A 2/3 dell'anno l'elenco di ottime uscite da segnalare si allunga ancora di più.
Dall'estero Judith Hill, Libertines, Prisoners, the X, Bella Brown and the Jealous Lovers, Dexy's, Jack White, The Heavy Heavy, Les Amazones d'Afrique, Sahra Halgan, Boulevards, Mdou Moctar, Paul Weller, Liam Gallagher & John Squire, Mooon, Black Crowes, Mourning (A)Blkstar, Dandy Warhols, Michelle David & True Tones, Clairo, Big Boss Man, The Wreckery, Yard Act, Kula Shaker, Kim Gordon, Kamasi Washington, Real Estate, Lemon Twigs, Bad Nerves, Tibbs, Idles, Krypton Bulb, New Mastersounds, Mo Troper, Galileo 7, Fontaines DC e Popincourt, The Tambles, Grace Browers & the Hodege Plodge, Lady Blackbird.
Tra gli italiani Ossa di Cane, Peawees, A Toys orchestra, Tre Allegri Ragazzi Morti, Manupuma, Rudy Bolo, Klasse Kriminale, Cesare Basile, Organ Squad, La Crus, The Devils, Enri Zavalloni, Any Other, Smalltown Tigers, Paolo Zangara, Pier Adduce, Paolo Benvegnù, Zolle, I Fenomeni, Lovesick, Newglads.
THE HEAVY HEAVY - One Of A Kind
Spettacolare esordio per la band di Brighton che pesca a piene mani nei fine Sixties più cool, tra melodie alla Jefferson Airplane, Turtles, Monkees, ballate West Coast (vedi CSN&Y), immancabili riferimenti Beatlesiani. Ma ci sono anche Velvet Underground, The Band, il Dylan di metà decennio, Byrds e tanto altro, incluse folate Britpop/shoegaze. Irresistibile.
THE BELLRAYS - Heavy Steady Go!
Lisa Kekaula e Rob Venom hanno superato la dozzina di album all'attivo e i trent'anni di attività ma non hanno perso un briciolo di energia e potenza sonora, attraverso la consueta formula che accosta una base hard punk alle melodie vocali e al timbro chiaramente soul della cantante. Non fanno eccezione i dodici brani del nuovo lavoro, solidi, robusti, molto hard rock oriented (inclusa una grintosissima versione di "Ball of confusion" dei Temptations) che saranno prevedibili e socntati finché si vuole ma non lasciano mai indifferenti.
KRYPTON BULB - Beards, Balls & Bravado
Esordio per la band irlandese con un sapiente mix di garage punk (a volte sembrano gli Stairs), varie dai Sixties, Creedence, quel power pop trendy alla Dandy Warhols e Hives.
Un album molto godibile, pieno di energia e personalità.
Sorprendenti.
BLUES PILLS - Birthday
Blues Pills goes pop.
Nel nuovo album c'è un ottimo mix di rock blues, qualche fuckin' da dura rocker, un po' di Janis mood sparso qua e là e brani più che accattivanti.
La title track spacca, "Bad choices" sembra le Supremes in chiave Jet, non mancano altre piacevoli sorprese.
Mica un brutto ascolto, anzi piacevole ma molto lieve e talvolta impalpabile.
Ma funziona.
GRACE BOWERS & the HODGE PODGE - Wine on Venus
La giovanissima chitarrista americana se ne esce con un album semplicemente esplosivo, tra southern rock, un torrido funk, rock blues, Janis Joplin, Sly and the Family Stone (non a caso riprende "Dance to the music", sonorità caldissime, voce superba, grande groove. Sorprendente e con prospettive future più che brillanti.
NICK CAVE & the BAD SEEDS - Wild God
Lydia Lunch ha espresso un parere piuttosto tranchant su Nick Cave: "Il miglior live che hai visto? I Birthday Party con Rowland S Howard, prima che Nick Cave diventasse un predicatore cristiano di ballate morbose." Il percorso intrapreso con "Skeleton Tree", "Ghosteen" e "Carnage" documentava il tuffo drammatico dentro il lutto. "Wild God" sembra una transizione tra quel lungo drammatico momento e una resurrezione verso altre dinamiche. Un Nick Cave contemplativo, sacerdotale, ammantato di blues e gospel. Un buon album, seducente, ipnotico, lisergico a tratti.
THURSTON MOORE - Flow Critical Lucidity
I Sonic Youth sono stati tra i gruppi più innovativi e originali dagli anni Ottanta in poi, tra i protagonisti del passaggio dell’alternative/underground rock nel mainstream. Il loro sound abrasivo, figlio dell’hardcore e della sperimentazione è rimasto tra i momenti più interessanti del post punk. Dopo lo scioglimento (nel 2011) i quattro componenti si sono sparsi tra mille progetti, più o meno riusciti, ma senza mai eguagliare la qualità della band madre. Non si contano le opere e collaborazioni del chitarrista Thurston Moore che torna ora con un ottimo album, che oscilla tra echi di Lou Reed, psichedelia, retaggi Sonic Youth, riferimenti “orientali”, ballate laconiche e malinconiche. I fan apprezzeranno ma un ascolto è consigliato a chiunque.
THE THE - Ensoulment
Torna a splendere la creatura di Matt Johnson dopo un lungo periodo in sordina artistica. Il nuovo album è ricco di brani bluesy, soffusi, spesso dalle tinte soul ma con l'impronta personalissima della scrittura di Matt che non dimentica le radici new wave e il suo modo unico di intendere la musica. Un lavoro di primissima qualità.
SOFT PLAY - Heavy Jelly
I SOFT PLAY, già ai vertici con il nome di The Slaves (lasciato nel 2022), tre album alle spalle, entrati sempre nella top 10 inglese, cambiano nome ritrovando le medesime coordinate sonore, aggressive, potenti, serrate, una miscela di punk, Beastie Boys, Prodigy, Sleaford Mods, condimenti rap, Viagra Boys e l'immancabile prezzemolo post punk. Approccio genuino, in perfetto equilibrio tra mainstream e alternative.
COLOR GREEN - Fool's parade
Vivere in California può causare assuefazione alle atmosfere West Coast. Per il secondo album il quartetto sfoggia tutti i colri del posto, tra psichedelia, Sixties, folk rock, rock classico, intense ballate Doorsiane. Bravi, non semplicemente derivativi, ma con una buopna dose di personalità.
SHEMEKIA COPELAND - Blame it on eve
Potentissimo album blues, che non esita a entrare nel rock blues alla Stones ("Broken high heels" o "Is there anybody there?") o in contesti country e gospel. La voce di Shemeika domina incontrastata, il sound è solido e possente, i testi parlano di emancipazione femminile, ambiente, questioni razziali. Classe, grinta, consapevolezza sociale. Super.
LADY BLACKBIRD - Slang Spirituals
Nuovo album, particolarmente ispirato, per la vocalist californiana, dopo l'eccellente "Black Acid Soul". La matrice è un soul spesso di stampo tradizionale, a cui si aggiunge una visione moderna e in progress, una conclusione ipnotico psichedelica e influenze varie sparse a piene mani (spiritual in primis ma anche funk e blues). Ottimo lavoro.
PM WARSON - A little more time
Con il terzo album il musicista inglese si conferma un eccellente interprete di un'affascinante e godibile miscela di soul, rhythm and blues, northern soul, blues.
Suonato, prodotto e registrato con estrema raffinatezza ed eleganza, con atmosfere soffuse, calde, "smokey", avvolgenti, misteriose, sorta di Chris Isaak soul.
NICK LOWE - Indoor Safari
Divertente album di rock 'n' roll, rhythm and blues, pub rock, nel classico stile a cui ci abituati. Anni Cinquanta e Sessanta si rincorrono spesso e volentieri. Niente di cui stupirsi ma un ottimo sottofondo fattodi passione, amore per certi suoni, sano disimpegno.
HAMBURG SPINNERS - Im Schwarzwald
La band tedesca confeziona un gradevolissimo album strumentale a base di Hammond, Jimmy Smith, Booker T and the Mg's, sonorità cinematografiche, soul e funk. I cultori del genere sono avvisati.
PEAWEES - One Ride
Kilometri spesi in concerti su e giù per l'Europa, settimo album e abbondanza di riconoscimenti a un talento compositivo che si é progressivamente raffinato e personalizzato. In “One Ride” si mastica un saporito mix di power pop, garage punk, rock 'n' roll, soul, melodie di ispirazione Sessanta, ritmi sostenuti ma mai esageratamente veloci, tanta cura per i suoni. Un lavoro di grande presa e dalle indiscusse potenzialità.
ARTISTI VARI - Lievi favole
L‟associazione Culturale “Gavinuccio Canu” ha prodotto il doppio LP dal titolo “Lievi Favole” che comprende le ultime canzoni originali inedite del cantautore sassarese Gavinuccio Canu, scomparso il 14 febbraio del 2022. Il disco, in 300 copie, sarà pubblicato e acquistabile dal sito www.gavinucciocanu.org, da settembre 2024. L‟idea nasce dalla volontà di incidere il ricordo di Gavinuccio in modo indelebile e, contestualmente, rendergli omaggio grazie alla partecipazione sentita di chi come lui ha vissuto e vive la musica in modo viscerale. Un lavoro collettivo “nazionale” che possa farne conoscere e apprezzare la figura artistica anche fuori dalla sua Sassari e dalla Sardegna.
Il doppio album include le registrazioni originali, scabre e intensissime di Gavinuccio Canu e le rivisitazioni altrettanto dense e profonde di una serie di artisti di primo piano della scena new wave e cantautorale italiana, tra cui Andrea Chimenti, Rita Lilith Oberti con Cesare Basile, Miro Sassolini, con Gianni Maroccolo, Mauro Ermanno Giovanardi, tra i tanti. Un lavoro unico, prezioso, a tratti sperimentale altre volte declinato in chiave canzone d'autore, destinato a rimanere nella storia della musica underground italiana.
LUNOPHONE - Surroundings
L'unione tra il musicista irlandese James Strain e Dario D'Alessandro degli Homunculus Res ci regala un album complesso, visionario, ricco di pregevoli spunti, con uno sguardo particolare al miglior Canterbury Sound (soprattutto dalle parti dei Caravan), jazz rock, progressive. Ci sono anche sperimentazione, abbracci ai King Gizzard & the Lizard Wizard, ritmi sincopati, elegie King Crimsoniane. Ottimo.
THE TWERKS - A Private Display of Trouble
La band di Sesto San Giovanni torna sulle scene con un nuovo album dopo una serie di incisioni sparse nel corso degli anni (un ep, il primo album, un altro solo su cassetta). Punk rock ruvido e aspro con svariate influenze, dal garage al power pop, fino agli X che fanno capolino in "Failure". Sound compatto, esecuzione carica di energia e potenza.
https://venti3.bandcamp.com/album/a-private-display-of-trouble
SPECTRE - Slow Emotional Death
I comaschi Croutons ha all'attivo una serie di incisioni dal 2013 in poi, prima di cambiare nome nell'attuale Spectre e indirizzare il sound di stampo hardcore californiano anni Ottanta verso influenze più dark. I sei brani del nuovo LP/EP guardano spesso ai TSOL di "Dance With Me" (vedi "Insects"), ai 45 Grave e ai Christian Death di Rozz Williams. Il sound è acido, le voci riverberate, i ritmi sono tribali, il basso in evidenza. Gli appassionati del genere apprezzeranno tantissimo.
https://venti3.bandcamp.com/album/slow-emotional-death
CHARMING ARSON – Another kind of vision
La band italo americana (alla chitarra Stefano Bellezza, ex Underground Arrows) al terzo lavoro con un ep di sei brani, all’insegna di un pop rock di gusto anni Sessanta che non di rado guarda a Who e al gusto compositivo di Paul Weller (dai Jam alla carriera solista). La band gira al meglio, le canzoni hanno un piglio ritmico pulsante, arrangiamenti ben calibrati, suoni azzeccati e anche quando rallenta e si dedica a una ballata melodica conclusiva (“Magic Alex knows” con ripetuti, fin dal titolo, riferimenti Beatlesiani) riesce alla perfezione a creare un brano compositivamente complesso ma di alta qualità. Partenza eccellente.
FRED-A-STERRO – Provinciali
La band toscana all’esordio con un album di undici brani potenti, crudi, arrembanti, caratterizzati da una line up quanto mai inconsueta: batteria, basso (distorto), voce. Riff minimali, ritmiche serrate, voce in primo piano. Non è facile evitare la ripetitività con una formazione così stringata ma la band riesce ad essere varia e originale. Alla fine l’album è godibile, ben fatto e pieno di energia. Un applauso.
ASCOLTATO ANCHE:
LA LOM (Hammond sound su ritmi latini e Tex Mex, molto carino), HINDS (pop rock ruvido e ben fatto per il duo spagnolo con grandi ospiti come Beck e Grian Chatten. Buono),
LETTO
Daniel Rachel - Too Much Too Young
La splendida avventura della 2TONE RECORDS, fulminante, breve, accesasi come una stella sfavillante ed esplosa come una (champagne) supernova, lasciando luminosi detriti vaganti fino ai giorni nostri, raccontata attraverso minuziosi particolari in questo eccellente libro (tradotto in italiano da Flavio Frezza per Hellnation Libri).
Un'etichetta che nasce e vive come un collettivo anarco/marxista sotto la ferrea guida di Jerry Dammers, tastierista e mente pensante degli Specials.
Non c’erano contratti formalizzati. Gli accordi venivano siglati da una stretta di mano. Senza costituzione formale né iscrizione ai registri, l’etichetta esisteva soltanto di nome. Come piaceva dire a Jerry, «più che una casa discografica, era una presa per il culo delle stesse».
Vendettero milioni di copie dal 1979 al 1986 con i dischi di Specials, Selecter, Bodysnatchers, il primo singolo dei Madness, The Beat per implodere poi tra mille divisioni, litigi, cause legali, debiti, dischi e gruppi ignorati, passando in mezzo alla violenza ai concerti, agli scioglimenti dei gruppi, alla (mala) gestione dell'etichetta, inadatta al volume di soldi incassati e alla complessità di unire realizzazioni di dischi, organizzazione di lunghi tour, economia "aziendale".
Le canzoni affrontavano argomenti che, per i giovani, rappresentavano la vita quotidiana: violenza di strada, abusi sessuali, gravidanze adolescenziali, disoccupazione, rischio di una guerra nucleare.
La 2 Tone era una nuova forma di musica di protesta, attraverso la quale riecheggiava l’eredità dei pionieri degli anni sessanta come Bob Dylan e Joan Baez, e cercava di trasmettere al pubblico l’idea di un’unità politica e sociale.
Uno degli scopi della 2 Tone era educare il pubblico e fargli capire che si trattava di musica inventata dai neri: dovete accettare il fatto che il mondo non è bianco, ma a due colori”.
La 2 Tone tentava di infondere nella testa della gente l’idea di uguaglianza e di dare un freno al razzismo.
Venivano tutti dal nulla: lavori di merda, monolocali di merda, senza un soldo in tasca. Cercavano di farcela partendo da zero. C’era un’atmosfera di avventura. L’ideale alla base della 2 Tone avrebbe preso vita sulle piste da ballo dell’intero paese.
Finì malamente.
Il libro è impietoso nel raccontare anche il lato oscuro della vicenda ma è sempre equilibrato e il più possibile fedele alla realtà.
Indispensabile per i cultori di un certo ambito.
"La 2Tone ispirò uno stile che travolse il paese. Sostenne l'antirazzismo, mise in discussione il sessismo e incoraggiò persone di idee differenti a sposare il multiculturalismo. Il suo impatto continuerà a dar vita a dibattiti sociologici e politici, sia sulla carta stampata che nei pub. Tali discussioni sono importantissime e aiutano a interpretare uno dei più grandi culti giovanili della storia britannica."
Stefano Gallone / Joyello Triolo - Easter egg e dischi
Easter Egg sono quei messaggi criptati, lasciati dagli autori nei dischi (ma non solo) che solo i fan e i cultori più appassionati riescono a cogliere.
Nella (lunga) storia della musica rock, come il libro dimostra, ce ne sono in abbondanza.
I Beatles si divertirono tantissimo a spargerne nei loro album (vedi "Glass Onion" ma soprattutto la vicenda del "Paul is dead" su cui giocarono parecchio).
Finito il sogno, Paul e John se ne mandarono di più o meno espliciti nei rispettivi dischi.
Anche i Led Zeppelin con le manie di occultismo non si sono risparmiati in tal senso e nemmeno i Pink Floyd sono stati parchi.
Il libro è molto divertente e appassionante, nel svelarci una lunga serie di particolari intriganti che abbracciano uno scibile sonoro e artistico ampissimo, da James Brown ad Aphex Twins, da Bob Dylan agli Iron Maiden, da Radiohead a Frank Zappa.
Chissà se c'é qualcosa anche nel disco che state ascoltando ora....
Martin "Sticky' Round - Scooterboys. The lost tribe
La scena "Scooterboy" fu una diretta filiazione da quella Mod, nei primi anni Ottanta, per assumere progressivamente (in Gran Bretagna) una dimensione molto personale che dalle origini si allontanava drasticamente.
Come descrive bene il libro:
"Per i Mods lo scooter è un accessorio.
Per gli Scooterboys la classica Vespa o Lambretta è essenziale".
Da un certo punto in poi gli Scooterboys si affrancarono dalla cultura Mod, assorbirono, soprattutto esteticamente, elementi dagli skinhead, perfino dagli psychobilly e rocker.
Conservarono l'amore per soul, northern soul e ska ma non mancavano nelle serate musiche di ben altro tipo.
La disamina del libro è molto interessante, partendo dalle primigenie passioni degli inglesi per lo scooter, arrivando a un elemento essenziale per comprendere l'uso del mezzo negli anni Ottanta Tatcheriani di disoccupazione e devastazione sociale: gli scooter erano economici.
Se ne trovavano usati (seppur mal ridotti) a pochi spiccioli, la miscela era particolarmente bassa di prezzo, non c'erano ancora controlli sull'uso dipendenti dall'età o dall'uso del casco.
Si sviluppò così una scena di fanatici dello scooter, i raduni diventarono affollatissimi, l'estetica era l'ultimo dei problemi (l'importante era arrivare con il proprio mezzo, banditi e sbeffeggiati coloro che lo trasportavano in loco su un furgone).
I mezzi divennero sempre più personalizzati, talvolta al limite del grottesco.
L'estensione a quello che era un culto riservato a pochi, alla massa generò sfruttamento economico da parte di alcuni, violenza ai raduni, attenzionamento delle autorità, rivalità e tanti altri aspetti deprecabili.
Il fenomeno si è successivamente espanso in tutto il mondo (in Indonesia in particolare), pur se molto più circoscritto e differente dagli anni Ottanta, rimanendo però sempre un ambito "segreto" e di pertinenza di pochi appassionati, costantemente lontani dall'attenzione dei media.
Il libro è ricco di foto a colori, bellissima copertina rigida, molto (auto)ironico e divertente, pieno di aneddoti.
Consigliatissimo a chi vuole aggiungere un ulteriore tassello alla conoscenza delle (cosiddette) sottoculture.
Belle le parole di Mani degli Stones Roses e Primal Scream (scooterista di prima generazione che proprio nella scena incontrò il cantante Ian Brown e il chitarrista John Squire):
"Per me gli Scooterboys sono persone dimenticate.
Tutti ricordano i Mod e i Rocker ma noi abbiamo portato gli scooter a un altro livello di personalizzazione.
Noi abbiamo sempre riconosciuto l'eredità dai Mod ma eravamo più dei Casual strdaioli.
Il nostro giro non era strettamente Mod ma un mix di skinehead, football casual e segaioli."
Penny Rimbaud - Shibboleth: My Revolting Life
E' un racconto (solo in inglese) acre, pieno di dubbi, di rimpianti (non per quello che è stato fatto ma per ciò che non è accaduto) quello di Penny Rimbaud, membro dei CRASS, paladini dell'"anarco punk", fautori di una delle più interessanti forme di autoproduzione, agitatori sociali, band influente per centinaia di gruppi ed esperienze simili e tanto altro.
Nati nel 1977, scioltisi nel 1984, sono stati protagonisti di clamorose iniziative contro lo stato, il governo Tatcher oltre che di sei album, due live e vari 45 giri (la band ha venduto circa DUE MILIONI di DISCHI).
Il libro (pubblicato nel 1998) ne racconta le gesta, intorno a una vicenda che toccò profondamente l'autore, la morte dell'amico Phil Russell/Wally Hope, probabilmente ucciso dalle autorità, lasciando però il caso insoluto.
Ci sono puntualizzazioni profonde e talvolta amare sul ruolo dei Crass.
"Poco dopo avere pubblicato il nostro primo album abbiamo realizzato di essere in pericolo di diventare i "leader" di un nuovo movimento di cambiamento sociale. Un ruolo che rifiutavamo di avere. La rivoluzione che cercavamo non doveva avere leader."
Molto interessante e facilmente trasferibile ai giorni nostri e a quanto accaduto in tutti questi anni, la riflessione sullo scoppio della guerra delle Falklands, voluta dal governo inglese e sui movimenti pacifisti:
"Quando i problemi sono astratti il movimento pacifista è sempre stato felice e pronto a cantare "no war".
Ora che una guerra contro cui urlare c'era davvero, il silenzio era davvero doloroso".
Alla fine la band, la Comune in cui vivevano, lavoravano, accoglievano ospiti da tutto il mondo (inclusi 12 punk italiani che restarono lì a sbafo per dieci giorni senza sapere una parola di inglese, a parte "Crass"), componevano, progettavano azioni, esplosero.
Ognuno alla ricerca di sé stesso/a e di una vita personale e non più comunitaria.
"Per cinque anni le nostre vite sono state dominate dal vorace appetito dell' "Organizzazione Crass".
A parte la routine dei tour e dei dischi, la vita nella casa chiedeva sempre di più. Il telefono non smetteva mai di squillare, quando un gruppo di ospiti se ne andava, ne arrivava subito un altro.
Come qualcosa che sembrava di una facilità spaventosa, ognuno della band svolgeva il ruolo assegnato.
Ma a quale costo? Ai tempi nessuno lo sapeva.
Dei problemi personali e dei dubbi non si parlava mai, non c'era semplicemente tempo per quello e in ogni caso, c'era una rivoluzione da combattere".
Uno scritto molto interessante per i cultori della band ma che ripercorre il cammino di tanti "rivoluzionari" e le loro (nostre) sconfitte.
Nel giro di sei mesi il movimento punk fu venduto e acquistato.
I controrivoluzionari capitalisti lo uccisero con il denaro.
Il punk degenerò dall'essere una forza di cambiamento per diventare un altro elemento del grande circo mediatico.
Venduto, igienizzato e strangolato il punk diventò un'altra merce sociale, la memoria bruciata di ciò che poteva essere. Non volevamo diventare un' altra serie di vittime del mercato.
Questa volta volevamo che funzionasse".
COSE VARIE
° Ogni giorno mie recensioni italiane su www.radiocoop.it (per cui curo ogni settimana un TG video musicale - vedi pagina FB https://www.facebook.com/RadiocoopTV/).
° Ogni mese varie su CLASSIC ROCK.
° Ogni sabato un video con aggiornamenti musicali sul portale https://www.facebook.com/goodmorninggenova
° Sulle riviste/zines "GIMME DANGER" e "GARAGELAND"
° Periodicamente su "Il Manifesto" e "Vinile".
lunedì, settembre 30, 2024
Settembre 2024. Il meglio del mese
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Il meglio del mese
domenica, settembre 29, 2024
Cretinetti 'zine
In poche e spartanissime copie, il secondo numero (anzi, il numero 1) di Cretinetti 'zine, la fanzine più scrausa del globo terracqueo.
Ovvero un numero monografico sul viaggio a San Francisco, dell'ottobre 2022 dell'autore Diego Curcio.
Il resoconto è non solo divertente e spassoso ma colmo di indirizzi, riferimenti, recensioni di negozi di dischi, ristoranti, luoghi da frequentare e non, annotazioni su quello che San Francisco oggi (molto cara e con homeless e tossici diffusi), concerti, band.
Ovviamente da supportare.
Chi vuole recuperarne una copia: 3,5 euro scrivendo a https://www.facebook.com/diego.curcio
Ovvero un numero monografico sul viaggio a San Francisco, dell'ottobre 2022 dell'autore Diego Curcio.
Il resoconto è non solo divertente e spassoso ma colmo di indirizzi, riferimenti, recensioni di negozi di dischi, ristoranti, luoghi da frequentare e non, annotazioni su quello che San Francisco oggi (molto cara e con homeless e tossici diffusi), concerti, band.
Ovviamente da supportare.
Chi vuole recuperarne una copia: 3,5 euro scrivendo a https://www.facebook.com/diego.curcio
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Riviste
venerdì, settembre 27, 2024
Zoot Money
La recente scomparsa di ZOOT MONEY valente tastierista a fianco di decine di grandi nomi del rock (Animals, Eric Burdon, Peter Green nel grande "The End of the Game", Steve Marriott, Kevin Coyne, Kevin Ayers, Humble Pie, Steve Ellis, Alexis Korner, Mick Taylor, Spencer Davis, Geno Washington, Alvin Lee) ma anche autore di pregevoli album con la sua Zoot Money Big Roll Band, con cui infiammò i locali mod londinesi dal 1961 al 1966.
Trasformatosi negli psichedelici Dantalion's Chariot (con il futuro Police andy Summers alla chitarra) lasciò due ottimi album e una serie di singoli tra cui il favolso "Big Time Operator"
ZOOT MONEY'S BIG ROLL BAND - It Should've Been Me (1965)
La trasposizione in studio di buona parte del repertorio che la band proponeva dal vivo con belle versioni di "The cat" di Jimmy Smith, "I'll go crazy" di James Brown, "Bright Lights Big City" di Jimmy Reed, il cool jazz di "Along Came John" di John Patton. Raffinato e pieno di groove.
ZOOT MONEY'S BIG ROLL BAND - Zoot! (Live at Kook Kleeks) (1966)
ZOOT MONEY'S BIG ROLL BAND - Were you there ? (2000/registrato nel 1966)
"Zoot!" è il secondo album ufficiale della band del 966, registrato dal vivo e ricco di brani di James Brown (un medley di quattro brani più "Mashed potatoes USA") ma con anche rifacimenti riusciti di Otis redding, Impressions e il classico "Barefootin'" di Robert Parker.
Il secondo è riemerso nel 2000 è uno stupendo live con 19 brani registrati nel 1966, che coglie, come "Zott!" al meglio quello che era un concerto della band all'epoca.
Tante cover (da Marvin Gay a Ray Charles), qualche originale ma soprattutto una verve e un' energia comune a pochi.
Zoot Money furoreggia all'organo, alla voce troviamo spesso Herbie Goins, alla chitarra il giovane Andy Summers.
ZOOT MONEY'S BIG ROLL BAND - The best (2012)
Gli eccellenti singoli "A big time operator", "Uncle Willie" e qualche estratto dagli album. Compilation consigliata a chi non vuole addentrarsi più di tanto nella sua discografia.
DANTALIAN'S CHARIOT - Charlot Rising (1996, registrazioni del 1967)
Cambiata pelle e trasformatisi, con il nuovo nome, in perfetti esponenti del nuovo filone psichedelico Zoot Money e Andy Summers incisero l'ottimo singolo "Madman Running Through the Fields"/"Sun Came Bursting Through My Cloud" nel 1967, registrando anche un'altra serie di canzoni, rimaste inedite fino al 1996, quando vennero raccolte in un album, dopo che la EMI ne rifiutò la pubblicazione.
Il materiale è piuttosto prevedibile e riprende tutti i cliché del "genere" (sitar incluso...) ma chi apprezza l'ambito troverà motivo di soddisfazione.
ZOOT MONEY - Transition (1968)
ZOOT MONEY - Welcome to my head (1969)
Impegnato come session man in studio e dal vivo con Eric Burdon and the New Animals e Peter Green e altre collaborazioni, trova il tempo per incidere alcuni album solisti.
"Transition" documenta, come da titolo, il passaggio dal classico rhythm and blues a sonorità più complesse, inclusi brani che finiranno nei Dantalian's Chariot (molte registrazioni sono precedenti).
Discontinuo ma godibile.
"Welcome to my head" guarda più al proto prog, qualche scampolo psichedelico, pop in vari stili. Il problema, oltre a composizioni trascurabili, è la voce, al limite dello stonato, che rende l'ascolto decisamente poco gradevole.
ZOOT MONEY - Mr Money (1980)
Firma per la MPL di Paul McCartney.
L'album indulge in un pop funk impersonale e senza nerbo, purtroppo.
ZOOT MONEY'S BIG ROLL BAND - Full circle (2007)
Riesuma il vecchio marchio per un album live a base di jazz soul raffinatissimo (in pieno stile Georgie Fame), pieno di groove, suonato alla perfezione e molto piacevole.
Trasformatosi negli psichedelici Dantalion's Chariot (con il futuro Police andy Summers alla chitarra) lasciò due ottimi album e una serie di singoli tra cui il favolso "Big Time Operator"
ZOOT MONEY'S BIG ROLL BAND - It Should've Been Me (1965)
La trasposizione in studio di buona parte del repertorio che la band proponeva dal vivo con belle versioni di "The cat" di Jimmy Smith, "I'll go crazy" di James Brown, "Bright Lights Big City" di Jimmy Reed, il cool jazz di "Along Came John" di John Patton. Raffinato e pieno di groove.
ZOOT MONEY'S BIG ROLL BAND - Zoot! (Live at Kook Kleeks) (1966)
ZOOT MONEY'S BIG ROLL BAND - Were you there ? (2000/registrato nel 1966)
"Zoot!" è il secondo album ufficiale della band del 966, registrato dal vivo e ricco di brani di James Brown (un medley di quattro brani più "Mashed potatoes USA") ma con anche rifacimenti riusciti di Otis redding, Impressions e il classico "Barefootin'" di Robert Parker.
Il secondo è riemerso nel 2000 è uno stupendo live con 19 brani registrati nel 1966, che coglie, come "Zott!" al meglio quello che era un concerto della band all'epoca.
Tante cover (da Marvin Gay a Ray Charles), qualche originale ma soprattutto una verve e un' energia comune a pochi.
Zoot Money furoreggia all'organo, alla voce troviamo spesso Herbie Goins, alla chitarra il giovane Andy Summers.
ZOOT MONEY'S BIG ROLL BAND - The best (2012)
Gli eccellenti singoli "A big time operator", "Uncle Willie" e qualche estratto dagli album. Compilation consigliata a chi non vuole addentrarsi più di tanto nella sua discografia.
DANTALIAN'S CHARIOT - Charlot Rising (1996, registrazioni del 1967)
Cambiata pelle e trasformatisi, con il nuovo nome, in perfetti esponenti del nuovo filone psichedelico Zoot Money e Andy Summers incisero l'ottimo singolo "Madman Running Through the Fields"/"Sun Came Bursting Through My Cloud" nel 1967, registrando anche un'altra serie di canzoni, rimaste inedite fino al 1996, quando vennero raccolte in un album, dopo che la EMI ne rifiutò la pubblicazione.
Il materiale è piuttosto prevedibile e riprende tutti i cliché del "genere" (sitar incluso...) ma chi apprezza l'ambito troverà motivo di soddisfazione.
ZOOT MONEY - Transition (1968)
ZOOT MONEY - Welcome to my head (1969)
Impegnato come session man in studio e dal vivo con Eric Burdon and the New Animals e Peter Green e altre collaborazioni, trova il tempo per incidere alcuni album solisti.
"Transition" documenta, come da titolo, il passaggio dal classico rhythm and blues a sonorità più complesse, inclusi brani che finiranno nei Dantalian's Chariot (molte registrazioni sono precedenti).
Discontinuo ma godibile.
"Welcome to my head" guarda più al proto prog, qualche scampolo psichedelico, pop in vari stili. Il problema, oltre a composizioni trascurabili, è la voce, al limite dello stonato, che rende l'ascolto decisamente poco gradevole.
ZOOT MONEY - Mr Money (1980)
Firma per la MPL di Paul McCartney.
L'album indulge in un pop funk impersonale e senza nerbo, purtroppo.
ZOOT MONEY'S BIG ROLL BAND - Full circle (2007)
Riesuma il vecchio marchio per un album live a base di jazz soul raffinatissimo (in pieno stile Georgie Fame), pieno di groove, suonato alla perfezione e molto piacevole.
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Get Back
giovedì, settembre 26, 2024
DJ Boboss
Paul Mwangi, in arte DJ Boboss, stupisce le strade di Nairobi, Kenya, con i suoi spettacolari DJ set, creati con una consolle autocostruita, dai tratti geniali.
Tappi colorati, pezzi di bollitori, fili vari, manopole, scatole di legno, assemblate con cura e follìa, producono musica.
Una passione nata da piccolissimo quando si trovò al cospetto di una radio:
"Volevo sapere quanto sono piccole quelle persone che parlavano da quella radio".
Quando si ruppe, non avendo suo padre soldi per comprarne un'altra, Paul decise di smontarla e ripararla a modo suo.
Diventa un esperto riparatore di radio del circondario.
Le smonta, ricollega pezzi, li sostituisce con quello che trova.
E funzionano...
Costruisce una "radio privata" che trasmette all'interno del suo villaggio, a Meru, nel centro del Kenya.
Spesso osteggiato dalla popolazione che lo considera una specie di mago.
"Pensavano fossi pazzo perché facevo cose straordinarie. Dicevano che questo tizio non è nel mondo in cui viviamo. È la sua mente che gli mostra queste cose".
Viene spedito perfino in un ospedale psichiatrico e subisce trattamenti piuttosto pesanti.
Fugge nella capitale, a Nairobi, dove trova finalmente una sua identità, libero di improvvisare i suoi Dj set con l'attrezzatura autocostruita, prima nel suo quartiere di Juya Town, poi in tutta la città dove la sua fama cresce progressivamente.
Mischia tantissime influenze della tradizione africana, virate in chiave dancehall e reggae con bassi potenti, synth e fiati e melodie avvolgenti.
Un artista unico, originale, creativo.
https://www.youtube.com/watch?v=uZxwMWViw7I
https://www.youtube.com/watch?v=rhFrQpkBR50
Fonte: https://pan-african-music.com/en/dj-boboss/
Tappi colorati, pezzi di bollitori, fili vari, manopole, scatole di legno, assemblate con cura e follìa, producono musica.
Una passione nata da piccolissimo quando si trovò al cospetto di una radio:
"Volevo sapere quanto sono piccole quelle persone che parlavano da quella radio".
Quando si ruppe, non avendo suo padre soldi per comprarne un'altra, Paul decise di smontarla e ripararla a modo suo.
Diventa un esperto riparatore di radio del circondario.
Le smonta, ricollega pezzi, li sostituisce con quello che trova.
E funzionano...
Costruisce una "radio privata" che trasmette all'interno del suo villaggio, a Meru, nel centro del Kenya.
Spesso osteggiato dalla popolazione che lo considera una specie di mago.
"Pensavano fossi pazzo perché facevo cose straordinarie. Dicevano che questo tizio non è nel mondo in cui viviamo. È la sua mente che gli mostra queste cose".
Viene spedito perfino in un ospedale psichiatrico e subisce trattamenti piuttosto pesanti.
Fugge nella capitale, a Nairobi, dove trova finalmente una sua identità, libero di improvvisare i suoi Dj set con l'attrezzatura autocostruita, prima nel suo quartiere di Juya Town, poi in tutta la città dove la sua fama cresce progressivamente.
Mischia tantissime influenze della tradizione africana, virate in chiave dancehall e reggae con bassi potenti, synth e fiati e melodie avvolgenti.
Un artista unico, originale, creativo.
https://www.youtube.com/watch?v=uZxwMWViw7I
https://www.youtube.com/watch?v=rhFrQpkBR50
Fonte: https://pan-african-music.com/en/dj-boboss/
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Sounds of Africa
mercoledì, settembre 25, 2024
Martin "Sticky' Round - Scooterboys. The lost tribe
La scena "Scooterboy" fu una diretta filiazione da quella Mod, nei primi anni Ottanta, per assumere progressivamente (in Gran Bretagna) una dimensione molto personale che dalle origini si allontanava drasticamente.
Come descrive bene il libro:
"Per i Mods lo scooter è un accessorio.
Per gli Scooterboys la classica Vespa o Lambretta è essenziale".
Da un certo punto in poi gli Scooterboys si affrancarono dalla cultura Mod, assorbirono, soprattutto esteticamente, elementi dagli skinhead, perfino dagli psychobilly e rocker.
Conservarono l'amore per soul, northern soul e ska ma non mancavano nelle serate musiche di ben altro tipo.
La disamina del libro è molto interessante, partendo dalle primigenie passioni degli inglesi per lo scooter, arrivando a un elemento essenziale per comprendere l'uso del mezzo negli anni Ottanta Tatcheriani di disoccupazione e devastazione sociale: gli scooter erano economici.
Se ne trovavano usati (seppur mal ridotti) a pochi spiccioli, la miscela era particolarmente bassa di prezzo, non c'erano ancora controlli sull'uso dipendenti dall'età o dall'uso del casco.
Si sviluppò così una scena di fanatici dello scooter, i raduni diventarono affollatissimi, l'estetica era l'ultimo dei problemi (l'importante era arrivare con il proprio mezzo, banditi e sbeffeggiati coloro che lo trasportavano in loco su un furgone).
I mezzi divennero sempre più personalizzati, talvolta al limite del grottesco.
L'estensione a quello che era un culto riservato a pochi, alla massa generò sfruttamento economico da parte di alcuni, violenza ai raduni, attenzionamento delle autorità, rivalità e tanti altri aspetti deprecabili.
Il fenomeno si è successivamente espanso in tutto il mondo (in Indonesia in particolare), pur se molto più circoscritto e differente dagli anni Ottanta, rimanendo però sempre un ambito "segreto" e di pertinenza di pochi appassionati, costantemente lontani dall'attenzione dei media.
Il libro è ricco di foto a colori, bellissima copertina rigida, molto (auto)ironico e divertente, pieno di aneddoti.
Consigliatissimo a chi vuole aggiungere un ulteriore tassello alla conoscenza delle (cosiddette) sottoculture.
Belle le parole di Mani degli Stones Roses e Primal Scream (scooterista di prima generazione che proprio nella scena incontrò il cantante Ian Brown e il chitarrista John Squire):
"Per me gli Scooterboys sono persone dimenticate.
Tutti ricordano i Mod e i Rocker ma noi abbiamo portato gli scooter a un altro livello di personalizzazione.
Noi abbiamo sempre riconosciuto l'eredità dai Mod ma eravamo più dei Casual strdaioli.
Il nostro giro non era strettamente Mod ma un mix di skinehead, football casual e segaioli."
Martin "Sticky' Round
Scooterboys. The lost tribe
192 pagine
Carpet Bombing Culture
Prezzo ordinario del 2019 16.95 sterline (venduto in varie piattaforme a prezzi più elevati)
Come descrive bene il libro:
"Per i Mods lo scooter è un accessorio.
Per gli Scooterboys la classica Vespa o Lambretta è essenziale".
Da un certo punto in poi gli Scooterboys si affrancarono dalla cultura Mod, assorbirono, soprattutto esteticamente, elementi dagli skinhead, perfino dagli psychobilly e rocker.
Conservarono l'amore per soul, northern soul e ska ma non mancavano nelle serate musiche di ben altro tipo.
La disamina del libro è molto interessante, partendo dalle primigenie passioni degli inglesi per lo scooter, arrivando a un elemento essenziale per comprendere l'uso del mezzo negli anni Ottanta Tatcheriani di disoccupazione e devastazione sociale: gli scooter erano economici.
Se ne trovavano usati (seppur mal ridotti) a pochi spiccioli, la miscela era particolarmente bassa di prezzo, non c'erano ancora controlli sull'uso dipendenti dall'età o dall'uso del casco.
Si sviluppò così una scena di fanatici dello scooter, i raduni diventarono affollatissimi, l'estetica era l'ultimo dei problemi (l'importante era arrivare con il proprio mezzo, banditi e sbeffeggiati coloro che lo trasportavano in loco su un furgone).
I mezzi divennero sempre più personalizzati, talvolta al limite del grottesco.
L'estensione a quello che era un culto riservato a pochi, alla massa generò sfruttamento economico da parte di alcuni, violenza ai raduni, attenzionamento delle autorità, rivalità e tanti altri aspetti deprecabili.
Il fenomeno si è successivamente espanso in tutto il mondo (in Indonesia in particolare), pur se molto più circoscritto e differente dagli anni Ottanta, rimanendo però sempre un ambito "segreto" e di pertinenza di pochi appassionati, costantemente lontani dall'attenzione dei media.
Il libro è ricco di foto a colori, bellissima copertina rigida, molto (auto)ironico e divertente, pieno di aneddoti.
Consigliatissimo a chi vuole aggiungere un ulteriore tassello alla conoscenza delle (cosiddette) sottoculture.
Belle le parole di Mani degli Stones Roses e Primal Scream (scooterista di prima generazione che proprio nella scena incontrò il cantante Ian Brown e il chitarrista John Squire):
"Per me gli Scooterboys sono persone dimenticate.
Tutti ricordano i Mod e i Rocker ma noi abbiamo portato gli scooter a un altro livello di personalizzazione.
Noi abbiamo sempre riconosciuto l'eredità dai Mod ma eravamo più dei Casual strdaioli.
Il nostro giro non era strettamente Mod ma un mix di skinehead, football casual e segaioli."
Martin "Sticky' Round
Scooterboys. The lost tribe
192 pagine
Carpet Bombing Culture
Prezzo ordinario del 2019 16.95 sterline (venduto in varie piattaforme a prezzi più elevati)
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Libri
martedì, settembre 24, 2024
The Empty Hearts
Si è sempre parlato poco di una band più che eccellente come gli EMPTY HEARTS.
Fondata nel 2013 da Andy Babiuk, bassista dei Chesterfiled Kings, Clem Burke batterista dei Blondie , Elliot Easton, chitarrsita dei Cars e Wally Palmar dei Romantics. Nella band alle tastiere e Hammond anche Ian McLagan (ex Small Faces e Faces), fino alla sua scomparsa, nel 2014.
L'esordio omonimo del 2014 è un potentissimo concentrato di garage, power pop, Kinks, Who, Stones, un po' di glam e tutto lo scibile più ruvido dei Sixties.
Stessa formula per "Second Album" del 2020 (con tanto di ospitata di Ringo Starr in un brano), tanta energia e brani (tutti autografi) dal suono garage beat, suonati alla perfezione.
La band è in atrtività, attendiamo con impazienza un nuovo lavoro.
90 Miles An Hour Down A Dead End Street
https://www.youtube.com/watch?v=agzc3_ZzAIA
Run and Hide From You
https://www.youtube.com/watch?v=qc6BXhjL3Ao
The World's Gone Insane
https://www.youtube.com/watch?v=TRsDzAewxcA
Jonathan Harker's Journal
https://www.youtube.com/watch?v=-DTxN1yjyOA
https://www.facebook.com/Theemptyheartsband/
Fondata nel 2013 da Andy Babiuk, bassista dei Chesterfiled Kings, Clem Burke batterista dei Blondie , Elliot Easton, chitarrsita dei Cars e Wally Palmar dei Romantics. Nella band alle tastiere e Hammond anche Ian McLagan (ex Small Faces e Faces), fino alla sua scomparsa, nel 2014.
L'esordio omonimo del 2014 è un potentissimo concentrato di garage, power pop, Kinks, Who, Stones, un po' di glam e tutto lo scibile più ruvido dei Sixties.
Stessa formula per "Second Album" del 2020 (con tanto di ospitata di Ringo Starr in un brano), tanta energia e brani (tutti autografi) dal suono garage beat, suonati alla perfezione.
La band è in atrtività, attendiamo con impazienza un nuovo lavoro.
90 Miles An Hour Down A Dead End Street
https://www.youtube.com/watch?v=agzc3_ZzAIA
Run and Hide From You
https://www.youtube.com/watch?v=qc6BXhjL3Ao
The World's Gone Insane
https://www.youtube.com/watch?v=TRsDzAewxcA
Jonathan Harker's Journal
https://www.youtube.com/watch?v=-DTxN1yjyOA
https://www.facebook.com/Theemptyheartsband/
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Sottovalutati
lunedì, settembre 23, 2024
Stefano Gallone / Joyello Triolo - Easter egg e dischi
Easter Egg sono quei messaggi criptati, lasciati dagli autori nei dischi (ma non solo) che solo i fan e i cultori più appassionati riescono a cogliere.
Nella (lunga) storia della musica rock, come il libro dimostra, ce ne sono in abbondanza.
I Beatles si divertirono tantissimo a spargerne nei loro album (vedi "Glass Onion" ma soprattutto la vicenda del "Paul is dead" su cui giocarono parecchio).
Finito il sogno, Paul e John se ne mandarono di più o meno espliciti nei rispettivi dischi.
Anche i Led Zeppelin con le manie di occultismo non si sono risparmiati in tal senso e nemmeno i Pink Floyd sono stati parchi.
Il libro è molto divertente e appassionante, nel svelarci una lunga serie di particolari intriganti che abbracciano uno scibile sonoro e artistico ampissimo, da James Brown ad Aphex Twins, da Bob Dylan agli Iron Maiden, da Radiohead a Frank Zappa.
Chissà se c'é qualcosa anche nel disco che state ascoltando ora....
Stefano Gallone / Joyello Triolo
Easter egg e dischi
Arcana Edizioni
184 pagine
16 euro
Nella (lunga) storia della musica rock, come il libro dimostra, ce ne sono in abbondanza.
I Beatles si divertirono tantissimo a spargerne nei loro album (vedi "Glass Onion" ma soprattutto la vicenda del "Paul is dead" su cui giocarono parecchio).
Finito il sogno, Paul e John se ne mandarono di più o meno espliciti nei rispettivi dischi.
Anche i Led Zeppelin con le manie di occultismo non si sono risparmiati in tal senso e nemmeno i Pink Floyd sono stati parchi.
Il libro è molto divertente e appassionante, nel svelarci una lunga serie di particolari intriganti che abbracciano uno scibile sonoro e artistico ampissimo, da James Brown ad Aphex Twins, da Bob Dylan agli Iron Maiden, da Radiohead a Frank Zappa.
Chissà se c'é qualcosa anche nel disco che state ascoltando ora....
Stefano Gallone / Joyello Triolo
Easter egg e dischi
Arcana Edizioni
184 pagine
16 euro
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Libri
venerdì, settembre 20, 2024
Intervista a Marco Balestrino - Klasse Kriminale
Dopo l'uscita dell'eccellente nuovo album "Belin, dei pazzi" un'interevista a Marco Balestrino, voce dei KLASSE KRIMINALE (grazie alla gentile intercessione di Andrea Mazzarello) era sicuramente interessante.
I KK continuano a suonare, registrare, pubblicare dischi. Che ruolo ha ancora una band come la vostra nella società odierna e tra i giovani?
Si la cosa appare un po' strana e fuori tempo massimo.
Se penso che quando è arrivato il Punk il principale messaggio era NO FUTURE e che tutto quello che c’era prima era vecchio, noioso e che band come gli Who, i cui componenti in quei giorni avevano la metà degli anni che io ho oggi, erano considerati dei vecchi matusa.
I protagonisti dell’Oi! erano dei diciottenni, ricordo che sulla cassetta dei Last Resort c’era stampato l’avvertimento: “Cert XXX not to be played to anyone over 30”.
Se ti ricordi la parola Kids era presente ovunque, il movimento era in mano ai ragazzini.
Oggi tutto questo non sembra più attuabile, il Punk è entrato tra i generi e i gusti di normali consumatori di musica.
Oggi non esistono più i kids, esistono gli acquirenti e il mercato ha creato prodotti per ognuno di noi, ci hanno inculcato che è possibile essere ogni cosa, come la Barbie You can be anything…
Il mondo del 1977 e dell’82 non esiste più oggi è tutto totalmente cambiato trasversalmente, in quegli anni rasarsi i capelli, ascoltare Punk, indossare un parka o un chiodo era una scelta ben precisa ed eravamo consapevoli che non era un gioco o una moda, se sbagliavi strada o quartieri potevi tornare a casa non intero o non tornarci proprio.
Credevamo! ed eravamo pronti a difendere il nostro movimento, la nostra tribù, tutto questo era una missione, una fede.
Non eravamo differenti dai nostri fratelli maggiori che nel decennio precedente avevano formato bande di quartiere, piccole associazioni a delinquere o erano finiti in cellule terroristiche.
Solo che noi avevamo caratterizzato la nostra gang di ragazzini con un preciso tipo di suono e stile e le nostre armi erano solo delle chitarre scordate e distorte.
Ma la cosa pazzesca che quello che accadeva a una manciata di ragazzini della provincia italiane in parallelo stava accadendo in tutto il mondo.
Oggi mette male far capire certi atteggiamenti che sembrano esasperati, senza senso o ragione… eravamo solo ragazzini alla ricerca di un’identità in un mondo che stava cambiando.
La storia dei KK è caratterizzata dalle mie scelte che sono andate oltre la semplice passione musicale, forse in certi momenti è stata anche un’ossessione visto che sono ancora qui, dopo più di quarant’anni, a strimpellare canzoni.
Che ruolo hanno i KK oggi? bella domanda!
Come dico in” Vico dei Ragazzi” il viaggio è lungo ma non è ancora finito. Le sorprese che ci riserva questo mondo moderno sembrano non finire mai pensa alla pestilenza mondiale che ha paralizzato le nostre vite qualche anno fa, pensa alla politica senza soluzioni che fa parlare solo la pancia, pensa a una guerra che si può raggiungere in un paio di giorni in macchina, il consumismo, l’economia mondiale, la finanza direi che ci è sfuggito tutto di mano e il futuro per i nostri figli è sempre più incerto.
Sono consapevole che la Musica come la Politica non hanno più la forza e il coinvolgimento che avevano negli anni 60 o 70, ma questo non è un buon motivo per smettere di sognare.
Il Punk e tutto ciò che ne è derivato si avvicina al mezzo secolo di vita.
Secondo te quanto ha influito in Italia tutta quella scena (da cui è poi partita quella Skin, Mod, New Wave, etc)?
Ha in qualche modo scalfito la nostra società?
Molte delle migliaia di persone che ne hanno fatto parte hanno una vita profondamente diversa ma mi sembra che solo in Gran Bretagna quelle realtà siano diventate “cultura” mentre da noi siano rimaste comunque in una nicchia.
Sembrerebbe roba da museo e da nostalgici, onestamente non so quanto in UK sia diventata “cultura” per tutti e da troppo tempo che non vado oltre Manica, ma le ultime volte che ci sono andato ho notato che quel sapore particolare che si respirava negli anni ’80 non c’è più.
London Town mi sembra ormai una città come un'altra, una città globalizzata come Parigi, Berlino o Milano, stesse catene di franchising, stessi colori, stessi toni, stessi prodotti e ahimè ho riscontrato una perdita culturale, di stile e una politica di pancia della serie tutto il mondo è paese.
Sicuramente in Inghilterra il Punk e tutto il resto sono stati un fenomeno spontaneo mentre in Italia puri elementi d’importazione. Qui da noi sono arrivati come mode anche se c’è stato chi gli ha dedicato anima e corpo.
Quello che è restato è quello che la società ha potuto monetizzare: l’estetica e il prodotto da Amazon.
D’altronde quando un fenomeno è stato tanto dirompente l’unico modo per fermarlo è l’eroina o addomesticarlo e renderlo moda (vedi calciatori con la cresta, signore tatuate con capelli colorati).
Ritieni che queste realtà “sottoculturali” finiranno progressivamente con noi che ne fummo/siamo protagonisti? O intravedi un ricambio?
Quello che abbiamo vissuto noi finisce sicuramente con la nostra generazione, ogni generazione ha la sua storia e un disco Punk preferito che sia più distorto o più addomesticato, che magari noi old school non capiamo.
Scegliere il Punk oggi forse non è più un’urgenza, una via d’uscita, un a way of life ma una scelta di estetica, di musica, un vintage relativamente alternativo.
Non c’è dirompenza, nessuno vuol fare Borstal Breakout, ognuno sta nella sua bolla, cura la sua immagine, condivide i self sui social, ma mi dà l’idea che sia tanto fumo e poco arrosto.
Negli anni Ottanta c’era molta violenza legata al giro sottoculturale italiano e non solo. La storia ha dimostrato che non era una prerogativa “nostra”. Ritroviamo le stesse dinamiche nelle attuali giovani generazioni, anche in maniera più efferata.
La storia dell’umanità è una storia di violenza e disagio da sempre.
Abbiamo un Cristo inchiodato al legno e lasciato a crepare sotto il sole esposto in ogni aula scolastica della nazione.
La violenza ce l’abbiamo dentro.
Quello che è brutto e angosciante di questi giorni è la violenza fine a sé stessa ripresa e condivisa come trofeo sui social.
“Belin, Dei Pazzi!” è un’operazione di grande spessore. Ridare vita a brani scomparsi. Come è nata l’idea?
L’idea nasce con l’album “Vico dei Ragazzi”, in “Prole Rock” cito già i local heroes, che per un attimo terrorizzarono la provincia, che sono andato a rintracciare per questo disco. L’idea di fondo era quella di ritrovare quel sound delle nostre generazioni che si sta sempre più annacquando e che io non trovo nei dischi di oggi, neanche di band come Cock Sparrer.
Abbiamo recuperato un pugno di canzoni della scena in cui sono cresciuto, una sorta di archeologia musicale, un vero guitars clash!
Il destino ci ha fatto registrare l’album al “Vecchio Son” di Bologna gestito da Steno.
I Nabat negli anni 80 avevano Tiziano WCK che li aiutava come manager e come sai anche lui era di Savona ed eravamo molto amici. Giulio Farinelli che aveva creato il suono di “Vico dei Ragazzi” non poteva mancare, ci siamo ritrovati tutti al Vecchio Son ed abbiamo alzato il volume al massimo.
Come è stato accolto l’album dai diretti interessati e dal pubblico?
Per il momento c’è un buon riscontro, qualche vecchio kids si è commosso, ma non farò nomi. Franco degli U-Boot continua a suonare con noi alla seconda chitarra.
Abbiamo quasi esaurito i Cd, vediamo come andranno il vinile, che esce il 4 ottobre, e i due singoli in uscita sulle piattaforme digitali.
Non vorrei però che sembrasse un’operazione nostalgica, qui siamo tutti gasati, compresi i diretti interessati pronti a fare ancora casino.
I KK continuano a suonare, registrare, pubblicare dischi. Che ruolo ha ancora una band come la vostra nella società odierna e tra i giovani?
Si la cosa appare un po' strana e fuori tempo massimo.
Se penso che quando è arrivato il Punk il principale messaggio era NO FUTURE e che tutto quello che c’era prima era vecchio, noioso e che band come gli Who, i cui componenti in quei giorni avevano la metà degli anni che io ho oggi, erano considerati dei vecchi matusa.
I protagonisti dell’Oi! erano dei diciottenni, ricordo che sulla cassetta dei Last Resort c’era stampato l’avvertimento: “Cert XXX not to be played to anyone over 30”.
Se ti ricordi la parola Kids era presente ovunque, il movimento era in mano ai ragazzini.
Oggi tutto questo non sembra più attuabile, il Punk è entrato tra i generi e i gusti di normali consumatori di musica.
Oggi non esistono più i kids, esistono gli acquirenti e il mercato ha creato prodotti per ognuno di noi, ci hanno inculcato che è possibile essere ogni cosa, come la Barbie You can be anything…
Il mondo del 1977 e dell’82 non esiste più oggi è tutto totalmente cambiato trasversalmente, in quegli anni rasarsi i capelli, ascoltare Punk, indossare un parka o un chiodo era una scelta ben precisa ed eravamo consapevoli che non era un gioco o una moda, se sbagliavi strada o quartieri potevi tornare a casa non intero o non tornarci proprio.
Credevamo! ed eravamo pronti a difendere il nostro movimento, la nostra tribù, tutto questo era una missione, una fede.
Non eravamo differenti dai nostri fratelli maggiori che nel decennio precedente avevano formato bande di quartiere, piccole associazioni a delinquere o erano finiti in cellule terroristiche.
Solo che noi avevamo caratterizzato la nostra gang di ragazzini con un preciso tipo di suono e stile e le nostre armi erano solo delle chitarre scordate e distorte.
Ma la cosa pazzesca che quello che accadeva a una manciata di ragazzini della provincia italiane in parallelo stava accadendo in tutto il mondo.
Oggi mette male far capire certi atteggiamenti che sembrano esasperati, senza senso o ragione… eravamo solo ragazzini alla ricerca di un’identità in un mondo che stava cambiando.
La storia dei KK è caratterizzata dalle mie scelte che sono andate oltre la semplice passione musicale, forse in certi momenti è stata anche un’ossessione visto che sono ancora qui, dopo più di quarant’anni, a strimpellare canzoni.
Che ruolo hanno i KK oggi? bella domanda!
Come dico in” Vico dei Ragazzi” il viaggio è lungo ma non è ancora finito. Le sorprese che ci riserva questo mondo moderno sembrano non finire mai pensa alla pestilenza mondiale che ha paralizzato le nostre vite qualche anno fa, pensa alla politica senza soluzioni che fa parlare solo la pancia, pensa a una guerra che si può raggiungere in un paio di giorni in macchina, il consumismo, l’economia mondiale, la finanza direi che ci è sfuggito tutto di mano e il futuro per i nostri figli è sempre più incerto.
Sono consapevole che la Musica come la Politica non hanno più la forza e il coinvolgimento che avevano negli anni 60 o 70, ma questo non è un buon motivo per smettere di sognare.
Il Punk e tutto ciò che ne è derivato si avvicina al mezzo secolo di vita.
Secondo te quanto ha influito in Italia tutta quella scena (da cui è poi partita quella Skin, Mod, New Wave, etc)?
Ha in qualche modo scalfito la nostra società?
Molte delle migliaia di persone che ne hanno fatto parte hanno una vita profondamente diversa ma mi sembra che solo in Gran Bretagna quelle realtà siano diventate “cultura” mentre da noi siano rimaste comunque in una nicchia.
Sembrerebbe roba da museo e da nostalgici, onestamente non so quanto in UK sia diventata “cultura” per tutti e da troppo tempo che non vado oltre Manica, ma le ultime volte che ci sono andato ho notato che quel sapore particolare che si respirava negli anni ’80 non c’è più.
London Town mi sembra ormai una città come un'altra, una città globalizzata come Parigi, Berlino o Milano, stesse catene di franchising, stessi colori, stessi toni, stessi prodotti e ahimè ho riscontrato una perdita culturale, di stile e una politica di pancia della serie tutto il mondo è paese.
Sicuramente in Inghilterra il Punk e tutto il resto sono stati un fenomeno spontaneo mentre in Italia puri elementi d’importazione. Qui da noi sono arrivati come mode anche se c’è stato chi gli ha dedicato anima e corpo.
Quello che è restato è quello che la società ha potuto monetizzare: l’estetica e il prodotto da Amazon.
D’altronde quando un fenomeno è stato tanto dirompente l’unico modo per fermarlo è l’eroina o addomesticarlo e renderlo moda (vedi calciatori con la cresta, signore tatuate con capelli colorati).
Ritieni che queste realtà “sottoculturali” finiranno progressivamente con noi che ne fummo/siamo protagonisti? O intravedi un ricambio?
Quello che abbiamo vissuto noi finisce sicuramente con la nostra generazione, ogni generazione ha la sua storia e un disco Punk preferito che sia più distorto o più addomesticato, che magari noi old school non capiamo.
Scegliere il Punk oggi forse non è più un’urgenza, una via d’uscita, un a way of life ma una scelta di estetica, di musica, un vintage relativamente alternativo.
Non c’è dirompenza, nessuno vuol fare Borstal Breakout, ognuno sta nella sua bolla, cura la sua immagine, condivide i self sui social, ma mi dà l’idea che sia tanto fumo e poco arrosto.
Negli anni Ottanta c’era molta violenza legata al giro sottoculturale italiano e non solo. La storia ha dimostrato che non era una prerogativa “nostra”. Ritroviamo le stesse dinamiche nelle attuali giovani generazioni, anche in maniera più efferata.
La storia dell’umanità è una storia di violenza e disagio da sempre.
Abbiamo un Cristo inchiodato al legno e lasciato a crepare sotto il sole esposto in ogni aula scolastica della nazione.
La violenza ce l’abbiamo dentro.
Quello che è brutto e angosciante di questi giorni è la violenza fine a sé stessa ripresa e condivisa come trofeo sui social.
“Belin, Dei Pazzi!” è un’operazione di grande spessore. Ridare vita a brani scomparsi. Come è nata l’idea?
L’idea nasce con l’album “Vico dei Ragazzi”, in “Prole Rock” cito già i local heroes, che per un attimo terrorizzarono la provincia, che sono andato a rintracciare per questo disco. L’idea di fondo era quella di ritrovare quel sound delle nostre generazioni che si sta sempre più annacquando e che io non trovo nei dischi di oggi, neanche di band come Cock Sparrer.
Abbiamo recuperato un pugno di canzoni della scena in cui sono cresciuto, una sorta di archeologia musicale, un vero guitars clash!
Il destino ci ha fatto registrare l’album al “Vecchio Son” di Bologna gestito da Steno.
I Nabat negli anni 80 avevano Tiziano WCK che li aiutava come manager e come sai anche lui era di Savona ed eravamo molto amici. Giulio Farinelli che aveva creato il suono di “Vico dei Ragazzi” non poteva mancare, ci siamo ritrovati tutti al Vecchio Son ed abbiamo alzato il volume al massimo.
Come è stato accolto l’album dai diretti interessati e dal pubblico?
Per il momento c’è un buon riscontro, qualche vecchio kids si è commosso, ma non farò nomi. Franco degli U-Boot continua a suonare con noi alla seconda chitarra.
Abbiamo quasi esaurito i Cd, vediamo come andranno il vinile, che esce il 4 ottobre, e i due singoli in uscita sulle piattaforme digitali.
Non vorrei però che sembrasse un’operazione nostalgica, qui siamo tutti gasati, compresi i diretti interessati pronti a fare ancora casino.
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Le interviste
giovedì, settembre 19, 2024
Ronnie Jones - Le 9 vite di Mr. Jones - Il documentario
Il documentario su YouTube:
https://www.youtube.com/watch?v=EqS6jkPGzyY
Appassionante documentario con protagonista RONNIE JONES, cantante, presentatore, DJ, conduttore, mai troppo esaltato ma con una carriera favolosa.
Notato da Sam Cooke già a 12 anni per la sua voce, si trasferisce nel 1960 a Londra dove frequenta la scena mod al "Flamingo Club", incontra e collabora con Alexis Korner a cui presenta Mick Jagger.
Canta in esclusiva a una festa privata per i quattro Beatles, diventa amico di Jimi Hendrix, Eric Burdon, Eric Clapton.
Sbarca in Italia al club Altromondo di Rimini e al Titan di Roma per diventare poi protagonista della versione nostrana del musical "Hair" nel 1970, per quasi un anno in tour nella Penisola.
Il prossimo passo è l'attività da DJ, per approdare poi in radio a Rai Stereo Uno per cinque anni.
"Per caso, come tutta la mia vita, per caso" arriva negli anni Ottanta a Mediaset per presentare il fortunato programma musicale "Popcorn".
Trova anche il successo con la disco music di "Soul Sister" e il rap di "Let's all dance" con i Band Of Jocks.
Negli anni 2000 torna alle radici blues, soul e rhythm and blues.
A 87 anni continua a cantare con totale passione.
Il documentario, minimale ma efficace, è una confessione autobiografica di 40 minuti, piena di serenità e grandissima vitalità, aneddoti e preziose immagini d'epoca.
Jam TV
presenta
"Le 9 vite di Mr. Jones"
Interviste: Ezio Guaitamacchi
In redazione: Jessica Testa
Regia:
Moreno Pirovano
Ezio Guaitamacchi
Editing:
Marco Mussi
Riprese:
Marco Mussi
Marco Dazzi
Moreno Pirovano
Post Produzione:
Carlo Carboni
Giorgia Pace
Producer:
Michela Colombo
Claudio Confalonieri
Una produzione Zampediverse
https://www.youtube.com/watch?v=EqS6jkPGzyY
Appassionante documentario con protagonista RONNIE JONES, cantante, presentatore, DJ, conduttore, mai troppo esaltato ma con una carriera favolosa.
Notato da Sam Cooke già a 12 anni per la sua voce, si trasferisce nel 1960 a Londra dove frequenta la scena mod al "Flamingo Club", incontra e collabora con Alexis Korner a cui presenta Mick Jagger.
Canta in esclusiva a una festa privata per i quattro Beatles, diventa amico di Jimi Hendrix, Eric Burdon, Eric Clapton.
Sbarca in Italia al club Altromondo di Rimini e al Titan di Roma per diventare poi protagonista della versione nostrana del musical "Hair" nel 1970, per quasi un anno in tour nella Penisola.
Il prossimo passo è l'attività da DJ, per approdare poi in radio a Rai Stereo Uno per cinque anni.
"Per caso, come tutta la mia vita, per caso" arriva negli anni Ottanta a Mediaset per presentare il fortunato programma musicale "Popcorn".
Trova anche il successo con la disco music di "Soul Sister" e il rap di "Let's all dance" con i Band Of Jocks.
Negli anni 2000 torna alle radici blues, soul e rhythm and blues.
A 87 anni continua a cantare con totale passione.
Il documentario, minimale ma efficace, è una confessione autobiografica di 40 minuti, piena di serenità e grandissima vitalità, aneddoti e preziose immagini d'epoca.
Jam TV
presenta
"Le 9 vite di Mr. Jones"
Interviste: Ezio Guaitamacchi
In redazione: Jessica Testa
Regia:
Moreno Pirovano
Ezio Guaitamacchi
Editing:
Marco Mussi
Riprese:
Marco Mussi
Marco Dazzi
Moreno Pirovano
Post Produzione:
Carlo Carboni
Giorgia Pace
Producer:
Michela Colombo
Claudio Confalonieri
Una produzione Zampediverse
Etichette:
Film
mercoledì, settembre 18, 2024
George Harrison
Riprendo oggi l'articolo che ho dedicato a GEORGE HARRISON nel numero di sabato di "Alias" de "Il Manifesto".
La figura dei Beatles ha da ormai lungo tempo travalicato e trasceso quella di un semplice gruppo pop rock, assumendo il ruolo di “opera d'arte del Novecento”, per l' importanza che ha rivestito non solo nella musica ma anche nella società.
Proprio come molte opere d'arte, conosciute in tutto il mondo, in relativamente pochi si sono addentrati nei particolari della vicenda, cronologicamente e a livello di contenuti, rimanendo sulla superficie, fatta delle canzoni famose e delle nozioni abituali.
Ad esempio, nella vulgata, la figura di George Harrison è limitata all'immagine del mistico, tranquillo, in costante secondo piano, travolto dalle figure di John e Paul.
Il recente libro “Behind the locked door” di Graeme Thomson (https://tonyface.blogspot.com/2024/07/graeme-thomson-george-harrison-behind.html ), apre, in 500 pagine, una visuale ben più ampia e allo stesso tempo contraddittoria sulla figura del “Beatle quieto”, che tanto tranquillo non lo è mai stato, anzi, e sul cui profilo non mancano zone d'ombra perlomeno sgradevoli, per usare un eufemismo.
George era figlio della cosiddetta working class di Liverpool, apparentemente timido, ma che in realtà non esitava a dispensare battute perfide e cattive.
Il produttore Glyn Johns lo descrisse impietosamente:
"Mi ha sempre destato qualche perplessità il fatto che il suo comportamento non fosse poi così tanto aderente ai valori che professava. Non era sempre una persona amorevole. Aveva un lato parecchio spiacevole.
A volte era difficile capirlo: non era una passeggiata. Se dicevi qualcosa nel modo sbagliato se la prendeva anche se dal tuo punto di vista era un'uscita innocente.
Diciamo che ti rimetteva al tuo posto."
Contrariamente agli altri, pur giovanissimo (nato nel 1943, negli anni dei Beatles aveva da poco superato i vent'anni), era l'unico attento all'aspetto economico che per la band rimaneva in realtà in un costante stato di anarchia, con spese folli e, soprattutto verso la fine della loro storia, tantissimi sfruttatori che attingevano in abbondanza dalle loro finanze.
Incominciò a comporre seriamente per il gruppo dopo qualche anno e in seguito a qualche discreto e riuscito tentativo cercò ma non trovò mai spazio tra il duo magico Lennon/McCartney, che non di rado ascoltavano le sue proposte con distacco e sufficienza, per poi rifiutarne buona parte.
“Non si rendevano conto di chi ero e questo era uno dei principali difetti di John e Paul. Erano così impegnati a interpretare le parti di John e Paul che non prestavano attenzione alle persone intorno a loro".
Da qui un progressivo scontento nel rimanere nella “prigione” dorata dei Beatles a cui ha comunque contribuito con alcuni dei migliori brani nella storia della band, da “While My Guitar Gently Weeps” a “Here Comes The Sun” e soprattutto “Something”.
Addirittura George giunse a ricordare, più volte, gli anni con i Fab Four come "una storia dell'orrore, terribile, folle, un vero incubo, un'esperienza caratterizzata da pazzia, panico, paranoia".
Non a caso fu lui il fautore dell'allontanamento dai concerti della band, nel 1966, una sorta di imposizione, a cui gli altri comunque aderirono con piacere.
Con l'album “Wonderwall” del 1968, colonna sonora dell'omonimo film, fu il primo a cercare una via solista e se ne andò bruscamente dal gruppo durante le registrazioni del film/disco “Let It Be”, per poi tornare, seppure un po' controvoglia.
Riluttante anche a salire sul tetto della Apple, il 30 gennaio 1969, per il breve quanto storico e iconico commiato dei Beatles. Il suo progressivo ritiro dalle scene, la ricerca sempre più ostinata di spazi lontani dalla folla e dalla popolarità lo indusse probabilmente a considerazioni estreme, anche se, effettivamente, l'isteria che si era creata intorno alla band non aiutava certo alla serenità di giudizio.
Paradossalmente, una volta sciolto il gruppo, e con la libertà totale di esprimersi a suo piacimento, la carriera solista ha dimostrato che il suo contributo, di due/tre ottimi brani ad ogni disco, era il massimo che potesse esprimere con i Fab Four.
Se si esclude il capolavoro “All Things Must Pass”, del 1970, ricco di eccellenti canzoni, pur con molti episodi non utilizzati dai Beatles negli ultimi anni, nel resto dei suoi dischi successivi è sempre riuscito a piazzare brani di prima grandezza ma limitati a pochi episodi per ogni lavoro, riempiendo il resto degli album con momenti spesso molto poco ispirati.
Da una parte la sua, ammessa, scarsa e lenta capacità compositiva, a cui si aggiungeva una sorta di ossessivo perfezionismo, dall'altra molta auto indulgenza e mancanza di aderenza alla realtà circostante, in cui la musica cambiava, spesso velocemente, e con essa gusti e tendenze. Ma alla quale era completamente indifferente, continuando per strade artistiche che interessavano sempre meno al pubblico.
La biografia citata non risparmia un'analisi piuttosto dura ma sostanzialmente corretta:
“Se si tracciasse un grafico per rappresentare l'andamento della sua carriera negli anni successivi al Concerto per il Bangladesh (1971), avrebbe l'aspetto di una rapida discesa verso un abisso profondo: cause legali, album sempre meno brillanti, oscurità, malattia, alcol e droghe pesanti, problemi famigliari, conflitti spirituali, isolamento.
Alla fine del decennio Harrison era ininfluente, dal punto di vista culturale e creativo.
Più si allontanava dalla mischia, più la sua carriera, inevitabilmente, veniva sovrapposta al periodo con i Beatles. Una situazione paradossale, che lo avrebbe portato a periodi di profonda amarezza.
Suonare dal vivo non era un'opzione ed era più felice a curare il suo giardino che a incidere dischi”.
Il suo percorso umano è stato quasi più interessante di quello artistico.
Ritrovatosi nella bolgia Beatles, travolto da un successo ingestibile, seppellito da montagne di soldi, agi e opportunità, scoprì la cura dello spirito attraverso la musica indiana, dapprima come semplice curiosa bizzarria, vedi il sitar di “Norwegian Wood”, usato per la prima volta in un disco pop, pur se suonato in maniera talmente elementare che il suo maestro dello strumento, prima, di vita, poi, il virtuoso Ravi Shankar, gli disse senza peli sulla lingua: “Ma che stai suonando qua? Non ti offendere ma sembra il classico motivetto metallico che si sente su Radio Bombay nelle pubblicità dei detersivi”.
Dalla musica arrivò ad approfondire filosofia, spiritualità, profondità della cultura indiana, diventando, fino alla fine dei suoi giorni un fervente devoto Hare Khrisna.
Aspetto che contrastò sempre con il suo stile di vita che divideva tra ore di meditazione e preghiera, per poi magari sfrecciare su un'auto lussuosissima alla ricerca di droga, alcol, donne, divertimento.
I rapporti con l'altro sesso furono sempre complessi ma il più delle volte all'insegna della totale mancanza di misura e controllo.
Sposato da giovanissimo con la modella Pattie Boyd la tradì ripetutamente e sfrontatamente, addirittura anche con la moglie di Ringo, Maureen.
Il batterista commentò laconicamente: “meglio con te che con uno sconosciuto”.
Iniziò poi l'assurda vicenda con l'intimo amico Eric Clapton, innamorato di sua moglie (a cui dedicò il brano “Layla”), la quale, alla fine, stanca dei tradimenti di George, decise di accettare il suo ossessivo e disperato corteggiamento e lo sposò (divorziando anni dopo per i maltrattamenti a cui fu sottoposta dal chitarrista).
Come perfetta chiosa, George ebbe poi una relazione con l'ex compagna dello stesso Clapton, Lory Del Santo.
Harrison fu il primo ad organizzare un evento benefico di grandi proporzioni, il famoso concerto per il Bangladesh a New York nell'agosto del 1971, con ospiti come Bob Dylan, Eric Clapton, Ringo Starr.
Pietra miliare che influenzò tantissime altre ricorrenze simili, Live Aid in primis.Tanto fu l'impeto di generosità, quanto venne invece malamente ripagato da anni di cause e controversie in relazione alla destinazione del denaro raccolto, parte del quale, fu assorbito da case discografiche, intermediari, manager.
Come sottolineò il “Village Voice”: “E' sorprendente notare che sia stato il Beatles più introspettivo, nel lungo periodo a compiere i gesti più efficaci”.
Fu pervaso (come probabilmente, in altre forme, dagli ex compagni) da un continuo, involontario, senso di onnipotenza, derivatogli da una popolarità universale che ne impedì spesso una visione lucida di quanto stava facendo.
Valga per tutto l'attività con la sua casa di produzione cinematografica Handmade Films, nata per produrre pellicole degli amici Monthy Python, finita con perdite economiche spaventose e film di scarsissima qualità e senza alcun successo e riscontro economico (incluso il mediocre “Shangai Surprise” del 1986 con Madonna e Sean Penn).
Anche in questo le cause seguite al fallimento lo trascinarono in tribunale (mentre proseguivano quelle sui diritti dei Beatles, risolte solo dopo lunghi contrasti).
Pare che fu questo, la “contingenza” economico, uno dei motivi per cui alla fine accettò di partecipare al progetto “Anthology” insieme a Paul, Ringo e Yoko, tra il 1995 e 2000 con tanto di “inediti” rifatti dai tre con la voce di John.
I 4 milioni di copie vendute del solo primo volume, più i diritti per video e per i brani inclusi, risollevarono per bene le sue casse, un po' provate dagli ultimi disastri (per quanto suonasse molto ironico il titolo “allarmistico” di un quotidiano inglese: “Ad oggi a George Harrison rimangono solo 10 milioni di sterline”).
Un aspetto comune ai quattro Fab Four, è il continuamente decantato e ostentato “odio” e livore nei confronti dell'esperienza Beatles, in realtà continuamente evocata in canzoni, video, citazioni, interviste.
Nessun ex membro della band si è mai liberato dalla dipendenza dai Beatles, “come un alcolizzato con la bottiglia”.
Lo stesso George nel 1974 intraprese un lungo tour americano (purtroppo guastato dalla mancanza di voce, anche a causa dell'abuso di cocaina e altre sostanze) in cui evitò quasi con disprezzo i brani dei Beatles, con l'eccezione di tre/quattro su oltre venti proposti, ricevendo pesanti critiche. Quando nel 1991 tornò sui palchi, questa volta giapponesi, si convinse a inserirne quasi una decina, raccogliendo plausi e approvazione.
Volente o nolente rimaneva sempre e per sempre il “Beatle George”. Ironicamente e, per certi versi, malinconicamente uno dei brani che gli ridiedero la notorietà, in tempi oscuri, fu il singolo “When We Was Fab” nel 1987 , dall'album “Cloud Nine”, con Ringo Starr alla batteria e voluto omaggio all'epoca Beatles. Lo stesso lavoro in cui è inserita la cover di un vecchio brano “Got My Mind Set On you” che lo portò al primo posto negli States.
Ovvero, in mezzo a tante sue composizioni, fu necessaria una cover per tornare ai vertici.
Trovò nuova linfa vitale con l'estemporanea esperienza dei Traveling Wilburys, supergruppo con Bob Dylan, Tomn Petty, Roy Orbison, Tom Petty e Jeff Lynne con cui incise due energici e freschi album tra il 1988 e il 1990 ma il progetto non andò oltre lo studio di registrazione, anche se le prospettive di un tour erano particolarmente allettanti. Molto divertente l'aneddoto riguardante l'adorato figlio Dhani (che ne ha raccolto l'eredità artistica ma senza mai esporsi più di tanto, conservandone la memoria ma in maniera sempre discreta e dietro le quinte, con rare e dignitose uscite discografiche a proprio nome).
E' lo stesso Dhani a raccontarlo:
“Un giorno tornai a casa da scuola scosso perché un mio compagno mi aveva rincorso cantando “Yellow Submarine”. Non capivo perché. Mi sembrava surreale. Perché mi cantavano quella canzone? Arrivato a casa mi arrabbiai con mio padre. Perché non mi hai mai detto che eri uno dei Beatles? E mi rispose: “Oh mi dispiace, forse avrei dovuto dirtelo”.
Gli ultimi anni furono cupi e drammatici.
Nel 1998 una difficile operazione, inizialmente riuscita, per un cancro alla gola, poi la devastante aggressione subita a casa da uno squilibrato che lo accoltellò più volte.
Già da tempo George si era allontanato, quasi al limite del romitaggio, dal mondo “reale” (gli amici lo ricordano incapace di usare un telefono a gettoni, impermeabile a qualsiasi nuova tecnologia, computer in particolare), ritirandosi sempre più nella sua villa di Friar Park, affascinato dal giardinaggio, di cui era diventato un provetto lavoratore ma anche in luoghi remoti alle Hawaii e in Oceania, dove riceveva sempre meno amici.
In particolare l'assassinio di John, vent'anni prima, lo aveva provato moltissimo e reso meno disponibile con il prossimo. Ora l'incubo che aveva temuto per anni compariva all'interno di casa, nel suo regno personale.
Fu probabilmente il definitivo colpo psicologico che contribuì ad abbattere le ulteriori difese contro un nuovo cancro, questa volta al cervello che lo portò via il 29 novembre del 2001.
Se ne andò serenamente, come confermò la moglie Olivia Arìas: “Ha lasciato questo mondo come aveva vissuto: consapevole di Dio, senza paura della morte e in pace, circondato dalla famiglia e dagli amici”.
Fece in tempo a ristampare e rimixare il suo capolavoro “All Things Must Pass” ma non a concludere il previsto nuovo lavoro a quasi quindici anni dal precedente “Cloud Nine” del 1987. Ma diede istruzioni al figlio Dhani e all'amico e produttore Jeff Lynne su come finirlo.
“Brainwashed” (iniziato nel 1988) uscì l'anno successivo e ne confermò la buona qualità compositiva e lo spirito rimasto intatto.
George Harrison ha lasciato un'impronta incredibilmente profonda nella storia del rock, creando uno stile compositivo e chitarristico immediatamente riconoscibile, dall'uso di malinconiche linee di slide, a successioni armoniche inconsuete, spesso mutuate dalle scale melodiche indiane.
Ha introdotto nel pop la strumentazione e la musica indiana in modo sempre più raffinato e creativo, dando spesso spazio agli strumentisti autoctoni (Ravi Shankar su tutti), diventando un precursore del concetto di world music, grazie alla produzione di dischi a loro dedicati.
Brani come “Something”, “Here Comes The Sun” e “While My Guitar Gently Weeps” sono entrati nella storia della musica pop/rock, l'infortunio di “My Sweet Lord” (con l'accusa di plagio e una lunghissima causa protrattasi per anni) ha contribuito a cambiare le regole sul diritto d'autore, il mix di psichedelia, rock, musica orientale utilizzato alla fine degli anni Sessanta con i Beatles ha influenzato tantissime band (soprattutto nel periodo del Britpop, Kula Shaker in primis).
Ma quello che ha probabilmente attratto di più nel suo personaggio è l'immaginario che ha saputo creare: fascinoso, misterioso, autorevole, distaccato, originale, personale, inimitabile.
Pur se in fondo è sempre stato un ragazzo che voleva solo suonare la chitarra in un gruppo rock 'n' roll e che, nel 1963, ai primi segni dell'arrivo della Beatlemania, candidamente dichiarava: “Immagino che andremo avanti così per un paio di anni. Voglio, dire, è ovvio che non riusciremo a mantenere questi livelli”.
E non più di un anno dopo auspicava di ritirarsi dalle scene “con una mostruosa montagna di soldi. Se posso prendere la mia giusta parte, sono ben felice di restare nell'anonimato”. Non fu esattamente così e trascorse il resto della vita a cercare un modo per riacquistare quella normalità perduta.
"Non riusciva proprio a capire perché fosse diventato un musicista famoso in tutto il mondo.
La cosa lo ha sempre un po' confuso.
Si chiedeva perché lui, un ragazzo qualsiasi di Liverpool, destinato a svolgere un lavoro semplice e umile fosse diventato all'improvviso così conosciuto"
(Pattie Boyd)
La figura dei Beatles ha da ormai lungo tempo travalicato e trasceso quella di un semplice gruppo pop rock, assumendo il ruolo di “opera d'arte del Novecento”, per l' importanza che ha rivestito non solo nella musica ma anche nella società.
Proprio come molte opere d'arte, conosciute in tutto il mondo, in relativamente pochi si sono addentrati nei particolari della vicenda, cronologicamente e a livello di contenuti, rimanendo sulla superficie, fatta delle canzoni famose e delle nozioni abituali.
Ad esempio, nella vulgata, la figura di George Harrison è limitata all'immagine del mistico, tranquillo, in costante secondo piano, travolto dalle figure di John e Paul.
Il recente libro “Behind the locked door” di Graeme Thomson (https://tonyface.blogspot.com/2024/07/graeme-thomson-george-harrison-behind.html ), apre, in 500 pagine, una visuale ben più ampia e allo stesso tempo contraddittoria sulla figura del “Beatle quieto”, che tanto tranquillo non lo è mai stato, anzi, e sul cui profilo non mancano zone d'ombra perlomeno sgradevoli, per usare un eufemismo.
George era figlio della cosiddetta working class di Liverpool, apparentemente timido, ma che in realtà non esitava a dispensare battute perfide e cattive.
Il produttore Glyn Johns lo descrisse impietosamente:
"Mi ha sempre destato qualche perplessità il fatto che il suo comportamento non fosse poi così tanto aderente ai valori che professava. Non era sempre una persona amorevole. Aveva un lato parecchio spiacevole.
A volte era difficile capirlo: non era una passeggiata. Se dicevi qualcosa nel modo sbagliato se la prendeva anche se dal tuo punto di vista era un'uscita innocente.
Diciamo che ti rimetteva al tuo posto."
Contrariamente agli altri, pur giovanissimo (nato nel 1943, negli anni dei Beatles aveva da poco superato i vent'anni), era l'unico attento all'aspetto economico che per la band rimaneva in realtà in un costante stato di anarchia, con spese folli e, soprattutto verso la fine della loro storia, tantissimi sfruttatori che attingevano in abbondanza dalle loro finanze.
Incominciò a comporre seriamente per il gruppo dopo qualche anno e in seguito a qualche discreto e riuscito tentativo cercò ma non trovò mai spazio tra il duo magico Lennon/McCartney, che non di rado ascoltavano le sue proposte con distacco e sufficienza, per poi rifiutarne buona parte.
“Non si rendevano conto di chi ero e questo era uno dei principali difetti di John e Paul. Erano così impegnati a interpretare le parti di John e Paul che non prestavano attenzione alle persone intorno a loro".
Da qui un progressivo scontento nel rimanere nella “prigione” dorata dei Beatles a cui ha comunque contribuito con alcuni dei migliori brani nella storia della band, da “While My Guitar Gently Weeps” a “Here Comes The Sun” e soprattutto “Something”.
Addirittura George giunse a ricordare, più volte, gli anni con i Fab Four come "una storia dell'orrore, terribile, folle, un vero incubo, un'esperienza caratterizzata da pazzia, panico, paranoia".
Non a caso fu lui il fautore dell'allontanamento dai concerti della band, nel 1966, una sorta di imposizione, a cui gli altri comunque aderirono con piacere.
Con l'album “Wonderwall” del 1968, colonna sonora dell'omonimo film, fu il primo a cercare una via solista e se ne andò bruscamente dal gruppo durante le registrazioni del film/disco “Let It Be”, per poi tornare, seppure un po' controvoglia.
Riluttante anche a salire sul tetto della Apple, il 30 gennaio 1969, per il breve quanto storico e iconico commiato dei Beatles. Il suo progressivo ritiro dalle scene, la ricerca sempre più ostinata di spazi lontani dalla folla e dalla popolarità lo indusse probabilmente a considerazioni estreme, anche se, effettivamente, l'isteria che si era creata intorno alla band non aiutava certo alla serenità di giudizio.
Paradossalmente, una volta sciolto il gruppo, e con la libertà totale di esprimersi a suo piacimento, la carriera solista ha dimostrato che il suo contributo, di due/tre ottimi brani ad ogni disco, era il massimo che potesse esprimere con i Fab Four.
Se si esclude il capolavoro “All Things Must Pass”, del 1970, ricco di eccellenti canzoni, pur con molti episodi non utilizzati dai Beatles negli ultimi anni, nel resto dei suoi dischi successivi è sempre riuscito a piazzare brani di prima grandezza ma limitati a pochi episodi per ogni lavoro, riempiendo il resto degli album con momenti spesso molto poco ispirati.
Da una parte la sua, ammessa, scarsa e lenta capacità compositiva, a cui si aggiungeva una sorta di ossessivo perfezionismo, dall'altra molta auto indulgenza e mancanza di aderenza alla realtà circostante, in cui la musica cambiava, spesso velocemente, e con essa gusti e tendenze. Ma alla quale era completamente indifferente, continuando per strade artistiche che interessavano sempre meno al pubblico.
La biografia citata non risparmia un'analisi piuttosto dura ma sostanzialmente corretta:
“Se si tracciasse un grafico per rappresentare l'andamento della sua carriera negli anni successivi al Concerto per il Bangladesh (1971), avrebbe l'aspetto di una rapida discesa verso un abisso profondo: cause legali, album sempre meno brillanti, oscurità, malattia, alcol e droghe pesanti, problemi famigliari, conflitti spirituali, isolamento.
Alla fine del decennio Harrison era ininfluente, dal punto di vista culturale e creativo.
Più si allontanava dalla mischia, più la sua carriera, inevitabilmente, veniva sovrapposta al periodo con i Beatles. Una situazione paradossale, che lo avrebbe portato a periodi di profonda amarezza.
Suonare dal vivo non era un'opzione ed era più felice a curare il suo giardino che a incidere dischi”.
Il suo percorso umano è stato quasi più interessante di quello artistico.
Ritrovatosi nella bolgia Beatles, travolto da un successo ingestibile, seppellito da montagne di soldi, agi e opportunità, scoprì la cura dello spirito attraverso la musica indiana, dapprima come semplice curiosa bizzarria, vedi il sitar di “Norwegian Wood”, usato per la prima volta in un disco pop, pur se suonato in maniera talmente elementare che il suo maestro dello strumento, prima, di vita, poi, il virtuoso Ravi Shankar, gli disse senza peli sulla lingua: “Ma che stai suonando qua? Non ti offendere ma sembra il classico motivetto metallico che si sente su Radio Bombay nelle pubblicità dei detersivi”.
Dalla musica arrivò ad approfondire filosofia, spiritualità, profondità della cultura indiana, diventando, fino alla fine dei suoi giorni un fervente devoto Hare Khrisna.
Aspetto che contrastò sempre con il suo stile di vita che divideva tra ore di meditazione e preghiera, per poi magari sfrecciare su un'auto lussuosissima alla ricerca di droga, alcol, donne, divertimento.
I rapporti con l'altro sesso furono sempre complessi ma il più delle volte all'insegna della totale mancanza di misura e controllo.
Sposato da giovanissimo con la modella Pattie Boyd la tradì ripetutamente e sfrontatamente, addirittura anche con la moglie di Ringo, Maureen.
Il batterista commentò laconicamente: “meglio con te che con uno sconosciuto”.
Iniziò poi l'assurda vicenda con l'intimo amico Eric Clapton, innamorato di sua moglie (a cui dedicò il brano “Layla”), la quale, alla fine, stanca dei tradimenti di George, decise di accettare il suo ossessivo e disperato corteggiamento e lo sposò (divorziando anni dopo per i maltrattamenti a cui fu sottoposta dal chitarrista).
Come perfetta chiosa, George ebbe poi una relazione con l'ex compagna dello stesso Clapton, Lory Del Santo.
Harrison fu il primo ad organizzare un evento benefico di grandi proporzioni, il famoso concerto per il Bangladesh a New York nell'agosto del 1971, con ospiti come Bob Dylan, Eric Clapton, Ringo Starr.
Pietra miliare che influenzò tantissime altre ricorrenze simili, Live Aid in primis.Tanto fu l'impeto di generosità, quanto venne invece malamente ripagato da anni di cause e controversie in relazione alla destinazione del denaro raccolto, parte del quale, fu assorbito da case discografiche, intermediari, manager.
Come sottolineò il “Village Voice”: “E' sorprendente notare che sia stato il Beatles più introspettivo, nel lungo periodo a compiere i gesti più efficaci”.
Fu pervaso (come probabilmente, in altre forme, dagli ex compagni) da un continuo, involontario, senso di onnipotenza, derivatogli da una popolarità universale che ne impedì spesso una visione lucida di quanto stava facendo.
Valga per tutto l'attività con la sua casa di produzione cinematografica Handmade Films, nata per produrre pellicole degli amici Monthy Python, finita con perdite economiche spaventose e film di scarsissima qualità e senza alcun successo e riscontro economico (incluso il mediocre “Shangai Surprise” del 1986 con Madonna e Sean Penn).
Anche in questo le cause seguite al fallimento lo trascinarono in tribunale (mentre proseguivano quelle sui diritti dei Beatles, risolte solo dopo lunghi contrasti).
Pare che fu questo, la “contingenza” economico, uno dei motivi per cui alla fine accettò di partecipare al progetto “Anthology” insieme a Paul, Ringo e Yoko, tra il 1995 e 2000 con tanto di “inediti” rifatti dai tre con la voce di John.
I 4 milioni di copie vendute del solo primo volume, più i diritti per video e per i brani inclusi, risollevarono per bene le sue casse, un po' provate dagli ultimi disastri (per quanto suonasse molto ironico il titolo “allarmistico” di un quotidiano inglese: “Ad oggi a George Harrison rimangono solo 10 milioni di sterline”).
Un aspetto comune ai quattro Fab Four, è il continuamente decantato e ostentato “odio” e livore nei confronti dell'esperienza Beatles, in realtà continuamente evocata in canzoni, video, citazioni, interviste.
Nessun ex membro della band si è mai liberato dalla dipendenza dai Beatles, “come un alcolizzato con la bottiglia”.
Lo stesso George nel 1974 intraprese un lungo tour americano (purtroppo guastato dalla mancanza di voce, anche a causa dell'abuso di cocaina e altre sostanze) in cui evitò quasi con disprezzo i brani dei Beatles, con l'eccezione di tre/quattro su oltre venti proposti, ricevendo pesanti critiche. Quando nel 1991 tornò sui palchi, questa volta giapponesi, si convinse a inserirne quasi una decina, raccogliendo plausi e approvazione.
Volente o nolente rimaneva sempre e per sempre il “Beatle George”. Ironicamente e, per certi versi, malinconicamente uno dei brani che gli ridiedero la notorietà, in tempi oscuri, fu il singolo “When We Was Fab” nel 1987 , dall'album “Cloud Nine”, con Ringo Starr alla batteria e voluto omaggio all'epoca Beatles. Lo stesso lavoro in cui è inserita la cover di un vecchio brano “Got My Mind Set On you” che lo portò al primo posto negli States.
Ovvero, in mezzo a tante sue composizioni, fu necessaria una cover per tornare ai vertici.
Trovò nuova linfa vitale con l'estemporanea esperienza dei Traveling Wilburys, supergruppo con Bob Dylan, Tomn Petty, Roy Orbison, Tom Petty e Jeff Lynne con cui incise due energici e freschi album tra il 1988 e il 1990 ma il progetto non andò oltre lo studio di registrazione, anche se le prospettive di un tour erano particolarmente allettanti. Molto divertente l'aneddoto riguardante l'adorato figlio Dhani (che ne ha raccolto l'eredità artistica ma senza mai esporsi più di tanto, conservandone la memoria ma in maniera sempre discreta e dietro le quinte, con rare e dignitose uscite discografiche a proprio nome).
E' lo stesso Dhani a raccontarlo:
“Un giorno tornai a casa da scuola scosso perché un mio compagno mi aveva rincorso cantando “Yellow Submarine”. Non capivo perché. Mi sembrava surreale. Perché mi cantavano quella canzone? Arrivato a casa mi arrabbiai con mio padre. Perché non mi hai mai detto che eri uno dei Beatles? E mi rispose: “Oh mi dispiace, forse avrei dovuto dirtelo”.
Gli ultimi anni furono cupi e drammatici.
Nel 1998 una difficile operazione, inizialmente riuscita, per un cancro alla gola, poi la devastante aggressione subita a casa da uno squilibrato che lo accoltellò più volte.
Già da tempo George si era allontanato, quasi al limite del romitaggio, dal mondo “reale” (gli amici lo ricordano incapace di usare un telefono a gettoni, impermeabile a qualsiasi nuova tecnologia, computer in particolare), ritirandosi sempre più nella sua villa di Friar Park, affascinato dal giardinaggio, di cui era diventato un provetto lavoratore ma anche in luoghi remoti alle Hawaii e in Oceania, dove riceveva sempre meno amici.
In particolare l'assassinio di John, vent'anni prima, lo aveva provato moltissimo e reso meno disponibile con il prossimo. Ora l'incubo che aveva temuto per anni compariva all'interno di casa, nel suo regno personale.
Fu probabilmente il definitivo colpo psicologico che contribuì ad abbattere le ulteriori difese contro un nuovo cancro, questa volta al cervello che lo portò via il 29 novembre del 2001.
Se ne andò serenamente, come confermò la moglie Olivia Arìas: “Ha lasciato questo mondo come aveva vissuto: consapevole di Dio, senza paura della morte e in pace, circondato dalla famiglia e dagli amici”.
Fece in tempo a ristampare e rimixare il suo capolavoro “All Things Must Pass” ma non a concludere il previsto nuovo lavoro a quasi quindici anni dal precedente “Cloud Nine” del 1987. Ma diede istruzioni al figlio Dhani e all'amico e produttore Jeff Lynne su come finirlo.
“Brainwashed” (iniziato nel 1988) uscì l'anno successivo e ne confermò la buona qualità compositiva e lo spirito rimasto intatto.
George Harrison ha lasciato un'impronta incredibilmente profonda nella storia del rock, creando uno stile compositivo e chitarristico immediatamente riconoscibile, dall'uso di malinconiche linee di slide, a successioni armoniche inconsuete, spesso mutuate dalle scale melodiche indiane.
Ha introdotto nel pop la strumentazione e la musica indiana in modo sempre più raffinato e creativo, dando spesso spazio agli strumentisti autoctoni (Ravi Shankar su tutti), diventando un precursore del concetto di world music, grazie alla produzione di dischi a loro dedicati.
Brani come “Something”, “Here Comes The Sun” e “While My Guitar Gently Weeps” sono entrati nella storia della musica pop/rock, l'infortunio di “My Sweet Lord” (con l'accusa di plagio e una lunghissima causa protrattasi per anni) ha contribuito a cambiare le regole sul diritto d'autore, il mix di psichedelia, rock, musica orientale utilizzato alla fine degli anni Sessanta con i Beatles ha influenzato tantissime band (soprattutto nel periodo del Britpop, Kula Shaker in primis).
Ma quello che ha probabilmente attratto di più nel suo personaggio è l'immaginario che ha saputo creare: fascinoso, misterioso, autorevole, distaccato, originale, personale, inimitabile.
Pur se in fondo è sempre stato un ragazzo che voleva solo suonare la chitarra in un gruppo rock 'n' roll e che, nel 1963, ai primi segni dell'arrivo della Beatlemania, candidamente dichiarava: “Immagino che andremo avanti così per un paio di anni. Voglio, dire, è ovvio che non riusciremo a mantenere questi livelli”.
E non più di un anno dopo auspicava di ritirarsi dalle scene “con una mostruosa montagna di soldi. Se posso prendere la mia giusta parte, sono ben felice di restare nell'anonimato”. Non fu esattamente così e trascorse il resto della vita a cercare un modo per riacquistare quella normalità perduta.
"Non riusciva proprio a capire perché fosse diventato un musicista famoso in tutto il mondo.
La cosa lo ha sempre un po' confuso.
Si chiedeva perché lui, un ragazzo qualsiasi di Liverpool, destinato a svolgere un lavoro semplice e umile fosse diventato all'improvviso così conosciuto"
(Pattie Boyd)
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lunedì, settembre 16, 2024
Daniel Rachel - Too Much Too Young
La splendida avventura della 2TONE RECORDS, fulminante, breve, accesasi come una stella sfavillante ed esplosa come una (champagne) supernova, lasciando luminosi detriti vaganti fino ai giorni nostri, raccontata attraverso minuziosi particolari in questo eccellente libro (tradotto in italiano da Flavio Frezza per Hellnation Libri).
Un'etichetta che nasce e vive come un collettivo anarco/marxista sotto la ferrea guida di Jerry Dammers, tastierista e mente pensante degli Specials.
Non c’erano contratti formalizzati. Gli accordi venivano siglati da una stretta di mano. Senza costituzione formale né iscrizione ai registri, l’etichetta esisteva soltanto di nome. Come piaceva dire a Jerry, «più che una casa discografica, era una presa per il culo delle stesse».
Vendettero milioni di copie dal 1979 al 1986 con i dischi di Specials, Selecter, Bodysnatchers, il primo singolo dei Madness, The Beat per implodere poi tra mille divisioni, litigi, cause legali, debiti, dischi e gruppi ignorati, passando in mezzo alla violenza ai concerti, agli scioglimenti dei gruppi, alla (mala) gestione dell'etichetta, inadatta al volume di soldi incassati e alla complessità di unire realizzazioni di dischi, organizzazione di lunghi tour, economia "aziendale".
Le canzoni affrontavano argomenti che, per i giovani, rappresentavano la vita quotidiana: violenza di strada, abusi sessuali, gravidanze adolescenziali, disoccupazione, rischio di una guerra nucleare.
La 2 Tone era una nuova forma di musica di protesta, attraverso la quale riecheggiava l’eredità dei pionieri degli anni sessanta come Bob Dylan e Joan Baez, e cercava di trasmettere al pubblico l’idea di un’unità politica e sociale.
Uno degli scopi della 2 Tone era educare il pubblico e fargli capire che si trattava di musica inventata dai neri: dovete accettare il fatto che il mondo non è bianco, ma a due colori”.
La 2 Tone tentava di infondere nella testa della gente l’idea di uguaglianza e di dare un freno al razzismo.
Venivano tutti dal nulla: lavori di merda, monolocali di merda, senza un soldo in tasca. Cercavano di farcela partendo da zero. C’era un’atmosfera di avventura. L’ideale alla base della 2 Tone avrebbe preso vita sulle piste da ballo dell’intero paese.
Finì malamente.
Il libro è impietoso nel raccontare anche il lato oscuro della vicenda ma è sempre equilibrato e il più possibile fedele alla realtà.
Indispensabile per i cultori di un certo ambito.
"La 2Tone ispirò uno stile che travolse il paese. Sostenne l'antirazzismo, mise in discussione il sessismo e incoraggiò persone di idee differenti a sposare il multiculturalismo. Il suo impatto continuerà a dar vita a dibattiti sociologici e politici, sia sulla carta stampata che nei pub. Tali discussioni sono importantissime e aiutano a interpretare uno dei più grandi culti giovanili della storia britannica."
Daniel Rachel
Too Much Too Young
Pagine 480
Hellnation Libri
34 euro
Un'etichetta che nasce e vive come un collettivo anarco/marxista sotto la ferrea guida di Jerry Dammers, tastierista e mente pensante degli Specials.
Non c’erano contratti formalizzati. Gli accordi venivano siglati da una stretta di mano. Senza costituzione formale né iscrizione ai registri, l’etichetta esisteva soltanto di nome. Come piaceva dire a Jerry, «più che una casa discografica, era una presa per il culo delle stesse».
Vendettero milioni di copie dal 1979 al 1986 con i dischi di Specials, Selecter, Bodysnatchers, il primo singolo dei Madness, The Beat per implodere poi tra mille divisioni, litigi, cause legali, debiti, dischi e gruppi ignorati, passando in mezzo alla violenza ai concerti, agli scioglimenti dei gruppi, alla (mala) gestione dell'etichetta, inadatta al volume di soldi incassati e alla complessità di unire realizzazioni di dischi, organizzazione di lunghi tour, economia "aziendale".
Le canzoni affrontavano argomenti che, per i giovani, rappresentavano la vita quotidiana: violenza di strada, abusi sessuali, gravidanze adolescenziali, disoccupazione, rischio di una guerra nucleare.
La 2 Tone era una nuova forma di musica di protesta, attraverso la quale riecheggiava l’eredità dei pionieri degli anni sessanta come Bob Dylan e Joan Baez, e cercava di trasmettere al pubblico l’idea di un’unità politica e sociale.
Uno degli scopi della 2 Tone era educare il pubblico e fargli capire che si trattava di musica inventata dai neri: dovete accettare il fatto che il mondo non è bianco, ma a due colori”.
La 2 Tone tentava di infondere nella testa della gente l’idea di uguaglianza e di dare un freno al razzismo.
Venivano tutti dal nulla: lavori di merda, monolocali di merda, senza un soldo in tasca. Cercavano di farcela partendo da zero. C’era un’atmosfera di avventura. L’ideale alla base della 2 Tone avrebbe preso vita sulle piste da ballo dell’intero paese.
Finì malamente.
Il libro è impietoso nel raccontare anche il lato oscuro della vicenda ma è sempre equilibrato e il più possibile fedele alla realtà.
Indispensabile per i cultori di un certo ambito.
"La 2Tone ispirò uno stile che travolse il paese. Sostenne l'antirazzismo, mise in discussione il sessismo e incoraggiò persone di idee differenti a sposare il multiculturalismo. Il suo impatto continuerà a dar vita a dibattiti sociologici e politici, sia sulla carta stampata che nei pub. Tali discussioni sono importantissime e aiutano a interpretare uno dei più grandi culti giovanili della storia britannica."
Daniel Rachel
Too Much Too Young
Pagine 480
Hellnation Libri
34 euro
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sabato, settembre 14, 2024
Classic Rock e Il Manifesto
Nel nuovo numero di Classic Rock Italia intervisto Mauro Ermanno Giovanardi a proposito dei Carnival Of Fools (di cui esce a breve un box con la discografia completa per Area Pirata) e della Milano underground degli anni Ottanta.
Poi un mio intervento nella rubrica "Opinioni" sul caro concerti (ovvero: costano tanto perché sono diventati uno spettacolo magniloquente che comporta spese sempre maggiori. E' sufficiente evitare i mega raduni con concerto che si vede su maxischermo e rivolgersi a quell'universo di eccellenti "piccole" band che fanno spendere pochi soldi e restituiscono tanta resa). Inoltre recensisco Soft Play, Linda Collins, Thurston Moore, The Wreckery, Dear Bongo e la compilation "Roots Rock Rebels - When Punk met Reggae 1975-1982".
Nelle pagine de Il Manifesto dedico due pagine a GEORGE HARRISON e alla sua carriera, da quella band là a quella solista.
E recensisco The Peawees e il nuovo Hugo Race con Michelangelo Russo.
Poi un mio intervento nella rubrica "Opinioni" sul caro concerti (ovvero: costano tanto perché sono diventati uno spettacolo magniloquente che comporta spese sempre maggiori. E' sufficiente evitare i mega raduni con concerto che si vede su maxischermo e rivolgersi a quell'universo di eccellenti "piccole" band che fanno spendere pochi soldi e restituiscono tanta resa). Inoltre recensisco Soft Play, Linda Collins, Thurston Moore, The Wreckery, Dear Bongo e la compilation "Roots Rock Rebels - When Punk met Reggae 1975-1982".
Nelle pagine de Il Manifesto dedico due pagine a GEORGE HARRISON e alla sua carriera, da quella band là a quella solista.
E recensisco The Peawees e il nuovo Hugo Race con Michelangelo Russo.
venerdì, settembre 13, 2024
Respond Records
Ricco e famoso, il Paul Weller dei primi anni 80, non si rilassa negli agi e nel lusso ma prosegue a creare, a dare opportunità a chi ha avuto meno fortuna di lui.
Oltre alla sfortunata casa editrice Riot Stories (che riuscì però a pubblicare uno stupendo libro sulla storia degli Small Faces “All our yesterdays” di Terry Rawlings e alcune altre cose interessanti) fonda nel 1981 la RESPOND RECORDS, etichetta discografica nata con l’intento di essere una “nuova Tamla Motown” con giovani artisti vicini ad una soul music moderna e attuale.
Purtroppo l’attualità sonora dei primi anni Ottanta era spesso caratterizzata da suoni sintetici, batterie elettroniche e plastic pop di varia natura.
E la Respond si indirizzò spesso verso queste sonorità nel tentativo di proporre un “nuovo soul”.
Deludendo non poco lo stuolo di mod adoranti che dalla label di Weller si aspettava dei cloni dei Jam o degli Small Faces o epigoni del classico suono soul/rhythm and blues.
L’esordio fu incoraggiante e sorprendente con lo strano beat/new wave di sapore 60’s del singolo “Been teen” delle DOLLY MIXTURE ma ben presto si perse nei meandri sonori di cui sopra, nonostante nomi come QUESTIONS, TRACIE (che collaborò spesso con gli Style Council, cantò nel loro singolo d’esordio “Speak like a child” e che fu il nome principale dell’etichetta) e A CRAZE abbiano avuto momenti interessanti.
Weller (e gli Style Council Mick Talbot e Steve White) sono spesso presenti sia come strumentisti che compositori nei vari dischi (oltre a Elvis Costello che scrive per Tracie “I love you when you sleep") ma lo spessore generale delle proposte rimase comunque modesto (nonostante qualche buon risultato di vendita).
La Respond cessa le pubblicazioni nel 1985, alla fine degli anni Novanta la giapponese Trattoria Records ha ristampato quasi tutto (con aggiunta di bonus) in CD.
Thanx Cpt Stax
Discografia completa
1981 Dolly Mixture Been Teen / Honky Honda / Ernie Ball RESP 1
1981 The Questions Work 'n' Play / Work 'n' Play (Pt. 2) RESP 2
1982 The Rimshots (80's) Sweet Talk / What's the Matter Baby? RESP 3
1982 Urban Shakedown (uk 80's) The Big Bad Wolf / Rap the Wolf RESP 5
1982 The Questions Work and Play / Saved by the Bell RESP 7
1982 The Questions Someone's Got to Lose / The Groove Line RESP 8
1982 The Questions Work and Play (Extended) / Saved by the Bell (Extended) RESPX 7
1982 The Questions Someone's Got to Lose (Extended) / The Groove Line / Someone's Got to Lose RESPX 8
1982 Dolly Mixture Everything and More / You and Me on the Sea Shore RESP 4
1983 Tracie The House That Jack Built / Dr. Love AMS 9265
1983 The Questions Price You Pay / Groove Line KOB 702
1983 The Main T Possee Fickle Public Speakin / Fickle Public Speakin (Version) KOB 703
1983 The Questions Tear Soup / The Vital Spark KOB 705
1983 A Craze Wearing Your Jumper / She Is So KOB 706
1983 Tracie The House That Jack Built / Tracie Talks / The House That Jack Built (Instrumental) KOBX 701
1983 The Questions Price You Pay / Price You Pay (instrumental) / Groove Line KOBX 702
1983 The Main T Possee Fickle Public Speakin / Fickle Public Speakin (Extended Version) KOBX 703
1983 The Questions Tear Soup (Extended Version) / The Vital spark (Extended Version) KOBX 705
1983 A Craze Wearing Your Jumper / She Is So / Dub, but Not Mute KOBX 706
1983 Various Artists Love the Reason RRL 501 (con Tracie, Questions, Big Sound Authority, A Craze)
1983 Tracie The House That Jack Built / Dr Love KOB 701
1983 Tracie Give It Some Emotion / The Boy Hairdresser KOB 704
1983 Tracie Give It Some Emotion / Tracie Raps / Give It Some Version KOBX 704
1984 The Questions Building on a Strong Foundation / Dreams Come True KOB 709
1984 The Questions A Month of Sundays / Belief (Don't Give It Up) KOB 712
1984 The Questions Tuesday Sunshine (Jock Mix) / Tuesday Sunshine (Sass Mix) / The House That Jack Built / No One (Long Version) KOBX
1984 Tracie Soul's on Fire (Long Version) / Soul's on Fire / You Must Be Kidding KOBX 708
1984 The Questions Building on a Strong Foundation (Long Version) / Dreams Come True / Acapella Foundation KOBX
1984 M.E.F.F. Never Stop (a Message) (Full Length Version) / Nzuri Beat / Non-Stop Electro (Version) KOBX
1984 The Questions Belief (Don't Give It Up) (Extended) / A Month of Sundays KOBX 712
1984 Tracie Far From the Hurting Kind RRL 502
1984 The Questions Belief RRL 503
1984 The Questions Tuesday Sunshine / No One KOB 707
1984 Tracie Souls on Fire / You Must Be Kidding KOB 708
1984 Tracie (I Love You) When You Sleep / Same Feelings Without the Emotion K0B 710
1985 Tracie Thank You / Spring, Summer, Autumn
1985 Vaughn Toulouse Cruisin' the Serpentine / You See the Trouble With Me SBS 2
1985 Tracie I Can't Leave You Alone (Pick 'n' Mix) / 19 (The Wickham Mix) / I Can't Leave You Alone SBSX 1
1985 Vaughn Toulouse Cruisin' the Serpentine (Version Excursion) / You See the Trouble With Me (Extended) / Cruisin' the Serpentine (Club Mix) SBSX 2
1985 Tracie Invitation (RSVP Mix) / The Country Code / Invitation SBSX 3
1985 Tracie I Can't Leave You Alone / 19 (The Wickham Mix) SBS 1
1985 Tracie Invitation / The Country Code
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giovedì, settembre 12, 2024
Lievi Favole, le canzoni di e per Gavinuccio Canu
Credo sia importante, in un' ottica underground/DIY/indie o quello che è, sostenere iniziative che appartengono a quell'area.
L' Associazione Culturale “Gavinuccio Canu” ha prodotto il doppio LP dal titolo “Lievi Favole” che comprende le ultime canzoni originali inedite del cantautore sassarese Gavinuccio Canu, scomparso il 14 febbraio del 2022.
Il disco, in 300 copie, sarà pubblicato e acquistabile dal sito www.gavinucciocanu.org, da settembre 2024.
Il primo LP è composto dalle canzoni in versione originale cantate e suonate dallo stesso Gavinuccio; nel secondo, le stesse sono interpretate da diverse voci della new wave italiana, come Andrea Chimenti, Lilith-rita Oberti con Cesare Basile e Francesca Pizzo Scuto Miro Sassolini, ex voce storica dei Diaframma con Gianni Maroccolo, Mauro Ermanno Giovanardi, Stefano Giaccone e e Lalli dei Franti, Paolo Messere ex chitarrista e produttore dei Blessed Child Opera, e altre voci del panorama wave sardo, come Davide Catinari dei Dorian Gray, Vanvera, Domenico Canu dei La Plonge, Marco Noce (ex leader dei Maniumane) e Romina Pala (A58, Sineddoche), i Magnificat di Alessandro e Ludovico Muroni (Charme de Caroline) con l' arpista Raoul Moretti e i Brigata Stirner di Arnaldo Pontis e Roberto Belli.
L‟idea nasce dalla volontà di incidere il ricordo di Gavinuccio in modo indelebile e, contestualmente, rendergli omaggio grazie alla partecipazione sentita di chi come lui ha vissuto e vive la musica in modo viscerale.
Un lavoro collettivo “nazionale” che possa farne conoscere e apprezzare la figura artistica anche fuori dalla sua Sassari e dalla Sardegna.
Gli artisti hanno aderito gratuitamente e in maniera sentita al progetto, scegliendo il brano che preferivano, liberi di viverlo come fosse meglio per loro.
L' Associazione Culturale “Gavinuccio Canu” ha prodotto il doppio LP dal titolo “Lievi Favole” che comprende le ultime canzoni originali inedite del cantautore sassarese Gavinuccio Canu, scomparso il 14 febbraio del 2022.
Il disco, in 300 copie, sarà pubblicato e acquistabile dal sito www.gavinucciocanu.org, da settembre 2024.
Il primo LP è composto dalle canzoni in versione originale cantate e suonate dallo stesso Gavinuccio; nel secondo, le stesse sono interpretate da diverse voci della new wave italiana, come Andrea Chimenti, Lilith-rita Oberti con Cesare Basile e Francesca Pizzo Scuto Miro Sassolini, ex voce storica dei Diaframma con Gianni Maroccolo, Mauro Ermanno Giovanardi, Stefano Giaccone e e Lalli dei Franti, Paolo Messere ex chitarrista e produttore dei Blessed Child Opera, e altre voci del panorama wave sardo, come Davide Catinari dei Dorian Gray, Vanvera, Domenico Canu dei La Plonge, Marco Noce (ex leader dei Maniumane) e Romina Pala (A58, Sineddoche), i Magnificat di Alessandro e Ludovico Muroni (Charme de Caroline) con l' arpista Raoul Moretti e i Brigata Stirner di Arnaldo Pontis e Roberto Belli.
L‟idea nasce dalla volontà di incidere il ricordo di Gavinuccio in modo indelebile e, contestualmente, rendergli omaggio grazie alla partecipazione sentita di chi come lui ha vissuto e vive la musica in modo viscerale.
Un lavoro collettivo “nazionale” che possa farne conoscere e apprezzare la figura artistica anche fuori dalla sua Sassari e dalla Sardegna.
Gli artisti hanno aderito gratuitamente e in maniera sentita al progetto, scegliendo il brano che preferivano, liberi di viverlo come fosse meglio per loro.
mercoledì, settembre 11, 2024
Stone Roses - Second Coming
Il secondo e ultimo album degli STONE ROSES, "Second Coming" del 1994 è stato spesso quasi unanimemente stroncato, inserito in articoli sui "100 dischi da evitare" etc.
A favore dei severi giudizi va annoverata sicuramente un'eccessiva autoindulgenza della band che si lascia andare ad infinite jam sessions che allungano i brani a dismisura e una certa approssimazione nella stesura che si affida sovente a lunghe parti strumentali, con gli assoli di chitarra di John Squire, novello emulo di Jimmy Page e la voce di Ian Brown spesso in secondo piano.
La band vira verso sonorità hard rock ("Driving south" o "Love spreads") ma concedendosi stupendi intermezzi funk soul jazz come in "Daybreak" o a ballate psichedeliche tardo 60's come in "Your star will shine" o ad acidissimi brani come la potentissima "Begging you".
C'è anche il raga rock tossico di "Tightrope", psichedelie varie, un po' di Velvet Underground, acido ovunque ma soprattutto una grande tecnica esecutiva sparsa a piene mani in ogni brano.
Una maggiore capacità di sintesi avrebbe potuto portare a risultati migliori, ma "Second coming" si fa apprezzare proprio per la libertà espressiva su cui si adagia, senza calcoli commerciali o di convenienza.
Immersi nelle nebbie dei loro quotidiani abusi gli Stone Roses confezionano una testimonianza del brit rock dell'epoca, da rivalutare e riconsiderare.
A favore dei severi giudizi va annoverata sicuramente un'eccessiva autoindulgenza della band che si lascia andare ad infinite jam sessions che allungano i brani a dismisura e una certa approssimazione nella stesura che si affida sovente a lunghe parti strumentali, con gli assoli di chitarra di John Squire, novello emulo di Jimmy Page e la voce di Ian Brown spesso in secondo piano.
La band vira verso sonorità hard rock ("Driving south" o "Love spreads") ma concedendosi stupendi intermezzi funk soul jazz come in "Daybreak" o a ballate psichedeliche tardo 60's come in "Your star will shine" o ad acidissimi brani come la potentissima "Begging you".
C'è anche il raga rock tossico di "Tightrope", psichedelie varie, un po' di Velvet Underground, acido ovunque ma soprattutto una grande tecnica esecutiva sparsa a piene mani in ogni brano.
Una maggiore capacità di sintesi avrebbe potuto portare a risultati migliori, ma "Second coming" si fa apprezzare proprio per la libertà espressiva su cui si adagia, senza calcoli commerciali o di convenienza.
Immersi nelle nebbie dei loro quotidiani abusi gli Stone Roses confezionano una testimonianza del brit rock dell'epoca, da rivalutare e riconsiderare.
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