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lunedì, novembre 04, 2024

Dapper Dan

Riprendo un mio articolo apparso nelle pagine di "Alis" de "Il Manifesto" sabato 26 ottobre, dedicato allo stilista Dapper Dan.

Non è stato mai sufficientemente sottolineato quanto le sottoculture (e relativa espressione artistico/musicale) siano andate di pari passo con l’estetica dei loro esponenti e riferimenti sonori, influenzandosi a vicenda. Valgano per tutti l’esempio dell’eleganza (sotto cui covava l’aggressività adolescenziale) dei mod (il “rabbia e stile”, slogan dei nostrani Statuto, ne è una perfetta sintesi) o dei punk (difficile scindere l’estetica estrema di Sex Pistols o Clash dalla loro musica arrembante).

Dapper Dan è in qualche modo un corrispettivo nell’ambito hip hop (contesto molto ampio, variegato e difficile da inquadrare) che dimostra come talvolta il fenomeno sottoculturale sia inspiegabilmente e inconsapevolmente, pur con mille diversità, collegato, da una parte all’altra del mondo.

Nato ad Harlem, New York, nel 1944, con il nome di Daniel R. Ray (il soprannome “dapper” è un mix di elegante, azzimato e raffinato).
Una vita, come spesso accadeva da quelle parti in quegli anni, complessa. A tredici anni diventa giocatore d'azzardo nella "Mecca della moda e della musica nera" come ha spesso definito il suo quartiere. Una vita di strada che presto gli diventa stretta. Malcolm X è la giusta guida con il suo motto: "Se vuoi capire il fiore, studia il seme".

Dan frequenta la Countee Cullen Library, lavora come giornalista, cerca uno spiraglio come scrittore, cambia stile di vita, diventa vegetariano, compie un lungo giro in Africa, alla ricerca del “seme” indicato da Malcolm X.

Torna a New York nel 1974, si dedica alla moda e alla sartoria (inizialmente rivendendo dal cofano della sua auto, per finanziarsi, oggetti rubati in strada), raccogliendo fondi per la sua Dapper Dan's Boutique, sulla 125th Street, tra Madison e Fifth Avenue, nel 1982, talvolta aperta 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana.
Non è una scelta bizzarra ma la semplice necessità di servire chi vive soprattutto di notte e senza orari: boss della droga e spacciatori, gangster, pugili e rapper.

La vita di strada ne fa un attento osservatore di ciò che succede e si muove intorno a lui, ne coglie gli aspetti più urgenti, immediati e amati dai potenziali fruitori.
Il passato da giocatore d’azzardo lo fa osare senza paura, affinandone l’esplosiva miscela di creativo e uomo d'affari.
Le difficoltà, soprattutto a causa di questioni razziali (difficile trovare chi si fidasse di un nero di Harlem, a quei tempi, per fare affari) per procurarsi stoffe e materiale per il lavoro, vengono in qualche modo superate grazie alle sue abilità di faccendiere.
“Avevo cominciato comprando i capi dei marchi più desiderati di allora, ma a me non volevano vendere, perché all'epoca non volevano fare affari con i neri”.

Dapper Dan mette a frutto le sue radici nella “malavita” e le coniuga con l’innata creatività, incominciando a produrre vestiti dal taglio personale, “arricchiti” dai marchi più famosi, da Gucci ad Armani, aggiunti ad hoc.
Un modo per essere cool e alla moda, anzi, ancora più avanti del trend ufficiale, con pochi soldi. Sostanzialmente quello che facevano, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, i giovani mod in Inghilterra.
In questo caso l’operazione è ancora più rivoluzionaria. Dove abitualmente il “sistema” attinge dal suo laboratorio gratuito, ovvero la strada, e dalla creatività che arriva dai giovani antagonisti, per poi industrializzare le loro nuove idee e guadagnarci, Dapper Dan, “ruba” dalla moda ufficiale per metterle a disposizione dei giovani meno abbienti.

"Ho decostruito i marchi fino all'essenza del loro potere, che era lo stemma del logo, e ho ricostruito quel potere in un nuovo contesto. I nomi e gli stemmi significavano ricchezza, rispetto e prestigio. I miei clienti volevano acquisire quel potere, ed era quello che offrivo. Quella era l'era dei pantaloni a zampa d'elefante e delle scarpe con la zeppa, e quando li mescolavo con i vestiti esotici che avevo portato con me dall'Africa, era uno spettacolo da vedere. I miei outfit entusiasmavano le persone dei campus più rinomati tanto quanto chi viveva nelle strade di Harlem”.

Dapper Dan acquista stock di borse Gucci, Fendi e Vuitton, ne ritaglia i loghi trasferendoli su giacche, pantaloni, cappelli e scarpe (è diventata famosa la New Balance con le G di Gucci). Il suo stile unico, attraverso la modalità di inventare nuovi capi, “appropriandosi” dei marchi famosi, lo rende popolare tra i rapper ma anche nel mondo malavitoso.
Tra i suoi primi clienti ci sono Alpo Martinez e Aize Faison, grandi boss della droga che volevano un’estetica la più ricca, appariscente e chiassosa possibile, in perfetta linea con lo stile gangster.
Ma sono soprattutto i nuovi riferimenti musicali della neo nata scena hip hop a catalizzare l’attenzione verso il lavoro di Dapper Dan.

Da lui si servono LL Cool J, Public Enemy, Run DMC, Bobby Brown, Big Daddy Kane, Salt'n'Pepa.
Eric B. & Rakim per l’album “Follow the leader” si fanno confezionare dallo stilista due giubbotti di pelle con i rispettivi nomi in lettere dorate sulle spalle e il logo di Gucci.
Da un punto di vista strettamente legale, l’operazione rimane in bilico tra il lecito e l’illegalità.

Non vende infatti un capo spacciandolo per il marchio riportato, che usa solo in funzione estetica ma che è “firmato” da lui. E’ una ardita, fresca, “piratesca” forma di creatività, non lontana dal “Do It Yourself” dei primi punk che personalizzavano i propri vestiti (su originale indicazione di Vivienne Westwood e Malcolm McLaren) con scritte, cerniere, strappi, spille da balìa o i mod che facevano lo stesso con i propri scooter trasformandoli in nuovi mezzi con l’aggiunta di specchietti e altri accessori. La creatività dal basso, dalla strada, che spiazza e disorienta l’apparato rigido delle estetiche prefabbricate.

Probabilmente il cliente più famoso è Mike Tyson che si fa confezionare un giubbotto con il titolo della canzone dei Public Enemy “Don’t Believe The Hype” sul retro.
A questo punto Dapper Dan diventa una piccola celebrità, il suo nome non è più solo pertinenza della strada e del quartiere. E incominciano i guai. Le grandi case di moda si accorgono dei “furti” e partono lettere degli avvocati e minacce penali.

Nel 1992 è costretto a chiudere per evitare serie conseguenze. Continua a lavorare in maniera più discreta senza più “disturbare” i grandi nomi.
Quando nel 2017 Gucci “ruba” a Dapper Dan l’idea di una giacca, originariamente da lui creata per la campionessa olimpionica Diane Dixon, senza dargliene credito, scoppia una diatriba che riporta il nome dello stilista in primo piano. Il designer di Gucci, Alessandro Michele, si difende dicendo che era un voluto omaggio.
In segno di pace chiama Dapper Dan a collaborare con la casa e nel 2018 aprono insieme, ad Harlem, il negozio Dapper Dan Of Harlem.

Da allora è un susseguirsi di riconoscimenti ufficiali, di suoi capi esposti al MOMA, facendo entrare la sua arte antagonista in un contesto più mainstream ma senza diluirne lo spessore artistico originario.
La sua figura ricorre in decine di brani hip hop da LL Cool J in “Hip Hop” a Tyler The Creator in “Odd Toddlers”, Lil Wayne in “Ain’t Got Time”, Ol’Dirty Bastard in “Back in the air”.

L’incipit del suo libro di memorie, recentemente uscito, riassume al meglio, in poche righe, la sua incredibile vita:
“Ho avuto difficoltà a cucire insieme la mia vita, quindi Dio mi ha reso un sarto. Poi è nato il sogno di diventare designer. Non ho permesso a niente e nessuno di strapparmi via quel sogno.
Ora, dagli angoli di Harlem alle passerelle d’Europa, passando per l’Africa, sto vivendo quel sogno.”

lunedì, ottobre 07, 2024

*** Seun Kuti & Egypt 80 - Heavier Yet (Lays The Crownless Head)
*** Myles Sanko - Let It Unfold
*** Thee Sacred Souls - Got A Story To Tell
*** Leon Bridges - Leon
MT Jones - s/t

Seun Kuti & Egypt 80 - Heavier Yet (Lays The Crownless Head)
Il figlio più giovane di Fela Kuti ne ha raccolto l'eredità musicale e sociale, portando avanti il progetto Egypt 80.
Al quinto album approda alla nostra Record Kicks con sei brani di afrobeat, soul, funk.
Prodotto da Lenny Kravitz, con ospiti del calibro di Damian Marley e Sampa The Great, sfodera un album di grandissima potenza emotiva e comunicativa, con testi che invitano al cambiamento sociale e all'emancipazione della sua gente. Sound perfetto, ritmi contagiosi, canzoni eccellenti.

Myles Sanko - Let It Unfold
Il cantante e musicista inglese è una garanzia di qualità.
Il nuovo lavoro ce lo conferma alle prese con un mix di soul, funk, retaggi afro, marcate influenze jazz, qualche cenno di hip hop.
Produzione eccelsa, Curtis Mayfield spesso in agguato.
Album di grande pregio, ricchissimo di groove e canzoni eccellenti.

Thee Sacred Souls - Got A Story To Tell
Al secondo album la band di San Diego ribadisce l'amore per il vintage soul anni Sessanta, sia nei suoni che nella composizione.
I ritmi sono costantemente bassi, mellow, soft, bluesy, con un uso elegante di archi e fiati, tra Percy Sledge e il Marvin Gaye più dolciastro.
Per gli amanti di questo mood, un ascolto perfetto.

Leon Bridges - Leon
All'eleganza del pluri premiato soul man texano siamo abituati e il nuovo album ne è una felice conferma.
Tredici brani di soul melodico, caldo, raramente up tempo ("Panther City" è una bellissima eccezione), con tinte gospel blues e jazz.
Alla lunga i toni sono ripetitivi e il lavoro perde mordente ma l'ascolto rimane gradevole.
MT Jones - s/t
Ep d'esordio autoprodotto per il cantante inglese. Quattro ottimi brani mid-tempo intrisi di care buone vecchie influenze soul 60/70. Ottima voce e interpretazione di gran gusto. Da tenere d'occhio.

lunedì, giugno 24, 2024

Judith Hill

Riprendo l'articolo che ho pubblicato sabato per "Il manifesto" nella sezione "Alias".

“Letters from a black widow”.
Strana e tremenda storia quella a cui fa riferimento il titolo del nuovo album di Judith Hill, talentuosissima musicista, compositrice e cantante, da lungo tempo sulla scena musicale con un curriculum da brividi, nonostante un'età ancora piuttosto giovane (40 anni). Figlia di una pianista giapponese e del bassista afroamericano Robert Lee “Pee Wee” Hill, già a fianco di Billy Preston e Thelma Houston, tra i tanti. I due si conoscono quando entrano nella band di Chester Thompson (batterista di Frank Zappa, Santana, Genesis).

“Ero giovane quindi non mi rendevo conto di quanto fosse importante avere quei musicisti in giro per casa. Voglio dire, ora penso: "Quello era Billy Preston".

Judith cresce in un brodo primordiale di musica e già a quattro anni è accreditata di un brano composto da lei. Frequenta una scuola dove è l'unica bambina di colore, subendo le classiche angherie:
“Mi sono trovata davvero in difficoltà da bambina. Volevo solo degli amici. Volevo stare con le ragazze ma non potevo, venivo derisa per i miei capelli e il mio aspetto (una nippo-afroamericana non suscitava sicuramente tante simpatie in una scuola solo “bianca” Nda).
"È quella sensazione terribile quando suona la campana del pranzo e sai che andrai nel parco giochi da sola o presa in giro e sarà traumatico ogni giorno."

E' solo nel 2007 all'età di 23 anni che incomincia a dedicarsi professionalmente al canto, dopo un diploma in composizione musicale, andando in tour in Francia con Michel Polnareff.
Tornata negli States incomincia una strepitosa carriera da corista, a fianco di alcuni dei migliori nomi della scena pop rock soul internazionale, da Stevie Wonder a Rod Stewart, Dave Stewart, Gregg Allman, Mike Oldfield, Carole King, Robbie Williams, George Benson, tra gli altri.

Nel 2009 il salto di qualità con Michael Jackson che la chiama a duettare con lui nel tour di “This is it” (Judith compare nell'omonimo documentario). Prova per mesi ma il 25 giugno dello stesso anno Jacko muore e il tour è ovviamente cancellato.
“La mia prima grande occasione è stata la triste cerimonia commemorativa per Michael. E' stata anche una bellissima esperienza spirituale. Ma la prima volta che sono stata vista dal pubblico è stato quando ho cantato “Man in the Mirror” alla cerimonia. Michael è stato davvero di grande ispirazione, guardando come lavorava. E' stato fantastico collaborare con lui".
Nel 2013 si cimenta nella versione americana del contest “The Voice”. Le sue interpretazioni sembrano sbaragliare tutti ma viene clamorosamente eliminata, suscitando proteste e sconcerto.
La carriera incomincia a prendere comunque una strada positiva, collabora con John Groban e apre il tour inglese di John Legend oltre ad altre situazioni minori.
Partecipa al docufilm “20 Feet from Stardom” del 2013 (dedicato proprio ai coristi, coloro che accompagnano le stelle della musica ma non hanno mai l'opportunità di essere in primo piano).
Vince però un Grammy Award per la migliore musica da film.

Se la prima grande occasione con Michael Jackson era finita prima di incominciare, la sorte gliene presenta un'altra.
Durante una trasmissione in onda su una Tv europea, alla domanda con chi le sarebbe piaciuto collaborare risponde: Prince!
Il grande musicista la vede casualmente, ne rimane impressionato e decide di contattarla e invitarla ai suoi studi Paisley Park e alla presentazione del suo nuovo album “An official age”. E' lì che tra i due incomincia un'intensa storia artistica ma, pare, non solo:
"Ci tenevo profondamente a lui. Mi ha detto che mi amava e che per me ci sarebbe sempre stato".

Prince le propone di fargli sentire qualche suo brano, che apprezza e decide di produrre, intervenendo negli arrangiamenti e mettendo a disposizione il suo genio e la sua band. In tre settimane registrano il travolgente esordio di Judith Hill, “Back in time”, ricco di elementi funk e con la mano di Prince che si sente spesso evidente ma che ha già in sé una grande dose di personalità.

Nell'aprile anche Prince muore, per overdose. Aveva già avuto una settimana prima un collasso mentre era in aereo proprio con Judith a fianco ed era stato “riportato in vita” a stento. Incomincia qui un incubo per la musicista (cantante, pianista, chitarrista, compositrice di tutte le sue canzoni). Gli hater si scatenano, le imputano la morte delle due grandi star, di portare sfortuna, le arrivano minacce di ogni tipo, anche di morte.
Novella Mia Martini nippoafroamericana.

Lo stesso ambiente musicale la guarda spesso con sospetto e un briciolo di disprezzo. Quella “protetta” da due dei più grandi nomi nella storia della musica pop, ora se la deve cavare da sola. Ce la farà?
"Ho lottato per riuscire davvero a sentire che ero in grado di essere sufficiente a me stessa o che la mia storia contava.
Ho sempre pensato che il mio nome contasse solo perché era in relazione a qualcun altro."
La sua vita sprofonda in un baratro psicologico, continua a suonare e a pubblicare ottimi album, sempre all'insegna di un mix di black music, jazz, pop, suonati e cantati benissimo e dall'alto potenziale commerciale ma quell' “ombra nera” che la avvolge non se ne va (tutt'ora riceve messaggi anonimi di disprezzo e di accuse per la scomparsa dei due geni della musica).
“Per molti anni non sapevo come sarebbe andata a finire.
Magari ero seduta in un ristorante e
improvvisamente passava in sottofondo una canzone di Prince e a quel punto la mia giornata finiva. Capitava in qualsiasi posto del mondo mi trovassi. E' stato un periodo davvero molto duro”.

Arriva ora il suo nuovo, quinto, album, un vero e proprio capolavoro in cui troviamo soul, funk, blues, gospel, jazz, sperimentazione, rock, elettronica, hip hop, con la sua voce spettacolare a tenere le fila.
A tratti ricorda Macy Gray o Erikah Badu, a volte Prince e altre Sly and the Family Stone o perfino Aretha Franklin ma la personalità e l'ecletticità che sprigionano l'album sono uniche e originalissime. Come sottolineato il titolo è un esplicito e doloroso richiamo alla sua tormentata vicenda: “Lettera da una Vedova nera” / Letters from a Black Widow”.

Black Widow è il soprannome che le è stato dato a seguito delle morti di Michael Jackson e Prince.

L'album esprime tutta la frustrazione e il dramma di questa condizione, soprattutto nell'esplicita “Black Widow”, una ballata con voce e pianoforte protagonisti, come se uscisse da un lontano repertorio di Bessie Smith, Billie Holiday o Nina Simone, stessa forza dirompente, per poi trasformarsi un brano di rock pesante, duro e lacerante. Il coro la chiama “Vedova nera, vedova nera” e lei disperata risponde:
“Ho costruito queste quattro mura per proteggermi dal mondo / O forse è il contrario / quello non è il mio nome/ ehi signore, non è il mio nome / ehi sorella, non chiamarmi così / Io non sono una vedova nera, un cattivo presagio/ Non ti ho fatto niente di male / Vedova nera non è il mio nome...Il mio crimine è l'esistenza, quindi ho mantenuto le distanze/ Lontana, così lontana da tutti / come osi dirlo? Vedova Nera non è il mio nome / Vedova Nera, non hai cuore? Forse è vero, forse è vero / Non avvicinarti troppo, sono un cattivo juju / Sono maledetta perché sono stata morsa /Sono nera e mi è proibito.”

Un album tanto potente quanto amaro e drammatico che potrebbe chiudere un oscuro cerchio e avere il potere taumaturgico di una nuova (ennesima) rinascita.
La donna Judith Hill e il suo smisurato talento la meriterebbero con tutto il cuore.

mercoledì, aprile 17, 2024

Cymande

Riprendo l'articolo scritto per "Il Manifesto" lo scorso sabato.

“Getting it back: The Story of Cymande” del regista Tim MacKenzie-Smith (recentemente presentato al festival Seeyousound di Torino) è un documentario che riporta l'attenzione su un nome pressoché sconosciuto in Italia ma, in generale, altrettanto trascurato, pur essendo stato seminale per la musica in inglese degli anni Settanta.

Nati a Londra nel 1971, sono i figli putativi delle prime migrazioni caraibiche verso l'Inghilterra, iniziate simbolicamente con il famoso viaggio della “Empire Windrush”, la nave che il 22 giugno 1948 sbarcò 492 passeggeri (ufficiali, più, si presume, qualche clandestino) in arrivo da Giamaica e dintorni (le West Indies, così erano soprannominate ai tempi le colonie inglesi nei Caraibi).
La Gran Bretagna post guerra mondiale aveva bisogno di manodopera volonterosa, giovane e a basso costo e per questo migliaia di migranti arrivarono con la certezza di spostarsi semplicemente da una parte all'altra del regno britannico. Lo scopo diffuso era di guadagnare un po' di soldi e tornare nelle proprie terre a proseguire una vita maggiormente dignitosa.
La delusione fu drammatica. Sfruttati, discriminati per il colore della pelle, relegati in case malsane, in quartieri fatiscenti, esclusi dalla società, parìa, reietti, rifiuti.
Devastati moralmente, compromessi fisicamente da un clima antitetico a quello in cui erano nati, i nuovi cittadini in terra inglese si riorganizzarono lentamente in comunità culturalmente e socialmente autogestite, da cui incominciarono faticosamente a uscire anche i primi semi di una nuova dimensione artistica.

Negli anni Sessanta gruppi come Jimmy James and the Vagabonds, in chiave rhythm and blues, Millie Small in veste ska o Kenny Lynch (figlio di genitori delle Barbados e Giamaica, il primo a registrare una cover di Lennon e McCartney, “Misery” che i Beatles inserirono solo successivamente nel loro primo album “Please please me”.
Divenne poi attore e presentatore e comparve sulla copertina di “Band on the run” dei Wings di Paul), le oscure Sugarlumps (uno dei primissimi gruppi all black femminili in Uk), furono tra le prime, rare, avvisaglie della presenza della comunità nera caraibica in Gran Bretagna.
Anche se il primo nome a sbancare le classifiche fu quello degli Equals dell'anglo guyanese Eddy Grant (poi arrivato di nuovo al successo in chiave solista), band mista che con “Baby, come back” e “I get so excited” trovò successo e notorietà. Andò meglio nei primi anni Settanta con i The Real Thing o gli Hot Chocolate (con il loro grande successo “You sexy thing”), band con componenti nati in Giamaica, Trinidad, Bahamas, Grenada, con il reggae degli emigrati giamaicani Cimarons e dei Matumbi di Dennis Bovell, grande produttore, poi a fianco di Linton Kwesi Johnson.

Dopo la seconda metà degli anni Settanta Aswad, Steel Pulse, Misty in Roots crearono le basi per una scena British Reggae, il ritorno dello ska con Specials, Madness, Selecter, The Beat, rese la black music britannica una realtà consolidata. "Abbiamo rifiutato la cautela e la moderazione che i nostri genitori avevano in un ambiente razziale ostile. Eravamo la generazione ribelle: il reggae ci ha fornito la nostra identità". (Linton Kwesi Johnson).
"Ciò di cui cantavamo era la nostra esperienza a Londra. La gente copiava la Giamaica ma non raccontava la propria storia." (Brinsley Forde degli Aswad). In questo contesto si inserisce alla perfezione l'esperienza dei Cymande e il loro “nyah-rock”, come loro stessi chiamavano il loro strano mix di calypso, funk, soul, afro sound, reggae e, non di rado, pennellate jazz e umori latin.
“Eravamo tutti caraibici, quindi le influenze erano più o meno le stesse, anche se c'erano piccole variazioni perché alcuni membri provenivano dalla Giamaica, alcuni come me e Patrick dalla Guyana e da St. Vincent. Peter Serreo, lui è di Trinidad, quindi avevamo elementi diversi ma venendo tutti dalla regione dei Caraibi, c'era connessione con la musica“. (Steve Scipio, bassista e fondatore della band).

La band operò inizialmente dal 1971 al 1974, lasciando tre album, varie soddisfazioni a livello di critica e di pubblico ma con scarso riscontro commerciale, vittime di un momento sonoro in cui a dominare i gusti degli adolescenti erano il funk più danzereccio ma soprattutto glam, hard rock e progressive.
Il primo omonimo album, del 1972, è prodotto dal loro scopritore, John Schroeder, li porta nelle classifiche inglesi e americane e anche in tour con il soul man Al Green. Un disco immediato e urgente, bissato l'anno successivo da “Second time round”, più sofisticato e curato e dall'altrettanto buono “Promised lands” del 1974. Meno ispirato “Arrival” registrato poco prima dello stop ma pubblicato solo nel 1981.
La band porta avanti un messaggio prevalentemente pacifista (simboleggiato da una colomba che appare costantemente nelle grafiche dei loro dischi) ma non risparmia brani con connotazioni politiche e sociali.
“Abbiamo il nostro simbolo su tutte le copertine degli album. Significa pace e amore, che era il tipo di messaggio che stavamo cercando di trasmettere in quel momento. Quel simbolo, e la scelta del nome, avevano anche una connessione caraibica perché la parola Cymande era usata in un antico calypso caraibico e significava pace e amore. Abbiamo preso quella parola. Ci piaceva il suono ed era così connesso. Ci è piaciuta la colomba che si collegava bene anche con il messaggio di pace e amore.” (Steve Scipio).

Nel 1974 decidono di fermare il pur interessante percorso della band.

Non ci siamo sciolti, diciamo che abbiamo tolto la band dalla circolazione, subito dopo essere tornati dagli Stati Uniti e aver fatto due tour ben accolti, comprese le esibizioni al mitico Apollo Theatre (il tempio della black music americana ai tempi). Penso che siamo stati la prima band nera del Regno Unito, a suonarci. È stato un bel risultato e ne eravamo molto orgogliosi. Dopo averlo fatto, l’idea di tornare nel Regno Unito e non essere apprezzati dall’industria discografica non aveva senso. Sentivamo che era necessario restare al livello che avevamo raggiunto oppure fermarci per un po' e vedere cosa sarebbe successo e intraprendere una linea di condotta diversa. Dopo aver fatto certe cose, non dovresti tornare indietro. Dovresti provare ad andare avanti.
C'era anche l’idea che forse avremmo dovuto semplicemente provare a restare in America e lavorare nel circuito americano. Ma eravamo tutti padri di famiglia. Le nostre vite erano qui in Inghilterra e avevamo la consapevolezza che non potevamo ricominciare e farci una vita in America.”

La band dunque si prende una lunga pausa ma saranno gli anni Ottanta a riportare l'attenzione sui Cymande quando i loro brani incominciano ad essere suonati nelle serate Acid Jazz e vari nomi del rap americano ne campionano i groove, dai De La Soul, gli EPMD, KLF, perfino i Fugees.
Nel 1994 Spike Lee inserisce la loro “Bra” nel film “Crooklyn”.
Nel 2012, alla fine, vari membri della band originale (alcuni dei quali avevano abbracciato altre fortunate carriere di avvocato e giudice) si riuniscono in una nuova incarnazione, ricominciano a calcare i palchi di Europa e States, incidono un nuovo, discreto, album.

I Cymande sono tuttora in attività con date in Inghilterra e brevi tour in Europa. “Uscimmo di scena con i Cymande nel 1975. Dico spesso che l'industria musicale britannica non ha tempo per la musica nera e ancor meno per i musicisti neri. Ora abbiamo riportato in vita il gruppo e speriamo di poter fare rialzare l'attenzione verso il gruppo e il nostro messaggio perché questo è il nostro principio, il nostro orgoglio e la nostra passione.” (Steve Scipio).

martedì, aprile 09, 2024

Back to Africa. Il ritorno alle radici dei musicisti afroamericani

Riprendo l'articolo che ho scritto sabato scorso per "Il Manifesto".

A cavallo tra la fine degli anni sessanta e l'inizio dei Settanta la lotta per il riconoscimento dei diritti degli afroamericani raggiunse l'apice, spesso in modo anche violento, sia come reazione ai soprusi che come azione propositiva.
Dagli insegnamenti di Martin Luther King alla pulsione delle idee di Malcolm X e all'attività delle Black Panthers il conflitto ideologico assunse aspetti spesso particolarmente estremi, tra i quali prese piede anche la rivalutazione delle teorie del politico e scrittore Marcus Garvey, fondatore nel 1914 della Universal Negro Improvement Association, che promosse nel 1920 una campagna per il ritorno in Africa di 30.000 famiglie afroamericane. Il progetto fallì clamorosamente, fu poi arrestato per bancarotta, espulso dagli Stati Uniti e tornò nella natìa Giamaica continuando a predicare il ritorno in Africa di tutti i neri del mondo, che non dovevano sentirsi cittadini dei paesi in cui risiedevano, ma africani.

Un'idea che colpì numerosi artisti afroamericani, attirati sia dall'idea politica che dalla musica e cultura che stava arrivando progressivamente dall'Africa, in cui, paradossalmente, il blues e il soul, nati da matrici africane, era tornati nelle radio e nei gusti dei giovani, grazie ai colonizzatori britannici e francesi che li trasmettevano in radio e suonavano alle loro feste.
L'aspetto più complesso era quello logistico, sia per le grandi distanze che per i costi elevati, la scarsità tecnologica e l'impreparazione locale nella gestione degli eventi, a cui spesso si univano problematiche politiche e corruzione.
Ma molti artisti riuscirono ugualmente ad arrivare nel luogo delle loro agognate radici, attraverso esibizioni singole o festival.

Louis Armstrong aveva già anticipato i tempi nel 1956 suonando due concerti ad Accra in Ghana, dopo essere stato accolto all'aeroporto da migliaia di persone unendosi subito a una band che suonava musica locale, riconoscendo all'interno di quelle note le origini del jazz.
E quando vide una donna che era l'immagine di sua nonna, si convinse che i suoi antenati arrivavano dalla costa ovest dell'Africa.

James Brown sbarcò in Nigeria alla fine del 1970 (poco dopo la conclusione della tragica guerra civile in Biafra) con i J.Bs e forte del successo del singolo "Sex Machine", uscito da qualche mese. Il tour influenzò tantissimo la scena musicale locale che esplose con decine di nuove band.
Tra il pubblico anche un ammirato Fela Kuti che si ritrovò poi James Brown e la band come spettatori a uno dei suoi concerti al suo locale The Shrine. Tony Allen, il grande batterista di Fela, “inventore” dell'afrobeat, rivelò che si trovò a fianco David Matthews, l'arrangiatore di James Brown:
'Osservava il movimento delle mie gambe e delle mie mani, e prendeva nota. La band prese molto da Fela quando vennero in Nigeria. È come se entrambi si influenzassero a vicenda. Fela è stato influenzato dall'America, James Brown dall' Africa.”
Il bassista William 'Bootsy' Collins ricorda:
“Fela aveva un club a Lagos, e quando ci andammo ci trattarono come dei re. Gli dicemmo che erano i funky cats più incredibili che avevamo mai sentito in vita nostra. Noi eravamo la band di James Brown, ma siamo stati completamente spazzati via! È stato un viaggio che non scambierei con nulla al mondo.”
Pare che Fela fosse inizialmente diffidente nei confronti di Brown poiché pensava che stesse cercando di rubargli il sound, ma tali paure furono velocemente dissipate.
Fela Kuti confermò il suo animo malfidente nel 1973 quando a Lagos arrivò Paul McCartney con gli Wings a registrare il suo capolavoro “Band on the run”.
Il “Black President” pretese di ascoltare le registrazioni in anteprima per verificare che Paul non stesse perpetrando un furto della musica africana.

Il 6 marzo del 1971 si tenne ad Accra in Ghana il “Festival Soul to Soul” per festeggiare l'anniversario (il quattordicesimo) dell'indipendenza dello stato africano dall'Impero Britannico.
I manifesti riportavano la dicitura “Where it all started” (dove tutto è incominciato) a rimarcare il legame ancestrale tra afroamericani e Africa.
Tra gli invitati in tanti rifiutarono, come Aretha Franklin, James Brown, Booker T & The MG's, Louis Armstrong e Fela Kuti.
Arrivarono in compenso altre eccellenze della black music come Wilson Pickett, Ike & Tina Turner, The Staple Singers, Santana, Roberta Flack, The Voices of East Harlem, affiancati da numerosi artisti locali tra cui Kwa Mensah, tra i pionieri dell'Highlife sound.
Al concerto parteciparono circa 100.000 persone che già erano davanti al palco ben prima dell'inizio previsto per le 15 (poi slittato alle 17.30).
I concerti furono applauditi e apprezzati ma in molti notarono la compostezza quasi rigida del pubblico, attento ad ascoltare e che solo con Tina Turner e Wilson Pickett, dopo ripetuti inviti, incominciò a ballare.
Mavis Staples riportò le stesse impressioni che avevano caratterizzato la visita di Louis Armstrong:
"Mi sentivo come se vedessi i miei genitori ovunque. Da piccola vedevo mia nonna prendere un ramoscello da un albero e morderlo o intingerlo nel tabacco da fiuto. Lo chiamava "bastoncino da masticare". E ho visto questa donna sul traghetto in Ghana fare proprio quello che faceva la nonna. È stato come tornare alla tua infanzia in un altro paese.”
Tina Turner e Mavis Staples furono colpite in particolar modo dalla visita che fecero nei luoghi in cui venivano imprigionati gli schiavi prima di essere portati nelle Americhe.
Mavis "Quella è stata l'esperienza più triste e pesante... ti scendevano le lacrime dagli occhi. C’era una sensazione inquietante, molto inquietante. A volte a tarda notte si sentivano lamenti e gemiti che arrivavano da lì. I loro spiriti sono ancora qui”.

Tina Turner tornò in Africa per suonare nel Sud Africa dell'apartheid nel 1979, poco dopo aver divorziato da Ike Turner, esibendosi in diverse date, tra settembre e dicembre, a Durban, Johannesburg e Cape Town.
Durante il suo viaggio le fu conferito lo status di “bianca onoraria”, scatenando le critiche dei neri sudafricani, che la accusarono di sostenere l’apartheid. Nel 1985 si pentì di aver accettato il quel titolo. “All’epoca ero ingenua riguardo alla politica in Sud Africa.
Tuttavia, negli ultimi mesi ho rifiutato diverse offerte lucrose per esibirmi in quel paese o in Botswana. Continuerò a rifiutare tali offerte finché prevarranno le circostanze attuali”.

Tornerà nel 1996 dopo la fine dell'apartheid.

Anche Ray Charles nel 1981 suonò a Sun City in SudAfrica, in un concerto aperto formalmente anche i neri ma dai costi altissimi e proibitivi per la maggior parte di loro. Ray in qualche modo pensò di compensare la sua presenza a Sun City organizzando un concerto anche a Soweto ma la comunità locale respinse fermamente e minacciosamente l'idea e l'esibizione fu cancellata. Per smorzare le polemiche dichiarò:
“Ho espresso più volte la mia contrarietà al regime del SudAfrica. In questi anni il tema dell'apartheid non è mai stato particolarmente popolare nell'opinione pubblica, neanche tra i neri americani. Ma io non ho mai perso interesse verso la questione. E per questo non posso scusarmi di aver suonato in SudAfrica con migliaia di neri sudafricani che con gli occhi bagnati di lacrime hanno espresso la loro gratitudine per averlo fatto. Questo tour ha rappresentato il primo concerto totalmente integrato in città come Johannesburg o Cape Town senza che io abbia suonato per le somme che abitualmente si prendono suonando a Sun City. Ho suonato con un'orchestra che aveva un asiatico, due latini, otto bianchi e sei neri, tutti insieme sul palco, nel bus, negli hotel, sempre insieme, senza barriere e divisioni. Non mi scuserò mai per aver sempre combattuto il bigottismo sia esso in SudAfrica, in America o in qualsiasi altro posto del mondo“.

Dal 22 al 24 settembre si tenne a Kinshasa, allora Zaire, ora Repubblica Democratica del Congo, il Festival Zaire 74.
Concepito dal trombettista sudaricano Hugh Masekela per approfittare dell'incontro di pugilato del secolo, il “Rumble in the jungle” tra Alì e Foreman, con lo scopo di unire le culture africana e afroamericana, fu messo in dubbio da un infortunio di Foreman che posticipò l'incontro di sei settimane ma si svolse ugualmente, coronato da un grande successo con 80.000 spettatori.
Gli Usa schierarono grandi calibri della musica soul come James Brown, Bill Withers, B.B. King, Fania All Stars e gli Spinners, oltre alla star cubana Celia Cruz, l'Africa rispose con Miriam Makeba, Zaïko Langa Langa, TPOK Jazz e Tabu Ley Rochereau.
Fu una grande e riuscita festa.

Organizzato a Lagos, in Nigeria, il Festac 77 (Il Secondo Festival Mondiale delle Arti e della Cultura Nera e Africana, il primo si era tenuto a Dakar in Senegal nel 1966) è stato il culmine culturale del movimento panafricano, riunendo musicisti, ballerini, stilisti, artisti e scrittori in rappresentanza di 70 paesi dell'Africa e della diaspora africana.
Si svolse dal 15 gennaio al 12 febbraio 1977.
Quattro settimane di eventi in 10 sedi, tra cui il Teatro Nazionale da 5.000 posti appositamente costruito; 15.000 partecipanti alloggiati in 5.000 appartamenti e hotel sempre tutti costruiti per l'evento; una rete di autostrade creata per evitare la consueta congestione del traffico di Lagos.
Ci sono voluti 12 anni di pianificazione, durante i quali la Nigeria è passata attraverso una guerra civile, a un assassinio presidenziale e a due colpi di stato.
Il costo finale lievitò a 400 milioni di dollari, corrispondente a quasi 2 miliardi di dollari odierni. Il coordinatore di Festac, il professor Chiki Onwauchi, dichiarò:“Se si stanno spendendo miliardi per tenere separati i neri è impossibile ritenere di spendere troppi soldi per riunire i neri”.
L'evento attirò artisti da tutto il mondo, tra cui musicisti come Stevie Wonder, Sun Ra, Donald Byrd, Archie Shepp Gilberto Gil, Fela Kuti, la Trinidad All-Stars Steel Band, Mighty Sparrow, Miriam Makebae, la band funk afro-caraibica di Londra, Osibisa, parte di una delegazione britannica che, nella cerimonia di apertura, ha sfilato lungo la pista dello Stadio Nazionale dietro lo striscione “Black People of Great Britain”.
Stevie Wonder rimase a Lagos dopo la chiusura del festival, quando, con Makeba, ha organizzato un collegamento satellitare per ricevere i suoi quattro Grammy Awards per l'album "Fullfillingness" dal vivo da Lagos. Il loro piano era quello di portare Festac all’attenzione internazionale, dopo che i media mondiali lo avevano ampiamente ignorato.
Sfortunatamente, le apparizioni del cantante sono state in gran parte ricordate per le parole di Andy Williams (che presentava lo spettacolo di premiazione) che gli chiesto: "Riesci a vederci?".
Fela Kuti, dopo avere aderito, condannò l'evento come esercizio di propaganda e si ritirò, organizzando un suo festival al The Shrine.
Il governo scoraggiò gli artisti e i visitatori del FESTAC dall'andare al club, ma molti li ignorarono, incluso Stevie Wonder, che proprio nel club fece il suo primo concerto nigeriano.

Stevie ha successivamente più volte annunciato la decisione di trasferirsi per sempre in Ghana per sfuggire al razzismo crescente in America ma al momento non ha mai attuato il suo proposito.

Significativa la testimonianza della fotografa e giornalista Marylin "Soulsista" Nance, cresciuta nel Bronx ascoltando le parole di Malcolm X e la musica di Nina Simone, che volò in Nigeria per documentare l'evento. Seguace, come molti altri afroamericani, tra i 60 e i 70 delle teorie di Marcus Garvey, si trovò a contatto con una realtà diversa: "Andai in Nigeria pensando, io sono un'africana. Sono stata portata via da quel continente ma eccomi tornata. Ma quando arrivai mi resi conto che non eravamo considerati africani ma americani. Per la prima volta realizzai di essere un'americana".

Bob Marley approdò in Africa nel 1978.
Dopo una doverosa visita in Etiopia, la nazione di Hailè Selassìe, considerato dai Rastafariani il rappresentante di dio in terra, festeggiò il primo anno di indipendenza dello Zimbabwe, suonando il 18 aprile del 1980 allo stadio Rufaro ad Harare (che aveva appena cambiato nome cancellando Salisbury, quando la nazione si chiamava ancora Rhodesia), pagandosi il viaggio e l'affitto di tutta l'impiantistica. Le condizioni logistiche erano pessime ma riuscirono a rimediare.
Il disappunto fu grande quando si rese conto che il concerto era riservato alla nuova nomenclatura del paese, con tanto di invitati eccellenti come il Principe Carlo e Indira Ghandi.
Il pubblico cercò di sfondare, la polizia replicò con cariche e gas lacrimogeni che interruppero il concerto.
Bob Marley decise allora di suonare anche il giorno successivo, in un concerto aperto alla popolazione questa volta davanti a 80.000 persone. Ai primi di gennaio Marley aveva tenuto due controversi concerti nel Gabon del dittatore Omar Bongo, davanti a 5000 persone, scelte nell'alta società del paese. Pare che la ragione fosse la storia d'amore con figlia di Bongo, Pascaline, che gestì il breve tour.

Alla fine del 1974 chi realizzò in pratica i propositi di tanti artisti e attivisti neri che dopo una breve (e remunerata) visita se ne tornavano nella tanto odiata patria, fu Nina Simone che si trasferì a Monrovia, capitale della Liberia, convinta dall'amica Miriam Makeba.
“Forse là avrei trovato un po’ di pace, oppure un marito. Forse sarebbe stato come tornare a casa”.
Erano anni in cui il paese della costa ovest africana viveva un momento sereno con il presidente progressista Tolbert che cercava di mettere a punto una riforma sociale che riducesse le diseguaglianze, incoraggiando la libertà d'espressione. Nina Simone si trovò molto bene, con la figlia Lisa al seguito, suona raramente, solo per pochi amici e si godette una vita tranquilla.
"Sono profondamente consapevole di essere entrata in un mondo che avevo sognato per tutta la vita, e che è un mondo perfetto, ora sono a casa, ora sono libera”.
Se ne andrà nel 1977, richiamata dal desiderio di tornare a suonare, registrare, fare quello che aveva sempre fatto. Poco tempo la Liberia sprofonderà in una serie di feroci dittature e lunghe guerre civili.

Successivamente i musicisti americani ed europei hanno incominciato con più frequenza a suonare in Africa e, a loro volta, quelli africani ad arrivare più agevolmente nel resto del mondo.
Le teorie di ricongiungimento alle radici ancestrali hanno progressivamente perso vigore e importanza ma probabilmente la migliore considerazione l'ha fatta una ragazza kenyota anonima, commentando un video di Kendrick Lamar realizzato durante un suo soggiorno in Ghana.
"Non mi piace davvero il modo in cui le celebrità americane descrivono l'Africa, come questa terra feticizzata che funge da nient'altro che uno sfondo estetico per loro di fronte al loro conflitto interno o qualunque viaggio mentale e personale stiano attualmente attraversando".

venerdì, febbraio 16, 2024

Festac 1977

Organizzato a Lagos, in Nigeria, il Festac 77 (Il Secondo Festival Mondiale delle Arti e della Cultura Nera e Africana, il primo si era tenuto a Dakar in Senegal nel 1966) è stato il culmine culturale del movimento panafricano, riunendo musicisti, ballerini, stilisti, artisti e scrittori in rappresentanza di 70 paesi dell'Africa e della diaspora africana.
Si svolse dal 15 gennaio al 12 febbraio 1977.

Quattro settimane di eventi in 10 sedi, tra cui il Teatro Nazionale da 5.000 posti appositamente costruito; 15.000 partecipanti alloggiati in 5.000 appartamenti e hotel sempre tutti costruiti per l'evento; una rete di autostrade creata per evitare la consueta congestione del traffico di Lagos. Ci sono voluti 12 anni di pianificazione, durante i quali la Nigeria è passata attrverso una guerra civile, a un assassinio presidenziale e a due colpi di stato.
Il costo finale lievitò a 400 milioni di dollari, corrispondente a quasi 2 miliardi di dollari odierni.
Il coordinatore di Festac, il professor Chiki Onwauchi, dichiarò:
“Se si stanno spendendo miliardi per tenere separati i neri è impossibile ritenere di spendere troppi soldi per riunire i neri”.

L'evento attirò artisti da tutto il mondo, tra cui musicisti come Stevie Wonder, Sun Ra, Donald Byrd, Archie Shepp Gilberto Gil, Fela Kuti, la Trinidad All-Stars Steel Band, Mighty Sparrow, Miriam Makeba e gli Osibisa, la band funk afro-caraibica di Londra, parte di una delegazione britannica che, nella cerimonia di apertura, ha sfilato lungo la pista dello Stadio Nazionale dietro lo striscione “Black People of Great Britain”.

Stevie Wonder rimase a Lagos dopo la chiusura del festival, quando, con Makeba, ha organizzato un collegamento satellitare per ricevere i suoi quattro Grammy Awards per l'album "Fullfillingness" dal vivo da Lagos.
Il loro piano era quello di portare Festac all’attenzione internazionale, dopo che i media mondiali lo avevano ampiamente ignorato.
Sfortunatamente, le apparizioni del cantante sono state in gran parte ricordate per le parole del presentatore Andy Williams (che presentava lo spettacolo di premiazione) che gli chiesto: "Riesci a vederci?".

Fela Kuti, dopo avere aderito, condannò l'evento come esercizio di propaganda e si ritirò, organizzando un suo festival al The Shrine.
Il governo scoraggiò gli artisti e i visitatori del FESTAC dall'andare al club, ma molti li ignorarono, incluso Stevie Wonder, che proprio nel club fece il suo primo concerto nigeriano.

Significativa la testimonianza della fotografa e giornalista Marylin "Soulsista" Nance, cresciuta nel Bronx ascoltando le parole di Malcolm X e la musica di Nina Simone, che volò in Nigeria per documentare l'evento.
Seguace, come molti altri afroamericani, tra i 60 e i 70 delle teorie di Marcus Garvey che predicava il ritorno in Africa di tutti i neri del mondo, che non dovevano sentirsi cittadini dei paesi in cui risiedevano, ma africani, si trovò a contatto con una realtà diversa: "Andai in Nigeria pensando, io sono un'africana. Sono stata portata via da quel continente ma eccomi tornata. Ma quando arrivai mi resi conto che non eravamo considerati africani ma americani. Per la prima volta realizzai di essere un'americana"

lunedì, gennaio 29, 2024

Blaxploitation

Riprendo l'articolo uscito ieri per "Libertà", quotidiano di Piacenza, dedicato alla BLAXPLOITATION

La Blaxploitation fu un genere cinematografico, a cui si agganciò anche l’aspetto musicale, che fungeva da perfetta colonna sonora, nato nei primi anni Settanta negli Stati Uniti. Epoca in cui le istanze per l’acquisizione di pari diritti da parte degli afroamericani erano all’ordine del giorno, non di rado sottolineate da sanguinose rivolte, dalle minacce delle Black Panthers a passare a vie di fatto, scontri istituzionali, in un’America ancora pesantemente coinvolta nel massacro del Vietnam.

Per la prima volta la figura cinematografica delle persone di colore passava da un ruolo comprimario, spesso macchiettistico o che in qualche modo aspirava a un’integrazione nel consesso “bianco” – vedi il Sidney Poitier di “Indovina chi viene a cena”, accettato perché di classe benestante – a quello di protagonista. Non più personaggi sconfitti, relegati a spalla di attori bianchi, aiutanti di secondo piano, simpaticoni inconcludenti ma detective vincitori che in un ambito quasi esclusivamente poliziesco, se la cavano alla grande contro la malavita, risolvono casi, sbaragliano band di pericolosi criminali. E, soprattutto, grazie alla loro forza e avvenenza, si circondano di donne disponibili e compiacenti. Dice Mattia Chiarella nel suo recente libro “Blaxploitation. Una storia americana”:
Il Cinema d' Exploitation non è un genere, è un'industria con con un metodo di produzione specifico. I film d'exploitation sono prodotti a buon mercato destinati a un facile profitto."Facili' perché offrono al pubblico ciò che non può ottenere altrove: sesso, violenza e argomenti tabù. 'Facili' perché prendono di mira il più grande gruppo demografico di spettatori: la fascia che va dai quindici ai venticinque anni'.

La qualità dei film prodotti non è mai stata eccelsa, con alcune eccezioni.
La più celebre è “Shaft il detective” di Gordon Parks, uscito nel 1971, interpretato da Richard Roundtree, che indaga nella New York cruda e dura dell’epoca, sconfiggendo i nemici senza alcun timore.
Il successo indusse gli autori a dargli due seguiti, “Shaft colpisce ancora “del 1972 e “Shaft e i mercanti di schiavi” del 1973, ma che, come tutti i sequel, non ebbero la medesima fortuna.
Neanche una serie TV, tra il 73 e 74, e un nuovo “Shaft”, nel 2000 con Samuel L.Jackson nei panni del nipote dello Shaft originario trovarono il gusto del pubblico e della critica.
Anche se ufficialmente l’inizio della Blaxploitation data qualche mese prima con l’uscita di “Sweet Sweetback’s Baadasssss Song” di Melvin Van Peebles in cui il gigolò Sweetback (interpretato dallo stesso Van Peebles), inseguito da poliziotti bianchi, inizia una lunga fuga tentando di raggiungere il Messico.
Il regista dichiarò esplicitamente che voleva fare un film vittorioso, in cui i neri potessero uscire a testa alta. Nessuno degli attori è un professionista ma è proprio la spontaneità e l’urgenza della pellicola a farne un film di culto.
Le stesse Pantere Nere, abitualmente molto rigide e settarie, lo ritennero un film rivoluzionario, la cui visione era consigliata a tutta la comunità afroamericana. Il successo di quello che era diventato già un “genere” fece osare anche in direzioni impensabili come con “Blacula”, storia di un vampiro di colore (in Italia intitolato – ancora lontani i tempi del politically correct “Blacula, il vampiro negro”) dopo aver incontrato Dracula mentre lotta contro la tratta di schiavi e che risorge nella Los Angeles degli anni Settanta con prevedibili conseguenze.

Anche la figura femminile ne usciva in chiave vincente e dominatrice come in “Foxy Brown” con la splendida e giunonica Pam Grier, poi rivalutata da Quentin Tarantino in “Jackie Brown”. Pam Grier ricorda i tempi della Blaxploitation: Ai produttori non piaceva quel termine che indica "sfruttamento" e che non sarebbe stato appropriato per i personaggi femminili afro-americani. Loro avrebbero voluto far circolare il messaggio che le donne dovevano essere protette. Io invece mi proteggevo già da sola, non avevo bisogno di un uomo per farlo. E dicevo loro che avrei usato la mia femminilità e i miei modi per avere la meglio su una situazione. In un certo senso ho suggerito io l'etichetta di blaxploitation per quello specifico genere cinematografico. Ero sicura che questo titolo sarebbe rimasto nel corso degli anni. E che i film saranno ricordati anche quando non ci sarò più.

Sempre Chiarella nel suo libro sottolinea un passaggio importante:
La musica e il cinema afroamericani hanno avuto un'evoluzione molto differente l'uno dall'altro: se nella prima la collaborazione tra bianchi e neri ha portato nell'arco di pochi decenni alla nascita di nuovi generi musicali e collaborazioni di altissimo livello, nel mondo del grande schermo la visibilità afroamericana si trova ad affrontare ancora oggi, grandissimi ostacoli.

Un altro titolo epocale è “Superfly” è del 1972, per mano dello sfortunato regista (morirà giovane poco tempo dopo) Gordon Parks Jr che non risparmia sesso, droga e violenza e che diventerà controverso all’interno della comunità nera che lo accuserà di proiettare un’immagine distorta e non conforme alla realtà di Harlem (dove era ambientato). Ma come dice il protagonista Youngblood:
«So che è un gioco sporco, ma è l’unico che ci lasciano fare».

L’aspetto più interessante e saliente del film (e dell’intero filone cinematografico) è la colonna sonora, affidata a un asso della black music come Curtis Mayfield che sfodera musiche mozzafiato, tra funk, soul, gospel, rock in quello che diventerà il sound denominato specificatamente “Blaxploitation”.
Anche un grande come Isaac Hayes aveva nobilitato le scene di “Shaft” con un album entrato nella storia della black music.
Troveremo altri grandi artisti dell’ambito soul e funk tra gli autori di colonne sonore del genere, come James Brown per “Black Caesar”, Marvin Gaye in “Trouble man” e ancora Barry White, Roy Ayers, Willie Hutch.

In poco tempo il tutto si sgonfia, perde appeal e seguito. Da una parte perché le trame diventano prevedibili e ripetitive ma soprattutto perché è proprio dall’interno della comunità afroamericana che incominciano a sorgere problemi:
Il National Association for the Advancement of Colored People Associazione nazionale per il progresso della gente di colore), appoggiato da alcune associazioni religiose, registi e sceneggiatori accuseranno il contesto di avere raggiunto un eccesso di contenuti violenti e sessualmente espliciti tali da ridurre il popolo afroamericano a una macchietta soggetta a derisione. J. Griffin da "Hollywood and the Black community", scritto del 1973: Dobbiamo dire ai produttori sia bianchi che neri che non tollereremo la continua deformazione delle menti dei nostri bambini neri con la sporcizia, la violenza e le bugie culturali che sono onnipervadenti nelle attuali produzioni dei cosiddetti film neri. Dobbiamo dire ai produttori cinematografici bianchi e neri che non tollereremo che la trasformazione dallo stereotipato Spepin Fetchit in supernegro sullo schermo è solo un'altra forma di genocidio pubblico.
Dobbiamo dire ai produttori cinematografici bianchi e neri che non tollereremo la continua rappresentazione di donne di colore sullo schermo come domestiche o donne dalla morale discutibile che saltano da un letto all'altro senza alcun coinvolgimento emotivo. Dobbiamo insistere sul fatto che i nostri figli non siano costantemente esposti a una dieta di cosiddetti film neri che glorificano i maschi neri come magnaccia, spacciatori di droga, gangster e supermaschi co grandi abilità fisiche ma senza capacità cognitive.

La Blaxploitation finisce come filone a metà degli anni Settanta ma continua a influenzare le generazioni successive.
Da Quentin Tarantino a Spike Lee saranno in molti a riprenderne modalità espressive, citazioni, inquadrature, ispirazione e in molti film non mancheranno volute citazioni ai capolavori del genere. Rivisti oggi sono, nella maggior parte, anacronistici e addirittura fumettistici ma è effettivamente passato mezzo secolo.
Peccato che per gli afromericani le problematiche non siano cambiate più di tanto.

lunedì, novembre 06, 2023

Daniele Vicari - Fela, il mio dio vivente

E’ stato presentato alla Festa di Roma “Fela, il mio dio vivente”, nuovo film di Daniele Vicari dedicato a Fela Anikulapo Kuti, leggendario musicista nigeriano, padre dell’afrobeat, attivista politico, personaggio molto controverso, indecifrabile, incatalogabile.

In realtà il film/documentario vede Fela Kuti comprimario di una vicenda che riguarda invece il visionario videomaker Michele Avantario, protagonista della scoppiettante e stimolante Roma artistica degli anni Ottanta.
Si innamora della figura del “Black President” (così era soprannominato Fela Kuti) e decide di fare un film su di lui, nonostante le difficoltà per raggiungere Lagos, dove il musicista prevalentemente viveva e operava.
Anche perché, la prima volta che si incontrarono, Fela Kuti fu perentorio: “Se vuoi fare un film su di me, se vuoi capire chi sono, devi venire in Nigeria”.
Avantario ci andrà, tantissime volte, filmerà ore di pellicola, avrà accesso, unico bianco, al giro del musicista: un circo incredibile, una dimensione inimmaginabile.

Fela Kuti aveva creato a Lagos una sua “repubblica indipendente”, all’interno di un palazzo di sua proprietà, la Repubblica di Kalakuta dove viveva con i suoi amici e famigliari, ventisette mogli (da cui divorziò successivamente sostenendo che il matrimonio porta egoismo e gelosia), gli adepti al suo “credo” e coloro che, insieme a lui, lanciavano un messaggio di libertà e di rinnovamento della Nigeria, di lotta alla corruzione e di opposizione al regime militare, cercando una giustizia sociale, sconosciuta da quelle parti.
Il tutto condito da una vita a base di ampie dosi di marijuana e abbondanza di promiscuità sessuale.

Diventata una spina nel fianco del regime, anche in virtù del largo seguito che Fela Kuti aveva tra i giovani nigeriani ma anche del progressivo successo ottenuto in tutto il mondo, Kalakuta venne attaccata dall’esercito nel 1977, le persone presenti picchiate, violentate e seviziate, sua madre gettata dalla finestra. A causa delle ferite morì tre mesi dopo.

Funmilayo Ransome-Kuti era un’attivista politica e femminista (fu la prima donna in Nigeria a guidare un’automobile), strenua sostenitrice del diritto di voto per le donne.
Lo stesso Fela riportò gravi ferite.
All’interno del palazzo c’erano uno studio di registrazione, tutti i suoi nastri e strumenti, che vennero bruciati.

Fu la conseguenza della pubblicazione del suo capolavoro, “Zombie”, in cui usava la metafora del mostro comandato per uccidere, senza sentimenti e remore, applicato a soldati. Nel film di Vicari si vedono parecchie immagini che rappresentano al meglio il mondo particolare del musicista, soprattutto quando arrivò in Italia, con il codazzo di musicisti, mogli, amici, per un totale di un’ottantina di persone.
Si portò anche un’impressionante scorta di marijuana (decine di kili), puntualmente scoperti alla dogana e con conseguente arresto. Furono ospitati nella casa di campagna dell’impresario, che rischiò la bancarotta dovendo mantenere praticamente un villaggio di persone per giorni e giorni. Alla fine Avantario non riuscì a realizzare il suo film e solo ora le immagini, spesso inedite, sono state raccolte (preservandole dall’oblio) in questo prezioso documentario che culmina con il funerale del musicista, morto di Aids nel 1997 a 59 anni, circondato da una caotica immensa folla, tumulato nel cortile di casa sua. Fela Kuti era nato nel 1938 da una famiglia agiata, colta e politicamente impegnata.

Studiò medicina a Londra, dove si laureò in tromba. Un viaggio negli Stati Uniti negli anni Sessanta lo portò a contatto con le lotte per i diritti civili degli afroamericani che lo avvicinarono alle idee dei Black Panthers.
Tornato in Nigeria fonda gli Africa 70 con cui incomincia a elaborare le basi del suo sound unico e immediatamente riconoscibile, che influenzò centinaia di artisti, affascinando tantissimo anche Miles Davis (si ascolti uno dei suoi tanti capolavori, “On the corner”): un misto di funk, jazz, musica “africana” (ovviamente la definizione è quanto di più generico e inadeguato, in considerazione dell’estrema varietà che caratterizza la musica proveniente dal “continente nero”), highlife, musica nata negli anni Venti dal Ghana fondendo ritmi locali, marce militari e inni religiosi.

Gli Africa 70 sono la prosecuzione di quanto iniziato pochi anni prima con i Koola Lobitos, in cui suona uno dei batteristi destinati a diventare tra i più seminali a livello ritmico al mondo, Tony Allen, inventore di una modalità percussiva unica.
Gli Africa 70 suonano ogni domenica nel club Afro-Spot che lo stesso Fela apre a Lagos, improvvisando, mischiando influenze di tutti i tipi, creando un sound che diventa sempre più unico.
Su cui canta e declama testi politici e duri, esaltando un concetto socialista di pan-africanesimo, difendendo i diritti umani, appoggiando cause femministe (pur rapportandosi con le donne in modo spesso contraddittorio e non di rado sciovinista).

“Quello che sapete dell’Africa è al 99 per cento sbagliato” dice.

Incontra importanti intellettuali della sinistra nigeriana, fonda un’organizzazione giovanile chiamata Young African Pioneers e compra una macchina tipografica per poter stampare riviste e volantini contro la dittatura.
Che, come abbiamo visto, gliela farà pagare molto cara. Nel corso degli anni viene più volte arrestato, picchiato, mandato all’ospedale, fino alla distruzione della sua Kalakuta, nel 1977.
Prosegue imperterrito l’attività politica mentre artisticamente si muove su coordinate costantemente creative, mai un cedimento, ogni album è interessantissimo.
Ancora dopo tanti anni i suoi dischi suonano attuali, moderni, ricchissimi di suggestioni e suoni sorprendenti.

Alla fine la sua discografia arriva a un’ottantina di album.

La sua fama si espande sempre di più in tutto il mondo, i concerti sono teatrali, tribali, i musicisti tecnicamente formidabili, lui assurge a ruolo di vate, domina il palco, evoca e condensa il meglio della Black Music mentre le “Queens”, le danzatrici e coriste che lo circondano, creano uno spettacolo unico, con movenze assunte dalla cultura africana. Gira Europa e America raccogliendo plausi e tributi dai critici e un seguito sempre più ampio di fan ed estimatori.

Nel 1983 si propone alla presidenza della Nigeria ma la sua candidatura viene rifiutata.
Sottolinea lucidamente il batterista Tony Allen: “Lui si era creato un personaggio: era quello che combatteva i soprusi, la polizia, queste cose. Però se andavi a trovarlo ti riceveva in mutande. Si faceva fotografare in mutande e magari con un gigantesco spinello in mano. La gente non ti vota se fai queste cose anche se lotti per i loro diritti e addirittura gli regali i soldi, come ha fatto per un periodo. Magari qualche radicale ti vota ma di certo non le masse.”

L’anno successivo viene incarcerato.
Uscirà solo venti mesi dopo, cambia il nome alla band, ora Egypt 80, e riprende la sua incessante attività.
Come testimonia il film di Vicari, l’adesione al mondo di Fela Kuti non è solo una questione artistica ma un percorso etico, filosofico, mistico (aiutato da un uso esagerato di sostanze psicotrope), una sorta di abbraccio a una dimensione aliena al razionale. La sua visione spesso cozzava con la realtà.

Valga in questo senso lo scontro epocale che ebbe con Paul McCartney che volò a Lagos per registrare il fortunato “Band on the run” dei suoi Wings. Paul aveva pianificato di poter collaborare con il grande artista nigeriano (che ammirava tantissimo) e con alcuni dei suoi musicisti ma Fela appena lo venne a sapere "denunciò" dal palco del suo locale che McCartney era a Lagos per "rubare la musica africana" e il giorno dopo si presentò in studio, non annunciato, per discuterne con l'ex Beatle. Paul fu costretto a fargli sentire i demo dei brani per dimostrare che non c'era nulla di africano nelle canzoni registrate.
"Avremmo voluto usare musicisti africani, ma quando ci è stato detto che stavamo per rubare la loro musica abbiamo detto: "Bene lo faremo da soli ". Fela pensava che stessimo rubando la musica africana nera, il suono di Lagos.

La malattia (per la quale rifiutava ogni tipo di cura) di Fela lo costringe a diradare le apparizioni live e l’attività di registrazione. Le immagini del doc di Vicari ce lo mostrano molto provato sia fisicamente che psicologicamente.

Il 3 agosto 1997 se ne va.

Lascia un’eredità favolosa e preziosissima. Album come “Zombie”, “Shakara” o “Stratavarious” con il batterista dei Cream, Ginger Baker, sono ottimamente propedeutici per avvicinarsi all’arte di Fela Kuti.

lunedì, giugno 05, 2023

Tina Turner


Un doveroso omaggio a TINA TURNER a pochi giorni dalla scomparsa scritto per "Libertà" ieri.

Ci ha da poco lasciati uno dei personaggi più iconici nella storia della musica pop.
Tina Turner ha incarnato l’immagine della sensualità, della potenza vocale, della rivalsa, dopo una vita tormentata e drammatica, nonostante fama e successo. Anche la sua morte ha avuto un alone di tragedia.
Lo aveva lei stessa annunciato un paio di mesi fa: “Il mio tumore al rene non è più curabile. Credevo che il mio corpo fosse intoccabile e indistruttibile e così, quando avrei dovuto, non ho seguito i consigli dei medici. Non ho preso regolarmente i farmaci per la pressione alta che mi erano stati prescritti”.

Sofferente di ipertensione fin dal 1985, rifiutò le cure prescritte per affidarsi a una personale strada omeopatica che compromise, insieme alla confessata scarsa disciplina, la funzionalità dei reni. La salvò il secondo marito Erwin Bach donandogliene uno, anche se la riabilitazione post operatoria fu lunga e difficile. Purtroppo non è bastato.

Una vita complicata e fin da subito in salita e aspra quella di Anna Mae Bullock, cresciuta in Tennessee prima, con i genitori a raccogliere cotone nei campi e poi, alla loro separazione, con la nonna, per tornare infine con la madre a St.Louis.
“Quando da piccola lavoravo nei campi a raccogliere cotone sognavo di diventare una star del cinema. Non ero interessata più di tanto alla musica anche se cantavo sempre, ovunque, in chiesa, in casa, nei campi, nei talent show. Ma volevo andare oltre, diventare un’attrice”.

Ce la farà molti anni dopo ma nel frattempo la vita cambia radicalmente quando a un concerto dei Kings of Rhythm conosce Ike Turner, autore di quella “Rocket 88”, uscita nel 1951 e definita pressoché unanimemente come la prima canzone rock ‘n’ roll in assoluto.

Ike apprezza le capacità vocali (ma non solo…) della diciottenne e dopo qualche tentennamento la inserisce nella band, seppure come corista. Sarà un caso fortuito (l’assenza del cantante solista per la registrazione di un brano) a cambiare la storia. “A fool in love”, nel 1960, avrà la voce di Little Ann e diventerà un grande successo in ambito rhythm and blues.
Ike Turner capisce finalmente le sue potenzialità, le cambia il nome in Tina Turner e quello della band in Ike & Tina Turner Revue.

Oltre ad iniziare una relazione sentimentale con Tina da cui poco dopo avrà un figlio.
Si sposeranno nel 1962 adottando, reciprocamente, altri tre figli avuti da loro precedenti relazioni. La band cresce in popolarità, infila vari successi in classifica, si distingue per la grande carica di energia di Tina, vera catalizzatrice e padrona del palco, supportata da una band eccellente e dalle coreografie perfette delle Ikettes, tre coriste in costante movimento, perfettamente integrate nelle stupende coreografie, sensuali e provocanti, tra balli, piroette, passi di danza acrobatici.
Attirano l’attenzione dei Rolling Stones che li vogliono con loro in un tour inglese, il successo è ormai enorme.

Ma Ike Turner si rivela un marito padrone, violento, coercitivo, che non esita a picchiare selvaggiamente la moglie (nel 1968 Tina tenterà perfino il suicidio).

La band si sposta verso suoni più rock e funk negli anni Settanta, continuando a cavalcare le ali del successo planetario (approdano anche in Italia registrando un clamoroso show negli studi della Rai, trasmesso nella trasmissione “Teatro 10” nel 1971).
Tina incomincia a muoversi anche come solista con discreti risultati, partecipa al film “Tommy” di Ken Russell, ispirato dall’opera degli Who, in una conturbante e inquietante “Acid Queen”, ma il rapporto con Ike è sempre più violento e burrascoso. Nel 1976 lei chiede il divorzio e interrompe il sodalizio artistico con il marito.
Seguiranno anni difficoltosi, soprattutto economicamente, tra cause, tribunali, risarcimenti per i concerti cancellati.

Tina incomincia una lenta e difficoltosa rinascita attraverso il Buddismo di Nichiren Daishonin e il mantra rigeneratore Nam Myho Renge Kyo da cui non si staccherà mai più e che ha spesso divulgato in appositi video e in interviste pubbliche. I problemi non mancano, gli album che incide, pur dignitosi, non arrivano più nelle classifiche, è costretta a suonare il più possibile, spesso in situazioni molto lontane dalle luminarie del successo di poco tempo prima. Nella primavera 1979 è, ad esempio, ospite fissa nel programma di Pippo Baudo “Luna Park”.

Ci vorranno ancora anni (e l’aiuto di vecchi amici come Rolling Stones e Rod Stewart che la chiamano a duettare con loro in concerto) per tornare sul trono che le spetta.

Nel 1984 l’album “Private dancer” e un nuovo look, con chioma leonina, minigonna, giubbotto di pelle, 45enne affascinante, aggressiva, sexy, le fa superare addirittura la popolarità e il successo precedenti. Il disco vende dieci milioni di copie, il tour mondiale è un sold out continuo.

Donna, nera, maltrattata da un marito psicopatico, abbandonata (come già era successo nell’infanzia), trova la forza, la caparbietà, la costanza, di rialzare la testa, dopo anni di lavoro incessante, ripartendo dal basso, ribaltando il ruolo della femmina, costante comprimaria del maschio di turno, fin dai primi anni Sessanta, imponendo la sua arte, le sue capacità, il suo fascino.
Tina andava sul palco senza paura di esibire la sua prorompente carica sessuale, utilizzandola con spontaneità sottilmente provocatoria, mai volgare o banale. Dimostrando che certe regole si possono distruggere o ignorare.
La decisione coraggiosa di lasciare il marito violento, peraltro “padrone” anche della sua immagine e del conto in banca della coppia, è stato un esempio in più per tutte le donne oppresse e abusate. Il coraggio di ripartire da capo, rischiando l’oblìo (in cui è rimasta per anni), è sicuramente stato lo sprone per migliaia di donne a non subire più imposizioni, di dire basta alla violenza domestica. Inoltre è opportuno ricordare come fosse (sia) difficile per una donna ultra quarantenne (e quindi giudicata ampiamente “vecchia”), di colore, in un mondo discografico particolarmente sessista e razzista, riuscire a tornare sulla breccia.
Ricordiamo a tal proposito che il canale musicale MTV (nato nel 1981) trasmise il primo video di un artista di colore, Michael Jackson in questo caso, solo nel 1983, due anni dopo, giusto per capire il contesto sociale e culturale in cui è avvenuta la rinascita di Tina.

I suoi successi non si contano.
vDal ruolo di attrice protagonista in “Mad Max” che corona il suo desiderio d’infanzia e l’introduzione nella Hollywood Walk Of Fame, a nuovi dischi che confermano il successo.
Tra il 1987 e 1988 suona in oltre 200 concerti incassando cifre spropositate in milioni di dollari, vince per la quarta volta consecutiva il Grammy Award come migliore cantante (in totale ne ha portati a casa dodici nella carriera, oltre a un numero incalcolabile di riconoscimenti di ogni tipo) e nel 2000 decide di ritirarsi dalle scene. Tornerà otto anni dopo (all’indomani del suo ultimo album “Twenty Four Seven”) per festeggiare i 50 anni di attività con un tour trionfale e ancora una volta milionario.

Alla fine avrà venduto più di 200 milioni di dischi.

Escono libri, documentari e un deludente film biografico, “Tina. What’s love got to do it” del 1993, che, come sempre, non riesce minimamente a rendere la realtà di un musicista.
La stessa Tina lo liquidò: "L'ho guardato in parte, ma non l'ho finito perché non è così che sono andate le cose. Non credevo che avrebbero cambiato così tanto i dettagli”.

E Ike Turner?
Morì nel 2007 dopo aver speso il periodo successivo al divorzio con Tina tra pochissimi alti, moltissimi bassi e tanti abissi tra droga e prigione.

Tina Turner non è una sopravvissuta ma una donna che ha vissuto la sua vita, nella gioia e nel dolore
Dotata di uno spessore artistico comune a pochi ma soprattutto di un timbro vocale unico, a cui ha unito una tecnica interpretativa immediatamente riconoscibile, basti ascoltare qualcuno dei duetti che l’hanno vista protagonista, da David Bowie, a Paul McCartney, Mick Jagger, Rod Stewart, Beyoncé, Tom Jones, Cher, anche i nostri Elisa e Eros Ramazzotti, in cui inevitabilmente è lei a prendersi la scena e a cancellare in pochi secondi il partner del caso.

Se ne è andata felice, come da una recente intervista:
“La morte non è un problema per me, non mi dispiace davvero andarmene.
Sono più felice di quanto non sia mai stata in vita mia.
Sono più felice di quanto avessi mai pensato che la vita sarebbe diventata per me. Ciò significa che la maggior parte delle mie difficoltà sono arrivate mentre ero giovane e crescevo.
E negli ultimi giorni, quando normalmente le persone soffrono per la vecchiaia e la malattia, è arrivata la mia felicità. Sono davvero molto felice.”
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