mercoledì, maggio 31, 2023
Maggio 2023. Il meglio
A quasi metà del 2023 tra i migliori album ci sono quelli di Durand Jones, Edgar Jones, Bobby Harden, DeWolff, Billy Sullivan, Iggy Pop, Everettes, Everything But The Girl, Slowthai, Sleaford Mods, John Cale, Joel Sarakula, Algiers, The Men, Tex Perkins and the Fat Rubber Band, Gina Birch, Lonnie Holley, The Who, Mudhoney, Kara Jackson.
Tra gli italiani Funkool Orchestra, Sick Tamburo, Zac, Milo Scaglioni, Statuto, Broomdogs, The Cut, Senzabenza, Forty Winks, The Lancasters, Elli De Mon, Double Syd, Pitchtorch, C+C=Maxigross, Blue Moka, Lory Muratti, Garbo.
DURAND JONES - Wait Til I get over
Lasciati a riposo gli Indications, Durand Jones sforna un album di altissimo pregio in cui abbraccia la tradizione della profonda black music americana, passando dal (southern) soul al funk, a intermezzi rap, gospel, blues, in equilibrio tra Bill Withers, lo Stevie Wonder dei 70, Marvin Gaye, Otis Redding ma con un approccio moderno, socio/politico, fresco e urgente. Bellissimo.
EDGAR JONES - Reflections of a soul dimension
Edgar Jones era membro dei fenomenali Stairs negli anni 90. Da allora la sua carriera si è diramata in mille altre incarnazioni e collaborazione (da Ian Mc Culloch a Paul Weller tra i tanti). Nel primo album a suo nome ci regala un favoloso viaggio in atmosfere Northern Soul, con sapienza, cura dei particolari e brani strepitosi. Un piccolo capolavoro!!!
https://steropar.bandcamp.com/album/reflections-of-a-soul-dimension
BILLY SULLIVAN - Paper dreams
Esordio solista dell'ex anima degli Spitfires (http://tonyface.blogspot.com/2022/05/the-spitfires.html) che prosegue il percorso della band, elaborandolo e arricchendolo di nuovi elementi.
Alla base la tradizione 60's di Beatles, Kinks e Small Faces, quella successiva dei Jam, con abbondanti riferimenti alla carriera solista di Paul Weller (non a caso produce spesso Simon Dine dietro al mixer del Modfather), il Brit Pop (dai Blur a Miles Kane), fino a un frequente rimando agli Smiths. Le canzoni sono sempre di alto livello, arrangiamenti essenziali ma ricercati. Ottimo e oltre.
STATUTO - Bella storia
La band torinese festeggia i quaranta anni di carriera con un album dal vivo e l’aggiunta di alcuni inediti in studio, paradossalmente in contemporanea con la tragica scomparsa dello storico bassista Rudy Ruzza. Il concerto ripercorre i successi e i cambiamenti stilistici della loro storia, dallo ska al pop, al beat, soul, northern soul, rhythm and blues, brit pop. I quattro validi nuovi brani sono in linea con la vena più soul beat e ne confermano la classe e lo spessore.
GALEN & PAUL - Can We Do Tomorrow Another Day
Paul (Simonon) e Galen (Ayers, figlia di Kevin), insieme per un divertente progetto a base di sonorità latine, ska, swing, canzoncine sgangherate, volutamente naif e immediate. Qualche aiuto da parte di amici (Damon Albarn, Simon Tong ex Verve e The Good The Bad & the Queen, Simon Tong), Seb Roachford dei Sons of Kemet,Polar Bear, David Byrne, Patti Smith alla batteria, Dan Donovan dei Big Audio Dynamite e con la produzione di Tony Visconti) e un album carino a base di puro divertissement, niente di più.
BOBBY HARDEN & THE SOULFUL SAINTS - Bridge of love
Ex voce di una delle varie incarnazioni dei Blues Brothers, Bobby Harden sfodera un bellissimo album di classico soul (con qualche incursione in atmosfere Northern), suonato alla perfezione e cantato alla grande, tra Marvin Gaye e Otis Redding. Nulla di originale ma godibilissimo.
FUNKOOL ORCHESTRA - Latin freaks
Spettacolare album di debutto per il collettivo napoletano che definire travolgente è riduttivo. Gli undici musicisti mischiano disco music, funk, boogaloo, latin soul (in un brano è ospite il mito Joe Bataan), Go Go Sound, aiutati da una sezione fiati da sogno, tre splendide voci, un groove inimitabile. Suonano alla perfezione, scrivono benissimo, arrangiamenti superbi, un album eccezionale!
SMOKEY ROBINSON - Gasms
A 83 anni Smokey Robinson mette in riga tutti con un album super raffinato di pop soul, suonato divinamente, stupenda voce in primissimo piano, brani delicati, sensuali, avvolgenti, super cool, richiami al classico soft soul di Al Green.
Eleganza, classe, stile.
RHODA DAKAR - Version girl
L'ex voce delle Bodysnatchers si cimenta in dodici cover in chiave ska, rock steady e reggae, con scelte particolari e azzeccate (molto belle "The man who sold the world" di Bowie e "As tears go by" degli Stones), tanto gusto e gradevolezza.
Ottimo e divertente.
THE DAMNED - Darkadelic
Al dodicesimo album i veterani del punk inglese convincono con dodici nuovi brani, energici, pulsanti, rudi ma allo stesso tempo più che curati ed efficaci, tra rock, punk, goth, virtuosismi tecnici di ottima fattura, belle canzoni. Un album che si fa riascoltare volentieri.
GLEN MATLOCK - Consequences coming
Glem Matlock non ha bisogno di particolari presentazioni.
Tra Sex Pistols, Rich Kids alla band di Iggy Pop, con i Faces, Blondie e mille altre incarnazioni, ha infilato anche una serie di album solisti con i suoi Philistines, l'ultimo dei quali, più che dignitoso, è uscito da pochissimo e si fa apprezzare per un robusto rock 'n' roll, con vaghe tinte punk e tanta melodia.
LEMON TWIGS - Everything Harmony
Torna il duo new yorkese con un album cantautorale, intimista, molto mieloso, spesso Beatlesiano (sponda McCartney) ma anche con una matrice 70 e con Bee Gees, Hollies, Elton John, Fleetwood Mac e pure Eagles che entrano in gioco. Carino per chi ha vissuto i tempi e ha un afflato nostalgico.
TINARIWEN - Amatssou
La band Tuareg giunge al nono album con il suo ipnotico desert sound, aiutata (con discrezione) dalla produzione di Daniel Lanois e dai musicisti bluegrass Wes Corbett e Fats Kaplan in un suggestivo e riuscito incontro di musiche tradizionali che virano verso un'attitudine trance psichedelica di sapore blues. Eccellente.
SHABAKA - African culture
Breve album meditativo, onirico, sospeso, in cui il Maestro suona clarinetto, flauto e sintetizzatore, inserendo il suono di strumenti tradizonali africani. Suggestivo.
THE WAR AND TREATY - Lover's game
Michael Trotter Jr. e Tanya Trotter sono marito e moglie e seguono le orme di Ike & Tina, anche se il nuovo album indulge molto più frequentemente su brani blues, gospel, folk, in chiave classica e accademica.
Comunque più che godibile con questo brano decisamente travolgente.
YAZMIN LACEY - Voice notes
La cantante londinese firma un ottimo esordio in cui, in chiave moderna e attuale, accarezza un groove nu soul, tinto di jazz, elettronica, blues, funk, che riporta a Macy Gray e affini.
Il tono è sempre molto soft e smooth, accattivante e sinuoso. Molto gradevole.
WHATITDO ARCHIVE GROUP - Palace of a thousand sounds
Secondo album per la band strumentale americana che si addentra nelle consuete atmosfere cinematiche, privilegiando sonorità di estrazione exotica, lounge, "tropicali" con il consueto groove ritmico funk. Un gruppo anomalo, originale nel ripercorrere sentieri già tracciati ma sempre più relegati all'oblìo. Ottimo e interessante.
ZAC - II
Torna la band romana di Lorenzo Moretti (chitarrista e compositore nei Giuda) e Tiziano Tarli, con il prezioso aiuto di Emanuele Sterbini, Pablo Tarli, Sergio Chiari. Dieci brani di power pop di stampo 70 tra Rubettes, Cheap Trick, Be Bop De Luxe, Wings, Cars con irresistibili melodie di sapore Sixties. Suoni magistralmente calibrati, arrangiamenti eleganti, canzoni di qualità compositiva elevatissima. Per i cultori del genere un album perfetto.
MILO SCAGLIONI - Invincible Summer
A sei anni dall'esordio solista torna con un nuovo gioiello il musicista lombardo (attualmente bassista con i Baustelle). Un viaggio nel consueto, amato, mondo che abbraccia psichedelia, folk cantautorale (da Elliott Smith a Nick Drake a Paul Weller), un pop rock moderno e personale, arricchito e impreziosito da raffinati arrangiamenti orchestrali e da una maturità compositiva comune a pochi conterranei. Tanti suoni, riferimenti, estro, eclettismo. Un grande disco.
BROOMDOGS - Hole in the surface
Uscito a cavallo con lo scorso anno il nuovo progetto di Pier Ballarin (ex The Record's, grandissima band bresciana che ripercorreva le tracce di Knack e Joe Jackson), ripiega su atmosfere più psichedeliche, spesso molto Lennoniane, un po' del primo Steve Gunn, shoegaze, Brit Pop. Canzoni deliziose, avvolgenti, compositivamente perfette e un grande gusto per gli arrangiamenti e i giusti suoni. Eccellente.
https://broomdogs1.bandcamp.com/album/hole-on-the-surface
PSYCHE' - s/t
I fondatori di Psyché – Marcello Giannini (Guru, Nu Genea, Slivovitz), Andrea De Fazio (Parbleu, Nu Genea, Funkin Machine) e Paolo Petrella (Nu Genea) – sono attivi da quasi vent’anni nella scena napoletana. Il nuovo progetto li coglie alle prese con un intrigante sound che, partendo da un prevalente groove afro funk, si dipana su melodie e suggestioni mediterranee, accarezza l'ethio jazz di Mulatu Astatke, e il mix di soul e psichedelia caro ai Khruangbin. Approccio spontaneo e urgente, grande cura negli arrangiamenti, raffinati ed eleganti. Ottimo.
LITTLE TAVER & HIS CRAZY ALLIGATORS - Ricco di famiglia
Torna il mitico Little Taver con un nuovo album con 12 brani di cui 6 cover, 3 arrangiamenti e 3 inediti. Come consuetudine la band si muove in un fantasmagorico e divertentissimo mondo di swing, rock 'n' roll (quello dei primissimi "urlatori" italiani, da Celentano a Clem Sacco), rhythm and blues, jive e una piccola dose di ska. Il tutto eseguito alla perfezione, con una grandissima energia, tanta ironia e sarcasmo. Gustosissimo.
ASCOLTATO ANCHE:
JETHRO TULL (una band che pur con lo stesso, storico e riconoscibile, stile continua a produrre dischi pregevoli e dignitosi, di buon livello e che non mancherà di soddisfare i fan), YES (ormai con il solo Steve Howe come originale ma con un album tuitto sommato gradevole e di buona fattura), MATT MALTESE (sempre gradevole il suo pop beat di gusto Beatlesiano e sixties, pur se, alla distanza, soporifero), ALEX FIGUERA (funk strumentale con influenza afro, reggae e tropicaliste. Discreto), TAJ MAHAL (una carrellata di classici jazz blues in un'interpretazione molto gustosa), ITALIA 90 (classico - ormai "classico" - post punk abrasivo, dissonante etc etc)
LETTO
VIV ALBERTINE - Vestiti Musica Ragazzi
Arriva la traduzione in italiano del libro pubblicato nel 2014 da VIV ALBERTINE, ex chitarrista delle SLITS e tra le prime protagoniste della scena punk londinese.
"La musica che ascoltavo da adolescente era rivoluzionaria, Essendo cresciuta con canzoni che volevano cambiare il mondo, è quello che ancora mi aspetto che facciano".
Un'autobiografia spiazzante, che passa da un'adolescenza povera ma ricca di speranze ed esperienze (si ritrova ad Hyde Park a vedere gli Stones nel 1969, poi al cospetto di Bowie, Marc Bolan, Robert Fripp) per arrivare poco più che ventenne nel pieno della nascita del punk, coltivando strette amicizie con Sid Vicious e Johnny Rotten ma soprattutto una relazione burrascosa con Mick Jones dei Clash a cui resterà per sempre legata da un affettuoso rapporto (lui le dedicherà "Train in vain" su "London calling").
"Avevo sempre pensato che le circostanze della mia vita - povera, di Londra Nord, scuola pubblica, casa popolare, femmina - non mi avessero equipaggiata per il successo.
Mentre guardo i Sex Pistols, capisco che per la prima volta non ci sono barriere tra me e il gruppo...
E' fatta. Finalmente vedo non solo l'universo di cui ho sempre voluto far parte, ma anche il ponte da attraversare per arrivarci".
Con le Slits, gruppo di sole donne (un'eccezione anche ai tempi), coglie scampoli di successo e notorietà con una new wave/punk fortemente influenzata dal reggae.
Dopo lo scioglimento abbraccia la regia cinematografica e di video musicali, trovando una nuova dimensione artistica, ma poi la vita diventa aspra, dura, tragica, drammatica e le storie sempre più acide, a tratti insopportabili, tra una complicatissima maternità, malattie, problemi fisici estremi, cadute, dolore, disperazione.
Ritroverà la voglia di ripartire con la sua chitarra e voce, pubblicando l'ottimo e ruvido album solista "The vermillion border" nel 2012 (con la partecipazione di Jack Bruce, Tina Weymouth, Jah Wobble, Glen Matlock, Norman Watt Roy e tanti altri bassiti, uno diverso per brano.
Con la morte della madre nel 2014 abbandona definitivamente la carriera musicale.
Ottimo libro, ricco di spunti, considerazioni profonde, con uno sguardo disincantato sulla scena punk (con aneddoti divertenti e impietosi) e quella più genericamente musicale.
LORENZO ARABIA - GIANLUCA MOROZZI - ODERSO RUBINI - Alle barricate! Il libretto rosso dei Gang
Una storia che viene da lontano e che lontano continua a guardare, camminando i sentieri di una passione mai sopita.
Quello dei GANG è un percorso molto particolare, nato nella profonda provincia marchigiana, partito dall'autoproduzione, passato alle major e tornato negli ultimi anni al crowdfunding e all'autogestione.
Nel libro ne troviamo la dettagliata e complessa storia, arricchita da splendi aneddoti, un numero enorme di foto e documenti, inseriti in una grafica a metà tra la fanzine e la ricerca artistica.
Scorrono le parole dei protagonisti, Marino in primis.
Marino Severini:
La nostra è una canzone che canta le storie, non la Storia. Come ripeto da decenni in ogni occasione, pubblica o privata che sia, se c’è una “ cosa “ che non ho mai condiviso soprattutto nell’immaginario radicato della sinistra italiana, è proprio lo slogan “ La Storia siamo Noi”. Dispiace per De Gregori o Minoli ma questa è una bugia, una falsità che ci siamo raccontati a lungo, per decenni. La storia appartiene ai vincitori.
Chi vince ha la Storia e ne impone la propria versione con i propri strumenti, quelli del potere. Repressione quando serve oppure , come accade oggi, attraverso il controllo delle comunicazioni di massa. Ma allora Noi, nei secoli dei secoli che abbiamo avuto ?
Noi abbiamo avuto il Plurale!
Che sono LE Storie. Che fanno una storia diversa da quella dei vincitori, la Nostra. Quella dei Vinti. Ecco allora che anche attraverso le storie cantate noi teniamo vive le nostre storie, è così facendo ripercorriamo le strade che c’hanno portato fino a qui, nel presente. Le strade dell’esclusione, dello sfruttamento, della violenza subita, dell’umiliazione. E in questo modo, attorno al “fuoco” della storie cantate, noi celebriamo il rito della Memoria. Che è l’unico strumento che da Vinti ci rende INVINCIBILI! Non vincitori ma Invincibili.
Era una storia da raccontare e il libro è un riuscito tassello che si inserisce alla perfezione nella vicenda del rock italiano.
LORENZO GATTA - Living on a thin line
Lorenzo Gatta ha da tempo abbracciato la filosofia ed etica Mod che traspone in un divertente e appassionato romanzo di palese e voluto sapore "Quadrophenico", ambientato nella Londra a cavallo tra i Cinquanta e Sessanta nella prima scena Modernista.
Gli ingredienti ci sono tutti: la Soho dei tempi, gli scontri con i Rockers, un fugace e fortuito incontro con i Quarrymen in procinto di diventare Beatles, il travestito Lola (cit. i Kinks) e tanto altro.
Il racconto è spedito e vivace, urgente e (virtuosamente) naif.
Gli amanti della cultura mod non mancheranno di apprezzare e goderne.
LAURA PESCATORI - Femita. Femmine rock dello stivale volume 2
Altri trenta nomi di donne protagoniste della musica rock (e dintorni) italiana si aggiungono, in questo secondo episodio, alla certosina ricerca della giornalista Laura Pescatori dopo il promettente primo volume (https://tonyface.blogspot.com/2020/10/laura-pescatori-femita.html).
Attraverso una serie di interviste dallo schema simile e predefinito, si approfondiscono carriere e ruolo della donna nella musica nostrana, abbracciando una vasta gamma artistica, che va dal cantautorato, al punk, alla sperimentazione, all'avanguardia.
Tra le tante protagoniste, nomi eccellenti come Roberta Sammarelli dei Verdena, Elli De Mon, l'ex Franti, Lalli, realtà note e altre più di nicchia.
Ne emerge un ritratto di una scena italiana vivacissima, attiva, pulsante, quanto ancora preda di sessismo, discriminazioni, difficoltà a proporsi solo per una questione di genere.
COSE VARIE
° Ogni giorno mie recensioni italiane su www.radiocoop.it (per cui curo ogni settimana un TG video musicale - vedi pagina FB https://www.facebook.com/RadiocoopTV/).
° Ogni domenica "La musica ribelle", una pagina sul quotidiano "Libertà"
° Ogni mese varie su CLASSIC ROCK.
° Ogni sabato un video con aggiornamenti musicali sul portale https://www.facebook.com/goodmorninggenova
° Sulle riviste/zines "GIMME DANGER" e "GARAGELAND"
° Periodicamente su "Il Manifesto" e "Vinile".
IN CANTIERE
Il 3 giugno alle 18.30 al Museo della Resistenza di Sperongia di Morfasso (Piacenza) parlo con Iara Meloni di musica "resistente".
Prima un po' di musica.
NOT MOVING LTD live
Domenica 11 giugno: Guastalla (Parma) Handmade Festival + Lydia Lunch
Mercoledì 5 luglio: Ravenna “Cisim”
Sabato 8 luglio: Roma “Forte Prenestino”
Giovedì 13 luglio Genova “Lilith Festival”
Lunedì 14 agosto: Lari (Pisa) “Festa Rossa”
Venerdì 15 settembre : Isola d’Elba Festival
Sabato 23 settembre: Festa Privata Imperia
Sabato 7 ottobre: Poviglio (Reggio Emilia)
Venerdì 13 ottobre: La Spezia “Shake”
Sabato 28 ottobre : Como “Joshua"
Sabato 25 novembre: Lonate Ceppino (VA) “Black Inside
Ci sono voluti un paio di anni di lavoro per questo libro, pubblicato da Diarkos.
Scrivere dei SEX PISTOLS trovando una chiave che non ricalchi le mille pubblicazioni in merito non è cosa facile.
In questo nuovo lavoro ho privilegiato la voce dei protagonisti, tratta da decine di interviste, e quella dei giornalisti che vivevano in tempo reale quanto stava avvenendo, tra il 1976 e il 1978, riportando recensioni di concerti e dischi.
In modo da tessere la storia del gruppo nel modo più possibile corale.
Ulderico Wilko Zanni e Maurizio Iorio mi hanno gratificato con le loro introduzioni e testimonianze.
God save the Sex Pistols.
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Il meglio del mese
martedì, maggio 30, 2023
Billy Preston
Ogni mese la rubrica GET BACK ripropone alcuni dischi persi nel tempo e meritevoli di una riscoperta.
Le altre riscoperte sono qui:
http://tonyface.blogspot.it/search/label/Get%20Back
Speciale riservato a BILLY PRESTON tastierista che ha suonato con i più grandi musicisti di sempre: Beatles, Rolling Stones, John, George, Ringo solisti, Ray Charles, Aretha Franklin, Little Richard, Sly and the Family Stone, Elton John, Eric Clapton, Johnny Cash e decine di altri.
Miles Davis gli ha dedicato in "Get up with it" del 1974 il brano "Billy Preston".
The Most Exciting Organ Ever (1965)
Wildest Organ in Town! (1966)
I primi cinque album sono un gradevole esercizio di stile, in cui mette in mostra tutte le sue qualità di organista Hammond, rifacendo classici e hit del momento in chiave strumentale (da "A hard day's night" a "Satisfazion", "Uptight", "Sunny") e qualche ottimo brano autografo.
"Wildest Organ in town!" è arrangiato dal giovane Sly Stone.
Sulla stessa onda ma dal vivo "Club meeting" del 1967 registrato live.
Parte di questo materiale è stato raccolto nella compilation "Billy's Bag".
That's the Way God Planned It (1969)
Dopo essere entrato nel giro Beatles, Billy firma per la Apple Records e realizza il suo miglior album in assoluto.
George Harrison produce e suona chitarre, Moog e sitar, Ginger Baker alla batteria, Eric Clapton alla chitarra, Keith Richards al basso in un paio di brani, i cori affidati alla voce gospel di Madeleine Bell e di Doris Troy.
Un disco di gospel/rock, pieno di buone vibrazioni, tanto feeling, soul, blues e grandi canzoni (compreso l'adattamento di "Hey Joe" trasformato in "Hey Brother").
Encouraging words (1970)
Probabilmente l'album più particolare della sua carriera.
Aiutato da uno stuolo di star, da George Harrison (che suona e produce) a Ringo Starr, Eric Clapton, Klaus Voorman, Jim Price. Bobby Keys, membri di Delaney and Bonnie, della band di Sam&Dave, Temptations, incide un superbo album di gospel, soul, rock, blues.
La particolarità sta nelle versioni di "My sweet Lord" che George Harrison scrisse per lui, prima di riprenderla nel suo "All things must pass", qui riproposta in chiave soul stomp.
Anche "All things must pass" (splendidamente gospel orchestrale) fino ad allora pertinenza dei Beatles, ancora inedita, e poi ripresa pochi mesi dopo nell'omonimo album di George.
E infine una funky "I've got a feeling" di Paul e John che vedrà la luce in "Let it be", atto finale dei Beatles, qualche mese dopo.
It's my pleasure (1975)
Billy si sposta verso un funk soul in marcato stile Stevie Wonder che, non a caso, troviamo in due brani a suonare l'armonica (mentre sua moglie Syreeta canta in una canzone).
C'è anche la chitarra di Jeff Beck, quella di Hari Georgeson (George Harrison) e di Shuggie Otis.
Billy Preston diventerà membro fisso (pur esterno) degli Stones per anni, suonando in un ampio numero di loro album e nel primo solo di Mick Jagger per poi collaborare live con Eric Clapton e Ringo Starr tra i tanti. Passerà discograficamente alla Motown, addolcendo sempre più il sound, anche attraverso la disco e una serie di album gospel.
E' scomparso nel 2006.
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Get Back
lunedì, maggio 29, 2023
The show must go on
Riprendo l'articolo scritto ieri per "Libertà" con alcune personali considerazioni sulle polemiche innescate dal concerto di Bruce Springsteen a Ferrara, durante l'alluvione in Romagna.
Freddie Mercury nella consapevole imminenza della prossima scomparsa volle incidere con i Queen il suo testamento artistico, con tanto di struggente video, “The show must go on” (lo spettacolo deve continuare), nel 1991 (il cantante morirà circa un mese dopo la pubblicazione del brano), benedicendo la possibilità che il gruppo proseguisse senza di lui (cosa avvenuta e che continua a intermittenza fino ai nostri giorni), senza polemiche da parte di fan e critica.
Lo spettacolo deve continuare?
Sempre e comunque?
A questo proposito non si placano le polemiche relative al concerto di Bruce Springsteen a Ferrara, negli stessi giorni in cui, a pochi kilometri di distanza, la Romagna sprofondava sotto l’acqua e si contavano i morti e danni di immensa portata.
Ingenuamente e in modo velleitario in molti hanno chiesto la sospensione, il rinvio o l’annullamento del concerto.
Una logica e umana reazione a un contrasto così tanto stridente tra una manifestazione ludica e una tragedia.
Nella pratica annullare o anche solo spostare il concerto era praticamente impossibile, se non in caso di cause di forza maggiore. Ferrara era al sicuro e non c’erano ragioni tecniche per provvedimenti di quel tipo.
Se non strettamente “morali”.
Le assicurazioni non avrebbero pagato nessun risarcimento, i cinquantamila biglietti da rimborsare sarebbero stati a carico di un’organizzazione che aveva già investito cifre enormi per l’allestimento, gli anticipi (e il successivo saldo) al management e all’artista, il danno logistico per la città enorme (hotel disdetti, mancati guadagni di ristoranti, bar, parcheggi, merchandising etc).
Parlando con un amico addetto all’organizzazione (aiutante di “seconda fascia”) spiegava come i tre eventi italiani di Springsteen (il prossimo a luglio a Monza) gli fruttassero la metà dello stipendio annuale, se non di più.
Ovvero: dietro a ogni mega concerto c’è un’organizzazione che impiega centinaia, se non migliaia, di lavoratori e lavoratrici che da eventi di questa portata traggono una delle principali fonti di guadagno.
Fermare, seppur con tutte le ragioni del caso, un concerto del genere significava fare crollare le entrate (come abbiamo visto, in certi casi, di portata annuale) per una categoria già così bastonata, precaria e bistrattata come quella della maestranza del settore “artistico” (musicale, teatrale, cinematografico), il più delle volte pensata e considerata come poco più di un hobby.
L’appunto, necessario e ovvio, che si può e deve fare a Springsteen è stata la mancanza di una pubblica sensibilità nei confronti della tragedia, a fianco della quale si è esibito.
Patetiche e pure un insulto all’intelligenza le scuse addotte da organizzatori e entourage del Boss: “non sapeva”. Sorvoliamo.
Una frase, un omaggio, un saluto (accuratamente evitato anche nella successiva data di qualche giorno dopo a Roma) sarebbe bastato a renderlo semplicemente “umano”, partecipe, solidale.
Soprattutto dopo anni di enfasi sulla sua vicinanza ai poveri, ai derelitti, agli ultimi della società.
Un po’ di coerenza non guasta, anche dall’alto di una popolarità mondiale, una devozione sconfinata e acritica dei fan, una vita dorata, facile e spensierata, un conto in banca esagerato.
Un atteggiamento sinceramente incomprensibile.
Di contro è necessario sottolineare come siano spesso gli stessi fan ad attribuire all’idolo di turno una funzione salvifica, “sacerdotale”, un’intoccabilità, sepolta in un immaginario in cui l’artista diventa dispensatore di benedizioni, di capacità risolutive.
A quanto (lontanamente) ricordo, si dice durante la Messa: “Ecco l'Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo. O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato.”
Senza voler sembrare blasfemo, purtroppo in certi casi l’artista a cui si delega il “Verbo” assume un ruolo che ovviamente non ha e, si spera, in molti casi non vuole avere.
Springsteen era lì per suonare, per svolgere il suo lavoro e una sua parola non avrebbe salvato niente e nessuno.
Sarebbe però stata opportuna, umana e gradita.
Gli Who avevano preconizzato già nel 1969 una visione simile con l’opera rock “Tommy” in cui Pete Townshend, uno che ha sempre visto lontano (non a caso uno dei migliori brani di qualche anno prima della band si intitolava “I can see for miles” – posso vedere per miglia e miglia) e ritraeva l’ascesa a culto messianico di un ragazzo muto, sordo e cieco, di cui tutti diventavano devoti, attribuendogli poteri salvifici.
Per Tommy finirà male.
Gli stessi Who si sono ritrovati frequentemente in casi simili, sfortunati e tragici, in cui la necessità di decidere se andare avanti o meno fu necessaria. Dalla scomparsa del batterista Keith Moon nel 1978 che mise in seria discussione l’opportunità di proseguire la carriera senza di lui e di finire il film “Quadrophenia” in corso di realizzazione.
In entrambi in casi, dopo molti tentennamenti, si decise di andare avanti.
Il peggio accadde il 3 dicembre del 1979 a Cincinnati.
Prima del concerto nella calca per accedere al Riverfront Coliseum rimasero schiacciate e morirono undici persone, la più giovane di quindici anni, la più vecchia di ventisette.
Per evitare ulteriori problemi al gruppo fu tenuta nascosta la tragedia e il concerto ebbe ugualmente luogo. Una volta informata, la band ne uscì moralmente distrutta.
Il cantante Roger Daltrey era deciso a cancellare il resto del tour ma Pete Townshend ebbe la forza di rincuorare il gruppo "Se non suoniamo domani, non suoneremo mai più".
Così fecero e chiusero la serie di concerti.
Ricapitò ancora a loro la necessità di piegarsi alla logica del “The show must go on”.
Il 27 giugno 2002, nell’imminenza di un lungo tour americano, il bassista della band, John Entwistle, decise di anticipare la partenza e di recarsi a Las Vegas, dove, per non annoiarsi troppo, si appartò con una prostituta in un hotel, assumendo all’uopo un po’ di (troppa) cocaina.
Un infarto se lo portò via nel modo più rock ‘n’ roll possibile.
Ci sono ventotto concerti in programma ovvero centinaia di migliaia di biglietti già venduti, un’organizzazione avviata da mesi, decine e decine di lavoratori in attesa di iniziare.
Che fare?
Ancora una volta prevale la necessità di anteporre il lavoro all’emotività, la band recluta il bassista Pino Palladino, che da allora rimane membro fisso del gruppo e la serie di concerti verrà portata a termine.
Tra le rare occasioni in cui la decisione non fu delegata ad artisti o manager, c’è stato il recente periodo del Covid in cui tutti gli eventi legati al mondo dello spettacolo furono tristemente cancellati. “Quando ho capito che i concerti sarebbero saltati mi è crollato il mondo addosso” commentò Vasco Rossi.
Per qualcuno invece lo show poteva anche non andare avanti se non alle loro condizioni.
Nel 1964 i Beatles intrapresero il loro primo tour americano (che decretò il definitivo successo mondiale e grazie al quale e alle relative apparizioni televisive, migliaia di ragazzi e ragazze decisero di impugnare uno strumento musicale e cambiare vita).
Tra i concerti previsti anche uno a Jacksonville in Florida.
Ma appena la band seppe che avrebbero dovuto esibirsi davanti a una platea “segregata”, con bianchi e neri divisi, rifiutarono decisamente e inserirono nel contratto che non sarebbe mai accaduto nel tour, altrimenti non si sarebbero presentati sul palco.
“Non abbiamo mai suonato davanti a un pubblico separato secondo la razza e non inizieremo ora. Preferirei rinunciare ai miei soldi” dichiarò John Lennon.
In un’altra storica occasione, proseguire con lo show fu una decisione opportuna, seppure controversa.
Il 4 aprile, a seguito dell’assassinio di Martin Luther King, in centoventi città americane si verificarono pesanti scontri a causa della rivolta degli afroamericani contro l’ennesimo attentato sulla strada per la rivendicazione dei loro diritti, di cui King era uno dei principali portavoce.
Il giorno dopo era previsto un concerto di James Brown a Boston, sold out da tempo. Per evitare che la cancellazione provocasse ulteriori incidenti, Brown decise di esibirsi e di concedere la trasmissione del concerto in diretta televisiva in modo che più gente possibile rimanesse a casa. Così accadde e la situazione nella città del Massachussetts rimase tranquilla e quando ci fu un accenno di invasione di palco da parte di giovani neri con reazione violenta della polizia bianca, fu lo stesso James Brown a pacificare tutti:
“Vi chiedo di tornare ai vostri posti, siate dei gentlemen. E ora alla polizia chiedo di fare un passo indietro perché sono sicuro di potere avere il rispetto dalla mia gente”.
A volte bastano poche parole per cambiare il corso della (o di una) storia.
Freddie Mercury nella consapevole imminenza della prossima scomparsa volle incidere con i Queen il suo testamento artistico, con tanto di struggente video, “The show must go on” (lo spettacolo deve continuare), nel 1991 (il cantante morirà circa un mese dopo la pubblicazione del brano), benedicendo la possibilità che il gruppo proseguisse senza di lui (cosa avvenuta e che continua a intermittenza fino ai nostri giorni), senza polemiche da parte di fan e critica.
Lo spettacolo deve continuare?
Sempre e comunque?
A questo proposito non si placano le polemiche relative al concerto di Bruce Springsteen a Ferrara, negli stessi giorni in cui, a pochi kilometri di distanza, la Romagna sprofondava sotto l’acqua e si contavano i morti e danni di immensa portata.
Ingenuamente e in modo velleitario in molti hanno chiesto la sospensione, il rinvio o l’annullamento del concerto.
Una logica e umana reazione a un contrasto così tanto stridente tra una manifestazione ludica e una tragedia.
Nella pratica annullare o anche solo spostare il concerto era praticamente impossibile, se non in caso di cause di forza maggiore. Ferrara era al sicuro e non c’erano ragioni tecniche per provvedimenti di quel tipo.
Se non strettamente “morali”.
Le assicurazioni non avrebbero pagato nessun risarcimento, i cinquantamila biglietti da rimborsare sarebbero stati a carico di un’organizzazione che aveva già investito cifre enormi per l’allestimento, gli anticipi (e il successivo saldo) al management e all’artista, il danno logistico per la città enorme (hotel disdetti, mancati guadagni di ristoranti, bar, parcheggi, merchandising etc).
Parlando con un amico addetto all’organizzazione (aiutante di “seconda fascia”) spiegava come i tre eventi italiani di Springsteen (il prossimo a luglio a Monza) gli fruttassero la metà dello stipendio annuale, se non di più.
Ovvero: dietro a ogni mega concerto c’è un’organizzazione che impiega centinaia, se non migliaia, di lavoratori e lavoratrici che da eventi di questa portata traggono una delle principali fonti di guadagno.
Fermare, seppur con tutte le ragioni del caso, un concerto del genere significava fare crollare le entrate (come abbiamo visto, in certi casi, di portata annuale) per una categoria già così bastonata, precaria e bistrattata come quella della maestranza del settore “artistico” (musicale, teatrale, cinematografico), il più delle volte pensata e considerata come poco più di un hobby.
L’appunto, necessario e ovvio, che si può e deve fare a Springsteen è stata la mancanza di una pubblica sensibilità nei confronti della tragedia, a fianco della quale si è esibito.
Patetiche e pure un insulto all’intelligenza le scuse addotte da organizzatori e entourage del Boss: “non sapeva”. Sorvoliamo.
Una frase, un omaggio, un saluto (accuratamente evitato anche nella successiva data di qualche giorno dopo a Roma) sarebbe bastato a renderlo semplicemente “umano”, partecipe, solidale.
Soprattutto dopo anni di enfasi sulla sua vicinanza ai poveri, ai derelitti, agli ultimi della società.
Un po’ di coerenza non guasta, anche dall’alto di una popolarità mondiale, una devozione sconfinata e acritica dei fan, una vita dorata, facile e spensierata, un conto in banca esagerato.
Un atteggiamento sinceramente incomprensibile.
Di contro è necessario sottolineare come siano spesso gli stessi fan ad attribuire all’idolo di turno una funzione salvifica, “sacerdotale”, un’intoccabilità, sepolta in un immaginario in cui l’artista diventa dispensatore di benedizioni, di capacità risolutive.
A quanto (lontanamente) ricordo, si dice durante la Messa: “Ecco l'Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo. O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato.”
Senza voler sembrare blasfemo, purtroppo in certi casi l’artista a cui si delega il “Verbo” assume un ruolo che ovviamente non ha e, si spera, in molti casi non vuole avere.
Springsteen era lì per suonare, per svolgere il suo lavoro e una sua parola non avrebbe salvato niente e nessuno.
Sarebbe però stata opportuna, umana e gradita.
Gli Who avevano preconizzato già nel 1969 una visione simile con l’opera rock “Tommy” in cui Pete Townshend, uno che ha sempre visto lontano (non a caso uno dei migliori brani di qualche anno prima della band si intitolava “I can see for miles” – posso vedere per miglia e miglia) e ritraeva l’ascesa a culto messianico di un ragazzo muto, sordo e cieco, di cui tutti diventavano devoti, attribuendogli poteri salvifici.
Per Tommy finirà male.
Gli stessi Who si sono ritrovati frequentemente in casi simili, sfortunati e tragici, in cui la necessità di decidere se andare avanti o meno fu necessaria. Dalla scomparsa del batterista Keith Moon nel 1978 che mise in seria discussione l’opportunità di proseguire la carriera senza di lui e di finire il film “Quadrophenia” in corso di realizzazione.
In entrambi in casi, dopo molti tentennamenti, si decise di andare avanti.
Il peggio accadde il 3 dicembre del 1979 a Cincinnati.
Prima del concerto nella calca per accedere al Riverfront Coliseum rimasero schiacciate e morirono undici persone, la più giovane di quindici anni, la più vecchia di ventisette.
Per evitare ulteriori problemi al gruppo fu tenuta nascosta la tragedia e il concerto ebbe ugualmente luogo. Una volta informata, la band ne uscì moralmente distrutta.
Il cantante Roger Daltrey era deciso a cancellare il resto del tour ma Pete Townshend ebbe la forza di rincuorare il gruppo "Se non suoniamo domani, non suoneremo mai più".
Così fecero e chiusero la serie di concerti.
Ricapitò ancora a loro la necessità di piegarsi alla logica del “The show must go on”.
Il 27 giugno 2002, nell’imminenza di un lungo tour americano, il bassista della band, John Entwistle, decise di anticipare la partenza e di recarsi a Las Vegas, dove, per non annoiarsi troppo, si appartò con una prostituta in un hotel, assumendo all’uopo un po’ di (troppa) cocaina.
Un infarto se lo portò via nel modo più rock ‘n’ roll possibile.
Ci sono ventotto concerti in programma ovvero centinaia di migliaia di biglietti già venduti, un’organizzazione avviata da mesi, decine e decine di lavoratori in attesa di iniziare.
Che fare?
Ancora una volta prevale la necessità di anteporre il lavoro all’emotività, la band recluta il bassista Pino Palladino, che da allora rimane membro fisso del gruppo e la serie di concerti verrà portata a termine.
Tra le rare occasioni in cui la decisione non fu delegata ad artisti o manager, c’è stato il recente periodo del Covid in cui tutti gli eventi legati al mondo dello spettacolo furono tristemente cancellati. “Quando ho capito che i concerti sarebbero saltati mi è crollato il mondo addosso” commentò Vasco Rossi.
Per qualcuno invece lo show poteva anche non andare avanti se non alle loro condizioni.
Nel 1964 i Beatles intrapresero il loro primo tour americano (che decretò il definitivo successo mondiale e grazie al quale e alle relative apparizioni televisive, migliaia di ragazzi e ragazze decisero di impugnare uno strumento musicale e cambiare vita).
Tra i concerti previsti anche uno a Jacksonville in Florida.
Ma appena la band seppe che avrebbero dovuto esibirsi davanti a una platea “segregata”, con bianchi e neri divisi, rifiutarono decisamente e inserirono nel contratto che non sarebbe mai accaduto nel tour, altrimenti non si sarebbero presentati sul palco.
“Non abbiamo mai suonato davanti a un pubblico separato secondo la razza e non inizieremo ora. Preferirei rinunciare ai miei soldi” dichiarò John Lennon.
In un’altra storica occasione, proseguire con lo show fu una decisione opportuna, seppure controversa.
Il 4 aprile, a seguito dell’assassinio di Martin Luther King, in centoventi città americane si verificarono pesanti scontri a causa della rivolta degli afroamericani contro l’ennesimo attentato sulla strada per la rivendicazione dei loro diritti, di cui King era uno dei principali portavoce.
Il giorno dopo era previsto un concerto di James Brown a Boston, sold out da tempo. Per evitare che la cancellazione provocasse ulteriori incidenti, Brown decise di esibirsi e di concedere la trasmissione del concerto in diretta televisiva in modo che più gente possibile rimanesse a casa. Così accadde e la situazione nella città del Massachussetts rimase tranquilla e quando ci fu un accenno di invasione di palco da parte di giovani neri con reazione violenta della polizia bianca, fu lo stesso James Brown a pacificare tutti:
“Vi chiedo di tornare ai vostri posti, siate dei gentlemen. E ora alla polizia chiedo di fare un passo indietro perché sono sicuro di potere avere il rispetto dalla mia gente”.
A volte bastano poche parole per cambiare il corso della (o di una) storia.
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Di cosa parliamo quando parliamo di musica
sabato, maggio 27, 2023
Appuntamenti
𝗘𝗟𝗟𝗘𝗡𝗜𝗖 𝗕𝗢𝗢𝗞𝗦 ✦ "NORTHERN SOUL" con l'autore Antonio Bacciocchi
Sabato 27 maggio 2023
ore 21.00 all’OpenSpace Theater (Via Empedocle 159, Agrigento).
Terzo e ultimo appuntamento stagionale con ELLENIC BOOKS, la rassegna di editoria musicale del Festival che ci ha accompagnato durante tutto l’inverno per inoltrarci gradualmente nella straordinaria due giorni di agosto ormai sempre più vicina.
https://www.facebook.com/events/624781579558126
Il 3 giugno alle 18.30 al Museo della Resistenza di Sperongia di Morfasso (Piacenza) parlo con Iara Meloni di musica "resistente".
Prima un po' di musica.
Domenica 11 giugno a Guastalla all'Handmade Festival:
NOT MOVING LTD live con Lydia Lunch.
https://www.facebook.com/handmadefestival
Sabato 27 maggio 2023
ore 21.00 all’OpenSpace Theater (Via Empedocle 159, Agrigento).
Terzo e ultimo appuntamento stagionale con ELLENIC BOOKS, la rassegna di editoria musicale del Festival che ci ha accompagnato durante tutto l’inverno per inoltrarci gradualmente nella straordinaria due giorni di agosto ormai sempre più vicina.
https://www.facebook.com/events/624781579558126
Il 3 giugno alle 18.30 al Museo della Resistenza di Sperongia di Morfasso (Piacenza) parlo con Iara Meloni di musica "resistente".
Prima un po' di musica.
Domenica 11 giugno a Guastalla all'Handmade Festival:
NOT MOVING LTD live con Lydia Lunch.
https://www.facebook.com/handmadefestival
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I me mine
venerdì, maggio 26, 2023
Lorenzo Arabia - Gianluca Morozzi - Oderso Rubini - Alle barricate! Il libretto rosso dei Gang
Una storia che viene da lontano e che lontano continua a guardare, camminando i sentieri di una passione mai sopita.
Quello dei GANG è un percorso molto particolare, nato nella profonda provincia marchigiana, partito dall'autoproduzione, passato alle major e tornato negli ultimi anni al crowdfunding e all'autogestione.
Nel libro ne troviamo la dettagliata e complessa storia, arricchita da splendi aneddoti, un numero enorme di foto e documenti, inseriti in una grafica a metà tra la fanzine e la ricerca artistica.
Scorrono le parole dei protagonisti, Marino in primis.
Marino Severini:
La nostra è una canzone che canta le storie, non la Storia. Come ripeto da decenni in ogni occasione, pubblica o privata che sia, se c’è una “ cosa “ che non ho mai condiviso soprattutto nell’immaginario radicato della sinistra italiana, è proprio lo slogan “ La Storia siamo Noi”. Dispiace per De Gregori o Minoli ma questa è una bugia, una falsità che ci siamo raccontati a lungo, per decenni. La storia appartiene ai vincitori.
Chi vince ha la Storia e ne impone la propria versione con i propri strumenti, quelli del potere. Repressione quando serve oppure , come accade oggi, attraverso il controllo delle comunicazioni di massa. Ma allora Noi, nei secoli dei secoli che abbiamo avuto ?
Noi abbiamo avuto il Plurale!
Che sono LE Storie. Che fanno una storia diversa da quella dei vincitori, la Nostra. Quella dei Vinti. Ecco allora che anche attraverso le storie cantate noi teniamo vive le nostre storie, è così facendo ripercorriamo le strade che c’hanno portato fino a qui, nel presente. Le strade dell’esclusione, dello sfruttamento, della violenza subita, dell’umiliazione. E in questo modo, attorno al “fuoco” della storie cantate, noi celebriamo il rito della Memoria. Che è l’unico strumento che da Vinti ci rende INVINCIBILI! Non vincitori ma Invincibili.
Era una storia da raccontare e il libro è un riuscito tassello che si inserisce alla perfezione nella vicenda del rock italiano.
Marino Severini:
Questo libro nasce dalla “ buona volontà “ di Lerry Arabia, Gianluca Morozzi e Oderso Rubini .
Lerry e Gianluca avevano già curato “ Le Radici e Le Ali” un libro sui nostri primi 25 anni , che venne pubblicato nel 2008 dalla Fernandel.
“ Un libro che è un atto d’amore per tanti anni di canzoni, di impegno, di palchi e di concerti “ queste erano le motivazioni che scrissero in quel libro allora e credo siano le stesse che li hanno portati a scrivere questo nuovo capitolo. Un gesto di affetto , di stima , di Amore nei nostri confronti , ma soprattutto della nostra storia.
Del nostro cammino che dura ormai da circa 40 anni.
Oggi questo triunvirato ( ai due si è aggiunto Oderso, che , fra le tante “cose “ è stato anche il produttore artistico del nostro “ Le radici e Le Ali “) ripercorre il nostro Viaggio , torna sulle tracce , coinvolge nel racconto molti di quelli che hanno attraversato la nostra storia . Che sono stati compagni di Strada, produttori, musicisti, fonici, una moltitudine di energie creative che ha fatto parte di questa Lunga Carovana che sono stati e restano “ i Gang “.
Ma più che una Carovana , a pensarci bene, il libro è un Fiume, che gli autori risalgono fino alla sorgente e in questo risalire controcorrente, sottolineano gli alberi , le rocce , il paesaggio che c’è lungo le rive del Fiume. Dylan nel suo ultimo “ La filosofia della canzone moderna, “ nel capitolo 40 dedicato a “ Doesn’t Hurt Anymore “ di John Trudell “ scrive : “ Un fiume si può risalire o si puoò scendere. C’è bisogno di un punto di riferimento lungo la riva, un albero o una roccia, per sapere se ci stiamo muovendo...Tutti giudicano la storia dal punto in cui stanno. . E’ l’unica maniera in cui possono darle un senso, altrimenti il sentimento è troppo intenso. E’ questa la ragione per cui la gente traccia continui collegamenti con ciò che è accaduto in precedenza… “ Secondo me quello che conta in tutta questa storia, la nostra , è proprio questo: il Fiume.. o meglio il Movimento !
Lorenzo Arabia - Gianluca Morozzi - Oderso Rubini
Alle barricate! Il libretto rosso dei Gang
Goodfellas
288 pagine
30 euro
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Libri
giovedì, maggio 25, 2023
Tashkent novembre 2022
L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.
Colgo l'occasione per ringraziarlo una volta di più per avere concesso il privilegio a questo blog di entrare con gli occhi di una persona colta, preparata, informata, dalla mente aperta e fresca, in un mondo sconosciuto, andando oltre alla rinnovata "cortina di ferro", riportando la voce della gente, le impressioni, gli sguardi, i colori.
Spero presto di ritrovare buona parte di questi contributi in un libro.
Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss
Tashkent novembre 2022
PARTE UNO (prossima settimana la seconda puntata).
A novembre ritorno in Uzbekistan.
In aeroporto a Istanbul è pieno di russi, sui monitor sono indicati gli orari dei voli per Kazan’, Mineral’nye Vody e Novosibirsk.
In sei mesi la Turchia è diventata il principale hub internazionale per la Russia.
Atterro a Taškent che sono le due di notte, fuori mi aspetta Svjatoslav, un ragazzo biondo che lavora per il nostro distributore. Prima di partire mi ero sentito con Ravšan, gli avevo detto di non preoccuparsi, avrei prenotato un taxi.
Non c’è stato verso:
“Tu sei l’ospite, arrivi dall’Italia e veniamo a prenderti!” ha sentenziato il mio referente, che è rimasto a dormire.
L’albergo è a pochi minuti di strada, in un quartiere periferico, edifici bassi, scheletri di palazzoni in costruzione e un campo di calcetto con dei ragazzi sudati che corrono come dannati sotto le luci dei riflettori.
“Ma questi giocano alle tre di mattina?”
“Chissà, magari di giorno lavorano…” risponde serafico Svjatoslav.
Poco prima di pranzo passa a prendermi per portarmi nella sede centrale, dove ho in programma due seminari per i clienti del nostro rivenditore.
In Russia ormai non fa quasi più effetto se dici che alla conferenza viene uno dall’Italia, qua invece è un evento, c’è un sacco di gente.
Ravšan mi presenta un tot di uomini barbuti con i nomi impronunciabili, sono venuti da lontano e mi salutano con un mezzo inchino e la mano sul cuore.
Nessuno ha il capo coperto, un terzo sono donne coi capelli in libertà, vestite bene, all’occidentale, quasi tutte con lineamenti asiatici.
Fanno domande, si interessano e prendono nota perché tanti articoli li vedono per la prima volta.
Reggicristalli squadrati, con la finitura nero nickel che riflette la luce dei faretti led all’interno delle vetrine; le attaccaglie per basi sospese, con le regolazioni 3D e il sistema di fissaggio brevettato.
La sala ospita un centinaio di persone, l’ambiente curato e pulito.
A fine giornata vorrei tornare in albergo ma Ravšan non vuole sentire ragioni.
“Sei in Uzbekistan, non si rifiuta un invito a cena!”
Lo dice sorridendo, i denti bianchissimi e regolari, con quel modo seducente che hanno certi medio-orientali, ce l’hanno nel sangue questa cosa di vendere e negoziare ad ogni costo.
In auto, nel tragitto verso il ristorante, chiacchiero un po’ con Marina, la ragazza che segue i nostri ordini.
Capelli a caschetto, occhi a mandorla scuri, labbra carnose e figura minuta. È di etnia coreana ma è nata in Uzbekistan, dove si è laureata in economia.
Poi ha deciso di cambiare aria, ha trascorso un periodo a Seul per studiare la lingua (“ma è troppo difficile, la capisco un po’ ma faccio fatica a parlare”) e sei anni fa si è trasferita col marito a Mosca, dove sono rimasti fino a febbraio.
“Appena è scoppiata la guerra abbiamo deciso di tornare a Taškent.
Là stavamo bene ma in quei giorni erano tutti nel panico, c’era un clima di angoscia che mi viene male a pensarci.”
Increspa le labbra, un velo opaco le oscura lo sguardo.
“Cosa facevate?”
“Mio marito lavorava in banca, io ero responsabile della logistica per un’impresa edilizia, una delle più grandi a Mosca.”
“E adesso com’è qua?”
Sospira prima di rispondere: “Più comodo, tutto più compatto.” stringe le mani come a formare una pallina.
“Non perdi la giornata per andare e tornare dal lavoro ma è difficile trovare un appartamento. Negli ultimi mesi gli affitti sono raddoppiati, è pieno di russi che sono scappati e quelli che cercano casa pagano bene.”
Al ristorante veniamo accolti da una ragazza immagine con labbra e occhi grandi, sorride in modo impostato e ci accompagna al nostro tavolo, le spalle dritte e i menu sotto il braccio. L’ambiente è sobrio, arredamenti eleganti senza eccessi.
L’unica cosa che rompe è la musica alta, quasi ci impedisce di parlare.
Ravšan si accorda col cameriere per una cena veloce, menu già definito. Anche se siamo in tre, ordina roba per otto persone, tutte cose buonissime.
Si parte con insalata di pomodori e antipasti georgiani come pkhali, polpette vegetariane con chicchi di melograno, e involtini di melanzana con un ripieno di noci e verdure. Io sarei anche a posto ma qua un pasto senza carne è come un compleanno senza torta.
A un certo punto si avvicina al tavolo un ragazzo traccagnotto, si distingue dagli altri camerieri perché indossa un grembiule di pelle nera e ha l’aria compiaciuta di chi gode di una certa autorità. Confabula un po’ con Ravšan e si allontana annuendo.
Dopo qualche istante si spengono le luci e le casse iniziano a pompare un pezzo rock blues un po’ rozzo, roba da biker con i capelli lunghi, gli stivali in cuoio e il chopper che sgasa su una strada polverosa.
Un ragazzo mingherlino spinge verso di noi un carrello con sopra un piatto illuminato da due tubetti con le estremità scintillanti, tipo le stelline di Capodanno. Ecco servito il montone con i fuochi d’artificio.
Tutti gli ospiti del locale interrompono cene e discorsi per guardare verso il nostro tavolo, Marina tira fuori il cellulare e fa un video, l’espressione meravigliata di una bambina al luna park.
Finalmente si riaccendono le luci e cambia la musica, si avvicina il tizio con il grembiule in pelle e inizia a preparare la carne. Una volta fatte le porzioni, alza il braccio in maniera teatrale e sparge il sale sfarfallando con le dita come Salt Bae, il polso inarcato che ricorda il collo di un cigno. Sorride soddisfatto e si allontana.
Ravšan mi guarda come per dire “E tu che volevi andare in albergo…”
La mattina successiva mi alzo presto perché dobbiamo prendere un treno per Samarcanda, trecento chilometri a sud-ovest di Taškent, per visitare dei clienti.
L’albergo dove mi sono sistemato è recente ma piccolino, due piani e una decina di stanze in tutto, nel complesso ben tenuto.
Nel corridoio che funge da lobby fa freddo e tira aria, il ragazzino che sta alla reception mi osserva mentre mi abbottono il trench e sistemo la sciarpa attorno al collo. Si avvicina alla porta spalancata e allunga la mano verso l’esterno.
“Ho aperto tutto, così si sente il profumo della pioggia.” dice con un candore disarmante che annulla le maledizioni prima ancora che si materializzino nella corteccia cerebrale.
Ravšan arriva un po’ in ritardo, aria sbattuta, faccia grigia. Increspa la fronte, deglutisce con fatica.
“Mi sa che ieri sera ho mangiato troppo.”
“Ehhh” commenta il grillo parlante.
Albeggia, scende una pioggerellina fine e gelida, per strada ci sono poche macchine, davanti alla stazione lavori in corso, una donna che indossa un giubbotto catarifrangente spazza la strada bagnata con una ramazza di saggina.
La sala di attesa è piena di gente, Ravšan fa un salto al bar a prendere due caffè prima della partenza e mi lascia da solo raccomandandosi di non allontanarmi, come se avessi sette anni.
Davanti a me una decina di anziani vestiti di bianco dalla testa ai piedi, le donne hanno i baffi più radi degli uomini.
Fanno parte di un coro di tosse asinina, Gli Espettorati. Scatarrano a turno o in coppia, senza sosta, nessuno che faccia il gesto di mettersi una mano davanti alla bocca, se ne restano lì a boccheggiare, imperturbabili.
Finalmente arriva il nostro treno, un convoglio recente, in testa la motrice con il muso a punta. Sulla banchina ci raggiungono Askar e Marija, due colleghi di Ravšan.
Il controllore guarda i nostri biglietti prima di farci salire, è un ragazzo alto con i capelli corti, gli occhi a mandorla e l’aria distinta per via del cappotto di Astrakan con la spilletta delle ferrovie uzbeke.
Abbiamo tre ore di viaggio e vorrei dormire un po’ ma Ravšan continua a parlare, mi chiede se ho un profilo Instagram, gli spiego che non lo uso da due anni. Insiste perché glielo mostri e quando vede il numero di follower si mette quasi a gridare “Wow! Ma sei una celebrità!”. Scrolla verso il basso, osserva le immagini della pagina finché non compare un primo piano di Vladimir Majakovskij, i capelli rasati e lo sguardo torbido.
“Grande! Anche la poesia russa.”
“Ho studiato lingue a Venezia. Come pensi che sappia il russo?”
“Conosci Turgenev?” non mi dà neanche il tempo di rispondere che subito precisa: “Tu non lo sai ma io sono suo bis-bis nipote.”
“Eh?”
“Ivan Turgenev era mio bis-bis nonno, da parte di madre.”
Sembra improbabile che il ragazzo seduto al mio fianco sia il discendente di uno dei più famosi scrittori russi ma in realtà non ho motivo di dubitare, Ravšan mi ha già detto varie volte che sua madre era di origine russa e non è uno che racconta balle.
“Ho fatto la tesi su Turgenev.”
Risparmio a Ravšan i dettagli della mia tesi e provo a dormire.
Solo che il mio vicino si muove e si agita, allarga i gomiti, batte il piede sul pavimento in maniera ossessiva, telefona in continuazione. Apro gli occhi, guardo fuori. Cielo color cemento, campi bagnati, verdi, selvatici, qualche villaggio.
I passaggi a livello sono presidiati dalla polizia, le macchine in attesa ai lati della ferrovia, i conducenti fuori, appoggiati alle portiere, fumano e guardano il treno che passa. Alla nostra destra si alzano delle colline, montagne sullo sfondo, ogni tanto una casetta dalle pareti grigie, senza intonaco, tutto attorno cespugli, capre che pascolano, montoni, qualche mucca, un trattore parcheggiato.
Poi lo skyline si infittisce, edifici sempre più alti, il treno inizia a rallentare e il nostro vagone si inclina, stiamo arrivando alla stazione di Samarcanda.
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Tales from Ex Urss
mercoledì, maggio 24, 2023
Trevor Laird / Ferdy e Quadrophenia
Trevor Laird che interpretava lo spacciatore di pillole, unico ragazzo di colore tra i mod, venne escluso dalla scena della festa casalinga in cui Jimmy si bacia con Monkey (Toyah Wilcox) e altri sono appartati in camera a fare sesso.
Ricorda l’attore: 'Franc Roddam mi disse: "Guarda, questo film uscirà nel profondo sud dell'America, probabilmente in Sud Africa, se siamo fortunati, e non possiamo avere scene in cui c'è sesso e vicinanza tra un uomo di colore e donne bianche.”
Toyah Wilcox lo consolò dicendogli che gli attori pensavano di entrare in sciopero se non fosse stato incluso nella scena ma alla fine la cosa venne, a malincuore, accettata.
Lo stesso Laird in una recente intervista ha puntualizzato:
“"Siamo onesti, negli anni Ottanta c’erano politici in Inghilterra che chiamavano Nelson Mandela un terrorista e questo era anche dopo il film, quindi cosa ti potevi aspettare?"
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martedì, maggio 23, 2023
Laura Pescatori - Femita. Femmine rock dello stivale volume 2
Altri trenta nomi di donne protagoniste della musica rock (e dintorni) italiana si aggiungono, in questo secondo episodio, alla certosina ricerca della giornalista Laura Pescatori dopo il promettente primo volume (https://tonyface.blogspot.com/2020/10/laura-pescatori-femita.html).
Attraverso una serie di interviste dallo schema simile e predefinito, si approfondiscono carriere e ruolo della donna nella musica nostrana, abbracciando una vasta gamma artistica, che va dal cantautorato, al punk, alla sperimentazione, all'avanguardia.
Tra le tante protagoniste, nomi eccellenti come Roberta Sammarelli dei Verdena, Elli De Mon, l'ex Franti, Lalli, realtà note e altre più di nicchia.
Ne emerge un ritratto di una scena italiana vivacissima, attiva, pulsante, quanto ancora preda di sessismo, discriminazioni, difficoltà a proporsi solo per una questione di genere.
Laura Pescatori
Femita. Femmine rock dello stivale volume 2
Edizoni Underground
273 pagine
15 euro
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Libri
lunedì, maggio 22, 2023
L' altro 1977
Riprendo l'articolo che ho scritto ieri per il quotidiano "Libertà" dedicato a quei dischi che uscirono nel 1977, l'anno in cui "il punk spazzò via il rock".
Il fatidico e mitico 1977, anno in cui la musica rock (pare) cambiò completamente, i gruppi punk spazzarono via il vecchio (se guardiamo l’età, ai tempi, di quelli che venivano chiamati i “senatori” o ancora peggio “i dinosauri”, avevano da poco superato i trent’anni, nella maggior parte dei casi), conquistarono le classifiche e cancellarono tutto quanto c’era stato prima.
Per anni la storiografia musicale ufficiale ha riportato gli eventi più o meno in questo modo.
E in tanti ci hanno creduto e divulgato il concetto acriticamente.
E’ altrettanto vero che il rock è diventata una musica “classica” e “tradizionale” solo nel tempo, uscendo dal concetto adolescenziale con cui era nato e si pensava, in quel fatidico anno, che sarebbe morto a breve.
Eh si, è da cinquanta anni che si dice che il rock sia morto.
Certo, è da tempo che si ripete senza rinnovarsi granché ma proprio morto non sembra esserlo.
Anche in quell’anno, il cosiddetto rock tradizionale mise in fila una serie di album di grande levatura, destinati a diventare classici e a scalare le classifiche di mezzo mondo.
Questo non toglie valore all’apporto che le nuove band inglesi e americane (dai Sex Pistols, Clash, Ramones, a Patti Smith, Talking Heads, per citare i più noti) diedero alla musica rock, soprattutto al costume e alla società.
Ma se andiamo a dare un’occhiata alle uscite discografiche del 1977 troviamo alcune sorprese.
Ad esempio “Rumours” dei Fleetwood Mac, gruppo nato nell’ambito della scena rock blues inglese degli anni Sessanta, guidati inizialmente dal geniale chitarrista Peter Green, che nel corso degli anni cambiò più volte formazione e soprattutto si allontanò dalla rigorosa devozione alla musica nera, abbracciando progressivamente un suono più pop, fruibile e facile.
La critica e i vecchi fan gridarono al tradimento ma quando esce “Rumours” (album di difficile gestazione, nato e cresciuto tra frizioni e pesanti litigi tra i componenti del gruppo) entra in classifica al primo posto, vi rimane per un lunghissimo numero di settimane, vince il Grammy Award per il miglior album dell’album, vende venti milioni di copie in America e altri venti in tutto il mondo, diventando uno dei best seller di sempre.
Infila anche una serie di singoli ai primi posti, tra cui quello più noto è sicuramente “Don’t stop”, un sempreverde della musica pop.
Uno dei personaggi che ha sempre anticipato le tendenze artistiche, le ha plasmate a sua immagine e somiglianza, attingendo da ciò che succedeva intorno ma dipingendole poi in maniera del tutto originale, è stato David Bowie.
Dopo anni di dipendenze pesanti, di glam e travestimenti, di abbracci al soul americano, cambia ancora una volta drasticamente rotta e concepisce (tra il 1976 e il 1979) la cosiddetta “Trilogia Berlinese”, tra le espressioni musicali più interessanti e intriganti della storia del rock.
Bowie rimette in gioco la propria carriera sperimentando, cercando nuovi suoni, anticipando buona parte di quella che sarà la new wave.
Nel frattempo, per non lasciarsi mancare niente, incide e compone anche due album con Iggy Pop, a cui ridarrà vita artistica (ma non solo), afferrandolo per i capelli appena in tempo e trascinandolo fuori dagli abissi dell’eroina.
Nel gennaio del 1977 esce “Low”, registrato in realtà in Francia e mixato a Berlino Ovest, che segna l’inizio della collaborazione con un altro genio come l’ex Roxy Music, Brian Eno. L’album è algido, duro, con toni apocalittici, fortemente sperimentali.
Accolto con diffidenza e non molto favorevolmente dalla critica ma troverà il successo del pubblico e dei fan.
Dieci mesi dopo, nell’ottobre del 1977, è la volta di “Heroes”, uno dei capolavori di Bowie e dell’intera storia del rock, più accessibile, meglio definito, meno sperimentale, con Eno ancora più determinante ed equilibrato e il lavoro chitarristico di Robert Fripp dei King Crimson a dare ancora più personalità e creatività al tutto.
Lo stesso Brian Eno pubblica un gioiello di grandissimo pregio (e probabilmente la sua vetta artistica) come “Before and after science”, con la collaborazione di personaggi come Phil Collins, Robert Fripp, Robert Wyatt, Fred Frith, membri dei Roxy Music e dei Can.
E’ anche l’anno in cui torna sulle scene Peter Gabriel, dopo il clamoroso abbandono dei Genesis.
Un disco (come i successivi tre) che non ha titolo e che si differenzia notevolmente dalla produzione prog della band, cercando invece nuove sonorità, moderne, più sperimentali.
Anche in questo caso compare il “signor Prezzemolo” Robert Fripp ad arricchire con il suo tocco un lavoro che rimane ai vertici della produzione del cantante e compositore inglese.
Passando ad ambiti meno sperimentali, vogliamo ricordare che proprio nell’anno dello stravolgimento punk i Queen realizzano “News of the world” con le due canzoni simbolo del rock più classico, “We are the champions” e “We will rock you”?
Peraltro il chitarrista Brian May ricorda che, proprio su ispirazione del punk che faceva tornare la musica alle radici più urgenti e dirette, la band decise di abbandonare la pomposità barocca delle recenti composizioni a favore di un sound più crudo.
Anche in America c’è chi rimane ancorato al “buon vecchio rock” e uno sconosciuto esordiente, dal nome singolare, Meat Loaf, piazza in suo primo album “Bat out of hell” in cima alle classifiche con un rock che fa riferimento alla musica classica, Wagner in particolare, mischiandola all’hard rock, in un profluvio epico e di rara pomposità.
Vende 43 milioni di copie e si piazza tra i dischi più venduti di sempre.
Anche i Pink Floyd realizzano uno dei loro classici con un ambizioso concept a sfondo sociale, “Animals”, uno dei migliori della loro storia.
Eric Clapton dopo anni particolarmente difficili, caratterizzati da pesanti dipendenze, trova uno dei suoi maggiori successi con “Slowhand” con la cover di “Cocaine” di JJ Cale, destinata a diventare il suo cavallo di battaglia.
I Kiss sono già famosi ma con “Love Gun” aumentano la loro popolarità grazie a uno delle loro migliori prestazioni discografiche in assoluto.
Billy Joel dà alle stampe il suo quinto lavoro, “The stranger” ed entra nel novero dei migliori compositori della decade in corso. Paul McCartney non incide album con i suoi Wings ma si dedica invece a un 45 giri, “Mull of Kintyre”, ballata folk con tanto di cornamuse e, tanto per cambiare, ne vende oltre due milioni di copie, diventando il singolo più acquistato in Gran Bretagna.
Il cantautore americano Jackson Browne si segnala con “Running on empty” mentre Bob Marley scrive quello che è unanimemente considerato il suo capolavoro, “Exodus” con due dei brani più significativi della carriera, “One love” e “Jammin”.
Il nostro Giorgio Moroder realizza un disco epocale, “From here to eternity”, molto influenzato dalla musica dei Kraftwerk che quasi contemporaneamente escono con “Trans Europe Express”, manifesto della musica pop elettronica.
E alla faccia del punk e della new wave, i Bee Gees trionfano con l’album per eccellenza della stagione disco music, con la colonna sonora di “Saturday Night Fever” mentre gli Steely Dan portano al successo il loro raffinato groove funk jazz con “Aja” e i Weather Report mettono in scena il gioiello fusion di “Heavy Waether”.
Dalle nostre parti siamo ancora abbondantemente in periodo autarchico e cantautorale, all’interno del quale si distinguono lo splendido concept di Edoardo Bennato, “Burattino senza fili” e il rock di Eugenio Finardi di “Diesel” con Alberto Camerini alla chitarra che nel frattempo pubblica il suo bellissimo “Gelato metropolitano”.
Angelo Branduardi con “La pulce d’acqua”, Pino Daniele con “Terra mia”, Lucio Dalla con “Come è profondo il mare”, Rino Gaetano con “Aida” , Claudio Lolli con “Disoccupate le strade dei sogni”, Alberto Radius con “Carta straccia” e Renato Zero con “Zerofobia” (con il primo grande successo “Mi vendo”) completano il quadro.
Personalmente a buona parte degli album sopraelencati continuo a preferire i miei amati Clash, Jam, Ramones, Pistols, Stranglers e compagnia bella ma rimane perlomeno singolare il permanente “dato acquisito” che il 1977 cancellò il rock classico, non dimenticando come strutturalmente il punk, spogliato dalle sovrastrutture estetiche, politiche, sociali, ne fosse una semplice continuazione, una evoluzione (o involuzione a seconda dell’osservazione) sonora e musicale, che attingeva abbondantemente dalle radici.
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domenica, maggio 21, 2023
Sabato 27 maggio 2023 all’Open Space Theater, Agrigento
𝗘𝗟𝗟𝗘𝗡𝗜𝗖 𝗕𝗢𝗢𝗞𝗦 ✦ "NORTHERN SOUL"
𝗘𝗟𝗟𝗘𝗡𝗜𝗖 𝗕𝗢𝗢𝗞𝗦 ✦ "NORTHERN SOUL" con l'autore Antonio Bacciocchi
Sabato 27 maggio 2023
ore 21.00 all’OpenSpace Theater (Via Empedocle 159, Agrigento).
Terzo e ultimo appuntamento stagionale con ELLENIC BOOKS, la rassegna di editoria musicale del Festival che ci ha accompagnato durante tutto l’inverno per inoltrarci gradualmente nella straordinaria due giorni di agosto ormai sempre più vicina.
https://www.facebook.com/events/624781579558126
Sabato 27 maggio 2023
ore 21.00 all’OpenSpace Theater (Via Empedocle 159, Agrigento).
Terzo e ultimo appuntamento stagionale con ELLENIC BOOKS, la rassegna di editoria musicale del Festival che ci ha accompagnato durante tutto l’inverno per inoltrarci gradualmente nella straordinaria due giorni di agosto ormai sempre più vicina.
https://www.facebook.com/events/624781579558126
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sabato, maggio 20, 2023
Tex Perkins & the Fat Rubber Band live ad Alessandria 19/05/2023
Fenomenale Tex Perkins & the Fat Rubber Band ad Alessandria nella suggestiva location della Casa di Quartiere, capannone industriale perfettamente recuperato.
Un concerto che parte lentamente, in acustico, tra brani country folk in duo, cresce con un blues profondissimo, cupo, che strappa l'anima a graffi, con la band perfettamente rodata (chitarra, basso, batteria e percussioni che si uniscono alla voce e alla chitarra elettrica di Tex) e si chiude a suon di funk blues, con gli stupendi "The devil ain't buying" e "(I wanna) be close to you" dall'ultimo album, grandissimo, "Other world" (da cui ascoltiamo altri eccellenti brani, tra cui una riuscita e intensissima "Brand new man").
In mezzo scorrono alcuni brani dei Cruel Sea, una torrida cover di "Fire and brimstone" di Link Wray, nel bis un omaggio a Willie Nelson con il country spedito di "I never cared for you".
Si chiude con "Psycho" dei Beasts of Bourbon travolgente nella sua teatralità.
Concerto intensissimo, un centinaio di persone, partecipi e felici di essere al cospetto di un artista tanto grande quanto poco acclamato.
Grazie a Salvatore Coluccio per l'organizzazione e l'accoglienza.
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Concerti
venerdì, maggio 19, 2023
Lorenzo Gatta - Living on a thin line
Lorenzo Gatta ha da tempo abbracciato la filosofia ed etica Mod che traspone in un divertente e appassionato romanzo di palese e voluto sapore "Quadrophenico", ambientato nella Londra a cavallo tra i Cinquanta e Sessanta nella prima scena Modernista.
Gli ingredienti ci sono tutti: la Soho dei tempi, gli scontri con i Rockers, un fugace e fortuito incontro con i Quarrymen in procinto di diventare Beatles, il travestito Lola (cit. i Kinks) e tanto altro.
Il racconto è spedito e vivace, urgente e (virtuosamente) naif.
Gli amanti della cultura mod non mancheranno di apprezzare e goderne.
Lorenzo Gatta
Living on a thin line
Altromondo Editore
127 pagine
14 euro
https://www.altromondoeditore.it/libri/living-on-a-thin-line/
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Libri
giovedì, maggio 18, 2023
New York. Il quartiere ebraico
Prosegue la rubrica TALES FROM NEW YORK.
L'amico WHITE SEED è da tempo residente nella Big Apple e ci delizierà con una serie di brevi reportage su quanto accade in ambito sociale, musicale, "underground", da quelle parti, allegando sue foto.
Le precedenti puntate sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20New%20York
A Brooklyn nella zona sud del quartiere Williamsburg si trova la comunità ebraica ortodossa più grande degli Stati Uniti.
I suoi abitanti sono ebrei Chassidici giunti nel paese dall'Ungheria in fuga dalla seconda guerra mondiale e si caratterizzano per la loro ferma adesione all'Halacha.
Un contrasto netto con il resto della cittá.
Botteghe e negozi hanno insegne in ebraico così come i tipici scuolabus gialli.
Una delle prime cosa che si nota sono le sbarre alle finestre.
È come una città nella città, un collettivo molto legato alle sue usanze, i ruoli ricoperti da ogni membro della famiglia sono molto ben definiti.
In genere i matrimoni sono quasi sempre combinati tra il rabbino e la famiglia di ciascun coniuge, che di solito è piuttosto giovane.
Il loro abbigliamento è molto semplice: abiti scuri, gonne lunghe, calze, scarpe basse per le donne.
Gli uomini, devono indossare una camicia bianca con giacca nera e pantaloni neri.
Come accessorio indossano un cappello (oltre alla Kippah).
Questo tipo di abbigliamento vale per tutte le stagioni.
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Tales from New York
mercoledì, maggio 17, 2023
Simone La Rocca - Volevo essere un punk
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le testimonianze su un'epoca fino a poco tempo fa trascurata e quasi dimenticata: il primo punk italiano.
Articoli, libri, video hanno progressivamente arricchito la conoscenza su un fenomeno embrionale, spesso approssimativo, mai sufficientemente documentato.
"Volevo essere un punk", un documentario (in DVD) di Simone La Rocca, condotto da Aldo Santarelli, riassume alla perfezione il concetto di quegli anni, in cui avremmo voluto essere parte di queste sottoculture (punk, mod, skin etc) ma sulle quali arrivavano notizie nebulose dalla (allora) lontanissima Inghilterra.
Ci si provava, con quello che si aveva e poteva.
E' quello che raccontano alcuni dei protagonisti della scena romana, membri di Bloody Riot, Klaxon, Luxfero, Ulster 77, mettendo insieme ricordi, impressioni, mostrando foto e documenti dell'epoca.
Con un appunto interessante di Maurizio Gamba degli Ulster 77 che sottolinea come la scena romana sia probabilmente stata la prima e unica ad abbracciare il punk stradaiolo e fedele alle origini più ruvide e dirette, contrariamente ad altri luoghi in cui si espresse con altre contaminazioni più "art" e new wave.
Per reperirlo:
https://www.facebook.com/HomeMoviesCH
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Film
martedì, maggio 16, 2023
Reg King
Registrato nell'arco di tre anni esce nel 1971 l'album solista di REG KING, una delle migliori voci dei Sessanta.
Ex leader della mod band degli Action epoi dei Mighty Baby, Reg si circonda di una serie di prestigiosi amici e pubblica un album di grande pregio, tipico figlio dell'epoca, tra rock blues, soul rock, tardi Small Faces, Humble Pie, Traffic.
Gli amici si chiamano Steve Winwood, Brian Auger (che fa faville in "Savannah"), Mick Taylor, gli ex Blossom Toes e vari membri dei disciolti Action.
Su tutto la grandissima e sottovalutata voce soul e "nera" di REGinald KING tra Steve Marriott e Rod Stewart.
La Cherry Red ristampa ora l'album in un triplo CD con varie rarità e inediti.
Per ascoltare l'album:
https://www.youtube.com/watch?v=7v0B4vjlulM
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Get Back
lunedì, maggio 15, 2023
1959
Nella storia della musica rock (ma non solo) ci sono anni iconici e di riferimento che vengono abitualmente citati come inizio o fine di un’epoca.
Basti pensare al 1962, esordio dei Beatles o al 1969 del Festival di Woodstock, celebrazione dell’epoca hippie e rock per eccellenza o ancora il 1977 in cui esplode il punk e la musica e il costume cambiarono radicalmente.
Ci sono invece periodi dimenticati e raramente considerati come momenti di svolta.
Andando a scavare nella storia, un po’ per gioco, un po’ per curiosità, invece saltano fuori date che non avremmo mai pensato essere in qualche modo cruciali e così dense di avvenimenti epocali o quasi.
Chi indicherebbe il 1959 come anno importante per la musica?
Sbagliando, perché, andando a dare un’occhiata alla cronologia di quei dodici mesi scopriamo un’incredibile serie di eventi.
Il rock’n’ roll, emerso da poco e che aveva fatto brillare la stella di Elvis Presley sembrava in caduta libera, una moda passeggera, una bizzarria destinata ad essere archiviata. Lo stesso Elvis era in Germania per il servizio militare, impossibilitato a suonare e registrare.
Tornerà nel 1960 ma ripartendo con una nuova immagine edulcorata e “normalizzata”, musicalmente indirizzato verso sonorità molto meno ribelli e più inclini al pop commerciale. Uno dei personaggi più estrosi e trasgressivi come Little Richard, apertamente omosessuale, nero e con brani crudi, duri e travolgenti, aveva abbandonato la musica per diventare un predicatore evangelico.
Chuck Berry, uno dei grandi “inventori” del rock ‘n’ roll con la sua “Johnny B. Good” era finito sotto inchiesta, processato e arrestato per avere avuto rapporti sessuali con una minorenne.
Stessa sorte per un altro grande come Jerry Lee Lewis che aveva sposato una cugina tredicenne. Matrimonio tenuto nascosto ma che una volta scoperto produsse uno scandalo enorme che gli distrusse la carriera.
Ma l’evento più tragico fu quello che venne definito “Il giorno in cui morì la musica.”
Il 3 febbraio Buddy Holly, Ritchie Valens e il dj Big Bopper si schiantarono con un aereo guidato dal giovane e inesperto pilota Roger Peterson che decise di partire nonostante le condizioni meteorologiche fossero decisamente avverse a causa di una forte nevicata.
Gli artisti erano protagonisti di un lungo tour in diverse città americane.
L’organizzazione non tenne conto delle lunghe distanze tra una città e l’altra, soprattutto nel periodo invernale, tra maltempo e forti nevicate.
Buddy Holly e gli altri decisero così quella sera di affittare un aereo invece di affidarsi al solito scomodo bus.
Buddy era all’apice della fama, sia come artista che come compositore mentre Ritchie Valens aveva raggiunto le vette delle classifiche con un brano destinato a diventare un classico come “La Bamba” e salì sull’aereo dopo aver tirato una moneta con un musicista di Buddy Holly.
Vinse e partì.
Big Bopper, apprezzato DJ e cantante, chiese a un altro musicista di Holly di lasciargli il posto, in quanto influenzato.
Quando Buddy lo seppe augurò al suo compagno che aveva concesso il privilegio a Bopper di “congelare sull’autobus”, di rimando gli fu risposto di “schiantarsi con l’aereo.”
Waylon Jennings (poi diventato apprezzato musicista in ambito country) non si perdonò per tutta la vita la battuta scherzosa.
La morte di Buddy Holly fu un gravissimo colpo alla nuova scena musicale rock ‘n’ roll ma anche un enorme dispiacere per tre giovani ragazzini che lo avevano eletto a loro idolo, tali John Lennon, Paul McCartney e George Harrison, che suonavano in una band chiamata Quarrymen e proprio in quell’anno incominciarono a comporre le loro prime canzoni. Tanta era la devozione a Buddy Holly che decisero, il 16 agosto 1960, di chiamare il loro gruppo The Beatles ispirandosi al nome del gruppo che accompagnava lo sfortunato cantante americano, the Crickets, i grilli. Pensarono quindi a un altro insetto, lo scarafaggio, ma scambiando, genialmente, una vocale.
Da una parte la pronuncia del nome richiamava alla mente un animale non proprio gradevole mentre la lettura, oltre a un nome originale, faceva pensare subito al ritmo (beat).
Come possiamo constatare dunque, lo sfortunato e tragico incidente non decretò la morte della musica.
Anzi, al contrario, proprio nel 1959 nacque un nuovo universo sonoro: il soul.
Il primo ambito in cui gli afroamericani poterono gestire le loro canzoni senza dipendere da strutture esterne, pressochè totalmente gestite da bianchi che, nell’America ancora segregazionista dell’epoca, riservavano ai loro artisti, soprattutto se di colore, le briciole e pochissimi diritti sulle loro creazioni.
Nel giugno del 1959 Ray Charles pubblica il 45 giri “What I’d say” reputato il primo brano ascrivibile al concetto di soul music, ovvero l’unione di una serie di influenze “antiche” in qualcosa di completamente nuovo.
Il soul prende abbondanti dosi del blues, “la musica del diavolo” e le mischia con il gospel, “la musica del Signore” (non a caso un giornalista descrisse il brano in questione con una frase diventata famosa: “Ray Charles porta il gospel in camera da letto”), aggiunge una generosa spruzzata di jazz e una serie di spezie a insaporire il tutto: doo wop, ritmi latini e vocalità molto lirica, probabile retaggio della tradizione melodrammatica italiana. Ovvero i suoni che si ascoltavano nei quartieri americani più poveri e periferici, dove neri, ispanici e immigrati in arrivo da varie parti d’Europa, Italia in particolare, si mischiavano e crescevano insieme.
A proposito di soul: il 12 gennaio Berry Gordy Jr fonda l’etichetta Tamla Motown (e poco tempo dopo le Primettes incominciano la loro attività concertistica.
Cambieranno nome in The Supremes e, guidate da Diana Ross, saranno, anni dopo, il gruppo di punta dell’etichetta). La Motown metterà sotto contratto e porterà al successo planetario, oltre alla citata Diana Ross, nomi come Stevie Wonder, Marvin Gaye, Temptations, Smokey Robinson, grazie a una musica sempre allegra, leggera, ballabile, con i testi che affrontano tematiche adolescenziali.
In un’epoca in cui, per motivi socio/politici, la segregazione razziale era presente anche nella musica e nell’arte (ai concerti le platee erano rigidamente separate), inconsapevolmente la Motown fece una rivoluzione nei costumi, arrivando, grazie alla fruibilità e al successo dei suoi brani, nelle case dei giovani bianchi, superando le barriere ideologiche e confermando che lo slogan adottato, “The sound of Young America” (il suono di un’America giovane) era azzeccato: un luogo senza più vecchi e odiosi pregiudizi. Anche in ambito jazz succedono cose straordinarie.
Miles Davis incide quello che è probabilmente il disco più iconico del genere, “Kind of blue”, accompagnato da alcuni dei migliori musicisti di sempre, come John Coltrane, Bill Evans, Cannonball Adderley. Un disco che ha influenzato generazioni di artisti e che non di rado è indicato come il miglior album di sempre, a prescindere dal genere.
Nello stesso anno un altro genio della musica, destinato a collaborare con lo stesso Miles Davis poco più di una decina di anni dopo ma morto purtroppo prematuramente, poco prima di poterlo fare, acquista quello che sarà il suo strumento con cui cambierà la storia della musica rock.
Il giovane Jimi Hendrix dopo un anno passato a suonare blues su una chitarra acustica ne compra una elettrica e a metà dell’anno suona il suo primo concerto in pubblico, in un bar di Seattle.
E in Italia? Intanto alla prima edizione dei Grammy Awards, a Los Angeles, Domenico Modugno con “Nel blu dipinto di blu (volare)” porta a casa ben due premi come Disco dell’anno e Canzone dell’anno.
Invece una ragazzina diciannovenne di Cremona, abbandona il nome d’arte di Baby Gate e torna a quello di battesimo, Mina, debutta in Rai nel seguitissimo “Lascia o raddoppia?”, condotto da Mike Bongiorno, con il brano “Nessuno”, partecipa a “Canzonissima”, lancia uno dei brani che più la caratterizzerà nel primo periodo artistico, “Tintarella di luna” e vince il “Juke Box d’oro” e “Il microfono d’oro”.
Le replica l’amico Adriano Celentano che dopo una serie di 45 giri in inglese trova il primo successo con una canzone destinata diventare un classico, “Il tuo bacio è come un rock”.
La lista di eventi sarebbe ancora lunga ma sono sufficienti quelli sopra elencati per dimostrare l’importanza di un anno tanto lontano, quanto determinante nella storia della musica moderna.
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