispirati al più noto Celtic Glasgow F.C., il club degli emigrati irlandesi in Scozia, adottandone gli stessi colori, le strisce orizzontali verdi e bianche e appunto ribattezzando il loro stadio nella Fall Road con lo stesso nome del più noto Celtic Park di Glasgow, dandogli addirittura lo stesso nomignolo, “The Paradise”.
Già negli anni '20 e '30, il club si trovò a dover affrontare non solo avversari sul campo, ma anche le crescenti tensioni politiche che avvolgevano l'Irlanda del Nord visto che la violenza settaria e le divisioni sociali che caratterizzavano il paese durante questo periodo e che influenzarono anche il mondo del calcio.
Dopo secoli di ostracismo nei confronti della cultura locale, gaelica e cattolica, nel 1921 il trattato anglo-irlandese divise l’Ulster: tre contee entrarono a far parte della Repubblica d’Irlanda, mentre le altre sei rimasero legate al Regno Unito formando l’Irlanda del Nord con capitale Belfast.
Con la proclamazione dello Stato Libero d’Irlanda anche il campionato venne diviso in due: “The Irish Football Association” al nord e la “Football Association of the Irish Free State” (oggi “Football Association of Ireland”) nel resto del paese.
Le frizioni tra la due fazioni aumentarono in maniera esponenziale e con essa gli episodi di violenza alle partite di calcio tra Club di diversa “ideologia”, spesso caratterizzati dall'uso di armi da fuoco, il che portò il Belfast Celtic nel 1921 ad abbandonare il campionato per diversi anni, a causa delle crescenti preoccupazioni riguardo la sicurezza dei propri giocatori e tifosi.
Questo non impedì al club di sopravvivere e di ritornare a competere nel campionato nord-irlandese nel 1924, quando la situazione sembrava essersi apparentemente calmata, riprendendo la striscia di vittorie interrotta qualche anno prima. Tra il 1925 e il 1948 i celtici di Belfast alzarono il titolo nazionale al cielo ben 11 volte e la coppa in 7 occasioni.
Tuttavia, un nuovo e definitivo capitolo della sua storia era ormai imminente.
Uno dei Murales che ricordano il Belfast Celtic
Le tensioni all’interno del paese erano tutt’altro che sopite, come dimostreranno i Troubles qualche anno dopo, e gli episodi di violenza continuarono all’interno del calcio nordirlandese, raggiungendo il culmine in occasione del Boxing Day del 1948, durante il derby tra i “Big Two”, i due club più importanti del paese. Da un lato appunto il Belfast Celtic, dall’altro la sua diretta antitesi, il Linfield FC.
Fondato nel 1886 da operai protestanti nella Sandy Row, un'area di Belfast notoriamente ostile ai cattolici, rappresenta la massima espressione della comunità anglicana e lealista.
All'interno del club esiste una sorta di regola non scritta che impedisce l'ingaggio di giocatori cattolici o comunque non protestanti e i suoi colori sociali, quel Blu che richiama ai Rangers di Glasgow, sembrano voler accentuare ancora di più la netta separazione dai cugini biancoverdi del Belfast Celtic.
La partita tra Belfast Celtic e Linfield F.C. del campionato 1948/1949 è ricordata come uno degli eventi più drammatici e controversi nella storia del calcio nordirlandese.
Quel pomeriggio del 27 dicembre 1948 il freddo e la pioggia avvolgono Windsor Par, stadio del Linfield FC.
Il cielo è plumbeo e gli ignari 30.000 spettatori seduti sulle tribune non hanno idea che, di lì a poco, saranno testimoni di un dramma che cambierà per sempre il corso della storia del calcio nordirlandese con ripercussioni che si sarebbero fatte sentire per decenni.
Il Linfield era in testa alla classifica, con 3 punti in più dei rivali cittadini e una vittoria del campionato mancava da troppo tempo a Windsor Park, in quella Belfast protestante e lealista, che negli ultimi anni aveva dovuto assistere in maniera impotente al dominio dei cugini cattolici dei Celtic. L’attaccante del Belfast Celtic Jimmy Jones Tra le file dei Belfast Celtic, ovvero l’altro lato della “barricata” tutte le speranza erano riposte nel bomber Jimmy Jones.
La formidabile macchina da gol, alla sua seconda stagione con i bianco-verdi, aveva già annotato ben 27 centri in 19 partite, condite da 6 triplette.
Tanto che il club aveva anche respinto un’offerta di trasferimento di 16.000 sterline dal Newcastle United per trattenere il giocatore a Belfast.
Inoltre, Jones adorava giocare al Windsor Park contro i Blues e i suoi 6 gol nei precedenti tre incontri ne erano la prova.
A questo va aggiunto che Jimmy proveniva da una famiglia protestante della contea di Armagh e che da giovane era stato scartato proprio dal Linfield, particolare abbastanza rilevante per la logica lealista, che vede il suo indossare la maglia degli storici rivali come un vero a proprio tradimento.
La partita è ovviamente tutt’altro che tranquilla, con entrate al limite della correttezza e un'atmosfera così carica che si poteva tagliare con il coltello.
Alla fine del primo tempo il Linfield rimane in nove uomini a causa degli infortuni di Russell e Bryson in un periodo in cui le sostituzioni nel calcio non erano ancora ammesse. L’ultimo dei due fu causato da un’entrata troppo dura dell’idolo dei Belfast Celtic Jimmy Jones, causando a Bryson la frattura della gamba.
La notizia fu prontamente comunicata a tutti i 30.000 spettatori dello stadio dallo speaker, il che contribuì ad intensificare ulteriormente l’atmosfera ostile già fomentata dalle forze speciale britanniche nella "Spion Kop", la curva dei padroni di casa.
Un’espulsione per parte riduce ulteriormente il numero dei giocatori in campo e quando i Celtic passano in vantaggio a pochi minuti dalla fine, grazie ad un calcio di rigore di Harry Walker, il titolo sembra volare nelle mani dei seguaci di San Patrizio.
Perciò, quando all’ultimo minuto arriva il pareggio lealista per mano di Simpson, la pressione accumulata sugli spalti di Windsor Park esplode definitivamente, con relativa invasione di campo perpetrata dei sostenitori del Linfield e la susseguente caccia all’uomo.
George Hazlett, l'ala del Celtic racconta “Al momento dell’invasione, quando ho visto i poliziotti che avrebbero dovuto essere neutrali, lanciare i loro berretti in aria in segno di gioia, ho capito che non avremmo avuto nessuna protezione da parte loro … “.
Il bersaglio principale è ovviamente “il traditore” Jimmy Jones, che verrà assalito da una trentina di tifosi del Linfield inferociti che gli spezzeranno una gamba.
Il rapido trasporto in ospedale e le abili doti dello zelante chirurgo ortopedico di Belfast Jimmy Withers, non solo gli salvano la vita ma evitano anche l’amputazione dell’arto.
Questo permetterà miracolosamente a Jimmy di continuare la sua carriera da bomber nelle serie minori con altre 200 reti fino al giorno del suo ritiro, con la gamba destra leggermente più corta della sinistra …
Jimmy Jones posa davanti al murales a lui dedicato
All’indomani del disastro, Il consiglio di amministrazione del Belfast Celtic, ancora sconvolto dall’assenza di protezione da parte della polizia, accusò la stessa di essere rimasta passiva durante l'attacco e di non aver compiuto alcuna azione per prevenirlo.
Inoltre, i dirigenti del club ritenevano che la risposta della Irish Football Association fosse stata del tutto inadeguata, con la chiusura di Windsor park per i due susseguenti match casalinghi come unica sanzione.
Decisero perciò di prendere la situazione in mano e di ritirarsi dal campionato corrente, quello del 1948/1949, come segno di protesta (al suo posto viene preso dai Crusader FC, un club del nord di Belfast).
Era ormai palese a tutti, che non erano più considerati i benvenuti.
È la fine del Belfast Celtic, che dopo una breve tournée’ degli Stai Uniti ritornerà in patria e deciderà di non iscriversi al successivo campionato e scomparendo definitivamente. Da quel giorno il calcio nordirlandese non sarà più come prima.
Perderà la sua storica e più rappresentativa squadra, fino a quel momento detentrice di ben 19 titoli nazionali.
Gran parte del tifo dei gloriosi bianco-verdi nordirlandesi confluirà nel sostegno ai citati cugini scozzesi del Glasgow Celtic, prima squadra britannica, ricordiamolo, ad alzare al cielo una Coppa dei Campioni nel 1967.
"Quando non avevamo nulla, avevamo il Belfast Celtic."
Questa espressione, condivisa da molti sostenitori del club, cattura l'essenza di una squadra che ha significato molto di più di un semplice team calcistico diventando un simbolo di orgoglio, identità e resistenza per la comunità cattolica e nazionalista della citta di Belfast.
Gli altri racconti sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
Irlanda del Nord.
Una terra che porta ancora con sé le cicatrici di un conflitto etnico-religioso mai risolto, che ha segnato in maniera indelebile la sua storia e che, talvolta, si intreccia perfino con il calcio.
Qui, nel cuore pulsante di Belfast, dove le strade raccontano storie di lotta e speranza, si erge la memoria di una squadra che ha lasciato un segno indelebile non solo nello sport, ma anche nell'anima di un'intera comunità.
All'incrocio tra la Falls Road, un'area residenziale prevalentemente cattolica e di ispirazione repubblicana, e la Donegal Road, sorgeva lo storico Celtic Park, sede del leggendario Belfast Celtic Football Club. Fondato nel 1891, il club ha vissuto una storia ricca di successi, ma anche di sfide e controversie, riflettendo le tensioni politiche e sociali dell'Irlanda del Nord, caratterizzate nel corso dei decenni da crescenti divisioni dovute all’occupazione britannica.
Belfast si presentava come un microcosmo di conflitti etnici e religiosi, con una popolazione divisa tra unionisti, principalmente protestanti, che desideravano rimanere parte del Regno Unito, e nazionalisti, per lo più cattolici, che aspiravano a un'Irlanda unita e indipendente.
In questo contesto complesso, il Belfast Celtic si è affermato come un emblema di orgoglio per la comunità cattolica e nazionalista, diventando un punto di riferimento per gli immigrati e le famiglie della classe operaia, che cercavano un senso di appartenenza.
Le partite del club trascendevano il semplice ambito sportivo, trasformandosi in autentici eventi politici e culturali.
I tifosi si univano non solo per sostenere la squadra, ma anche per riaffermare la loro identità in una società che spesso li emarginava.
Emersa in un periodo in cui il calcio era un modo per le comunità di esprimere la propria identità ha vissuto nel corso della sua storia un cammino non privo di ostacoli, fino al suo scioglimento finale nel 1949.
I fondatori si erano ispirati al più noto Celtic Glasgow F.C., il club degli emigrati irlandesi in Scozia, adottandone gli stessi colori, le strisce orizzontali verdi e bianche e appunto ribattezzando il loro stadio nella Fall Road con lo stesso nome del più noto Celtic Park di Glasgow, dandogli addirittura lo stesso nomignolo, “The Paradise”.
Già negli anni '20 e '30, il club si trovò a dover affrontare non solo avversari sul campo, ma anche le crescenti tensioni politiche che avvolgevano l'Irlanda del Nord visto che la violenza settaria e le divisioni sociali che caratterizzavano il paese durante questo periodo e che influenzarono anche il mondo del calcio.
Dopo secoli di ostracismo nei confronti della cultura locale, gaelica e cattolica, nel 1921 il trattato anglo-irlandese divise l’Ulster: tre contee entrarono a far parte della Repubblica d’Irlanda, mentre le altre sei rimasero legate al Regno Unito formando l’Irlanda del Nord con capitale Belfast.
Con la proclamazione dello Stato Libero d’Irlanda anche il campionato venne diviso in due: “The Irish Football Association” al nord e la “Football Association of the Irish Free State” (oggi “Football Association of Ireland”) nel resto del paese.
Le frizioni tra la due fazioni aumentarono in maniera esponenziale e con essa gli episodi di violenza alle partite di calcio tra Club di diversa “ideologia”, spesso caratterizzati dall'uso di armi da fuoco, il che portò il Belfast Celtic nel 1921 ad abbandonare il campionato per diversi anni, a causa delle crescenti preoccupazioni riguardo la sicurezza dei propri giocatori e tifosi.
Questo non impedì al club di sopravvivere e di ritornare a competere nel campionato nord-irlandese nel 1924, quando la situazione sembrava essersi apparentemente calmata, riprendendo la striscia di vittorie interrotta qualche anno prima. Tra il 1925 e il 1948 i celtici di Belfast alzarono il titolo nazionale al cielo ben 11 volte e la coppa in 7 occasioni.
Tuttavia, un nuovo e definitivo capitolo della sua storia era ormai imminente.
Uno dei Murales che ricordano il Belfast Celtic
Le tensioni all’interno del paese erano tutt’altro che sopite, come dimostreranno i Troubles qualche anno dopo, e gli episodi di violenza continuarono all’interno del calcio nordirlandese, raggiungendo il culmine in occasione del Boxing Day del 1948, durante il derby tra i “Big Two”, i due club più importanti del paese. Da un lato appunto il Belfast Celtic, dall’altro la sua diretta antitesi, il Linfield FC.
Fondato nel 1886 da operai protestanti nella Sandy Row, un'area di Belfast notoriamente ostile ai cattolici, rappresenta la massima espressione della comunità anglicana e lealista.
All'interno del club esiste una sorta di regola non scritta che impedisce l'ingaggio di giocatori cattolici o comunque non protestanti e i suoi colori sociali, quel Blu che richiama ai Rangers di Glasgow, sembrano voler accentuare ancora di più la netta separazione dai cugini biancoverdi del Belfast Celtic.
La partita tra Belfast Celtic e Linfield F.C. del campionato 1948/1949 è ricordata come uno degli eventi più drammatici e controversi nella storia del calcio nordirlandese.
Quel pomeriggio del 27 dicembre 1948 il freddo e la pioggia avvolgono Windsor Par, stadio del Linfield FC.
Il cielo è plumbeo e gli ignari 30.000 spettatori seduti sulle tribune non hanno idea che, di lì a poco, saranno testimoni di un dramma che cambierà per sempre il corso della storia del calcio nordirlandese con ripercussioni che si sarebbero fatte sentire per decenni.
Il Linfield era in testa alla classifica, con 3 punti in più dei rivali cittadini e una vittoria del campionato mancava da troppo tempo a Windsor Park, in quella Belfast protestante e lealista, che negli ultimi anni aveva dovuto assistere in maniera impotente al dominio dei cugini cattolici dei Celtic. L’attaccante del Belfast Celtic Jimmy Jones Tra le file dei Belfast Celtic, ovvero l’altro lato della “barricata” tutte le speranza erano riposte nel bomber Jimmy Jones.
La formidabile macchina da gol, alla sua seconda stagione con i bianco-verdi, aveva già annotato ben 27 centri in 19 partite, condite da 6 triplette.
Tanto che il club aveva anche respinto un’offerta di trasferimento di 16.000 sterline dal Newcastle United per trattenere il giocatore a Belfast.
Inoltre, Jones adorava giocare al Windsor Park contro i Blues e i suoi 6 gol nei precedenti tre incontri ne erano la prova.
A questo va aggiunto che Jimmy proveniva da una famiglia protestante della contea di Armagh e che da giovane era stato scartato proprio dal Linfield, particolare abbastanza rilevante per la logica lealista, che vede il suo indossare la maglia degli storici rivali come un vero a proprio tradimento.
La partita è ovviamente tutt’altro che tranquilla, con entrate al limite della correttezza e un'atmosfera così carica che si poteva tagliare con il coltello.
Alla fine del primo tempo il Linfield rimane in nove uomini a causa degli infortuni di Russell e Bryson in un periodo in cui le sostituzioni nel calcio non erano ancora ammesse. L’ultimo dei due fu causato da un’entrata troppo dura dell’idolo dei Belfast Celtic Jimmy Jones, causando a Bryson la frattura della gamba.
La notizia fu prontamente comunicata a tutti i 30.000 spettatori dello stadio dallo speaker, il che contribuì ad intensificare ulteriormente l’atmosfera ostile già fomentata dalle forze speciale britanniche nella "Spion Kop", la curva dei padroni di casa.
Un’espulsione per parte riduce ulteriormente il numero dei giocatori in campo e quando i Celtic passano in vantaggio a pochi minuti dalla fine, grazie ad un calcio di rigore di Harry Walker, il titolo sembra volare nelle mani dei seguaci di San Patrizio.
Perciò, quando all’ultimo minuto arriva il pareggio lealista per mano di Simpson, la pressione accumulata sugli spalti di Windsor Park esplode definitivamente, con relativa invasione di campo perpetrata dei sostenitori del Linfield e la susseguente caccia all’uomo.
George Hazlett, l'ala del Celtic racconta “Al momento dell’invasione, quando ho visto i poliziotti che avrebbero dovuto essere neutrali, lanciare i loro berretti in aria in segno di gioia, ho capito che non avremmo avuto nessuna protezione da parte loro … “.
Il bersaglio principale è ovviamente “il traditore” Jimmy Jones, che verrà assalito da una trentina di tifosi del Linfield inferociti che gli spezzeranno una gamba.
Il rapido trasporto in ospedale e le abili doti dello zelante chirurgo ortopedico di Belfast Jimmy Withers, non solo gli salvano la vita ma evitano anche l’amputazione dell’arto.
Questo permetterà miracolosamente a Jimmy di continuare la sua carriera da bomber nelle serie minori con altre 200 reti fino al giorno del suo ritiro, con la gamba destra leggermente più corta della sinistra …
Jimmy Jones posa davanti al murales a lui dedicato
All’indomani del disastro, Il consiglio di amministrazione del Belfast Celtic, ancora sconvolto dall’assenza di protezione da parte della polizia, accusò la stessa di essere rimasta passiva durante l'attacco e di non aver compiuto alcuna azione per prevenirlo.
Inoltre, i dirigenti del club ritenevano che la risposta della Irish Football Association fosse stata del tutto inadeguata, con la chiusura di Windsor park per i due susseguenti match casalinghi come unica sanzione.
Decisero perciò di prendere la situazione in mano e di ritirarsi dal campionato corrente, quello del 1948/1949, come segno di protesta (al suo posto viene preso dai Crusader FC, un club del nord di Belfast).
Era ormai palese a tutti, che non erano più considerati i benvenuti.
È la fine del Belfast Celtic, che dopo una breve tournée’ degli Stai Uniti ritornerà in patria e deciderà di non iscriversi al successivo campionato e scomparendo definitivamente. Da quel giorno il calcio nordirlandese non sarà più come prima.
Perderà la sua storica e più rappresentativa squadra, fino a quel momento detentrice di ben 19 titoli nazionali.
Gran parte del tifo dei gloriosi bianco-verdi nordirlandesi confluirà nel sostegno ai citati cugini scozzesi del Glasgow Celtic, prima squadra britannica, ricordiamolo, ad alzare al cielo una Coppa dei Campioni nel 1967.
"Quando non avevamo nulla, avevamo il Belfast Celtic."
Questa espressione, condivisa da molti sostenitori del club, cattura l'essenza di una squadra che ha significato molto di più di un semplice team calcistico diventando un simbolo di orgoglio, identità e resistenza per la comunità cattolica e nazionalista della citta di Belfast.
mercoledì, dicembre 04, 2024
Kneecapp - Il proiettile gaelico in fondo alla rete
Un aggiornamento, a cura del nostro inviato a Dublino, MICHELE SAVINI, sulle vicende dei KNEECAPP.
In particolare sulla vittoria giudiziaria contro il Governo Britannico e sul loro recente film autobiografico.
“Ogni parola pronunciata in gaelico... è un proiettile sparato per la libertà irlandese”.
La citazione è il mantra che accompagna la narrazione del film dei KNEECAP, il chiacchieratissimo lungometraggio autobiografico che narra la nascita del gruppo hip hop di Belfast e che sta riscuotendo tantissimo successo un po’ dappertutto.
Leggendo recensioni in giro per il web, il giudizio sembra essere unanime e dopo aver visto il film confermo quanto già detto un po’ dappertutto:
KNEECAP è un misto tra Trainspotting e 8 Mile di Eminem, con più cocaina, ketamina e la lingua Gaelica come tematica principale del racconto.
La performance di Michael Fassbender, che interpreta i panni di Arlo, padre di uno dei due protagonisti ed ex paramilitare repubblicano che ha simulato la sua morte per eludere le autorità britanniche, è brillante e guida in maniera egregia la narrazione e anche i due giovani rapper, per quanto non siano attori navigati, danno prova di grande abilità e credibilità nell’ interpretare sé stessi.
La storia, per quanto un po’ romanzata, racconta la nascita del gruppo in maniera esilarante intrecciandosi abilmente con la campagna a favore del riconoscimento della lingua gaelica in Irlanda del nord (Irish Language Act del 2022), gli attriti con un’organizzazione di dissidenti vigilanti repubblicani legati all’IRA e tutto ciò che ruota intorno alla vita di due ventenni: musica, divertimento, ragazze e droga.
Tanta droga.
L’uso obbligatorio dei sottotitoli durante la visione (a meno che non siate fluenti in gaelico) e il prevedibile finale, non intaccano minimamente il giudizio su un film che per un 1 ora e 45 minuti sa offrire una perfetta combinazione di sacro e profano accompagnata da un umorismo sfrenato e a tratti esilarante che ti lascia incollato allo schermo.
Qui di seguito il trailer del film: https://www.youtube.com/watch?v=Bwt_jWBBtik
La pellicola è anche in lizza per essere la rappresentante irlandese agli Oscar 2025 per la categoria Miglior Film in Lingua Straniera.
L’idea di una loro presenza alla cerimonia degli Academy Award 2025 è tanto allettante quanto improbabile, visto le loro note posizione politiche sventolate palesemente ad ogni esibizione pubblica e a maggior ragione dopo la notizia apparsa stamane un po’ su tutti i giornali d’oltremanica.
I Kneecap hanno infatti vinto la causa legale per discriminazione contro il Governo Britannico reo di avergli negato l’accesso a dei finanziamenti pubblici a causa delle loro convinzioni politiche.
Il giudice ha stabilito che la decisione iniziale di bloccare i £14000 (circa 16000 Euro) era “illegittima e proceduralmente ingiusta” tanto che lo stesso governo britannico ha anche dovuto porre fine alla questione con un comunicato specificando che “per ridurre i costi e proteggere i contribuenti da ulteriori spese, non continueremo a contestare la decisione del giudice sul caso Kneecap”.
Non si è fatta attendere la risposta della banda rappresentata da DJ Provaj che, con addosso l’immancabile passamontagna tricolore, fuori dai cancelli della corte suprema di Belfast ha rilasciato ai giornalisti lo statement finale della band che pone la parola fine (???) su questa discussa vicenda.
“Amici Gaelici, oggi, il tribunale del governo britannico a Belfast ha stabilito che lo stesso governo britannico ha agito in modo illegale impedendo il finanziamento ai Kneecap. Per noi tutta questa faccenda non riguardava affatto le 14.250 sterline (avrebbero potuto essere 50 centesimi).
La motivazione era l'uguaglianza.
Un attacco alla cultura artistica, un attacco al Patto del Venerdì Santo stesso e un attacco ai Kneecap e al nostro modo di esprimerci.
Oggi stesso devolveremo l’intera somma a delle organizzazioni giovanili di Belfast che lavorano con le due comunità per creare un futuro migliore per i nostri giovani.
£ 7.125 verranno destinati a 'Glór Na Móna' a Ballymurphy e £ 7.125 andranno a 'RCity Belfast' sulla Shankill Road.
L'ex segretario di Stato Kemi Badenoch e il suo dipartimento hanno agito illegalmente, questo è ormai un dato di fatto.
A loro non piace il fatto che ci opponiamo al dominio britannico, che non crediamo che l’Inghilterra serva a qualcuno in Irlanda e che le classi lavoratrici di entrambi i lati della comunità meritino di meglio; meritano finanziamenti, meritano servizi adeguati di salute mentale, meritano di celebrare la musica e l’arte e meritano la libertà di esprimere la nostra cultura. Hanno infranto le loro stesse leggi nel tentativo di mettere a tacere i Kneecap.
Il motivo era che non gli piaceva la nostra arte, in particolare il nostro bellissimo poster del tour del 2019 con Boris Johnson su un razzo.
A loro non piacciono le nostre opinioni, come la nostra opposizione al “Regno Unito” stesso e la nostra fede in un’Irlanda unita, il che è un nostro diritto.
Non gli piace affatto che siamo totalmente contrari a tutto ciò che rappresentano, incarnato in questo momento dalla loro partecipazione al genocidio che si sta verificando a Gaza.
Ciò che hanno fatto è stata un’azione di tipo fascista, un tentativo di bloccare l’arte che non va d’accordo con le loro opinioni, dopo che un organismo indipendente aveva preso una decisione di concedere i fondi. I loro stessi tribunali si sono ora espressi in nostro favore, cosa che sapevamo fin dall’ inizio.
Hanno cercato di metterci a tacere e hanno fallito.
Vogliamo ringraziare enormemente i nostri avvocati per il lavoro svolto.
All’inizio della causa ci dissero che le possibilità di vittoria erano talmente alte che era “come un calcio di rigore senza il portiere”.
Ed effettivamente lo è stato … palla in rete!!!
Free Palestine!
Kneecap X“
Non succede, ma se arrivano agli Oscar, preparate i popcorn.
In particolare sulla vittoria giudiziaria contro il Governo Britannico e sul loro recente film autobiografico.
“Ogni parola pronunciata in gaelico... è un proiettile sparato per la libertà irlandese”.
La citazione è il mantra che accompagna la narrazione del film dei KNEECAP, il chiacchieratissimo lungometraggio autobiografico che narra la nascita del gruppo hip hop di Belfast e che sta riscuotendo tantissimo successo un po’ dappertutto.
Leggendo recensioni in giro per il web, il giudizio sembra essere unanime e dopo aver visto il film confermo quanto già detto un po’ dappertutto:
KNEECAP è un misto tra Trainspotting e 8 Mile di Eminem, con più cocaina, ketamina e la lingua Gaelica come tematica principale del racconto.
La performance di Michael Fassbender, che interpreta i panni di Arlo, padre di uno dei due protagonisti ed ex paramilitare repubblicano che ha simulato la sua morte per eludere le autorità britanniche, è brillante e guida in maniera egregia la narrazione e anche i due giovani rapper, per quanto non siano attori navigati, danno prova di grande abilità e credibilità nell’ interpretare sé stessi.
La storia, per quanto un po’ romanzata, racconta la nascita del gruppo in maniera esilarante intrecciandosi abilmente con la campagna a favore del riconoscimento della lingua gaelica in Irlanda del nord (Irish Language Act del 2022), gli attriti con un’organizzazione di dissidenti vigilanti repubblicani legati all’IRA e tutto ciò che ruota intorno alla vita di due ventenni: musica, divertimento, ragazze e droga.
Tanta droga.
L’uso obbligatorio dei sottotitoli durante la visione (a meno che non siate fluenti in gaelico) e il prevedibile finale, non intaccano minimamente il giudizio su un film che per un 1 ora e 45 minuti sa offrire una perfetta combinazione di sacro e profano accompagnata da un umorismo sfrenato e a tratti esilarante che ti lascia incollato allo schermo.
Qui di seguito il trailer del film: https://www.youtube.com/watch?v=Bwt_jWBBtik
La pellicola è anche in lizza per essere la rappresentante irlandese agli Oscar 2025 per la categoria Miglior Film in Lingua Straniera.
L’idea di una loro presenza alla cerimonia degli Academy Award 2025 è tanto allettante quanto improbabile, visto le loro note posizione politiche sventolate palesemente ad ogni esibizione pubblica e a maggior ragione dopo la notizia apparsa stamane un po’ su tutti i giornali d’oltremanica.
I Kneecap hanno infatti vinto la causa legale per discriminazione contro il Governo Britannico reo di avergli negato l’accesso a dei finanziamenti pubblici a causa delle loro convinzioni politiche.
Il giudice ha stabilito che la decisione iniziale di bloccare i £14000 (circa 16000 Euro) era “illegittima e proceduralmente ingiusta” tanto che lo stesso governo britannico ha anche dovuto porre fine alla questione con un comunicato specificando che “per ridurre i costi e proteggere i contribuenti da ulteriori spese, non continueremo a contestare la decisione del giudice sul caso Kneecap”.
Non si è fatta attendere la risposta della banda rappresentata da DJ Provaj che, con addosso l’immancabile passamontagna tricolore, fuori dai cancelli della corte suprema di Belfast ha rilasciato ai giornalisti lo statement finale della band che pone la parola fine (???) su questa discussa vicenda.
“Amici Gaelici, oggi, il tribunale del governo britannico a Belfast ha stabilito che lo stesso governo britannico ha agito in modo illegale impedendo il finanziamento ai Kneecap. Per noi tutta questa faccenda non riguardava affatto le 14.250 sterline (avrebbero potuto essere 50 centesimi).
La motivazione era l'uguaglianza.
Un attacco alla cultura artistica, un attacco al Patto del Venerdì Santo stesso e un attacco ai Kneecap e al nostro modo di esprimerci.
Oggi stesso devolveremo l’intera somma a delle organizzazioni giovanili di Belfast che lavorano con le due comunità per creare un futuro migliore per i nostri giovani.
£ 7.125 verranno destinati a 'Glór Na Móna' a Ballymurphy e £ 7.125 andranno a 'RCity Belfast' sulla Shankill Road.
L'ex segretario di Stato Kemi Badenoch e il suo dipartimento hanno agito illegalmente, questo è ormai un dato di fatto.
A loro non piace il fatto che ci opponiamo al dominio britannico, che non crediamo che l’Inghilterra serva a qualcuno in Irlanda e che le classi lavoratrici di entrambi i lati della comunità meritino di meglio; meritano finanziamenti, meritano servizi adeguati di salute mentale, meritano di celebrare la musica e l’arte e meritano la libertà di esprimere la nostra cultura. Hanno infranto le loro stesse leggi nel tentativo di mettere a tacere i Kneecap.
Il motivo era che non gli piaceva la nostra arte, in particolare il nostro bellissimo poster del tour del 2019 con Boris Johnson su un razzo.
A loro non piacciono le nostre opinioni, come la nostra opposizione al “Regno Unito” stesso e la nostra fede in un’Irlanda unita, il che è un nostro diritto.
Non gli piace affatto che siamo totalmente contrari a tutto ciò che rappresentano, incarnato in questo momento dalla loro partecipazione al genocidio che si sta verificando a Gaza.
Ciò che hanno fatto è stata un’azione di tipo fascista, un tentativo di bloccare l’arte che non va d’accordo con le loro opinioni, dopo che un organismo indipendente aveva preso una decisione di concedere i fondi. I loro stessi tribunali si sono ora espressi in nostro favore, cosa che sapevamo fin dall’ inizio.
Hanno cercato di metterci a tacere e hanno fallito.
Vogliamo ringraziare enormemente i nostri avvocati per il lavoro svolto.
All’inizio della causa ci dissero che le possibilità di vittoria erano talmente alte che era “come un calcio di rigore senza il portiere”.
Ed effettivamente lo è stato … palla in rete!!!
Free Palestine!
Kneecap X“
Non succede, ma se arrivano agli Oscar, preparate i popcorn.
Iscriviti a:
Post (Atom)