lunedì, marzo 27, 2023

Nirvana & New York



Prosegue la rubrica TALES FROM NEW YORK.

L'amico WHITE SEED è da tempo residente nella Big Apple e ci delizierà con una serie di brevi reportage su quanto accade in ambito sociale, musicale, "underground", da quelle parti, allegando sue foto.
Le precedenti puntate sono qui
:

https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20New%20York

I Sony Studios a NYC dove i Nirvana avevano registrato "MTV Unplugged in New York" il 18 novembre 1993.

Il live venne trasmesso su MTV il 16 dicembre 1993.
Con i Nirvana sul palco dei Sony Studios il chitarrista Pat Smear (gia' presente nei live da settembre) e la violoncellista Lori Goldston, ospite della serata Cris e Curt Kirkwood membri dei Meat Puppets che suona tre brani tratti da Meat Puppets II.
Il disco uscì postumo il 1 Novembre 1994.

I Sony Studios hanno chiuso nel 2007 e si trovavano al 460 W. 54th Street in Manhattan.
Purtroppo lo stabile e' stato demolito per far spazio ad appartamenti residenziali.

sabato, marzo 25, 2023

Northern Soul & Not Moving LTD


Si riparte con i Not Moving LTD, stasera a Sestri Ponente (Genova), "Ostaia Do neu", ore 20.30, in una data anomala e particolare.
Altre date (in progress) qui:

Venerdì 7 aprile: Cesena “ Big Barrè”
Lunedì 24 aprile: Castelnuovo (Piacenza) “Kelly’s”
Mercoledì 5 luglio: Ravenna
Sabato 8 luglio: Roma “Forte Prenestino”
Sabato 5 agosto: Cagliari DA CONFERMARE
Venerdì 15 settembre : Bologna “Frida”
Sabato 16 settembre: Lonate Ceppino (VA) “Black Inside”
Venerdì 13 ottobre: La Spezia “Shake”
Sabato 14 ottobre : Como "Joshua"

Con "NORTHERN SOUL" domenica qui a Castelnuovo di Borgonovo (Piacenza) ore 21 al "Kelly's"

venerdì, marzo 24, 2023

Mosca e San Pietroburgo. Settembre 2022 - Parte #6



L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.


Mosca e San Pietroburgo. Settembre 2022 - Quinta parte.

La prima parte qui:
https://tonyface.blogspot.com/2023/02/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022.html

La seconda parte qui:
https://tonyface.blogspot.com/2023/02/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022-2.html

La terza parte qui:
https://tonyface.blogspot.com/2023/03/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022.html

La quarta parte è qui: https://tonyface.blogspot.com/2023/03/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022_0953283786.html

La quinta parte è qui: https://tonyface.blogspot.com/2023/03/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022_0935237908.htm

Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss

Prendo un taxi per tornare in albergo, la radio trasmette una canzone di Celentano, mai sentita. Per attaccare bottone, dico all’autista che sono italiano.
“Ah Italia! Uno dei miei paesi preferiti.”
Mi confida che in realtà non è mai uscito dalla Russia e se potesse si farebbe subito un viaggio a Roma.
“Ma adesso è più difficile” commenta con una punta di tristezza.
“Oggi hanno dichiarato la mobilitazione, potresti essere coinvolto?”
“Lo sa il Signore… Può darsi di sì.” risponde con un certo distacco, come se stesse parlando delle previsioni del tempo e mi colpisce questa indifferenza, il fatto che sia così tranquillo.
“Ma scusa, tu rientri tra quelli che potrebbero essere chiamati?” insisto.
“No ma chi lo sa come andrà. Qua dicono una cosa e poi…”

Parliamo del mio lavoro, il traffico è più intenso del solito, soprattutto a quest’ora, Jurij ha più o meno la mia età, rimpiange l’Unione Sovietica, “avevamo tutto” si lamenta, “ora qua non producono più niente e devo pregare Dio che non mi si rompa qualcosa perché non ci sono pezzi di ricambio.”

Dice che non si sta male, il periodo peggiore è stato negli anni novanta.
“C’era da avere paura, sul serio. Mia mamma per poco non c’è rimasta secca, l’hanno strattonata sotto casa ed è caduta di peso. Tutto per rubarle il colbacco. Un cappello!” ribadisce alzando le mani dal volante, tanto siamo fermi in coda.
“Ci sarà stato qualche incidente.” commenta Jurij tra sé e sé.

Arrivo in albergo che sono quasi le cinque del pomeriggio, volevo fare un salto al Russkij Muzej per visitare una mostra sul design sovietico ma non mi sento un granché, ho i brividi, prendo due aspirine russe, comprate nella farmacia qui sotto, e mi metto a letto.
Accendo la tv, quattro vecchi panzoni celebrano l’annuncio di Putin.
“Con le nuove riserve il nostro esercito avrà finalmente gli uomini per portare a termine l’operazione militare speciale. Gliela faremo vedere all’occidente!”

Spengo e appoggio il telecomando sul comodino.
Ho paura di ammalarmi e di restare qua.
Cerco di ragionare razionalmente, domani ho il volo per Mosca e dopodomani rientro a casa.
Controllo sul telefono il tragitto dall’albergo all’aeroporto Pulkovo, che è dalla parte opposta rispetto alla frontiera con la Finlandia.
Sui siti dei quotidiani italiani dicono che ci sono almeno trenta chilometri di coda al confine, sono i ragazzi che cercano di scappare prima che li chiamino o che decidano di chiudere tutto.

Leggo qualche pagina del Mago del Cremlino per distrarmi, il protagonista parla delle purghe Staliniane, di come tutti quelli che erano vicini al capo, che vivevano con lui, le mogli e i bambini sempre assieme come nelle famiglie allargate, siano poi finiti giustiziati e spesso si autoaccusavano di crimini e tradimenti mai commessi pur di risparmiare ai parenti pene spaventose, comunque erano condannati a portare il marchio dell’infamia.

Il libro mi mette ancora più ansia e nel frattempo arrivano i messaggi di chi non si fa mai sentire ma oggi ha deciso di condividere gli screen-shot delle testate online, come se non le guardassi ogni cinque minuti.
“Fuga dalla Russia.”, “Presi d’assalto gli aeroporti”, “Decine di chilometri di fila alle frontiere.”

Ne avevo bisogno.
Poi arrivano le domande cretine “Ma tu ce l’hai già il biglietto di ritorno?”, i costi dei voli sono schizzati, fino a diecimila euro per la tratta Mosca-Istanbul. No, sono arrivato con un biglietto di sola andata, sai mai che poi mi trovo bene e rimango qua.

Attraverso la finestra filtra il suono dei claxon dalla strada, gli ululati delle sirene, è la prima volta che ci faccio caso da quando sono qua.
I media occidentali riportano di manifestazioni di protesta e arresti, mi piacerebbe scendere in strada e guardare cosa succede ma sono sotto le coperte, voglio tornare a casa e non posso ammalarmi, niente mal di gola, febbre, tosse o raffreddore, perché devo prendere due voli, anzi tre, e quei cazzo di termoscanner sono dappertutto.
Se riesco a tornare in Italia, tra una settimana vado in Germania a ballare.
La minaccia nucleare ogni giorno più concreta, l’ultima volta che ho avuto paura della bomba atomica ero bambino, quando ho visto il film The Day After, e adesso l’unica cosa di cui mi importa è perdermi nel parquet di una pista da ballo, tra le luci intermittenti e i suoni dei fiati e dei violini, assieme ai miei amici.

Quarantaquattro anni e fino a stamattina me ne sentivo venticinque al massimo, poi ho preso l’ascensore e nella cabina con gli specchi sui due lati, ad angolo, assorto nei miei pensieri, ho alzato la testa e ho visto la mia immagine riflessa di schiena.
Ero un po’ ingobbito, le spalle piegate in avanti, i capelli grigi e l’aria mesta da pensionato, altro che il guizzo vitale del ventenne.

Alla fine mi distraggo un po’ con Pistol, la serie diretta da Danny Boyle incentrata sulla biografia di Steve Jones, il chitarrista dei Sex Pistols, un’infanzia di abusi e violenze riscattata, in parte, dalla musica.
Non è un granché, i personaggi un po’ stereotipati, i dialoghi inverosimili, ma la colonna sonora è bella, le ricostruzioni degli ambienti sono fedeli e lo spirito dell’epoca è tratteggiato in maniera credibile.

La mattina mi alzo, faccio un po’ di squat davanti allo specchio, la tv accesa sul primo canale.
In sottofondo un esperto politico condanna la cattiveria dell’occidente, nel servizio successivo commentano con toni trionfalistici che, nonostante le sanzioni, quest’anno l’export di pesce è cresciuto in maniera sensibile.
Il presentatore saluta e invita gli spettatori a non cambiare canale e a seguire il programma contro le fake news che andrà in onda dopo la pubblicità.

Giù a colazione sono tutti sereni, tra quelli che hanno meno di quarantacinque anni non ce n’è uno che sia magro, o appena appena in forma.
Prima di partire ho un seminario nell’ufficio del distributore, per i suoi clienti, “raduniamo dieci aziende in una sala così evitiamo di andare in giro per mezza città”, me l’hanno venduta bene.
Il tassista è uzbeko, un bel ragazzo ma non tanto intelligente. Parla male il russo e dopo che gli ho detto che sono stato nel suo paese decide di sfogarsi con me.

L’Uzbekistan fa schifo, si lamenta di cose incomprensibili, dice kak skazat’, come dire, ogni due parole.
Cosa mi è venuto in mente di attaccare bottone con questo, meglio se mi facevo i fatti miei.
Continua a protestare e a parlare da solo, una nenia fastidiosa che stride con la bella giornata che si apre fuori dal finestrino, a un certo punto attacca a ridere delle altre macchine, scandisce i marchi come i nomi di vecchi amici.
“Hahaha Kia Rio.”
“Heyyy Matiz!”
“Ooohhh Tesla.”
“BMVuuuu.”

Dal distributore mi sistemo in una saletta con uno schermo tv a cui collego il pc.
Ci sono giusto 4 sedie, una brochure e una penna con il nostro logo appoggiata sopra di ognuna. Prima di iniziare scambio due parole con Ekaterina, la direttrice.
Si informa sull’orario della mia partenza, le spiego che mi sono preso per tempo ma lei insiste, mi mette agitazione, c’è la ressa in aeroporto, un casino di gente sta cercando di lasciare il paese, code per strada, rischio di perdere il volo.
Il modo migliore per farmi sentire a mio agio. Dopo qualche minuto arrivano un tipo in tuta, con i capelli rossi e gli occhi cisposi, e una ragazza con gli stivali neri fin sotto il ginocchio, i capelli biondi e lunghi e le unghie lunghe laccate di rosa confetto. Eccole qua le dieci aziende. Parlo per poco più di un’ora con lo sguardo fisso sul quadrante dell’orologio.
I trend di Milano, le basi sospese, il dettaglio, il valore aggiunto, la nicchia e la fascia di prezzo e intanto penso al mio volo, sullo schermo scorrono le immagini dei soggiorni e delle vetrine con il telaio in alluminio e il vetro fumé mentre dietro ai miei occhi si alternano i fotogrammi dell’aeroporto con la gente ammassata all’esterno per entrare, i poliziotti che cercano di tenere a bada la folla disperata.
Arredamenti che testimoniano uno stile di vita elegante ed esclusivo e lo stomaco bloccato dall’angoscia di ritrovarmi come quei poveri disgraziati che cercavano di scappare da Kabul prima dell’arrivo dei Talebani.

Termino con le formalità del caso, Ekaterina mi accompagna al cancello e aspettiamo assieme che arrivi il mio taxi.
Parla con gli occhi lucidi.
“Adesso ci saranno i referendum e passeremo dalla Operazione Militare Speciale alla guerra.”
“Potrebbero richiamare qualcuno dei tuoi dipendenti?”
“I ragazzi che lavorano in magazzino sono tutti riservisti.”
“Li hanno già convocati?”
“No ma penso sia una questione di tempo.”

Quando è iniziata la guerra Emmanuel Carrère si trovava a Mosca dove ha raccolto impressioni ed esperienze dirette per poi scrivere un reportage dai toni apocalittici in cui raccontava dei suoi amici che si preparavano a lasciare la Russia pochi giorni dopo il 24 febbraio.
Erano tutti registi, sceneggiatori e persone di cultura, più che benestanti.
Delle decine di persone che ho incrociato negli ultimi mesi non conosco nessuno che sia in grado di andarsene.
Prima di salire in auto osservo il volto di Ekaterina, è diviso in due, come l’orizzonte di San Pietroburgo.
Le labbra pitturate di rosso, piegate in un sorriso che scava due fossette sulle guance, l’azzurro delle iridi ingrigito e bagnato di tristezza. Ci salutiamo e ci abbracciamo per davvero, quasi fosse un addio.

Anche questo tassista è uzbeko ma non ha voglia di parlare.
Il cielo nel frattempo si è fatto scuro e pesante, il parabrezza si riempie di goccioline, cadono con un ticchettio delicato.
Guardo fuori dal finestrino, per anni e per migliaia di chilometri la prospettiva laterale è stata il mio punto di vista sul paese, rigorosamente dal sedile posteriore destro.
Chissà quando mi ricapiterà di tornare, di rivedere questi palazzoni.
Sullo sfondo una distesa di nuvole basse e deprimenti, ogni tanto si aprono, lasciano filtrare un raggio di sole che proietta le sagome delle auto sull’asfalto. Sarebbe bello che finisse come nei film, lo spiraglio di luce che accende la speranza.

La nostra Kia fila spedita lungo i vialoni a tre corsie, l’app del traffico non segnala rallentamenti ma nei paraggi dell’aeroporto c’è coda.
Auto, trattori, camion e furgoni, tutti in fila.
Non c’è neanche il tempo di far lavorare l’ansia che torniamo a muoverci, era un breve intasamento per lavori in corso.

Nella zona delle partenze è tutto tranquillo, c’è poca gente, nessuno davanti a me al banco del check-in, passo rapidamente attraverso gli scanner.
Già mi ero preso in anticipo, mettici le paranoie di Ekaterina, adesso mi tocca aspettare tre ore nel terminal.
Faccio due passi, subito dopo un chiosco di souvenir tradizionali c’è un negozio di abbigliamento casual e sportivo con il marchio Putin Team.
Compreresti una felpa con la stampa Squadra Mattarella sul petto?

Mi accomodo nella lounge, su un divanetto bianco in finta pelle, all’inizio non c’è quasi nessuno, poi inizia ad arrivare gente.
Sono tutti bistecconi, in prevalenza, sotto i cinquant’anni, Iphone, sneakers Balenciaga, zainetti bicolore Piquadro.
Viaggiano da soli.
Mentre aspetto mi guardo qualche altro episodio di Pistol, Sid Vicious ha ormai sostituito Glen Matlock al basso.
La prima volta che ho ascoltato Anarchy In The Uk avevo dodici anni, era l’estate del ’90, in Inghilterra, vicino a Norwich per una vacanza studio.
Sabato sera c’era il barbeque in giardino, mi stavo servendo dal bidone dove grigliavano la carne, forse parlavo con qualcuno, da un mangiacassette nero usciva della musica.
Quando è partito il riff iniziale, con la voce abrasiva di Johnny Rotten, mi è caduta la salsiccia sul piatto e sono restato accanto alla griglia fino alla fine del pezzo, stordito da quel suono potente e oltraggioso.
I Sex Pistols li conoscevo di nome, mio padre aveva l’enciclopedia del rock a volumi e c’era un capitolo dove Lydon & co venivano massacrati dalla critica e io mi immaginavo chissà cosa e invece Never Mind era proprio un bel disco.
Appena tornato dall’Inghilterra me lo sono comprato e l’ho consumato, un po’ per gli ascolti e un po’ perché non avevo grande dimestichezza con la puntina.
Qualche anno fa ho scambiati due chiacchiere con Glen Matlock dopo un concerto, e quando mi ha detto che avevo l’accento irlandese l’ho preso come un complimento.
Qualche tempo dopo ho letto la sua autobiografia dove parla male degli irlandesi e mi sono un po’ risentito di questa cosa.
Chissà se ha visto la serie Pistol, non ci fa una bella figura.


mercoledì, marzo 22, 2023

Margini di Niccolò Falsetti


Un film che tocca le corde emotive di chi c'era e queste cose le ha fatte.
Esattamente così (spesso senza lieto fine).
Senza bla bla bla dei fru fru fru da social.

Un gruppo di punk/skin grossetani organizza un concerto street punk di una nota band americana in città, con annessi e connessi della provincia profonda.

Il film e gli splendidi protagonisti sono perfettamente credibili, fino ad assumere (al di là di qualche perdonabile e non intrusiva forzatura della sceneggiatura) i caratteri di un documentario.

Bello, commovente, vero.

Il trailer:
https://www.youtube.com/watch?v=rO5_SFzES3I

martedì, marzo 21, 2023

Mauro Franco - Esilio in Costa Azzurra. Come andò veramente


Cosa succede se un delinquente in fuga da una lotta tra bande mafiose, finisce a fare il cuoco in Costa Azzurra ai ROLLING STONES mentre registrano "Exile on Main Street"?.

Parecchie cose imprevedibili, tra Keith, Mick, Gram Parsons, Anita e la band, inconsapevoli spettatori delle vendette dei rivali del protagonista Arturo.

Un libro più che divertente e avvincente, fedele alla storia del disco e di quei giorni estremi per la band "fatti di musica (molta), sesso (poco) e droga (quanto basta)", citando Anita Pallenberg.

Lettura spensierata e gradevolissima.

Mauro Franco
Esilio in Costa Azzurra. Come andò veramente
Helicon
300 pagine
18 euro

lunedì, marzo 20, 2023

Vladimir Vysockij


Riprendo l'articolo che ho dedicato ieri al cantautore sovietico Vladimir Vysockij nella pagine di "Libertà".

La criminale invasione dell’Ucraina, oltre al malefico universo di dolore e insensata devastazione, ha portato con sé una separazione politica, sociale e culturale tra quella parte d’Europa (perché di questo si tratta, la parte occidentale della Russia è sempre stata, culturalmente, Europa) e questa in cui viviamo, che durerà decenni e le cui ferite saranno complicatissime da suturare.

Abbiamo assistito a censure insensate per artisti e autori, solo perché di nazionalità russa e all’invocata messa al bando di testi classici, perché scritti nella parte “sbagliata” del mondo. Un manicheismo politicamente e intellettualmente molto comodo che, ovviamente, non tiene conto delle mille sfumature.

Bisognerebbe iniziare, ad esempio, a distinguere tra chi detiene il potere, gestendolo spesso spietatamente in funzione dei propri interessi e chi invece è vittima dei propri governanti, non ne condivide le mosse ma è costretto (o non di rado indotto) a muoversi nella loro stessa direzione. Una volta, prima del 1989, la si pensava allo stesso modo.
Noi siamo dalla parte giusta e corretta e dall’altra parte ci sono solo i cattivi e spietati che mangiano i bambini.
Invece oltre quella “cortina di ferro” si vivevano storie simili alle nostre, ricche di quelle gradazioni che pensavamo non potessero esistere.

In Unione Sovietica si pensava ci fossero i comunisti ligi al dovere e i dissidenti, vessati, bastonati, internati. Non era esattamente così.

E la storia di Vladimir Vysockij lo dimostra.

Cantautore e artista, inviso al regime comunista per la sua vita e l’attitudine anarchica e libertaria ma contro il quale non si pose mai apertamente in conflitto, pur essendo l’antitesi dell’immagine del virtuoso socialista, al servizio del popolo.
Proprio per questa modalità fu amatissimo dal pubblico sovietico che gli tributò, alla sua morte, a soli 42 anni, un bagno di folla ai funerali tenutisi in una Mosca in piene Olimpiadi del 1980, tirata a lucido e svuotata da qualsiasi potenziale “disturbatore”. In centomila persone si affollarono intorno al feretro, nonostante i media ufficiali avessero tenuto la notizia rigorosamente nascosta.

Crollato il comunismo la sua figura è diventata di culto nella Russia “democratica”, con omaggi di ogni tipo, incluso quello dello stesso Putin, nel venticinquesimo anniversario della scomparsa.
La sua fama ha valicato i confini e trovato apprezzamenti anche in Europa e Stati Uniti.

In Italia gli venne assegnato il Premio Tenco, postumo, nel 1993, occasione in cui una serie di importanti nomi del cantautorato italiano lo omaggiarono nell’album “Il volo di Volodja” a cui parteciparono, traducendo i suoi brani in italiano, Guccini, Vecchioni, Capossela, Ligabue, Milva, Branduardi, Finardi.
Lo stesso Eugenio Finardi approfondì la ricerca sulle canzoni di Visocky dedicandogli un intero album, anche questo ovviamente tradotto nella nostra lingua, “Il cantante al microfono”, nel 2008. Anche Vinicio Capossela e Paolo Rossi ne includeranno brani in loro album e spettacoli.

Il suo stile era scarno, minimale, chitarra acustica (talvolta volutamente scordata), una voce rauca, “alcolica” da incallito fumatore, vissuta, che inizialmente raccontava in modo aspro e diretto storie della malavita moscovita e della complicata realtà sovietica degli anni Sessanta ma che poi si allargò a tantissime altre tematiche connesse alla quotidianità, dall’amicizia a chiassose bevute, mettendo in primo piano la vita dei più sfortunati, oppressi, gli ultimi della società.

L’aspetto interessante è che in queste intense e sgangherate ballate non c’era una critica apertamente politica che potesse portarlo alla censura o a una reprimenda da parte del regime ma il cantare un certo tipo di storie metteva in evidenza quanto le cose non fossero così come venivano ufficialmente raccontate, rappresentando una società in cui il disagio e l’insoddisfazione, la miseria e le aspirazioni castrate, fossero ben presenti e che non tutto rilucesse nel “paradiso dei lavoratori”.

Anche i suoi concerti erano sempre piuttosto coloriti e fuori dai canoni sovietici (in cui o si parlava mellifluamente di amore o si esaltavano patriotticamente le conquiste del socialismo).
Molto ironico e pungente anche quando canta di se stesso in “Dalla vita mi ha strappato un autista sbadato”:
“La vita me l'ha strappata via un autista sbadato, le mie spoglie nessuno le ha richieste all'obitorio. Portano il mio cranio al museo di storia naturale, lo scheletro sarà usato per giocarci a domino” concludendo amaramente con “Ho camminato per le strade della vita come un comune pedone io, che per non ritardare, mi sono sempre svegliato tanto presto. Chi dirà di avermi rispettato è un bugiardo. Un ubriacone senza rispetto per se stesso”. La sua epica e il suo canto per i vinti ricorda da vicino quella del nostro Fabrizio De Andrè. Vedi ad esempio “Il volo di Volodja”:
“Signore, quando a te arriveranno gli ultimi, scordati pure dai crisantemi, arriveranno con passo celere perché sono sempre i primi a crepare e quando arriveranno gli inutili tagliando finalmente un traguardo e quando arriveranno i timidi uccisi da un sorriso, da uno sguardo e quando arriveranno le “lucciole” con i calli sui tacchi e sul cuore e chissà con quale animo saprai parlare loro d’amore e quando arriveranno i fradici vomitando grappe da due lire e ti offriranno gli ultimi spiccioli per un penultimo bicchiere, allora tu Signore chiederai pietà”.

Visocky nascondeva dietro a una proposizione musicale sguaiata, ironica e da cantastorie, un po’ guitto, un po’ teppista, una ricerca poetica attraverso versi di enorme spessore, lessicalmente colti. La sua vita artistica era costantemente boicottata dal regime che lo descriveva come un pessimo esempio per la gioventù.

Paradossalmente Visocky era quello, nella nazione modello del “servire il popolo” ma che i suoi cittadini li vessava con mille regole e divieti, che al popolo veramente arrivava, spontaneamente e direttamente.
Cantava spesso nelle fabbriche dove in molti registravano i suoi concerti su cassetta, le duplicavano e le facevano girare tra amici e conoscenti.
Scrisse una lettera di lamentela a un rappresentante del Pcus (Partito Comunista dell’Unione Sovietica) in cui sarcasticamente sottolineava:
“Sono sicuro che lei sappia che nel paese è più facile trovare un registratore sul quale ci siano le mie canzoni piuttosto che uno dove non ce ne siano”.

Ma suonava ovunque gli fosse possibile, non di rado anche in piccoli concerti in appartamenti privati, nelle università o improvvisando all’aperto.
Peraltro in un paese dove non esisteva l’imprenditoria privata e la quasi totalità dei lavoratori era pagata dalla stato, il suo perenne girovagare suonando lo fece arricchire parecchio rispetto al resto della popolazione, grazie ai biglietti dei concerti (ne faceva anche diversi al giorno, con la sua chitarra e la sua voce).

Incise alcuni dischi per l’etichetta di stato, l’unica consentita, la Melodjia ma con precise censure e indicazioni, concedendogli solo testi innocui.

La fama di Visocky era immensa in tutta l’Urss tanto che si cimentò anche come attore, sia cinematografico che teatrale, ottenendo un grande successo.
Non fu mai esplicitamente anti sovietico, anzi, continuò a professare un amore incondizionato per la sua terra e la sua patria.
Paradossalmente proprio per questo atteggiamento trovò meno interesse in Occidente, dove il “martire dissidente perseguitato” aveva sicuramente maggior appeal.

Sposa l’attrice francese Marina Vlady e ottiene i visti per potere uscire dall’Urss.
La sua vita è sempre più disordinata: alcol a fiumi, anche tanta droga, atteggiamenti sempre più frequentemente sopra le righe (era l’unico privato a Mosca a possedere un auto occidentale). Da una parte il segretario Breznev lo adorava, dall’altro era costantemente ignorato da stampa e media.

Suona in tutto l’impero sovietico e nei paesi satelliti, arriva anche a New York e Los Angeles ma le sue condizioni peggiorano sempre di più a causa degli eccessi a cui si è da tempo abbandonato e vari tentativi di disintossicazione non vanno a buon fine.

Muore nel 1980.

Ha composto più di cinquecento brani (qualcuno parla di un migliaio) l’ultimo dei quali, poco prima di morire fu indirizzato alla moglie Marina: "Una lettera a Marina":
"Ho meno di cinquant'anni, ma il tempo è breve / Protetto da te e da Dio, vita e membra / Ho una canzone o due da cantare davanti al Signore / Ho un modo per fare pace con lui”.

Владимир Высоцкий - Кони привередливые
https://www.youtube.com/watch?v=4hQQ4i7bf4U

Vladimir Vysotsky - Wolf Hunt
https://www.youtube.com/watch?v=ROmlFJamIuY

Vinicio Capossela - Il pugile sentimentale
https://www.youtube.com/watch?v=X4iv1Wg1RKY

sabato, marzo 18, 2023

Sergej Dovlatov - La valigia


Scrittore e giornalista russo particolarissimo, di spirito anarchico, poco incline alle regole e al rigore sovietico, Sergej Dovlatov fu costretto a lasciare l'URSS dopo essere stato espulso dall'Ordine dei giornalisti, pagando la sua vena dissacrante.

"La valigia" è considerato il suo libro più rappresentativo (del 1986, pubblicato in Italia da Sellerio nel 1999) in cui in otto racconti ci mostra un'URSS in sfacelo, degradata e degradante, alcolizzata e in preda ad approfittatori di ogni grammo di potere.
Il tutto con un umorismo acre e sferzante, uno sguardo disincantato sulla rovina circostante, irrisorio e sprezzante.

Divertente e malinconico, profondo e leggero.
Consigliatissimo.

“Osservai la valigia vuota. Sul fondo Marx. In cima Brodskij. E tra loro la mia unica, inestimabile, irripetibile esistenza. La chiusi. All’interno rimbalzarono sonore le palline di naftalina. Il mucchio variopinto del suo contenuto giaceva sul tavolo della cucina. Era tutto ciò che avevo messo insieme in trentasei anni, durante tutta la mia vita in Russia. Pensai: ma davvero è tutto qui? E risposi: sì, è tutto qui.” (pag.14)

"Mille volte ho messo insieme compagnie di persone per bene, ma tutto invano.
Solo in compagnia di selvaggi, schifofremici e carogne mi sono sentito a mio agio"
. (pag. 95)

Sergej Dovlatov
La valigia
Sellerio
204 pagine
12 euro

venerdì, marzo 17, 2023

Mosca e San Pietroburgo. Settembre 2022 - Parte #5



L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.


Mosca e San Pietroburgo. Settembre 2022 - Quinta parte.

La prima parte qui:
https://tonyface.blogspot.com/2023/02/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022.html

La seconda parte qui:
https://tonyface.blogspot.com/2023/02/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022-2.html

La terza parte qui:
https://tonyface.blogspot.com/2023/03/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022.html

La quarte parte è qui: https://tonyface.blogspot.com/2023/03/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022_0953283786.html

Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss

In questi giorni non ho mai indossato la mascherina, qualche mese fa me la sfilavo solo per mangiare, prima di rientrare dovevo fare il tampone e c’era il rischio di rimanere bloccato qua, in chissà quali condizioni.
Era scomodo e avvilente, ero praticamente l’unico a girare con bocca e naso coperti, adesso è molto più rilassante e soprattutto più agevole per parlare, senza impedimenti.
Quando arrivo in ufficio Svetlana, una signora corpulenta con i capelli cortissimi tinti di platino, mi avverte subito che in questo periodo “sono tutti ammalati, è pericoloso andare in giro dai clienti.”
Vuole pararsi un po’ il culo perché non è riuscita ad organizzare abbastanza incontri da aziende degne di nota ma mi mette addosso una para nera, forse quel pizzicorino alla gola…

Saluto Svetlana e le sue belle notizie e monto in auto con Nataša, il manager per lo sviluppo, in Russia tutti gli impiegati sono manager, poi bisogna vedere se semplice, staršij o veduščij, senior o quadro, ci sono sempre mille ruoli e millemila gradazioni che valgono solo nei biglietti da visita.

Nataša mi dice che ha concordato l’incontro presso una fabbrica di cucine con il designer principale, “gli ho detto che avrei portato un tecnico esperto” mi confida soddisfatta.
Sarei io, il tecnico esperto.
Quasi venti anni che faccio questo lavoro, me la cavo a gestire persone, incontri e presentazioni, conosco le caratteristiche della zama o dell’acciaio, il valore aggiunto, le quote di foratura sul pannello per montare una giunzione, l’interasse dei perni me li ricordo senza aprire il catalogo, ma ho sempre paura di essere scoperto, che mi capiti di trovarmi di fronte uno di quelli che le forature sul pannello le fa per davvero, a mano, con la polvere che gli ricopre l’avanbraccio e bastano due domande perché scopra che non sono un tecnico, perché il bluff venga smascherato, come un verginello che pontifica di Kamasutra finché si trova a parlare con un attore porno.
Mi siedo a un tavolo con Sergej, che disegna le cucine per uno dei più grossi brand del paese, devo spiegargli come appendere un pensile al muro, come fissarlo in modo sicuro.
Non ci credo quando mi dice che pensava di usare due reggicristalli, dettagli grandi poco più di un’unghia che servono a bloccare i ripiani di vetro nei mobili, mi chiede se possono sostenere una struttura da centocinquanta chili. Esco dall’incontro che mi sento, a livello tecnico, Rocco Siffredi.

In macchina cerco di fare due chiacchiere con Natalja, certe volte sarebbe meglio guardare il telefonino, come ho fatto per anni, ma il roaming costa caro e sui siti di informazione ci sono solo brutte notizie.
“Hai un fidanzato?”
“Sì, ci siamo messi insieme a gennaio.”
“Dove vi siete conosciuti?” domando con curiosità, perché mi interessano le dinamiche di rimorchio in una metropoli come San Pietroburgo.
“Sui social.”
“Ah! Facebook?”
“Tinder.”
“Cosa fa il tuo ragazzo?” continuo con l’interrogatorio, perché Natalja non parla, non fa domande, nemmeno quelle più banali.
“Fa alpinismo industriale.”
“Eh?”
“Lava i vetri dei grattacieli e dei centri commerciali, si appende con l’imbragatura da scalatore.”
“Esci mai da San Pietroburgo per lavoro?”
“Dipende, se c’è di mezzo un dealer, l’incontro va concordato con la direzione, e se effettivamente è una komandirovka, un viaggio di lavoro, bisogna vedere se mi riconoscono l’indennità di trasferta e quanto mi danno.
Se non è tanto o se è troppo complesso è meglio lasciar perdere.”

Dal dealer non ci va nessuno perché al venditore non pagano i panini e la benzina o non gli danno la diaria, oppure è uno sbattimento tirare fuori i talloncini da firmare e timbrare.
Si potrebbe vendere di più e crescere, basterebbe muoversi, farsi due o trecento chilometri per presentare gli articoli, ricordare al distributore che esisti e che deve spingere i tuoi prodotti ma c’è sempre questa difficoltà a prendere l’iniziativa, assumersi delle responsabilità.
E ancora, dopo tanti anni, mi colpisce il divario tra chi è dotato di un’intelligenza acuta, quasi geniale e chi è impantanato in uno stagno di ottusità, incapace di alzarsi e andare oltre.
Se da noi è tutto più uniforme, livellato, qua no, sempre picchi ed eccessi.

L’incontro successivo è organizzato in una fabbrichetta in centro, all’interno di un edificio di mattoni rossi che ancora resiste alla gentrificazione dei quartieri urbani. Fanno mobili, complementi, porte, scale, pannellature.
Mi girano le palle, perché se fanno tutto vuol dire che producono pochi mobili e che senso ha che io venga apposta dall’Italia per seguire un cliente che alla fine dell’anno avrà comprato cento euro di roba.
Cerco di farmi scivolare l’incazzatura mentre aspettiamo qualche istante davanti alla reception, in una sala ampia e illuminata.
Sulle pareti lucide sono appesi dei campioni di cornici e altri elementi di decoro intarsiati, roba che va poi sugli infissi o a ridosso dei corrimani, li tengono bene in vista così il cliente finale può scegliere direttamente. Una ragazza fasciata in un vestitino nero ci accompagna nell’ufficio dei tecnici.
Attraversiamo lo stanzone con i macchinari per il taglio e la bordatura dei pannelli; vicino alle finestre sono disposti dei banchi di lavoro per le operazioni manuali, forature speciali, rifiniture di dettagli con la carta vetrata e il pennellino.
C’è polvere dappertutto, il pulviscolo sospeso nell’aria nonostante le bocche di aspirazione, i tubi metallici che corrono lungo i muri, l’ambiente saturo dell’odore pungente di colle e solventi che ti prende lo stomaco e ti blocca la gola.
Il pavimento è quasi bianco dagli scarti di lavorazione.
Producono roba da oligarchi, intarsiata, tutto nero laccato e oro, a metà tra una bara e un pianoforte a coda.
L’ufficio è abbastanza spazioso ma disordinato, sopra le nostre teste fiumi di cavi e il neon che sfarfalla.
Bisogna parlare ad alta voce per il suono metallico delle frese che ragliano oltre la parete scrostata.
Fa caldissimo.
Inghiotto una mestolata di saliva amara come il rafano, cerco di non pensarci e inizio a presentare gli articoli. Sono l’unico che parla, nessuno che intervenga o faccia una richiesta di chiarimento.
Natalja, vicino a me, è assorbita dallo schermo dell’Iphone.
Mi guardano con le palpebre socchiuse, qualcuno fatica a restare sveglio.
Fanno di sì con la testa per rispetto, hanno anche liberato un tavolo perché ci appoggi sopra la mia roba, uno sta registrando quello che dico col telefonino, chissà quante volte se l’ascolteranno questa presentazione.
Li fisso dritto negli occhi, perché non si addormentino, questi non capiscono niente e fanno mobili, è il loro mestiere e ne so più io.

L’ultimo incontro va meglio, i clienti ci ricevono in uno show-room atmosferico, uno spazio curato, con le luci soffuse.
Ci accomodiamo attorno a un tavolo da riunioni con il top in finto cemento, le ragazze sono carine, con le unghie levigate e smaltate, ogni volta ti domandi come facciano a lavorare con quella manicure.
Mi collego col pc ad uno schermo appeso alla parete, proietto immagini di interni dall’ultima fiera di Milano.
Parlo ininterrottamente per due ore, li prendo per mano e li accompagno in un viaggio alla scoperta delle ultime tendenze del design mondiale.
Un percorso che tocca i punti cardinali dell’estetica e della funzionalità e si snoda tra basi sospese, profili in alluminio, sfumature di rosa e mattone, ante a ribalta in tinte pastello e finiture opacizzate.
La destinazione finale è il dettaglio, l’elemento strutturale, quasi invisibile, che tiene assieme la costruzione e dona al mobile un valore aggiunto, caratterizzante.
Il focus sui reggiripiani in nickel nero, i pistoncini slim per un’apertura ammortizzata, il meccanismo a filo che unisce minimalismo e dinamicità.
Ogni tanto alzo lo sguardo e le osservo, hanno gli occhi fissi sullo schermo, sembrano davvero rapite dalle immagini e dall’eloquenza della mia voce, calda, coinvolgente, ispirata.
Alla fine mi dedicano un applauso spontaneo, non gli è mai capitato un incontro del genere.
Tanto non serve a niente, anche questo è un piccolo produttore, quantità ridotte e poche possibilità di crescita.
Natalja mi guarda impassibile, il telefono in mano.

Alla sera mi trovo con Igor’, l’amico che avevo incontrato anche a luglio, quando faceva caldo e il sole era alto fino a tardi.
Adesso l’azzurro è sparito ma c’è un bel movimento lungo il Nevskij, ragazzi con le cuffiette, turisti impacciati, impiegati appena usciti dal lavoro che si dirigono verso la metro.
Ci sistemiamo in un pub che si affaccia su un canale, un vecchio magazzino infighettato dove servono più di cinquanta tipi di birra, parliamo del nuovo lavoro di Igor’.
“Ho mollato l’altra azienda dopo dieci anni, i nostri fornitori erano quasi tutti italiani, compravamo turbine per l’estrazione del gas ma adesso è merce sanzionata.
Me ne sono andato prima che mi licenziassero.”
“Il nuovo posto com’è?”
“È un mese che sono lì e le ultime due settimane sono stato in ferie, a Yerevan, in Armenia.”
“Piaciuto?”
“Sì bellissimo, trenta gradi. Unica cosa, troppi russi. Impossibile trovare un tavolo al ristorante senza prenotazione, anche i cafè col wi-fi gratuito erano sempre occupati da gente che lavorava e che faceva video-call.”
Gli chiedo come faccia ad accedere a Facebook e mi insegna come scaricare un VPN, una specie di portale che ti permette di visitare i siti come se ti trovassi in un altro paese. Provo e funziona, Netflix e Disney si aprono, la pubblicità è in olandese.
Cerchiamo di non parlare della guerra, Igor’ dice che a casa ha litigato con suo padre.

“È il classico russo che crede a tutte le stronzate che sente in tv, ce ne sono milioni come lui.
Non ti dico che discussioni. Io e la mamma stiamo all’opposizione.” dice ridendo, scopre i denti bianchi, regolari che qua in Russia non è una cosa tanto comune.

Ma per quanto uno ci provi a pensare ad altro, le notizie degli ultimi giorni sono preoccupanti, pare che il Cremlino voglia organizzare dei referendum nelle regioni contese all’Ucraina, per annetterle alla Russia.
E questo non porta niente di buono, se quei territori vanno sotto Mosca e poi ci casca sopra anche un petardo, la Russia sarebbe legittimata dallo statuto ad utilizzare armi nucleari per difendere il proprio territorio.

“Speriamo che non succeda niente, che trovino un accordo.” si augura Igor’ un po’ sovrappensiero, lo sguardo incollato sulla fajita di pollo che gli hanno appena portato.

Lungo i marciapiedi camminano dei ragazzi in tuta, lo zaino sulle spalle, i fili degli auricolari che escono dalle orecchie e scendono lungo il collo, procedono calpestando sul selciato le foglie ingiallite delle betulle e mi domando se sanno già, se toccherà anche a loro.
Costeggiamo il Golfo di Finlandia, un raggio di sole buca le nuvole e attraversa lo scheletro metallico del ponte, sorretto da una ragnatela di tiranti, le silhouette di palazzi moderni illuminate sullo sfondo.
Dura un attimo, poi il cielo torna a chiudersi.

L’incontro è in uno showroom in stile loft, acciaio e cemento e linee pulite all’interno di un vecchio edificio in mattoni rossi, restaurato da poco.
Ci sono una decina di persone nella stanza, le ragazze sono bellissime, zigomi pronunciati, occhi grandi e azzurri che proiettano sguardi algidi, distanti ma basta una parola, un mezzo sorriso perché rivelino un calore inaspettato, come la leva che apre un passaggio segreto.
I tecnici invece hanno l’aria scazzata, tipo “che perdita di tempo”, “chi si crede di essere questo?”.
Dopo le prime battute si rilassano e fanno qualche intervento, alla fine sono tutti sorridenti, anche quelli in età da mobilitazione.

Business as usual.

giovedì, marzo 16, 2023

Jack Kerouac in NYC

.


Prosegue la rubrica TALES FROM NEW YORK.

L'amico WHITE SEED è da tempo residente nella Big Apple e ci delizierà con una serie di brevi reportage su quanto accade in ambito sociale, musicale, "underground", da quelle parti, allegando sue foto.
Le precedenti puntate sono qui
:

https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20New%20York

Jack Kerouac (Mr Beatnik) e la moglie Joan Haverty si trasferirono al 454 West 20th Street a Manhattan nel quartiere Chelsea, nel Gennaio del 1951.

Qui scrisse la maggior parte del materiale che finí nella novella "On The Road" pubblicata nel 1957.

Parte degli scritti che finirono nel libro erano stati iniziati nel 1949, in quel periodo viveva nel Queens al 133-01 Cross Bay Boulevard.

mercoledì, marzo 15, 2023

Sly and the Family Stone


SLY STONE compie oggi 80 anni.
Gli ho dedicato una doppia pagina nelle pagine del "Manifesto".

Uno dei rari casi in cui il classico (e spesso tristemente famoso) connubio tra genio e sregolatezza ha avuto un perfetto equilibrio, anche se alla distanza la seconda ha di lunga battuto il primo.
Sly Stone, nato Sylvester Stewart, compie 80 anni ed è ricordato per alcuni capolavori della black music, per avere ideato uno dei gruppi più esplosivi, creativi, innovativi di tutti i tempi.
Anche se andrebbe onorato più per la sua idea rivoluzionaria, in largo anticipo sui tempi, di voluta inclusione razziale, sociale, artistica.

L’adolescenza è subito caratterizzata da uno stretto legame con la musica, con la classica partecipazione al coro gospel della sua chiesa di riferimento, a Vallejo, California e la formazione di una prima band vocale, gli Stewart Four con i fratelli Rose, Freddie (poi membri della Family Stone) e Loretta.

Sly è un bambino prodigio che a undici anni suona più che bene tastiere, chitarra, basso, batteria oltre a cantare alla perfezione. Tra le tante iniziali esperienze musicali la più significativa è quella dei Viscaynes, gruppo doo wop con cui suona nei primi anni Sessanta, con Coasters e Platters come riferimento.
Ma la band ha una particolarità, pressoché inedita e piuttosto inusuale ai tempi negli States: è composta da due uomini, due donne, un uomo di colore, Sly, e un filippino, perfetta immagine di una (ancora improbabile e “scandalosa”) totale integrazione. Una manciata di 45 (in "Yellow moon" il sax lo suona Jerry Martini che poi sarà colonna portante della Family Stone) di moderato successo e lo scioglimento.
Solo Sly proseguirà nella musica, riproducendo, volutamente, il concept "misto" della line up nella nuova incarnazione artistica, gli/le altri/e si disperderanno con alterne fortune.

Sly si immerge nella carriera professionistica partendo dall’attività di dj in una radio dell’area di San Francisco, la KSOL.
Il proprietario lo ricorda così: “Era un ragazzo formidabile, vivace, adattabile a ogni situazione. Quando parlava, invece di volere far sembrare a qualcuno che veniva dal ghetto, era sofisticato. Si sedeva e parlava con modalità pertinenti all’interlocutore che si trovava davanti. Si vestiva con grandissimo gusto e trasmetteva il meglio della black music in circolazione”.

Entra nella Autumn Records di San Francisco e incomincia l’attività di produttore, lavorando per artisti come i già affermati Beau Brummels e Mojo Men e con una band esordiente, i Great Society con alla voce una giovane Grace Slick, di lì a poco leader dei Jefferson Airplane.
Suona anche come turnista per una lunga serie di nomi prestigiosi, tra cui Marvin Gaye e Dionne Warwick.
Ma incomincia a mettere le basi per il suo futuro grande progetto.

Sly and the Stoners suonano cover rhythm and blues ma con una personalità particolare e arrangiamenti più ricercati.
Allo stesso tempo suo fratello fa più o meno le stesse cose, con Freddie and the Stone Souls. Inevitabile unire le forze, raggruppare gli elementi migliori e creare una nuova band:
Sly and the Family Stone. Uomini, donne, neri, bianchi, tutti insieme.

Jerry Martini (saxofonista): “Sono cresciuto con musicisti bianchi a cui la black music non solo non piaceva ma proprio non interessava. Sly voleva intenzionalmente musicisti bianchi da inserire nella band. Sapeva cosa voleva, aveva le idee chiare ed era anni avanti rispetto al suo tempo. Voleva assolutamente un batterista bianco. C’erano decine di batteristi neri migliori di Gregg Errico e centinaia di saxofonisti che mi facevano il culo. Ma lui sapeva esattamente cosa voleva. Ragazzi, ragazze, bianchi, neri”.

Inizia una delle avventure più appassionanti e creative nella storia della musica rock. Non è un caso che il primo album, pubblicato nel 1967 si chiami “A whole new thing” (“una cosa completamente nuova”).
L’intenzione è quella giusta, i semi stanno germogliando ma, paragonato a quanto arriverà successivamente, è un lavoro ancora acerbo in cui la vena soul/rhythm and blues, seppure non riprodotta nei canoni classici, è ancora ampiamente prevalente e si perde nelle modalità già conosciute.
Bisogna aspettare poco.

Nell’aprile 1968 esce “Dance to the music”, un album rivoluzionario che osa andare oltre, mischiando soul, gospel, rock e psichedelia e che crea quello che verrà di lì a poco definito semplicemente “psychedelic soul”. Le voci ora sono quattro, che si alternano, si rispondono o sovrappongono, le chitarre innestano la distorsione, i fiati spingono verso il soul, i ritmi sono sempre veloci e frenetici, le modalità compositive assolutamente innovative.
Il brano che titola l’album, imposto dalla casa discografica che voleva qualcosa di marcatamente pop pur se inviso alla band che lo considerava troppo commerciale, diventa una hit e proietta la band alle porte del successo.
L’album è invece più complesso e ricercato, vedi il medley di dodici minuti “Dance to the medley” che riprende il tema della title track, lo sviluppa, lo dilata, con la base ritmica pulsante, inserti vocali a cappella, follìa, freschezza, irruenza.
I testi si aprono a istanze pacifiste e anti razziste, il manifesto di Sly Stone si sta mettendo sempre più a fuoco.
Pochi mesi dopo esce il terzo album “Life”, che gioca spesso e volentieri con effetti speciali e vocalità originalissime, come sempre suonato praticamente live in studio e con “campionamenti” anti litteram come in “Plastic Jim” in cui il coro cita esplicitamente “Eleanor Rigby” dei Beatles. Il disco è tra i più pulsanti della loro discografia, ritmi altissimi, canzoni allegre e ottimiste, divertimento e ballo.

Siamo alla viglia del salto in alto. “Stand!” esce poche settimane prima della trionfale apparizione al Festival di Woodstock e all’Harlem Cultural Festival di New York e sfonda nelle classifiche, vendendo mezzo milione di copie, grazie anche all’epico “I want to take you higher”, diventato un classico della black music ma non solo.
L’album vira verso un proto funk torrido, sperimentale, dalle influenze jazz, psichedeliche, rock, non risparmia espliciti riferimenti anti razzisti in “Don’call me nigger, whitey”, si avventura nei quattordici minuti della suite di ipnotico funk “Sex Machine”.
La band è famosa, vende un sacco di dischi, ha il programma concertistico pieno di richieste ma Sly sprofonda velocemente in un abisso di abusi, cocaina, alcol, eccessi di ogni tipo. La casistica e l’aneddotica di questo periodo sono ricchissime.

Sly diventa più conosciuto per la quantità di concerti che annulla o in cui semplicemente non si presenta (a volte con la band sul posto e lui ancora a casa e ormai senza più possibilità di raggiungere il luogo) che per quelli in cui effettivamente suona. Stephani Owens, manager di Sly ai tempi: “A volte dovevo noleggiare un aereo privato, poi un elicottero, poi una Limousine per portare Sly a un concerto mentre il gruppo lo aspettava da ore, senza sapere dove fosse o se sarebbe arrivato. Più aumentava l’uso della droga, più i concerti venivano cancellati”.
Le sue finanze vengono erose oltre che per i soldi spesi in droghe e in lussi di vario tipo, anche dalle continue penali che deve pagare per concerti saltati e contratti non rispettati.
Trascorre giorni e giorni in studio di registrazione senza mai dormire, sempre sotto effetto di sostanze, continuando a incidere musica, ad aggiungere strumenti e sovra incisioni ma non riuscendo mai a concludere nulla di concreto.

Nella band la tensione sale sempre di più, Sly si rinchiude nella sua villa di Los Angeles, passando il tempo a produrre musica, cancellare quanto registrato e a rifarlo di nuovo, spesso non ricordando o riconoscendo quanto fatto la sera prima.
Ovviamente circondato da una fauna di spacciatori, consumatori, approfittatori, gente di malaffare, e anche cani feroci e aggressivi.
Uno dei protagonisti dei quei folli party senza fine, JB Brown, ricorderà anni dopo: “Il concetto di “famiglia” era una delle cose più ipocrite che avessi mai visto. Ho pensato che fosse una situazione triste perché li rispettavi, pensando che fossero una specie di chiesa e che la loro cosa religiosa fosse valida. Ma poi li hai visti permettere che tutte queste stronzate avvenissero... le cose più strane che tu abbia mai potuto pensare di vedere”.

Ci vorrà molto tempo ma alla fine riesce a pubblicare quello che rimane un capolavoro assoluto della black music. “There’s a riot goin’ on” (risposta a “What’s goin on” di Marvin Gaye), accompagnata da un’iconica copertina con la bandiera americana con il nero al posto del blu e i soli al posto delle stelle, è il drammatico ma realistico manifesto di un’epoca. E’ finita l’esaltazione pacifista, la gioia di vivere, di ballare.
Lo sguardo è pessimista, decadente, la “rivoluzione” è sfumata per sempre, gli ideali crollati, la droga pesante ha inondato e annegato tutto. Sly registra suonando quasi tutto da solo e utilizzando, tra i primissimi, una batteria elettronica, su cui ne reincide una acustica, mischiando i due suoni, creandone uno unico e all’avanguardia. I brani sono spesso lunghi e ipnotici, profondamente funk, ricoperti da una patina paranoica e malata.
Da cui emergono gioielli pop come “Family affair” che divenne il successo più importante della sua carriera, raggiungendo il primo posto in Usa e Canada.
La sua vita continua ad essere caratterizzata da brutte storie, dipendenza e una carriera ormai distrutta a causa della conclamata inaffidabilità, anche e soprattutto nei confronti di musicisti e collaboratori mai pagati.

Abitualmente si tendono a ignorare gli album successivi che, seppure non altezza di quanto finora inciso, rimangono di alto livello qualitativo.
Ormai, pur se uscendo ancora con il classico nome della band, sono prevalentemente composti e suonati dal solo Sly, con l’aiuto di vari collaboratori e membri della Family Stone reclutati all’occorrenza.
“Fresh”, uscito nel 1973 dopo due anni di lavoro e di continui remix e reincisioni, è un lavoro più convenzionale, in un contesto di funk tradizionale che non si avvale dei picchi di creatività abituali ma, oltre al successo del singolo “If you want me to stay”, conserva un grande groove e un’immediata riconoscibilità, oltre a un marchio di fabbrica inimitabile. Nomi come Miles Davis e Brian Eno lo citarono come ispirazione, sia da un punto di vista artistico che di tecnica di registrazione.

Anche “Small talk” del 1974 è un buon lavoro, anche se è evidente che l’ispirazione incomincia a calare e che il livello compositivo sembra essersi adagiato su schemi prevedibili, come confermano “High on you” (attribuito al solo Sly Stone) del 1975, “Heard Ya missed me, well I’m back” (1976), “Back on the right track” (1979), uscito a tre anni dal precedente ma con meno di mezzora di musica, a base di un funk soul piuttosto convenzionale.
Sembra incredibile ma “Ain’t but the one way” del 1982 è di fatto l’ultimo album di Sly Stone.
Al suo fianco un gigante del funk come George Clinton dei Funkadelic. Le premesse erano fantastiche ma le cose non andarono per il verso giusto. Pare che a un certo punto Sly sia letteralmente sparito dalla circolazione piantando l’album a metà e costringendo il produttore Stewart Levine a confezionare il disco con quanto rimasto a disposizione (tra cui una versione curiosa ma alquanto discutibile di “You really got me” dei Kinks che già aveva provinato in chiave soul negli anni Sessanta). Le vendite saranno scarse e chiuderanno di fatto ogni possibilità di un nuovo contratto discografico.

Di Sly si perdono progressivamente le tracce, torna alle cronache quando viene arrestato più volte per possesso di cocaina. Riemerge occasionalmente per sporadiche collaborazioni discografiche (con Funkadelic, Earth, Wind and Fire, Bobby Womack, Bar-Kays) ma non contribuiscono minimamente a distoglierlo dai suoi guai (anche economici).

Nel 1993 Sly and the Family Stone entrano nella Rock n Roll Hall of Fame.
Introdotti nella cerimonia da George Clinton, improvvisano una spettacolare “Thank you” a cappella, in attesa che arrivi anche il loro leader.
Che si materializza per un solo minuto, in un completo azzurro elettrico, un taglio di capelli improbabile, condizioni fisiche precarie, parla per venti secondi e scompare di nuovo.
Tornerà a farsi vedere nel 2007 con una serie di apparizioni con la Family Stone in tour, con cui suonerà talvolta per brevi momenti, altre volte con più continuità.
Ma la salute è palesemente deteriorata, i filmati su Youtube sono spesso impietosi, talvolta si alza e sparisce dal palco.
Pare accertato che abbia vissuto a lungo (e tuttora viva) in una roulotte con cui si sposta nell’area di San Francisco.

Nel 2011 esce “I’m back! Family and friends” un discutibile album con suoi brani classici risuonati e parzialmente remixati, la sua voce roca e debole che emerge a malapena dai nuovi arrangiamenti.
La presenza di grandi della musica come Ray Manzarek, Jeff Beck, Johnny Winter, George Clinton, Ann Wilson non solleva il disco da una trascurabile mediocrità. In un’intervista del 2015 appare sorridente, sereno e rilassato davanti al suo camper ma ormai senza più voce.

Negli ultimi anni ha battagliato a lungo con ex manager per ottenere il risarcimento di diritti non pagati (ma che pare avesse già ceduto in precedenza) tra cause vinte e poi rigettate.
Un talento che si è espresso al massimo del suo splendore nell’arco di un lustro, con ottimi precedenti e qualche lodevole prosieguo. Distrutto artisticamente e umanamente dall’incapacità di gestire successo e dinamiche logistiche dell’industria e del sistema discografico.
Probabile vittima di riflesso di quell’opera di distruzione dell’antagonismo creato dai movimenti per i diritti degli afroamericani a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta (forse non è casuale che fosse piuttosto vicino alle istanze dei Black Panthers).

Fortunatamente è riuscito a lasciarci segni tangibili e indimenticabili della sua arte, della quale continuiamo a godere, nonostante “tutto”.
La drammatica, triste ma perfetta chiosa è di Freddie “Stone” Stewart, fratello di Sly, sempre al suo fianco fin dagli esordi, chitarrista e cantante, diventato poi il Pastore Frederick Stewart della Chiesa Evangelica di Vallejo (città di residenza degli Stewart/Family Stone), dove ancora si esibisce con chitarra e voce in salmi cantati:
“Sly sa cosa non ha fatto. Sa cosa vorremmo che avesse fatto. So che vorrebbe aver fatto di meglio. Lo sa da me e da molte altre persone. Credo che ci pensi tutto il tempo”.
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