venerdì, settembre 20, 2024

Intervista a Marco Balestrino - Klasse Kriminale

Dopo l'uscita dell'eccellente nuovo album "Belin, dei pazzi" un'interevista a Marco Balestrino, voce dei KLASSE KRIMINALE (grazie alla gentile intercessione di Andrea Mazzarello) era sicuramente interessante.

I KK continuano a suonare, registrare, pubblicare dischi. Che ruolo ha ancora una band come la vostra nella società odierna e tra i giovani?

Si la cosa appare un po' strana e fuori tempo massimo.
Se penso che quando è arrivato il Punk il principale messaggio era NO FUTURE e che tutto quello che c’era prima era vecchio, noioso e che band come gli Who, i cui componenti in quei giorni avevano la metà degli anni che io ho oggi, erano considerati dei vecchi matusa.
I protagonisti dell’Oi! erano dei diciottenni, ricordo che sulla cassetta dei Last Resort c’era stampato l’avvertimento: “Cert XXX not to be played to anyone over 30”.
Se ti ricordi la parola Kids era presente ovunque, il movimento era in mano ai ragazzini.
Oggi tutto questo non sembra più attuabile, il Punk è entrato tra i generi e i gusti di normali consumatori di musica.
Oggi non esistono più i kids, esistono gli acquirenti e il mercato ha creato prodotti per ognuno di noi, ci hanno inculcato che è possibile essere ogni cosa, come la Barbie You can be anything…
Il mondo del 1977 e dell’82 non esiste più oggi è tutto totalmente cambiato trasversalmente, in quegli anni rasarsi i capelli, ascoltare Punk, indossare un parka o un chiodo era una scelta ben precisa ed eravamo consapevoli che non era un gioco o una moda, se sbagliavi strada o quartieri potevi tornare a casa non intero o non tornarci proprio.
Credevamo! ed eravamo pronti a difendere il nostro movimento, la nostra tribù, tutto questo era una missione, una fede.
Non eravamo differenti dai nostri fratelli maggiori che nel decennio precedente avevano formato bande di quartiere, piccole associazioni a delinquere o erano finiti in cellule terroristiche.
Solo che noi avevamo caratterizzato la nostra gang di ragazzini con un preciso tipo di suono e stile e le nostre armi erano solo delle chitarre scordate e distorte.
Ma la cosa pazzesca che quello che accadeva a una manciata di ragazzini della provincia italiane in parallelo stava accadendo in tutto il mondo.
Oggi mette male far capire certi atteggiamenti che sembrano esasperati, senza senso o ragione… eravamo solo ragazzini alla ricerca di un’identità in un mondo che stava cambiando.
La storia dei KK è caratterizzata dalle mie scelte che sono andate oltre la semplice passione musicale, forse in certi momenti è stata anche un’ossessione visto che sono ancora qui, dopo più di quarant’anni, a strimpellare canzoni.
Che ruolo hanno i KK oggi? bella domanda!
Come dico in” Vico dei Ragazzi” il viaggio è lungo ma non è ancora finito. Le sorprese che ci riserva questo mondo moderno sembrano non finire mai pensa alla pestilenza mondiale che ha paralizzato le nostre vite qualche anno fa, pensa alla politica senza soluzioni che fa parlare solo la pancia, pensa a una guerra che si può raggiungere in un paio di giorni in macchina, il consumismo, l’economia mondiale, la finanza direi che ci è sfuggito tutto di mano e il futuro per i nostri figli è sempre più incerto.
Sono consapevole che la Musica come la Politica non hanno più la forza e il coinvolgimento che avevano negli anni 60 o 70, ma questo non è un buon motivo per smettere di sognare.

Il Punk e tutto ciò che ne è derivato si avvicina al mezzo secolo di vita.
Secondo te quanto ha influito in Italia tutta quella scena (da cui è poi partita quella Skin, Mod, New Wave, etc)?
Ha in qualche modo scalfito la nostra società?
Molte delle migliaia di persone che ne hanno fatto parte hanno una vita profondamente diversa ma mi sembra che solo in Gran Bretagna quelle realtà siano diventate “cultura” mentre da noi siano rimaste comunque in una nicchia.


Sembrerebbe roba da museo e da nostalgici, onestamente non so quanto in UK sia diventata “cultura” per tutti e da troppo tempo che non vado oltre Manica, ma le ultime volte che ci sono andato ho notato che quel sapore particolare che si respirava negli anni ’80 non c’è più.
London Town mi sembra ormai una città come un'altra, una città globalizzata come Parigi, Berlino o Milano, stesse catene di franchising, stessi colori, stessi toni, stessi prodotti e ahimè ho riscontrato una perdita culturale, di stile e una politica di pancia della serie tutto il mondo è paese.
Sicuramente in Inghilterra il Punk e tutto il resto sono stati un fenomeno spontaneo mentre in Italia puri elementi d’importazione. Qui da noi sono arrivati come mode anche se c’è stato chi gli ha dedicato anima e corpo.
Quello che è restato è quello che la società ha potuto monetizzare: l’estetica e il prodotto da Amazon.
D’altronde quando un fenomeno è stato tanto dirompente l’unico modo per fermarlo è l’eroina o addomesticarlo e renderlo moda (vedi calciatori con la cresta, signore tatuate con capelli colorati).

Ritieni che queste realtà “sottoculturali” finiranno progressivamente con noi che ne fummo/siamo protagonisti? O intravedi un ricambio?

Quello che abbiamo vissuto noi finisce sicuramente con la nostra generazione, ogni generazione ha la sua storia e un disco Punk preferito che sia più distorto o più addomesticato, che magari noi old school non capiamo.
Scegliere il Punk oggi forse non è più un’urgenza, una via d’uscita, un a way of life ma una scelta di estetica, di musica, un vintage relativamente alternativo.
Non c’è dirompenza, nessuno vuol fare Borstal Breakout, ognuno sta nella sua bolla, cura la sua immagine, condivide i self sui social, ma mi dà l’idea che sia tanto fumo e poco arrosto.
Negli anni Ottanta c’era molta violenza legata al giro sottoculturale italiano e non solo. La storia ha dimostrato che non era una prerogativa “nostra”. Ritroviamo le stesse dinamiche nelle attuali giovani generazioni, anche in maniera più efferata.
La storia dell’umanità è una storia di violenza e disagio da sempre.
Abbiamo un Cristo inchiodato al legno e lasciato a crepare sotto il sole esposto in ogni aula scolastica della nazione.
La violenza ce l’abbiamo dentro.

Quello che è brutto e angosciante di questi giorni è la violenza fine a sé stessa ripresa e condivisa come trofeo sui social.

“Belin, Dei Pazzi!” è un’operazione di grande spessore. Ridare vita a brani scomparsi. Come è nata l’idea?

L’idea nasce con l’album “Vico dei Ragazzi”, in “Prole Rock” cito già i local heroes, che per un attimo terrorizzarono la provincia, che sono andato a rintracciare per questo disco. L’idea di fondo era quella di ritrovare quel sound delle nostre generazioni che si sta sempre più annacquando e che io non trovo nei dischi di oggi, neanche di band come Cock Sparrer.
Abbiamo recuperato un pugno di canzoni della scena in cui sono cresciuto, una sorta di archeologia musicale, un vero guitars clash!
Il destino ci ha fatto registrare l’album al “Vecchio Son” di Bologna gestito da Steno.
I Nabat negli anni 80 avevano Tiziano WCK che li aiutava come manager e come sai anche lui era di Savona ed eravamo molto amici. Giulio Farinelli che aveva creato il suono di “Vico dei Ragazzi” non poteva mancare, ci siamo ritrovati tutti al Vecchio Son ed abbiamo alzato il volume al massimo.

Come è stato accolto l’album dai diretti interessati e dal pubblico?

Per il momento c’è un buon riscontro, qualche vecchio kids si è commosso, ma non farò nomi. Franco degli U-Boot continua a suonare con noi alla seconda chitarra.
Abbiamo quasi esaurito i Cd, vediamo come andranno il vinile, che esce il 4 ottobre, e i due singoli in uscita sulle piattaforme digitali.
Non vorrei però che sembrasse un’operazione nostalgica, qui siamo tutti gasati, compresi i diretti interessati pronti a fare ancora casino.

giovedì, settembre 19, 2024

Ronnie Jones - Le 9 vite di Mr. Jones - Il documentario

Il documentario su YouTube:

https://www.youtube.com/watch?v=EqS6jkPGzyY

Appassionante documentario con protagonista RONNIE JONES, cantante, presentatore, DJ, conduttore, mai troppo esaltato ma con una carriera favolosa.
Notato da Sam Cooke già a 12 anni per la sua voce, si trasferisce nel 1960 a Londra dove frequenta la scena mod al "Flamingo Club", incontra e collabora con Alexis Korner a cui presenta Mick Jagger.
Canta in esclusiva a una festa privata per i quattro Beatles, diventa amico di Jimi Hendrix, Eric Burdon, Eric Clapton.

Sbarca in Italia al club Altromondo di Rimini e al Titan di Roma per diventare poi protagonista della versione nostrana del musical "Hair" nel 1970, per quasi un anno in tour nella Penisola.
Il prossimo passo è l'attività da DJ, per approdare poi in radio a Rai Stereo Uno per cinque anni.

"Per caso, come tutta la mia vita, per caso" arriva negli anni Ottanta a Mediaset per presentare il fortunato programma musicale "Popcorn".
Trova anche il successo con la disco music di "Soul Sister" e il rap di "Let's all dance" con i Band Of Jocks.

Negli anni 2000 torna alle radici blues, soul e rhythm and blues.

A 87 anni continua a cantare con totale passione.

Il documentario, minimale ma efficace, è una confessione autobiografica di 40 minuti, piena di serenità e grandissima vitalità, aneddoti e preziose immagini d'epoca.

Jam TV
presenta
"Le 9 vite di Mr. Jones"

Interviste: Ezio Guaitamacchi
In redazione: Jessica Testa

Regia:
Moreno Pirovano
Ezio Guaitamacchi

Editing:
Marco Mussi

Riprese:
Marco Mussi
Marco Dazzi
Moreno Pirovano

Post Produzione:
Carlo Carboni
Giorgia Pace

Producer:
Michela Colombo
Claudio Confalonieri

Una produzione Zampediverse

mercoledì, settembre 18, 2024

George Harrison

Riprendo oggi l'articolo che ho dedicato a GEORGE HARRISON nel numero di sabato di "Alias" de "Il Manifesto".

La figura dei Beatles ha da ormai lungo tempo travalicato e trasceso quella di un semplice gruppo pop rock, assumendo il ruolo di “opera d'arte del Novecento”, per l' importanza che ha rivestito non solo nella musica ma anche nella società.
Proprio come molte opere d'arte, conosciute in tutto il mondo, in relativamente pochi si sono addentrati nei particolari della vicenda, cronologicamente e a livello di contenuti, rimanendo sulla superficie, fatta delle canzoni famose e delle nozioni abituali.

Ad esempio, nella vulgata, la figura di George Harrison è limitata all'immagine del mistico, tranquillo, in costante secondo piano, travolto dalle figure di John e Paul.
Il recente libro “Behind the locked door” di Graeme Thomson (https://tonyface.blogspot.com/2024/07/graeme-thomson-george-harrison-behind.html ), apre, in 500 pagine, una visuale ben più ampia e allo stesso tempo contraddittoria sulla figura del “Beatle quieto”, che tanto tranquillo non lo è mai stato, anzi, e sul cui profilo non mancano zone d'ombra perlomeno sgradevoli, per usare un eufemismo.
George era figlio della cosiddetta working class di Liverpool, apparentemente timido, ma che in realtà non esitava a dispensare battute perfide e cattive.

Il produttore Glyn Johns lo descrisse impietosamente:
"Mi ha sempre destato qualche perplessità il fatto che il suo comportamento non fosse poi così tanto aderente ai valori che professava. Non era sempre una persona amorevole. Aveva un lato parecchio spiacevole.
A volte era difficile capirlo: non era una passeggiata. Se dicevi qualcosa nel modo sbagliato se la prendeva anche se dal tuo punto di vista era un'uscita innocente.
Diciamo che ti rimetteva al tuo posto."


Contrariamente agli altri, pur giovanissimo (nato nel 1943, negli anni dei Beatles aveva da poco superato i vent'anni), era l'unico attento all'aspetto economico che per la band rimaneva in realtà in un costante stato di anarchia, con spese folli e, soprattutto verso la fine della loro storia, tantissimi sfruttatori che attingevano in abbondanza dalle loro finanze.
Incominciò a comporre seriamente per il gruppo dopo qualche anno e in seguito a qualche discreto e riuscito tentativo cercò ma non trovò mai spazio tra il duo magico Lennon/McCartney, che non di rado ascoltavano le sue proposte con distacco e sufficienza, per poi rifiutarne buona parte.

“Non si rendevano conto di chi ero e questo era uno dei principali difetti di John e Paul. Erano così impegnati a interpretare le parti di John e Paul che non prestavano attenzione alle persone intorno a loro".

Da qui un progressivo scontento nel rimanere nella “prigione” dorata dei Beatles a cui ha comunque contribuito con alcuni dei migliori brani nella storia della band, da “While My Guitar Gently Weeps” a “Here Comes The Sun” e soprattutto “Something”.
Addirittura George giunse a ricordare, più volte, gli anni con i Fab Four come "una storia dell'orrore, terribile, folle, un vero incubo, un'esperienza caratterizzata da pazzia, panico, paranoia".

Non a caso fu lui il fautore dell'allontanamento dai concerti della band, nel 1966, una sorta di imposizione, a cui gli altri comunque aderirono con piacere.

Con l'album “Wonderwall” del 1968, colonna sonora dell'omonimo film, fu il primo a cercare una via solista e se ne andò bruscamente dal gruppo durante le registrazioni del film/disco “Let It Be”, per poi tornare, seppure un po' controvoglia.
Riluttante anche a salire sul tetto della Apple, il 30 gennaio 1969, per il breve quanto storico e iconico commiato dei Beatles. Il suo progressivo ritiro dalle scene, la ricerca sempre più ostinata di spazi lontani dalla folla e dalla popolarità lo indusse probabilmente a considerazioni estreme, anche se, effettivamente, l'isteria che si era creata intorno alla band non aiutava certo alla serenità di giudizio.
Paradossalmente, una volta sciolto il gruppo, e con la libertà totale di esprimersi a suo piacimento, la carriera solista ha dimostrato che il suo contributo, di due/tre ottimi brani ad ogni disco, era il massimo che potesse esprimere con i Fab Four.

Se si esclude il capolavoro “All Things Must Pass”, del 1970, ricco di eccellenti canzoni, pur con molti episodi non utilizzati dai Beatles negli ultimi anni, nel resto dei suoi dischi successivi è sempre riuscito a piazzare brani di prima grandezza ma limitati a pochi episodi per ogni lavoro, riempiendo il resto degli album con momenti spesso molto poco ispirati.
Da una parte la sua, ammessa, scarsa e lenta capacità compositiva, a cui si aggiungeva una sorta di ossessivo perfezionismo, dall'altra molta auto indulgenza e mancanza di aderenza alla realtà circostante, in cui la musica cambiava, spesso velocemente, e con essa gusti e tendenze. Ma alla quale era completamente indifferente, continuando per strade artistiche che interessavano sempre meno al pubblico.

La biografia citata non risparmia un'analisi piuttosto dura ma sostanzialmente corretta:
“Se si tracciasse un grafico per rappresentare l'andamento della sua carriera negli anni successivi al Concerto per il Bangladesh (1971), avrebbe l'aspetto di una rapida discesa verso un abisso profondo: cause legali, album sempre meno brillanti, oscurità, malattia, alcol e droghe pesanti, problemi famigliari, conflitti spirituali, isolamento.
Alla fine del decennio Harrison era ininfluente, dal punto di vista culturale e creativo.
Più si allontanava dalla mischia, più la sua carriera, inevitabilmente, veniva sovrapposta al periodo con i Beatles. Una situazione paradossale, che lo avrebbe portato a periodi di profonda amarezza.
Suonare dal vivo non era un'opzione ed era più felice a curare il suo giardino che a incidere dischi”
.

Il suo percorso umano è stato quasi più interessante di quello artistico.
Ritrovatosi nella bolgia Beatles, travolto da un successo ingestibile, seppellito da montagne di soldi, agi e opportunità, scoprì la cura dello spirito attraverso la musica indiana, dapprima come semplice curiosa bizzarria, vedi il sitar di “Norwegian Wood”, usato per la prima volta in un disco pop, pur se suonato in maniera talmente elementare che il suo maestro dello strumento, prima, di vita, poi, il virtuoso Ravi Shankar, gli disse senza peli sulla lingua: “Ma che stai suonando qua? Non ti offendere ma sembra il classico motivetto metallico che si sente su Radio Bombay nelle pubblicità dei detersivi”.

Dalla musica arrivò ad approfondire filosofia, spiritualità, profondità della cultura indiana, diventando, fino alla fine dei suoi giorni un fervente devoto Hare Khrisna.
Aspetto che contrastò sempre con il suo stile di vita che divideva tra ore di meditazione e preghiera, per poi magari sfrecciare su un'auto lussuosissima alla ricerca di droga, alcol, donne, divertimento.

I rapporti con l'altro sesso furono sempre complessi ma il più delle volte all'insegna della totale mancanza di misura e controllo.
Sposato da giovanissimo con la modella Pattie Boyd la tradì ripetutamente e sfrontatamente, addirittura anche con la moglie di Ringo, Maureen.
Il batterista commentò laconicamente: “meglio con te che con uno sconosciuto”.

Iniziò poi l'assurda vicenda con l'intimo amico Eric Clapton, innamorato di sua moglie (a cui dedicò il brano “Layla”), la quale, alla fine, stanca dei tradimenti di George, decise di accettare il suo ossessivo e disperato corteggiamento e lo sposò (divorziando anni dopo per i maltrattamenti a cui fu sottoposta dal chitarrista).
Come perfetta chiosa, George ebbe poi una relazione con l'ex compagna dello stesso Clapton, Lory Del Santo.

Harrison fu il primo ad organizzare un evento benefico di grandi proporzioni, il famoso concerto per il Bangladesh a New York nell'agosto del 1971, con ospiti come Bob Dylan, Eric Clapton, Ringo Starr.
Pietra miliare che influenzò tantissime altre ricorrenze simili, Live Aid in primis.Tanto fu l'impeto di generosità, quanto venne invece malamente ripagato da anni di cause e controversie in relazione alla destinazione del denaro raccolto, parte del quale, fu assorbito da case discografiche, intermediari, manager.

Come sottolineò il “Village Voice”: “E' sorprendente notare che sia stato il Beatles più introspettivo, nel lungo periodo a compiere i gesti più efficaci”.
Fu pervaso (come probabilmente, in altre forme, dagli ex compagni) da un continuo, involontario, senso di onnipotenza, derivatogli da una popolarità universale che ne impedì spesso una visione lucida di quanto stava facendo.

Valga per tutto l'attività con la sua casa di produzione cinematografica Handmade Films, nata per produrre pellicole degli amici Monthy Python, finita con perdite economiche spaventose e film di scarsissima qualità e senza alcun successo e riscontro economico (incluso il mediocre “Shangai Surprise” del 1986 con Madonna e Sean Penn).
Anche in questo le cause seguite al fallimento lo trascinarono in tribunale (mentre proseguivano quelle sui diritti dei Beatles, risolte solo dopo lunghi contrasti).
Pare che fu questo, la “contingenza” economico, uno dei motivi per cui alla fine accettò di partecipare al progetto “Anthology” insieme a Paul, Ringo e Yoko, tra il 1995 e 2000 con tanto di “inediti” rifatti dai tre con la voce di John.

I 4 milioni di copie vendute del solo primo volume, più i diritti per video e per i brani inclusi, risollevarono per bene le sue casse, un po' provate dagli ultimi disastri (per quanto suonasse molto ironico il titolo “allarmistico” di un quotidiano inglese: “Ad oggi a George Harrison rimangono solo 10 milioni di sterline”).
Un aspetto comune ai quattro Fab Four, è il continuamente decantato e ostentato “odio” e livore nei confronti dell'esperienza Beatles, in realtà continuamente evocata in canzoni, video, citazioni, interviste.
Nessun ex membro della band si è mai liberato dalla dipendenza dai Beatles, “come un alcolizzato con la bottiglia”.
Lo stesso George nel 1974 intraprese un lungo tour americano (purtroppo guastato dalla mancanza di voce, anche a causa dell'abuso di cocaina e altre sostanze) in cui evitò quasi con disprezzo i brani dei Beatles, con l'eccezione di tre/quattro su oltre venti proposti, ricevendo pesanti critiche. Quando nel 1991 tornò sui palchi, questa volta giapponesi, si convinse a inserirne quasi una decina, raccogliendo plausi e approvazione.

Volente o nolente rimaneva sempre e per sempre il “Beatle George”. Ironicamente e, per certi versi, malinconicamente uno dei brani che gli ridiedero la notorietà, in tempi oscuri, fu il singolo “When We Was Fab” nel 1987 , dall'album “Cloud Nine”, con Ringo Starr alla batteria e voluto omaggio all'epoca Beatles. Lo stesso lavoro in cui è inserita la cover di un vecchio brano “Got My Mind Set On you” che lo portò al primo posto negli States.
Ovvero, in mezzo a tante sue composizioni, fu necessaria una cover per tornare ai vertici.

Trovò nuova linfa vitale con l'estemporanea esperienza dei Traveling Wilburys, supergruppo con Bob Dylan, Tomn Petty, Roy Orbison, Tom Petty e Jeff Lynne con cui incise due energici e freschi album tra il 1988 e il 1990 ma il progetto non andò oltre lo studio di registrazione, anche se le prospettive di un tour erano particolarmente allettanti. Molto divertente l'aneddoto riguardante l'adorato figlio Dhani (che ne ha raccolto l'eredità artistica ma senza mai esporsi più di tanto, conservandone la memoria ma in maniera sempre discreta e dietro le quinte, con rare e dignitose uscite discografiche a proprio nome).
E' lo stesso Dhani a raccontarlo:
“Un giorno tornai a casa da scuola scosso perché un mio compagno mi aveva rincorso cantando “Yellow Submarine”. Non capivo perché. Mi sembrava surreale. Perché mi cantavano quella canzone? Arrivato a casa mi arrabbiai con mio padre. Perché non mi hai mai detto che eri uno dei Beatles? E mi rispose: “Oh mi dispiace, forse avrei dovuto dirtelo”.

Gli ultimi anni furono cupi e drammatici.
Nel 1998 una difficile operazione, inizialmente riuscita, per un cancro alla gola, poi la devastante aggressione subita a casa da uno squilibrato che lo accoltellò più volte.
Già da tempo George si era allontanato, quasi al limite del romitaggio, dal mondo “reale” (gli amici lo ricordano incapace di usare un telefono a gettoni, impermeabile a qualsiasi nuova tecnologia, computer in particolare), ritirandosi sempre più nella sua villa di Friar Park, affascinato dal giardinaggio, di cui era diventato un provetto lavoratore ma anche in luoghi remoti alle Hawaii e in Oceania, dove riceveva sempre meno amici.
In particolare l'assassinio di John, vent'anni prima, lo aveva provato moltissimo e reso meno disponibile con il prossimo. Ora l'incubo che aveva temuto per anni compariva all'interno di casa, nel suo regno personale.
Fu probabilmente il definitivo colpo psicologico che contribuì ad abbattere le ulteriori difese contro un nuovo cancro, questa volta al cervello che lo portò via il 29 novembre del 2001.

Se ne andò serenamente, come confermò la moglie Olivia Arìas: “Ha lasciato questo mondo come aveva vissuto: consapevole di Dio, senza paura della morte e in pace, circondato dalla famiglia e dagli amici”.
Fece in tempo a ristampare e rimixare il suo capolavoro “All Things Must Pass” ma non a concludere il previsto nuovo lavoro a quasi quindici anni dal precedente “Cloud Nine” del 1987. Ma diede istruzioni al figlio Dhani e all'amico e produttore Jeff Lynne su come finirlo.

“Brainwashed” (iniziato nel 1988) uscì l'anno successivo e ne confermò la buona qualità compositiva e lo spirito rimasto intatto.

George Harrison ha lasciato un'impronta incredibilmente profonda nella storia del rock, creando uno stile compositivo e chitarristico immediatamente riconoscibile, dall'uso di malinconiche linee di slide, a successioni armoniche inconsuete, spesso mutuate dalle scale melodiche indiane.
Ha introdotto nel pop la strumentazione e la musica indiana in modo sempre più raffinato e creativo, dando spesso spazio agli strumentisti autoctoni (Ravi Shankar su tutti), diventando un precursore del concetto di world music, grazie alla produzione di dischi a loro dedicati.
Brani come “Something”, “Here Comes The Sun” e “While My Guitar Gently Weeps” sono entrati nella storia della musica pop/rock, l'infortunio di “My Sweet Lord” (con l'accusa di plagio e una lunghissima causa protrattasi per anni) ha contribuito a cambiare le regole sul diritto d'autore, il mix di psichedelia, rock, musica orientale utilizzato alla fine degli anni Sessanta con i Beatles ha influenzato tantissime band (soprattutto nel periodo del Britpop, Kula Shaker in primis).

Ma quello che ha probabilmente attratto di più nel suo personaggio è l'immaginario che ha saputo creare: fascinoso, misterioso, autorevole, distaccato, originale, personale, inimitabile.
Pur se in fondo è sempre stato un ragazzo che voleva solo suonare la chitarra in un gruppo rock 'n' roll e che, nel 1963, ai primi segni dell'arrivo della Beatlemania, candidamente dichiarava: “Immagino che andremo avanti così per un paio di anni. Voglio, dire, è ovvio che non riusciremo a mantenere questi livelli”.

E non più di un anno dopo auspicava di ritirarsi dalle scene “con una mostruosa montagna di soldi. Se posso prendere la mia giusta parte, sono ben felice di restare nell'anonimato”. Non fu esattamente così e trascorse il resto della vita a cercare un modo per riacquistare quella normalità perduta.

"Non riusciva proprio a capire perché fosse diventato un musicista famoso in tutto il mondo.
La cosa lo ha sempre un po' confuso.
Si chiedeva perché lui, un ragazzo qualsiasi di Liverpool, destinato a svolgere un lavoro semplice e umile fosse diventato all'improvviso così conosciuto"

(Pattie Boyd)

lunedì, settembre 16, 2024

Daniel Rachel - Too Much Too Young

La splendida avventura della 2TONE RECORDS, fulminante, breve, accesasi come una stella sfavillante ed esplosa come una (champagne) supernova, lasciando luminosi detriti vaganti fino ai giorni nostri, raccontata attraverso minuziosi particolari in questo eccellente libro (tradotto in italiano da Flavio Frezza per Hellnation Libri).

Un'etichetta che nasce e vive come un collettivo anarco/marxista sotto la ferrea guida di Jerry Dammers, tastierista e mente pensante degli Specials.

Non c’erano contratti formalizzati. Gli accordi venivano siglati da una stretta di mano. Senza costituzione formale né iscrizione ai registri, l’etichetta esisteva soltanto di nome. Come piaceva dire a Jerry, «più che una casa discografica, era una presa per il culo delle stesse».

Vendettero milioni di copie dal 1979 al 1986 con i dischi di Specials, Selecter, Bodysnatchers, il primo singolo dei Madness, The Beat per implodere poi tra mille divisioni, litigi, cause legali, debiti, dischi e gruppi ignorati, passando in mezzo alla violenza ai concerti, agli scioglimenti dei gruppi, alla (mala) gestione dell'etichetta, inadatta al volume di soldi incassati e alla complessità di unire realizzazioni di dischi, organizzazione di lunghi tour, economia "aziendale".

Le canzoni affrontavano argomenti che, per i giovani, rappresentavano la vita quotidiana: violenza di strada, abusi sessuali, gravidanze adolescenziali, disoccupazione, rischio di una guerra nucleare.
La 2 Tone era una nuova forma di musica di protesta, attraverso la quale riecheggiava l’eredità dei pionieri degli anni sessanta come Bob Dylan e Joan Baez, e cercava di trasmettere al pubblico l’idea di un’unità politica e sociale.


Uno degli scopi della 2 Tone era educare il pubblico e fargli capire che si trattava di musica inventata dai neri: dovete accettare il fatto che il mondo non è bianco, ma a due colori”.
La 2 Tone tentava di infondere nella testa della gente l’idea di uguaglianza e di dare un freno al razzismo.


Venivano tutti dal nulla: lavori di merda, monolocali di merda, senza un soldo in tasca. Cercavano di farcela partendo da zero. C’era un’atmosfera di avventura. L’ideale alla base della 2 Tone avrebbe preso vita sulle piste da ballo dell’intero paese.

Finì malamente.
Il libro è impietoso nel raccontare anche il lato oscuro della vicenda ma è sempre equilibrato e il più possibile fedele alla realtà.
Indispensabile per i cultori di un certo ambito.

"La 2Tone ispirò uno stile che travolse il paese. Sostenne l'antirazzismo, mise in discussione il sessismo e incoraggiò persone di idee differenti a sposare il multiculturalismo. Il suo impatto continuerà a dar vita a dibattiti sociologici e politici, sia sulla carta stampata che nei pub. Tali discussioni sono importantissime e aiutano a interpretare uno dei più grandi culti giovanili della storia britannica."

Daniel Rachel
Too Much Too Young
Pagine 480
Hellnation Libri
34 euro

sabato, settembre 14, 2024

Classic Rock e Il Manifesto

Nel nuovo numero di Classic Rock Italia intervisto Mauro Ermanno Giovanardi a proposito dei Carnival Of Fools (di cui esce a breve un box con la discografia completa per Area Pirata) e della Milano underground degli anni Ottanta.

Poi un mio intervento nella rubrica "Opinioni" sul caro concerti (ovvero: costano tanto perché sono diventati uno spettacolo magniloquente che comporta spese sempre maggiori. E' sufficiente evitare i mega raduni con concerto che si vede su maxischermo e rivolgersi a quell'universo di eccellenti "piccole" band che fanno spendere pochi soldi e restituiscono tanta resa). Inoltre recensisco Soft Play, Linda Collins, Thurston Moore, The Wreckery, Dear Bongo e la compilation "Roots Rock Rebels - When Punk met Reggae 1975-1982".

Nelle pagine de Il Manifesto dedico due pagine a GEORGE HARRISON e alla sua carriera, da quella band là a quella solista.
E recensisco The Peawees e il nuovo Hugo Race con Michelangelo Russo.

venerdì, settembre 13, 2024

Respond Records



Ricco e famoso, il Paul Weller dei primi anni 80, non si rilassa negli agi e nel lusso ma prosegue a creare, a dare opportunità a chi ha avuto meno fortuna di lui.
Oltre alla sfortunata casa editrice Riot Stories (che riuscì però a pubblicare uno stupendo libro sulla storia degli Small Faces “All our yesterdays” di Terry Rawlings e alcune altre cose interessanti) fonda nel 1981 la RESPOND RECORDS, etichetta discografica nata con l’intento di essere una “nuova Tamla Motown” con giovani artisti vicini ad una soul music moderna e attuale.

Purtroppo l’attualità sonora dei primi anni Ottanta era spesso caratterizzata da suoni sintetici, batterie elettroniche e plastic pop di varia natura.
E la Respond si indirizzò spesso verso queste sonorità nel tentativo di proporre un “nuovo soul”.
Deludendo non poco lo stuolo di mod adoranti che dalla label di Weller si aspettava dei cloni dei Jam o degli Small Faces o epigoni del classico suono soul/rhythm and blues.

L’esordio fu incoraggiante e sorprendente con lo strano beat/new wave di sapore 60’s del singolo “Been teen” delle DOLLY MIXTURE ma ben presto si perse nei meandri sonori di cui sopra, nonostante nomi come QUESTIONS, TRACIE (che collaborò spesso con gli Style Council, cantò nel loro singolo d’esordio “Speak like a child” e che fu il nome principale dell’etichetta) e A CRAZE abbiano avuto momenti interessanti.

Weller (e gli Style Council Mick Talbot e Steve White) sono spesso presenti sia come strumentisti che compositori nei vari dischi (oltre a Elvis Costello che scrive per Tracie “I love you when you sleep") ma lo spessore generale delle proposte rimase comunque modesto (nonostante qualche buon risultato di vendita).
La Respond cessa le pubblicazioni nel 1985, alla fine degli anni Novanta la giapponese Trattoria Records ha ristampato quasi tutto (con aggiunta di bonus) in CD.

Thanx Cpt Stax

Discografia completa

1981 Dolly Mixture Been Teen / Honky Honda / Ernie Ball RESP 1
1981 The Questions Work 'n' Play / Work 'n' Play (Pt. 2) RESP 2
1982 The Rimshots (80's) Sweet Talk / What's the Matter Baby? RESP 3
1982 Urban Shakedown (uk 80's) The Big Bad Wolf / Rap the Wolf RESP 5
1982 The Questions Work and Play / Saved by the Bell RESP 7
1982 The Questions Someone's Got to Lose / The Groove Line RESP 8
1982 The Questions Work and Play (Extended) / Saved by the Bell (Extended) RESPX 7
1982 The Questions Someone's Got to Lose (Extended) / The Groove Line / Someone's Got to Lose RESPX 8
1982 Dolly Mixture Everything and More / You and Me on the Sea Shore RESP 4
1983 Tracie The House That Jack Built / Dr. Love AMS 9265
1983 The Questions Price You Pay / Groove Line KOB 702
1983 The Main T Possee Fickle Public Speakin / Fickle Public Speakin (Version) KOB 703
1983 The Questions Tear Soup / The Vital Spark KOB 705
1983 A Craze Wearing Your Jumper / She Is So KOB 706
1983 Tracie The House That Jack Built / Tracie Talks / The House That Jack Built (Instrumental) KOBX 701
1983 The Questions Price You Pay / Price You Pay (instrumental) / Groove Line KOBX 702
1983 The Main T Possee Fickle Public Speakin / Fickle Public Speakin (Extended Version) KOBX 703
1983 The Questions Tear Soup (Extended Version) / The Vital spark (Extended Version) KOBX 705
1983 A Craze Wearing Your Jumper / She Is So / Dub, but Not Mute KOBX 706
1983 Various Artists Love the Reason RRL 501 (con Tracie, Questions, Big Sound Authority, A Craze)
1983 Tracie The House That Jack Built / Dr Love KOB 701
1983 Tracie Give It Some Emotion / The Boy Hairdresser KOB 704
1983 Tracie Give It Some Emotion / Tracie Raps / Give It Some Version KOBX 704
1984 The Questions Building on a Strong Foundation / Dreams Come True KOB 709
1984 The Questions A Month of Sundays / Belief (Don't Give It Up) KOB 712
1984 The Questions Tuesday Sunshine (Jock Mix) / Tuesday Sunshine (Sass Mix) / The House That Jack Built / No One (Long Version) KOBX
    1984 Tracie Soul's on Fire (Long Version) / Soul's on Fire / You Must Be Kidding KOBX 708
1984 The Questions Building on a Strong Foundation (Long Version) / Dreams Come True / Acapella Foundation KOBX
1984 M.E.F.F. Never Stop (a Message) (Full Length Version) / Nzuri Beat / Non-Stop Electro (Version) KOBX
1984 The Questions Belief (Don't Give It Up) (Extended) / A Month of Sundays KOBX 712
1984 Tracie Far From the Hurting Kind RRL 502
  1984 The Questions Belief RRL 503
    1984 The Questions Tuesday Sunshine / No One KOB 707
1984 Tracie Souls on Fire / You Must Be Kidding KOB 708
1984 Tracie (I Love You) When You Sleep / Same Feelings Without the Emotion K0B 710
1985 Tracie Thank You / Spring, Summer, Autumn
1985 Vaughn Toulouse Cruisin' the Serpentine / You See the Trouble With Me SBS 2
1985 Tracie I Can't Leave You Alone (Pick 'n' Mix) / 19 (The Wickham Mix) / I Can't Leave You Alone SBSX 1
1985 Vaughn Toulouse Cruisin' the Serpentine (Version Excursion) / You See the Trouble With Me (Extended) / Cruisin' the Serpentine (Club Mix) SBSX 2
1985 Tracie Invitation (RSVP Mix) / The Country Code / Invitation SBSX 3
1985 Tracie I Can't Leave You Alone / 19 (The Wickham Mix) SBS 1
1985 Tracie Invitation / The Country Code

giovedì, settembre 12, 2024

Lievi Favole, le canzoni di e per Gavinuccio Canu

Credo sia importante, in un' ottica underground/DIY/indie o quello che è, sostenere iniziative che appartengono a quell'area.

L' Associazione Culturale “Gavinuccio Canu” ha prodotto il doppio LP dal titolo “Lievi Favole” che comprende le ultime canzoni originali inedite del cantautore sassarese Gavinuccio Canu, scomparso il 14 febbraio del 2022.
Il disco, in 300 copie, sarà pubblicato e acquistabile dal sito www.gavinucciocanu.org, da settembre 2024.

Il primo LP è composto dalle canzoni in versione originale cantate e suonate dallo stesso Gavinuccio; nel secondo, le stesse sono interpretate da diverse voci della new wave italiana, come Andrea Chimenti, Lilith-rita Oberti con Cesare Basile e Francesca Pizzo Scuto Miro Sassolini, ex voce storica dei Diaframma con Gianni Maroccolo, Mauro Ermanno Giovanardi, Stefano Giaccone e e Lalli dei Franti, Paolo Messere ex chitarrista e produttore dei Blessed Child Opera, e altre voci del panorama wave sardo, come Davide Catinari dei Dorian Gray, Vanvera, Domenico Canu dei La Plonge, Marco Noce (ex leader dei Maniumane) e Romina Pala (A58, Sineddoche), i Magnificat di Alessandro e Ludovico Muroni (Charme de Caroline) con l' arpista Raoul Moretti e i Brigata Stirner di Arnaldo Pontis e Roberto Belli.

L‟idea nasce dalla volontà di incidere il ricordo di Gavinuccio in modo indelebile e, contestualmente, rendergli omaggio grazie alla partecipazione sentita di chi come lui ha vissuto e vive la musica in modo viscerale.
Un lavoro collettivo “nazionale” che possa farne conoscere e apprezzare la figura artistica anche fuori dalla sua Sassari e dalla Sardegna.
Gli artisti hanno aderito gratuitamente e in maniera sentita al progetto, scegliendo il brano che preferivano, liberi di viverlo come fosse meglio per loro.

mercoledì, settembre 11, 2024

Stone Roses - Second Coming

Il secondo e ultimo album degli STONE ROSES, "Second Coming" del 1994 è stato spesso quasi unanimemente stroncato, inserito in articoli sui "100 dischi da evitare" etc.

A favore dei severi giudizi va annoverata sicuramente un'eccessiva autoindulgenza della band che si lascia andare ad infinite jam sessions che allungano i brani a dismisura e una certa approssimazione nella stesura che si affida sovente a lunghe parti strumentali, con gli assoli di chitarra di John Squire, novello emulo di Jimmy Page e la voce di Ian Brown spesso in secondo piano.

La band vira verso sonorità hard rock ("Driving south" o "Love spreads") ma concedendosi stupendi intermezzi funk soul jazz come in "Daybreak" o a ballate psichedeliche tardo 60's come in "Your star will shine" o ad acidissimi brani come la potentissima "Begging you".
C'è anche il raga rock tossico di "Tightrope", psichedelie varie, un po' di Velvet Underground, acido ovunque ma soprattutto una grande tecnica esecutiva sparsa a piene mani in ogni brano.

Una maggiore capacità di sintesi avrebbe potuto portare a risultati migliori, ma "Second coming" si fa apprezzare proprio per la libertà espressiva su cui si adagia, senza calcoli commerciali o di convenienza.
Immersi nelle nebbie dei loro quotidiani abusi gli Stone Roses confezionano una testimonianza del brit rock dell'epoca, da rivalutare e riconsiderare.

martedì, settembre 10, 2024

Mickey Tenner

Mickey Tenner è stato uno dei protagonisti della prima scena mod londinese, spesso ritratto nelle foto d'epoca, dalla fisionomia inconfondibile.

I Was An East End Boy

Traduzione da : https://buymeacoffee.com/mickyte/i-was-an-east-end-boy

Grazie a Paul Musu.

Quando avevo 12 o 13 anni vivevamo a Stepney, mia madre mi portava dal sarto locale, perché le piaceva vestirmi.
Anche mio padre era un sarto.
Andavo in giro per circoli giovanili come il Brady Street Club e lo Stepney Green Club.
Il Mod non c'era ancora a quel tempo, era tutta roba tipo Shadows.
Da bambino, quando c'era tutto il Rock & Roll, mi piaceva molto Little Richard e Fats Domino, era sempre la musica nera ad attrarmi.
Il buon Rock and Roll era fenomenale.
A 15 anni mia madre mi trovò un lavoro al The Mayfair Hotel ed è stato allora che ho iniziato a esplorare il West End dopo il lavoro, è stato allora che ho scoperto due club, La Discotheque e The Flamingo.
Credo siano stati i primi due club in cui sono andato, poi ho iniziato a frequentare il Marquee.
È stato in questi posti che ho visto per la prima volta i soldati americani che si presentavano davvero bene con quel look Ivy League, camicie abbottonate e cappelli Blue Beat. Hanno portato anche la musica con loro, e ho iniziato ad appassionarmi al R&B e al Jazz che sentivo al Flamingo.
Questi posti erano pieni di ragazzi neri, afroamericani e ragazzi delle West Indies, giamaicani come Eddie Tan Tan.

Il mio primo lavoro è stato al Mayfair Hotel nel West End di Londra.
Dopo il lavoro andavo a piedi a Piccadilly e poi a Soho.
È stato lì che mi sono imbattuto in La Discotheque e nel club Flamingo su Wardour St, anche il Marquee era lì in quel periodo. Avevo circa 15/16 anni quando ho iniziato ad andare regolarmente nei club.
La mia settimana tipo era quella in cui uscivo tutte le sere, era noioso stare a casa. Finivo di lavorare e andavo direttamente al West End.
Poi ho preso un mio posto vicino a Baker St e l'ho condiviso con i miei amici.

Ho incontrato Ronan O'Rahilly al La Disc o al Flamingo e siamo diventati buoni amici, andavamo molto d'accordo.
Giorgio Gomelsky aveva affittato il Cy Laurie Piccadilly Club in Ham Yard. Riuscì ad assicurarsi un sabato sera per una quota di £5 e procedette a organizzare il primo festival di British Blues
Tra le band che si esibirono c'erano Alexis Korner's Blues Incorporated, Blues By Six (che includeva Nicky Hopkins) e i Rolling Stones.
Ronan voleva aprire un suo club, rilevò il locale nel 62ish e lo ribattezzò The Scene club. Il club apriva tutte le sere della settimana e poi ho iniziato a lavorare con Ronan allo Scene club, trovando band ecc.
Ronan mi ha dato un posto a Radio Caroline nella pianificazione dei programmi. Organizzavo le playlist per gli spettacoli. Le mie influenze musicali erano Radio Luxembourg e America Today.
America Today era un grande spettacolo perché trasmetteva tutta musica nera.
Sandra Blackstone (per un approfondimento: https://tonyface.blogspot.com/2024/07/sandra-blackstone.html) era la DJ allo Scene e le piaceva il dating spades (slang per: andare con gli uomini di colore), quindi era influenzata dalla musica che portavano con sé.
La musica che veniva suonata allo Scene Club era completamente diversa da qualsiasi altro club, era influenzata dai neri e ai ragazzi piaceva.

Guy Stevens veniva il lunedì e lo abbiamo reclutato per organizzare una "serata disco R&B" settimanale allo Scene Club.
C'era un altro club in cui andavamo dopo la chiusura dello Scene ed era il Roaring Twenties.
Il club era popolare tra i neri e suonava musica ska.

C'erano sempre droghe nella scena mod, tutti erano fatti (blocked) tutto il tempo e avevano il loro spacciatore preferito, "Phil the Greek".
La polizia ha fatto irruzione nel club due o tre volte. Sapevamo sempre quando ci sarebbe stata un'irruzione, quindi ce l'aspettavamo.
Era più un'opportunità fotografica per il governo per potere dire ai ragazzi di comportarsi bene. Quando la polizia faceva irruzione nel club, entravano e accendevano le torce.
Mettevano tutti in fila contro il muro, poi quando tutti tornavano al centro, era esilarante, dato che c'erano pile di pacchetti di pillole dappertutto sul pavimento, la polizia diceva "di chi è questo!", "chi ha lasciato questo!" era così divertente.
Sapevamo che sarebbero arrivati perché ci avvisavano. Alla fine hanno chiuso il club. Erano bei tempi, eravamo giovani con bei soldi e un buon lavoro.

Non abbiamo mai guidato scooter, quella foto di me su uno scooter fuori dal club Scene non era il mio scooter, avevo una Mini Cooper.
Solo i tickets (i più bassi nella gerarchia mod) li avevano e fu più tardi, intorno al 1964, che iniziarono gli scooter.
Nel 1960-63 non erano una cosa importante.
Il termine "Face" è nato dal fatto che dicevamo "who? whatisface?".
Peter Meaden ha poi inventato l'espressione "Face" per i giornali.
Peter si ubriacava di sidro e pillole, fu un vero peccato come andarono a finire le cose per lui.

I miei gruppi preferiti e i migliori erano gli Animals e gli Who. La voce di Eric era incredibile, c'è una mia foto allo Scene di fronte a Eric, sono semplicemente ipnotizzato dalla sua voce.

Sono ancora amico di Pete Townshend e ci scriviamo via un'e-mail.
Gli Who non erano una band mod.
Gli anni mod furono dal 1961 al 65.
Non abbiamo mai pensato a una band come "mod", le band erano solo delle buone band che suonavano della buona musica.
Il termine "modernista" fu creato dai giornali quando le cose avevano iniziato a diventare commerciali.

lunedì, settembre 09, 2024

Penny Rimbaud - Shibboleth: My Revolting Life

Thanx Paul Musu per il libro.

E' un racconto (solo in inglese) acre, pieno di dubbi, di rimpianti (non per quello che è stato fatto ma per ciò che non è accaduto) quello di Penny Rimbaud, membro dei CRASS, paladini dell'"anarco punk", fautori di una delle più interessanti forme di autoproduzione, agitatori sociali, band influente per centinaia di gruppi ed esperienze simili e tanto altro.
Nati nel 1977, scioltisi nel 1984, sono stati protagonisti di clamorose iniziative contro lo stato, il governo Tatcher oltre che di sei album, due live e vari 45 giri (la band ha venduto circa DUE MILIONI di DISCHI).

Il libro (pubblicato nel 1998) ne racconta le gesta, intorno a una vicenda che toccò profondamente l'autore, la morte dell'amico Phil Russell/Wally Hope, probabilmente ucciso dalle autorità, lasciando però il caso insoluto.

Ci sono puntualizzazioni profonde e talvolta amare sul ruolo dei Crass.
"Poco dopo avere pubblicato il nostro primo album abbiamo realizzato di essere in pericolo di diventare i "leader" di un nuovo movimento di cambiamento sociale. Un ruolo che rifiutavamo di avere. La rivoluzione che cercavamo non doveva avere leader."

Molto interessante e facilmente trasferibile ai giorni nostri e a quanto accaduto in tutti questi anni, la riflessione sullo scoppio della guerra delle Falklands, voluta dal governo inglese e sui movimenti pacifisti:
"Quando i problemi sono astratti il movimento pacifista è sempre stato felice e pronto a cantare "no war".
Ora che una guerra contro cui urlare c'era davvero, il silenzio era davvero doloroso".


Alla fine la band, la Comune in cui vivevano, lavoravano, accoglievano ospiti da tutto il mondo (inclusi 12 punk italiani che restarono lì a sbafo per dieci giorni senza sapere una parola di inglese, a parte "Crass"), componevano, progettavano azioni, esplosero.
Ognuno alla ricerca di sé stesso/a e di una vita personale e non più comunitaria.

"Per cinque anni le nostre vite sono state dominate dal vorace appetito dell' "Organizzazione Crass".
A parte la routine dei tour e dei dischi, la vita nella casa chiedeva sempre di più. Il telefono non smetteva mai di squillare, quando un gruppo di ospiti se ne andava, ne arrivava subito un altro.
Come qualcosa che sembrava di una facilità spaventosa, ognuno della band svolgeva il ruolo assegnato.
Ma a quale costo? Ai tempi nessuno lo sapeva.
Dei problemi personali e dei dubbi non si parlava mai, non c'era semplicemente tempo per quello e in ogni caso, c'era una rivoluzione da combattere".


Uno scritto molto interessante per i cultori della band ma che ripercorre il cammino di tanti "rivoluzionari" e le loro (nostre) sconfitte.

Nel giro di sei mesi il movimento punk fu venduto e acquistato.
I controrivoluzionari capitalisti lo uccisero con il denaro.
Il punk degenerò dall'essere una forza di cambiamento per diventare un altro elemento del grande circo mediatico.
Venduto, igienizzato e strangolato il punk diventò un'altra merce sociale, la memoria bruciata di ciò che poteva essere. Non volevamo diventare un' altra serie di vittime del mercato.
Questa volta volevamo che funzionasse".


Penny Rimbaud
Shibboleth: My Revolting Life AK Press
344 pagine
6.95 pounds

sabato, settembre 07, 2024

Appuntamenti

Mercoledì 11 settembre: ore 17 Marina di Cecina Livorno)
"Meeting Internazionale Antirazzista"
.
Con Fabio Fantazzini si parla di contaminazioni sonore.
Il programma: https://www.mia-arci.it/

*17:00-18:30
TALK: CONTAMINAZIONI SONORE
Controculture suoni linguaggi, un parallelo tra sonorità e generazioni afrodiscendenti che hanno segnato e segnano cambiamenti culturali.
Intervengono:
Antonio Bacciocchi, Scrittore, Musicista, Blogger
Fabio Fantazzini, si occupa di storia della musica, autore del libro Dread Inna Inglan
Serge Itela, direttore del Neema Fest, festival italiano dedicato interamente alle sonorità afro contemporanee
Anna Maria Gehnyei (AKA) Karima2G, scrittrice e cantante
Modera:
Lorenzo Rossi, Arci Grosseto

Sabato 14 settembre: Smart Soul Connection a Viareggio, Bagno Paradiso.
Mod e Sottoculture, ore 18.
https://www.facebook.com/events/353556890800208

Martedì 17 settembre: Bologna, Bar Maurizio Jazz Bar, ore 18.30. Incontro con Eddie Piller.
https://www.facebook.com/events/431718893214975

venerdì, settembre 06, 2024

Ray King Soul Band

In pochi conosceranno la storia di Ray King e della sua Soul Band che a metà degli anni Sessanta iniziò a esibirsi nei club di Coventry, dopo che il loro leader Vibert Cornwall decise di scegliere un nome più accattivante.

Partiti come King Size Kings cambiarono il loro nome in Ray King Soul Band (o Soul Pact come talvolta pubblicizzato), aumentando progressivamente la loro fama fino ad arrivare al Playboy Club di Londra che li scritturò come resident band, suonando spesso per varie celebrità che affollavano il locale, come Frank Sinatra, Sammy Davies Jnr, Lulu, Ringo Starr, Maurice Gibb.
Suonarono anche al "Revolution", aprendo per Billy Haley and the Comets e, pare, ospitarono in una jam session il giovane Jimi Hendrix al basso.

E' del 1968 il loro unico album "Live At The Playboy Club" (a lungo introvabile, ristampato alcuni anni fa), un travolgente mix di soul e rhythm and blues con selvagge cover di "Knock On Wood", "Respect", "Gimme A Little Sign" di Brenton Wood e "I'm A Man" dello Spencer Davis Group oltre ad ottimi brani autografi come "Malita" e "Dupy".

Sciolta la band negli anni Settanta Ray King fondò i Pharaohs Kingdom in cui passarono giovani musicisti di Coventry come Lynval Golding, Silverton Hutchinson e Jerry Dammers, futuri Specials e Neol Davis poi nei Selecter.

Vibert Cornwall ha successivamente lavorato come manager ed è stato sempre in prima fila per il supporto alla comunità delle West Indies di Coventry.
Nel 2010 gli è stata conferita una laurea honoris causa in lettere dalla Coventry University, in riconoscimento del suo importante contributo alla musica e del suo lavoro nella comunità.

La line up comprendeva Ray King (vocw), Jim Lang (sax tenore), Ken Horton (sax baritono), Terry Leeman (organo), Paul Williams (chitarra), Paul Slade (basso) che poi proseguì una carriera solista cantautorale, Malcolm Jenkins (batteria).

mercoledì, settembre 04, 2024

I Beatles e la “Famine”

(George Harrison e John Lennon in vacanza in Irlanda al Dromoland Castle durante il weekend di Pasqua del 1964)

L'amico MICHELE SAVINI, nostro inviato a Dublino, ci svela tutte le connession idei quattro BEATLES con l'Irlanda, non di rado molto dirette.

Uno dei primi ricordi che ho del mio arrivo in Irlanda è una conversazione con un anziano signore irlandese al bancone del pub “Gaffney and Son” a Fairview, nel North side della città, nel lontano 2008.
Paradossalmente non ricordo il suo nome ma ricordo chiaramente che, come spesso mi succede, parlavamo di musica e della mia passione per le band d’oltremanica, Beatles su tutti.
Io sostenevo che fossero i più grandi musicisti della storia e lui mi guardava divertito con lo sguardo condiscendente, probabilmente anche a causa del mio inglese approssimato unito al mio eccessivo entusiasmo.
Di tanto in tanto controbatteva con un lapidario “Io preferisco i The Dubliners …”, accompagnato da uno scaltro sorriso sul volto, senza però mai contraddirmi apertamente. Discutemmo per un’ora abbondante, senza che nessuna delle due parti sembrasse minimamente incline ad abbracciare il punto di vista dell’altra. Al momento di salutarci, posando il bicchiere di Beamish ormai vuoto sul bancone, mi ringraziò per la piacevole chiacchierata, si alzò dallo sgabello su cui era seduto e se ne andò, ma non prima di sussurrare quella frase che da quel momento in avanti avrei sentito sempre più frequentemente in chiusura di interminabili discussioni musicali notturne nei pub della città.
“Listen son, if it wasn't for the Great Hunger the Beatles would have been Irish … “
(“Ricorda figliolo, se non fosse stato per la Great Hunger, i Beatles sarebbero stati irlandesi … “)

Ora, nella mia vita ho imparato che quando qualcuno più anziano di te inizia una conversazione con “Ricorda figliolo …” alla fine di tale scambio di opinioni, tu avrai automaticamente torto e l’altra parte, la ragione assoluta e incondizionata. Ma mai, come in questo caso, sentii che la sua affermazione fosse in qualche modo legittima.

Con il termine “Great Hunger” (Grande Fame) ci si riferisce al periodo di carestia che colpi l’Irlanda dal 1845 al 1852 causando la morte di circa un milione di persone e l'emigrazione all'estero di quasi il doppio, con relativa riduzione dalla popolazione del 25% in pochi anni, avvenimento che ha cambiato permanentemente il panorama demografico, politico e culturale dell’isola.
La simpatica provocazione del rivendicare i Beatles come irlandesi, è una sorta di simbolico “rimborso” nei confronti degli scomodi vicini e tira in ballo il momento storico più importante dell’Irlanda, lanciando l’ennesima frecciata all’acerrimo nemico britannico riguardo alla storia della carestia e le sue cause.
(Nella foto il FAMINE MEMORIAL, una scultura situata in Irlanda, a Dublino, memoriale della grande carestia).

La principale causa apparente infatti è solitamente associata alla sfortunata apparizione della Peronospora della patata (Phytophthora infestans), un fungo che colpi il tubero in tutta Europa negli anni Quaranta dell’Ottocento.
Raggiunse il paese nell'autunno del 1845, distruggendo la totalità del raccolto per i successivi 2 anni, motivo per cui la carestia irlandese viene comunemente anche chiamata Potato Famine (Carestia delle patate).
La sopravvivenza dell’Irlanda era infatti legata all’agricoltura e unicamente dipendente dalla monocultura della patata, motivo per cui l’arrivo della piaga ebbe effetti devastanti per l’isola.
È importante ricordare che nel 1845, l’Irlanda faceva ancora parte del Regno Unito e rispondeva al Governo Britannico a Londra.
La rivoluzione industriale iniziata in Inghilterra, nonostante la vicinanza geografica, non l’aveva coinvolta e l’economia del paese era principalmente legata alla produzione agricola e all’allevamento di bestiame.
Nonostante l’Irlanda producesse un considerabile surplus di viveri, essi erano interamente destinati all’esportazione invece che all’ autoconsumo e diretti principalmente in Gran Bretagna.
Inoltre, la maggior parte degli appezzamenti coltivabili apparteneva a famiglie protestanti inglesi e anglo-irlandesi che, fino al 1860 possedevano 90% di tutte le terra in Irlanda, detenendo un potere più o meno incontrollato sugli affittuari, che raramente ricevevano un salario per le loro prestazioni lavorative, ma bensì un piccolo appezzamento di terra da coltivare.
Fu questo che rese gran parte della popolazione dell’isola dipendente dalla monocoltura della patata e allo stesso tempo estremamente vulnerabile, come dimostrerà l’arrivo della piaga che troverà terreno estremamente “fertile” in un paese con un tasso di povertà già in costante aumento.
Le aree più affettate furono quelle delle campagne occidentali e orientali, dove gli effetti furono devastanti. Interi paesi, principalmente abitati da famiglie di contadini la cui sopravvivenza era legata all’agricoltura, furono letteralmente spopolati a causa delle morti per denutrizione, malattie infettive o l’esodo massivo della popolazione, spesso a bordo delle navi dirette in America o in Gran Bretagna.
Nel frattempo, gli irlandesi osservavano con crescente furia le navi cariche di avena, grano e bestiame che partivano secondo programma dalle loro coste per essere spediti in Gran Bretagna.
Durante questo periodo infatti, le esportazioni con l’Inghilterra continuava tranquillamente, visto che Londra aveva rifiutato di bloccarle nonostante le circostanze.

I diari di porto attestano che, per un battello che arrivava pieno di viveri per gli affamati, ne partivano sei pesantemente carichi di prodotti alimentari diretti oltremanica, spesso scortati dalle guardie di “sua maestà” per evitare problemi.
Le azioni di aiuto da parte di Londra furono infatti limitate e insufficienti e le cose non migliorarono quando, a metà del 1846, John Russell del partito Whig venne eletto primo ministro del Regno Unito.
Russell nominò Charles Trevelyan come Ministro del Tesoro e principale responsabile dell'amministrazione degli aiuti governativi diretti all’Irlanda durante la carestia.
Trevelyan è, senza ombra di dubbio, il villano della storia.
L’amministrazione Whig infatti, sosteneva la filosofia economica del Laissez-Faire (dal francese “lascia fare”) che prevedeva la minima interferenza da parte del governo nell’economia irlandese e lo stesso Trevelyan, fervente protestante, affermava che la Peronospora della patata era da considerare come un atto della provvidenza, una sorta di giudizio divino nei confronti dei cattolici irlandesi.
Sosteneva che la carestia era in una certa misura auto inflitta e pensava che i cattolici dell’isola si fossero fatti carico del problema “avendo troppi figli”, causando uno spropositato aumento demografico.
Il tutto con il forte sostegno della stampa britannica del tempo, estremamente spietata e razzista nei confronti degli irlandesi, che venivano descritti come pigri, “sempliciotti” e alcolizzati (ironico peraltro, da parte degli inglesi, elargire consigli a qualcuno sull’alcolismo, ma lasciamo stare …).

Esiste un forte dibattito sul termine da utilizzare, con Great Hunger (Grande Fame) ritenuto quello più corretto a catturare la complicata storia del periodo.
Per molti infatti la parola Famine (carestia) è estremamente inadeguata a descrivere ciò che accadde in Irlanda in quel periodo.

C'era abbastanza cibo coltivato nel paese per sfamare l'intera popolazione, ma veniva tutto esportato dagli inglesi in Inghilterra, dimostrando che non fu una mancanza di risorse a impedire al Governo di Londra di aiutare gli Irlandesi, ma bensì una mancanza di volontà “politica”.

Per qualcun altro, il termine più accurato da utilizzare è quello di Genocidio.
Tra di loro il giornalista e nazionalista irlandese John Mitchel, secondo cui la carestia era stata una politica di genocidio deliberatamente organizzata dagli inglesi e che nel 1960 scriveva "L'Onnipotente, in effetti, mandò la peronospora della patata, ma gli inglesi crearono la carestia... e un milione e mezzo di uomini, donne e bambini furono uccisi con cura e prudenza dal governo inglese …”.
(La copertina dell’album Universal Mother di Sinéad O'Connor del 1994)

A fagli compagnia (neanche a dirlo), la tanto compianta Sinéad O’Connor che nel suo album del 1994 Universal Mother, raccontava la sua verità sulla carestia irlandese nella canzone ““Famine””, in cui le virgolette del titolo sono assolutamente volute e ribadiscono il conflitto di terminologia che essa vive. Una traccia dal sapore hip hop, pungente e arrabbiata, con un parlato schietto e diretto che già dal primo verso ci ricorda come la O’Connor non le mandava certo a dire:
OK, voglio parlarvi dell'Irlanda
Nello specifico voglio parlarvi della "carestia"
Sul fatto che non ce n'è mai stato una
Non c'era "carestia"
Vedi, agli irlandesi era permesso mangiare solo patate
Tutti gli altri alimenti, carne, pesce, verdure
Erano spediti fuori dal paese sotto scorta armata
In Inghilterra mentre gli irlandesi morivano di fame


Nell’ultima parte della prima strofa, sottolinea inoltre un’altra interessante questione legata agli effetti della carestia sulla lingua gaelica:
Poi nel mezzo di tutto questo
Ci hanno dato soldi per non insegnare ai nostri figli l'irlandese
Così abbiamo perso la nostra storia
Ed è questo che penso ci stia ancora facendo male


“Famine” di Sinéad O’Connor:
https://www.youtube.com/watch?v=EZIB6MslCAo

Le aree più affettate dall’aumento della povertà furono infatti le zone rurali del nordovest dell’isola dove la lingua Gaelica era dominante e l’ondata di morte ed emigrazione forzata è una delle principali cause della progressiva scomparsa dell’idioma irlandese da questo momento in avanti.
Già dal 1831 infatti il governo britannico istituì il sistema scolastico nazionale con l'inglese come unica lingua di insegnamento e le pressioni economiche e il fiorire della lingua anglosassone a Dublino iniziarono a minare la sicurezza della lingua irlandese. L’emigrazione e il lavoro urbano erano visti come vie d’uscita dalla povertà, e questo significava che l’inglese era la “lingua del futuro”, contribuendo violentemente al declino della lingua irlandese e allo stigma ad essa legato.
Nelle scuole, ad esempio, i bambini erano costretti a indossare un bastoncino di legno appeso ad una corda intorno al collo per monitorare il loro uso della lingua.
Ogni volta che venivano sorpresi a parlare gaelico, il maestro tagliava una tacca nel bastone e a fine giornata venivano picchiati per ogni “errore” effettuato.
La cara Sinéad puntualizza inoltre come, a livello storico si utilizzi ancora molto il termine BLACK 47 quando si parla del periodo (in riferimento al “nero” 1947, l’anno peggiore della carestia) e come esso faccia convergere le cause dalla tragedia quasi unicamente sulla piaga della patata.

Ma ciò che alla fine ci ha spezzato non è stata la carestia
Ma il suo utilizzo nel controllo della nostra istruzione
Le scuole continuano a parlare del "Black 47"
Ancora e ancora della "La terribile carestia"
Ma quello che non dicono è la verità
Non ce n'è mai stata davvero una


Per chiudere il cerchio e tornare alla nostra storia, casualità vuole che il ritornello della canzone sia un richiamo ai Beatles e alla loro Eleanor Rigby (All the lonely people Where do they all come from?), canzone che narra la storia di una donna sola e dimenticata dalla società, proprio come l’Irlanda durante la carestia, motivo per cui sia Lennon che McCartney sono menzionati nei crediti della canzone come compositori.

Entrambi durante la loro carriera solista, sono stati attivi nel sostenere il popolo irlandese, anche artisticamente parlando, il primo che due canzoni nell’album del 1972 Sometime in New York City (“The Luck of the Irish” and “Sunday Bloody Sunday”) e il secondo con gli Wings, quando fu addirittura bandito dalla BBC con il suo pezzo "Give Ireland Back to the Irish”, per la sua posizione politica anti unionista.
Canzone che arrivò solamente al numero 16 della classifica del Regno Unito, ma che ovviamente trionfò in Irlanda raggiungendo il primo posto.

Le origini irlandesi dei Beatles risalgono appunto alla grande emigrazione causata dalla Great Hunger quando centinaia di migliaia di persone si imbarcarono sulle navi dirette in America. Moltissimi altri scelsero invece le navi dirette in Inghilterra, specialmente alla vicina Liverpool, tanto che la città viene spesso simpaticamente chiamata “The Capital of Ireland in England” visto che si stima che tre quarti della sua popolazione abbia origini Irlandesi.
Tra questi appunto, anche gli antenati dei Fab Four.
I legami tra John Lennon e l’Irlanda sono ben noti a tutti, tanto che comprò anche un’isola nella contea di Mayo a metà degli anni sessanta, come già narrato sulle pagine di questo stesso blog:
https://tonyface.blogspot.com/2023/03/beatle-island.html

I suoi precessori venivano dalla contea nordirlandese di Down al sud di Belfast.
Quando la grande carestia devastò l'Irlanda, il suo bisnonno James Lennon si trasferì a Liverpool con la sua futura moglie Jane McConville e la sua famiglia intorno al 1848.
Il cognome Lennon è un derivato anglicizzato dell'irlandese O'Lennon, discendente del gaelico Ó Leannáin che nella lingua celtica significa “Amore”. Curioso, considerando il messaggio che John ha più volte indirizzato al mondo attraverso molte delle sue canzoni.

Paul ha radici irlandesi da entrambi i rami della famiglia.
Non si sa esattamente che parte dell'Irlanda provenga il ramo paterno, ma è noto che i McCartney (originariamente McCarthy) lasciarono l'Irlanda nel 1860 direzione Galloway, in Scozia, prima di spostarsi a Liverpool.
Il suo bisnonno materno, Owen Mohin, era di Tullynamalroe nella contea di Monaghan e cambiò il cognome in “Mohan” prima di trasferirsi a Liverpool dove nacque la madre di Paul, Mary Patricia Mohan.
Il “quite Beatles” George Harrison non fa ovviamente eccezione.
Gli antenati di George, che erano cavalieri normanni provenienti dalla Francia, si stabilirono nell'Irlanda meridionale.
Suo nonno materno, John French, era di Corah nella contea di Wexford e si era trasferito a Liverpool all'inizio del ventesimo secolo quando, per ragioni economiche, aveva dovuto mettere all’asta la fattoria di famiglia.
Il piccolo George visitò spesso l’Irlanda tra la fine degli anni Quaranta e l'inizio degli anni Cinquanta, quando sua madre Louise imbarcava l’intera famiglia sul traghetto che da Liverpool era diretto a Dublino, per far visita ai loro cugini che vivevano a Drumcondra, un quartiere nella zona nord della capitale irlandese. A testimoniare ciò esiste questa simpatica foto dei lui con sua madre e suo fratello Peter che camminano per O’Connell Street a Dublino, scattata intorno al 1950.
Rimane quindi solo Ringo.
“No dai … Ringo no, lo sappiamo tutti che è inglesissimo“ dirà qualcuno.
E invece Ringo sì…

Se è vero effettivamente che il cognome Starkey ha profonde origini inglesi da circa tre generazioni, è altrettanto vero che tutti i nonni e bisnonni di Ringo erano inglesi, la maggior parte di Liverpool, tranne uno.
La bisnonna materna Elizabeth "Minnie" Cunningham nacque infatti a Rostrevor, nella contea di Down (la stessa da cui provenivano gli antenati di John) nel 1851.
Come se non bastasse, entrambi i trisavoli materni di Ringo, William Conroy e Maria O'Conner, nacquero in Irlanda intorno al 1847, esattamente come il suo bis-bis-bisnonno paterno, Thaddeus John Edward James che emigrò poi a Liverpool dove conobbe la sua futura moglie, Sarah Jane Steele, anche lei di origini irlandesi!

Pertanto, magari un po’ forzatamente, possiamo considerare anche Richard Starkey pienamente arruolato e asserire che tutti e quattro i membri dei Beatles avevano ascendenze irlandesi.

Tenendo presente che i loro antenati emigrarono a Liverpool tutti a ridosso degli anni della Grande Fame, la provocazione di rivendicarli come Irlandesi, per quanto goliardica, non è poi così sconsiderata.
E se a tutto questo aggiungiamo il fatto che successivamente gli antenati di George Harrison si spostarono a Dublino, avvicinandosi notevolmente alla parte occidentale della costa est dove sono situate le radici di John, Paul e Ringo, diventa quasi impossibile non lasciarsi andare all’ immaginazione e fantasticare sulla bizzarra teoria in cui i nostri eroi si sarebbero potuti incontrare anche in terra irlandese.
Un po’ pretenzioso?
Può darsi, ma sono sicuro che quel simpatico signore seduto al bancone del Gaffney and Son di Fairview la penserebbe esattamente come me.

martedì, settembre 03, 2024

Prisoners live a Pordenone 30.08.2024

Foto Alessandra Toffolo Outoflens (dal profilo FB di Music Village).

Grazie all'amico SOULFUL JULES una recensione del recente concerto dei PRISONERS a Pordenone nella rassegna "Music Village".

Quando Antonio mi ha chiesto una recensione del concerto dei Prisoners a Pordenone mi sono sentito un po’ a disagio.
Fosse stata un’altra band non mi sarei fatto problemi ma i quattro di Medway hanno quest’aura che fa il pelo alla leggenda, sono la personificazione dell’integrità, in oltre quarant’anni mai un passo falso, mai una brutta canzone o una caduta di stile e hanno qualche migliaio di ammiratori in tutto il mondo che, come me, li adora incondizionatamente.
Da autentico fan, da uno che ci tiene davvero, ho iniziato a pensare a quelli che seguono la band dalla prima ora, a chi li ha visti negli anni ottanta e nelle poche reunion successive, al fatto che leggendo il mio nome potessero chiedersi “E chi cazzo è questo?”
Ma ormai l’impegno me l’ero preso e mi sono messo a scrivere.

Ammetto di non aver ascoltato con attenzione il nuovo album, Morning Star; l’ho fatto andare in sottofondo un paio di volte appena uscito ma c’era qualcosa nel suono e nella composizione che non mi prendeva fino in fondo e quindi ho lasciato perdere.
Se davvero era un bel disco il suo momento sarebbe arrivato.

Più di qualcuno si sarà domandato perché proprio Pordenone come unica data oltre a quella del Roundhouse di maggio.
Credo che il motivo sia semplice.
I Prisoners hanno ricevuto una buona proposta da parte di organizzatori che lavorano bene, vari membri della band hanno già suonato diverse volte in zona e apprezzano il nostro territorio.

Il concerto si è tenuto nell’ambito del Music In Village, manifestazione che esiste da oltre trent’anni e che negli ultimi tempi ha trovato una nuova sede al parco IV Novembre, a pochi passi dalla stazione dei treni. Ingresso gratuito, food trucks, situazione per famiglie o giù di lì.
Venerdì i primi fan sono arrivati già dalle 17.00 per assistere al soundcheck, gestito in poco più di quaranta minuti.

Verso le 18:30 io ed Enrico Lazzeri abbiamo iniziato a mettere un po’ di dischi in sottofondo, garage, r&b, soul e 60’s rock, mentre arrivava gente da tutta Italia, dall’Inghilterra e dalla Germania. Nonostante il caldo micidiale, si è subito instaurato un bel clima tra amici che non si rivedevano da un sacco di tempo o persone che si conoscevano solo via internet.

Alle 21:50 i Prisoners sono saliti sul palco davanti a un pubblico numeroso e preso bene. Quando sono partiti con Hurricane (da Thewisermiserdemelza) ero un po’ indietro e il suono non era cristallino, la band mi è sembrata un po’ contratta e lì ho pensato che forse non sarebbe stata una grande serata, che si sta poco a sgonfiare l’entusiasmo di mesi e mesi di attesa e trepidazione, forse per il caldo o per l’impianto, l’acustica del parco, vai a sapere.

Per il secondo pezzo, Coming Home (A Taste Of Pink), sono andato sotto al palco, sulla destra, dal lato di Graham Day, e devo dire che il suono era buono, la voce e i riff della Telecaster belli graffianti così come l’hammond di JT, pulito e potente.
Applausi e grida di incitamento da parte del pubblico.
Con la terza canzone, Going Back, dall’ultimo album, ho avuto l’impressione che la band fosse finalmente entrata nel proprio elemento, sprigionava un’autentica energia propulsiva, i Prisoners non erano lì per rivivere i tempi andati ma per suonare davvero.

A seguire Save Me e Something Better, sempre dall’ultimo album, ora Prisoners si stavano godendo il concerto, soprattutto coi brani nuovi, che finora hanno suonato live in tre occasioni.
Come To The Mushroom (A Taste Of Pink) il primo strumentale della scaletta con l’organo più penetrante e ipnotico che mai, e per me questa è la bellezza di sentire certi brani più carichi e maturi rispetto alle incisioni originali.
Il concerto è proseguito senza interruzioni con un alternarsi di brani da Morning Star (dieci in tutto) e canzoni dei primi quattro album, In From The Cold il più penalizzato.

Direi che è stato un crescendo e la prova che questa nuova fase non è un’operazione nostalgica, la band vive e suona nel presente e probabilmente butta un occhio anche al futuro.
I miei pezzi preferiti sono stati A Taste Of Pink, Love Me Lies con il cantato feroce di Graham che non ha perso un briciolo di smalto e la bellissima Thinking Of You (Broken Pieces) a rallentare il ritmo per qualche battuta.
Del disco nuovo mi ha sorpreso Go To Him, ha un tiro punk pop abbastanza inusuale per il sound dei Prisoners - sembrano più i Buzzcocks o gli Undertones – e James Taylor alla voce è risultato molto coinvolgente e, a mio avviso, più convincente che in My Wife.

Prima dei bis una grandissima Melanie con tutto il pubblico a cantare, uno dei momenti più esaltanti del concerto.
Qualche istante di pausa e i Prisoners sono tornati sul palco per le ultime quattro canzoni: Better In Black (A Taste Of Pink) con Graham in forma super, Deceiving Eye bella potente (unico brano da In From The Cold) e poi lo strumentale American Jingle (The Last Fourfathers) che sfocia in Reaching My Head, uno dei momenti più intensi della serata.
Chiusura con una ottima Hush.

Nel complesso un grande concerto, forse non impeccabile dal punto di vista del suono e dell’esecuzione ma per la prima volta ho davvero apprezzato i brani nuovi, sentiti dal vivo hanno quel carattere e quella profondità che forse non emergono pienamente dalle incisioni di Morning Star.
I sei brani strumentali erano dosati in maniera corretta e probabilmente servivano a dare un po’ di fiato a Graham Day, uno dei migliori vocalist di sempre.

È stato bellissimo vedere i Prisoners in forma nella mia città, sereni e a loro agio, a tratti palesemente felici, coinvolti e coinvolgenti.
A seguire dj set fino all’una, con un mix di classici 60s ballati senza sosta da decine di persone, la moglie e le figlie di Johnny Symons sorprese a cantare I’ll Keep On Pordenon in mezzo alla bolgia.

Ottima l’organizzazione del Music In Village, super sbatti di Bruno Pisa che ci teneva particolarmente che tutto girasse per il meglio e che ha curato anche il ritrovo degli scooter d’epoca, una trentina di Vespe e Lambrette parcheggiate in bella mostra accanto al palco.

Una serata da ricordare e che fa ben sperare per altre date dei Prisoners in un prossimo futuro.

Foto della setlist di Johnny Symons "rubata" a Giampaolo Corradini.

Setlist (più o meno in ordine)

Hurricane
Coming Home
Something Better
Going Back
Come To The Mushroom
This Road Is Too Long
Till The Morning Light
A Taste Of Pink
Winter In June
Whenever I'm Gone
Morning Star
Explosion on Uranus
Save Me
Go To Him
Love Me Lies
The Green Meteor
If I Had Been Drinking
My Wife
Night Of The Nazgul
Thinking Of You (Broken Pieces)
Melanie

encore
Better in Black
American Jingle
Reaching My Head
Deceiving Eye
Hush
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