Visualizzazione post con etichetta Cultura 70's. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Cultura 70's. Mostra tutti i post

lunedì, aprile 07, 2025

Beat = Punk ?



Un interessante articolo uscito in tempo reale (aprile 1978) sulle similitudini tra punk e beat. Lungimirante, preciso e competente coglie, pur con qualche ingenuità, molti aspetti di cui si parlò diffusamente solo in seguito e che dimostra come comunque anche da noi l'attenzione al "nuova ondata" fosse comunque piuttosto presente.

Negli ultimi tempi abbiamo avuto diverse occasioni di parlare con giovanissimi punkies che, a causa della loro età, ammettevano candidamente di non conoscere altri tipi di musica all’infuori di quella che i mass media ci propinano al giorno d’oggi (rockin tutte le salse, punk, cantautori, un po’ di west coast e di rock jazz).
In particolare il sottoscritto si è sentito porre più volte una domanda diventata ormai tradizionale: “Tutti parlano di certi rapporti esistenti tra il punk e il vecchio beat: secondo te queste “somiglianze” esistono veramente o sono frutto della fertile mente di qualche “addetto ai lavori”particolarmente ricco di fantasia”? Ovviamente il quesito era posto in termini un tantino meno eleganti ma il senso era questo.

Dovendo realizzare un intero inserto sul beat inglese, abbiamo perciò ritenuto opportuno cogliere l’occasione per cercare di chiarire sia pure a grandi linee, il rapporto beat-punk, sottolineando le similitudini più clamorose esistenti tra i due generi musicali (ma sia l’uno che l’altro devono essere considerati soprattutto espressioni di un “movimento” molto più vasto e fondamentalmente extramusicale).
Cominciamo con la musica vera e propria: chiunque conosca, sia pure superficialmente, i maggiori successi dell’era beat (63/67) avrà senz’altro notato che molti brani di gruppi punk come Ramones, Talking Heads, Jam etc non possono essere considerati del tutto originali.

I Jam in particolare devono molto agli Who: basta ascoltare i loro due LP (“In the city” e “This is a modern world”) per rendersene conto.
Eddie & the Hot Rods (che non sono punk ma che comunque fanno parte della new wave) sono andati addirittura oltre, inserendo nel loro repertorio brani dei sopraccitati Who (“Kids are alright”).
Stesso discorso vale per gli americani Flamin Groovies (altra band assolutamente non punkma sempre facente parte della nuova ondata) che , soprattutto con il loro LP più recente “Shake some action”, dimostrano di dovere moltissimo al “caro vecchio beat”, alternando vecchi hit dell’epoca (“Misery” ad esempio) a composizioni originali ma chiaramente legate ai classici dei Beatles e degli altri gruppi di Manchester, Liverpool etc.
Tralasciando ora l’aspetto strettamente musicale, non si può fare a meno di notare come, a distanza di oltre dieci anni, ricomincino a spuntare un po’ ovunque nuovi gruppi formati da giovani di belle speranze (anche se non preparatissimi dal punto di vista tecnico); il punk rock , così come a suo tempo il beat, raccoglie numerosi proseliti tra le migliaia di “strumentisti in erba” che , chiusi nella propria cameretta, alternano lo studio delle materie scolastiche a lunghe “strimpellate” generalmente poco gradite ai vicini di casa. In ogni città, addirittura in ogni quartiere, agiscono ormai almeno due o tre gruppi formati da adolescenti forniti di chitarre elettriche e batterie da pochi soldi ma, nel contempo, dotati di entusiasmo autentico, ragazzini che vogliono suonare la propria musica, sfogarsi, scaricare la tensione che, in una società come la nostra, si può accumulare anche all’età di 14/15anni, pur non avendo “sulle spalle” il peso di una famiglia da mantenere o il pensiero del’affitto da pagare.
Né più né meno come succedeva 10/12 anni fa, solo che allora i giovani BEAT portavano, come segno distintivo, capelli lunghi e stivaletti mentre oggi i “punkies” ostentano capigliature”normali” (?) e scarpe da tennis.

Ma torniamo al profilo tecnico del…problema: gran parte dei gruppi punk presenta la tipica formazione beat: chitarra, basso e batteria. La chitarra ritmica è stata finalmente rivalutata (molte bands infatti sono tornate alle due chitarre, una solista e una d’accompagnamento), sono persino tornate di moda le Rickenbacker (marca di chitarre e bassi particolarmente cara ai primi Beatles e ai Byrds) e l’elenco potrebbe continuare.
Si dirà che, in fondo, si tratta di sfumature ma secondo noi non è così ricordiamoci che per costruire un grande palazzo occorrono tanti piccoli mattoni.

Mauro Eusebi
BEST aprile 1978

mercoledì, aprile 02, 2025

Carnascialia

La musica italiana degli anni Settanta ha sperimentato tantissimo, incrociato esperienze, scavato nella tradizione, ammodernandola con nuove influenze, contaminazioni, creando stupendi ibridi di bellezza irripetuta.
Erano tempi in cui quell'autarchia imposta dall'abbandono dei gruppi stranieri del suolo italico, favorì lo sviluppo di esperienze autoctone, lasciandoci capolavori troppo spesso dimenticati.

Pasquale Minieri (chitarra, basso, voce) e Giorgio Vivaldi (percussioni, flauto), ex componenti del Canzoniere del Lazio, nel 1979 incisero questo unico album della breve esistenza del progetto Carnascialia, circondandosi di eccellenze del tempo, da Demetrio Stratos a Mauro Pagani, Danilo Rea, Carlo Siliotto (oltre a Carlo Siliotto (violino), Clara Murtas, Nunzia Tambara, Piero Brega, Luciano Francisci, Tommaso Vittorini, Maurizio Giammarco, Marcello Vento, Pablo Romero.

Un lavoro che parte da basi di folk tradizionale ma che si sviluppa in momenti jazz, fusion, nelle sperimentazioni vocali di Demetrio Stratos (in "Fiocchi di neve e bruscolini" e nell'ipnotico "Kaitain"), nel proto ambient di "Almeisan", in una serie di ibridazioni musicali, figlie di quegli anni ma ancora di grande attualità sonora e creativa.

venerdì, marzo 14, 2025

Elton John - Saturday Night's Alright for Fighting

Pubblicato come singolo nel luglio del 1973 e tratto dal suo capolavoro "Goodbye Yellow Brick Road" è uno dei brani più potenti e rock del repertorio di ELTON JOHN.
La particolarità è che il testo (di Bernie Taupin) descrive alla perfezione il tipico sabato di un Boot Boy dell'epoca, ispirato dall'adolescenza dell'autore, all'insegna del vagabondaggio e della vita da pub.

Si sta facendo tardi, hai visto i miei amici?
Ma dimmi quando i ragazzi arrivano qui
Sono le sette e voglio spaccare
voglio riempirmi la pancia di birra
Mio padre è più sbronzo
di una botte piena
e mia madre, a lei non importa
mia sorella ha un aspetto carino
con le bretelle e i boots

e un po' di brillantina sui capelli

Non dateci nessuna delle vostre seccature
Ci siamo rotti della vostra disciplina
Sabato sera è OK per battersi
Mettiamoci un po' d'azione

Ci muoviamo oliati come un treno a diesel
accenderemo questa festa danzante
perché sabato sera è la serata che mi piace
Sabato sera è OK, OK, OK

Un paio di suoni che mi piacciono davvero
sono i suoni di un coltello a serramanico
e di una moto
Sono un giovane prodotto
della classe lavoratrice
il cui migliore amico sta in fondo ad un bicchiere


Non dateci nessuna delle vostre seccature
Ci siamo rotti della vostra disciplina
Sabato sera è OK per battersi
Mettiamoci un po' d'azione

Elton John
https://www.youtube.com/watch?v=NagnbRHdh-0

Fu l'unico brano dell'album registrato in Giamaica dove avevano pianificato di realizzarlo per poi constatare la pochezza tecnica dello studio e tornare frettolosamente in Europa.

E stato ripreso anche da Who, Queen, Giuda e numerose altre band oltre ad aver ispirato (al limite del plagio) "Gloria" di Umberto Tozzi.

The Who
https://www.youtube.com/watch?v=PE_aXE8oudY

Queen
https://www.youtube.com/watch?v=0sRInAse9hs

Giuda
https://www.youtube.com/watch?v=T6685iy6ypY

giovedì, marzo 13, 2025

Ruth Copeland

Personaggio strano e particolare, cantante e compositrice molto sottovalutata, assurta a una buona popolarità agli inizi degli anni Settanta con tre buoni album e poi scomparsa dalla scena.
Inglese, nata nel 1946, arrivò progressivamente alla musica con esperienze minori (Ed and the Intruders in particolare) fino a quando il suo bell'aspetto e una voce potente e black non la portò alla possibilità di firmare per la Apple Records.
Scelse invece la Invictus, l'etichetta fomdata dai mitici Brian Holland, Lamont Dozier e Eddie Holland, che avevano da poco lasciato la Motown, dopo essersi spostata a Detroit.

Incontrò lì Jeffrey Bowen, futuro marito, che aveva, pure lui, appena abbandonato la Motown e cercò di lanciare Ruth come la "Diana Ross bianca". I New Play Starring Ruth Copeland, pubblicarono, con scarso successo, il singolo "The Music Box" / "A Gift of Me" nel 1969.

Bowen le fece conoscere George Clinton, mente dei Parliament. Ruth fu chiamata a produrre (e a scrivere due brani) "Osmium" , l'album di debutto della band, nel 1970.

Nel 1971 Ruth Copeland pubblica il suo primo album solista "Self Portrait", pubblicato nell'ottobre 1971, accompagnata da vari membri di Funkadelic/Parliament oltre a Dennis Coffey dei Funk Brothers. Un lavoro tanto vario (tra soul, funk, folk, perfino "Un Bel Di" da "Madama Butterfly").

Ha l'opportunità di andare in tour, supportata da membri dei Funkadelic, con Sly and the Family Stone (in un periodo già ultratossico di Sly con cui rompe i rapporti e viene sostanzialmente cacciata).

Il secondo album "I Am What I Am" del 1971 è invece un piccolo gioiello funk soul con influenze West Coast, con due strepitose cover degli Stones, gli otto minuti infuocati di "Gimme Shelter" e i sette di "Play with fire" e canzoni piene (spesso scritte con George Clinton) di groove con la sua voce tra Grace Slick, Julie Driscoll, Betty Davis e Janis Joplin a troneggiare.
Suona anche prima di David Bowie il 28 settembre 1972 alla Carnegie Hall di New York ma con sacrso successo.

Chiude la carriera cinque anni dopo con "Take Me to Baltimore" con musicisti d'eccellenza come Bob Kulick e Dick Wagner (Lou Reed, Alice Cooper, Kiss etc), Steve Jordan (attuale batterista degli Stones) i fiati dei fratelli Michael e Randy Brecker le percussioni di Jimmy Maelen (ha suonato con "tutti").
Compone con lei alcuni brani Daryl Hall.
Non andrà bene e sparirà ben presto dalla circolazione.

Lascia la musica e si dedica al lavoro alla The Blue Book Building & Construction Network, la directory informativa per l'industria edile americana, fino alla pensione.

Gimme shelter
https://www.youtube.com/watch?v=jT_y6X58gkY

You're love been so good to me
https://www.youtube.com/watch?v=6UObKvytj2Y

martedì, febbraio 11, 2025

Going Underground di Lisa Bosi

L'amico PIER TOSI ci parla del recente doc dedicato ai GAZNEVADA.

Più di tanti altri i bolognesi Gaznevada hanno incarnato lo spirito del post-punk e della new wave nel nostro paese tra gli anni settanta ed ottanta in modo peculiare e senza scimmiottare modelli stranieri, creando capolavori come il loro album del 1980 'Sick Soundtrack'.

A loro è dedicato 'Going Underground', documentario di Lisa Bosi prodotto da Sonne Film e Wanted Cinema che sta iniziando a circolare in questi giorni in proiezioni singole prima della sua distribuzione.

La loro storia rappresenta anche un passaggio fondamentale nella storia dei movimenti giovanili del nostro paese: legati dapprima alle energie del '77 si mettono in luce con il primo brano 'Mamma Dammi La Benza' per poi prendere le distanze dal rock demenziale ed ispirarsi al punk seguendo l'influenza dei Ramones ma anche lo spirito di avanguardia di bands americane come Talking Heads,Tuxedomoon, Devo o i gruppi della No Wave newyorkese.

'Going Underground' racconta come meglio non si potrebbe questa storia evidenziando lo spirito inquieto del gruppo, la sua estetica aggressiva e la tendenza a mescolare arte e vita al limite dell'autodistruzione attraverso l'uso dell'eroina che in quegli anni si diffonde drammaticamente.

Il loro quartier generale a Bologna fino al 1982 è la Traumfabrik, un appartamento occupato in pieno centro condiviso con, tra gli altri, il fumettista Filippo Scozzari e da cui transitano tutti i personaggi di quella stagione creativa bolognese in un grande vortice di energie.

Avanguardia grafica, fumettistica e letteraria sono propellenti della creatività dei Gaznevada ed influenzano necessariamente anche 'Going Underground' nella sua fotografia dalla luce innaturale e dai toni acidi che fa da contrappunto al loro straniante universo sonoro.
Operazioni come questa sono spesso a rischio di eccesso di retorica e celebrazione o di esagerare dell'uso di interviste convenzionali dove le 'teste parlanti' si susseguono uccidendo il ritmo narrativo: in 'Going Underground' tutto ciò è scongiurato dagli stessi Gaznevada odierni che dominano la scena sin dai primi minuti come 'personaggi' raccontando loro stessi la storia attraverso uno stralunato ma efficace narrato-recitato che è una vera e propria narrazione dentro la narrazione, con il contrasto tra i loro visi attuali segnati e il loro aspetto dell'epoca che costituisce una vera e propria cifra stilistica.

I loro volti i cui dettagli 'bucano' lo schermo e le loro gesta sono ovviamente alternati ad una grande ricchezza di materiali d'epoca, spesso inediti, che mostrano la band in azione costituendo un essenziale corpus documentario.
Non è importante in 'Going Underground' una narrazione precisa fatta titoli di singoli o albums quanto invece portare più fedelmente possibile gli spettatori nell'urgenza espressiva e nelle emozioni dell'arte dei Gaznevada.

I membri della band affermano nel film che la loro volontà era di diventare ricchi e famosi: l'ultima parte della loro carriera li vede infatti raggiungere il consistente successo con il singolo 'IC Love Affair' del 1983 in cui i suoni di batterie elettroniche e sequencers prendono il sopravvento sulle chitarre prefigurando l'avvento dell'Italo-Disco, la rivoluzione dell'house music e l'enorme successo mondiale dei Datura, entità creata proprio da Robert Squibb dei Gaznevada dopo lo scioglimento del gruppo.
Sono proprio i suoni elettronici tra cui spiccano tre brani inediti composti appositamente per il progetto, a portare gli spettatori al termine di un'opera riuscitissima anche nel collocare questa avventura all'interno di un quadro più ampio.

lunedì, gennaio 27, 2025

Specials - Do nothing

Riprendo un post del 2019, correlato a un brano degli Specials, inserito nel secondo album "More Specials" del 1980 e pubblicato anche come singolo, che fa riferimento a una modalità di "vita" dei teenager inglesi di fine anni 70.

Dalla ricerca di Paul Corrigan del 1979: "The Smash street Kids".

La principale occupazione per i maschi della classe operaia è la ricerca di opzioni per trascorrere il tempo libero, l'arte dialettica del non far nulla.

Per la maggioranza dei kids il territorio di aggregazione è LA STRADA.
Non le romantiche e frenetiche strade del ghetto ma i pavimenti umidi di Wigan, Sheperd's Bush e Sunderland.
La principale occupazione in queste vie, la prima attività della sottocultura britannica è il FARE NIENTE, "DOING NOTHING"

L'elemento più importante del "fare niente" è il conversare, parlare, raccontarsi storie che non devono essere per forza reali o verosimili, ma quanto più interessanti possibili.
Si parla di calcio, dei rapporti sociali, non per divulgare idee ma per comunicare l'esperienza del chiacchierare.

Nel combattere la noia i ragazzi non scelgono la strada come incantevole spazio aggregativo ma come terreno in cui ci sono più possibilità che le cose si verifichino.

Altra componente del "fare niente " sono le risse...
legittimano l'etica del "fare niente" del sabato e non sono motivate da fattori territoriali o di gruppo....
Le risse sono solo qualcosa nel NULLA.

SPECIALS - Do Nothing
https://www.youtube.com/watch?v=0S1BC0XVB6s

Each day I walk along this lonely street
Trying to find, find a future
New pair of shoes are on my feet
Cause fashion is my only culture

Nothing ever change, oh no
Nothing ever change

People say to me just be yourself
It makes no sense to follow fashion
How could I be anybody else
I don't try, I've got no reason

Nothing ever change, oh no
Nothing ever change

I'm just living in a life without meaning
I walk and walk, do nothing
I'm just living in a life without feeling
I talk and talk, say nothing

Nothing ever change, oh no
Nothing ever change

I walk along this same old lonely street
Still trying to find, find a reason
Policeman comes and smacks me in the teeth
I don't complain, it's not my function

Nothing ever change, oh no
Nothing ever change

They're just living in a life without meaning
I walk and walk, do nothing
They're just playing in a life without thinking
They talk and talk, say nothing
I'm just living in a life without feeling
I walk and walk, I'm dreaming
I'm just living in a life without feeling
I talk and talk, say nothing
I'm just living in a life without meaning
I walk and walk, do nothing


Ogni giorno cammino lungo questa strada solitaria
Cercando di trovare, trovare un futuro
Un nuovo paio di scarpe sono ai miei piedi
Perché la moda è la mia unica cultura

Niente cambia mai, oh no
Niente cambia mai

La gente mi dice di essere semplicemente te stesso
Non ha senso seguire la moda
Come potrei essere qualcun altro
Non ci provo, non ho motivo

Niente cambia mai, oh no
Niente cambia mai

Sto solo vivendo una vita senza senso
Cammino e cammino, non faccio niente
Sto solo vivendo una vita senza sentimenti
Parlo e parlo, non dico niente

Niente cambia mai, oh no
Niente cambia mai

Cammino lungo questa stessa vecchia strada solitaria
Cerco ancora di trovare, trovare un motivo
Un poliziotto viene e mi dà uno schiaffo sui denti
Non mi lamento, non è la mia funzione

Niente cambia mai, oh no
Niente cambia mai

Stanno solo vivendo una vita senza senso
Cammino e cammino, non faccio niente
Stanno solo giocando in una vita senza pensare
Parlano e parlano, non dicono niente
Sto solo vivendo una vita senza provare emozioni
Cammino e cammino, sto sognando
Sto solo vivendo una vita senza provare emozioni
Parlo e parlo, non dico niente
Sto solo vivendo una vita senza senso
Cammino e cammino, non faccio niente

lunedì, gennaio 20, 2025

Lou Reed - Street Hassle

Il migliore brano di Lou Reed in assoluto, a mio parere e per i miei gusti, e tra i più originali, particolari, iconici nella storia del rock (degli anni Settanta soprattutto), per quanto scarsamente ricordato e considerato.

Un brano in cui troviamo tutta la carriera artistica di LOU REED, dai Velvet Underground alla fine.

Undici minuti crudi e minacciosi, una suite divisa in tre sezioni distinte (il cui titolo gioca sull'assonanza di hassle con asshole): Waltzing Matilda, Street Hassle e Slipaway.
Un intreccio di storie di prostituzione (maschile a favore di una donna), droga, amore, morte.

"Volevo scrivere una canzone che avesse un grande monologo rock al suo interno. Qualcosa che avrebbero potuto scrivere gente come William Burroughs, Hubert Selby, John Rechy, Tennessee Williams, Nelson Algren o Raymond Chandler. Mischiandoli tutti insieme, ecco Street Hassle". (Lou Reed)

Brano prevalentemente orchestrale, registrato nell'autunno del 1977 al Plant Studios di New York e pubblicato nell'omonimo album del febbraio 1978.
Il chitarrista Jeff Ross fotografa bene il momento:
"C'era un'enorme quantità di scotch e di anfetamine.
La combinazione poteva causargli una rabbia tremenda.
Lou aveva un'anfetamina preferita, la Desoxyn, che viene usata per far ripartire il tuo cuore quando muori, quindi puoi immaginare".


STREET HASSLE (tratto dall'omonimo album) è una mini sinfonia brutale, malata, infetta, figlia di un periodo drammatico per una New York in bancarotta, allo sbaraglio, culla del vizio più estremo.

https://www.youtube.com/watch?v=4LK9JjW2noo

Il fotografo Bob Rock è drammaticamente chiaro:
"Lou mi ha fatto entrare New York nel cranio alla fine degli anni '70. Mi ha mostrato cose che nessun altro avrebbe mai potuto mostrarmi. Ogni tana di dissolutezza e peccato...
Lou conosceva club underground come quelli che sicuramente non troveresti a Londra. Lou conosceva preti. Lou conosceva criminali. Lou conosceva il più gay dei gay.
Dimentica il punk. Quello era roba da dilettanti".


Dopo un disastroso tour in Europa, la dissoluzione della band, la fine della relazione con la compagna Rachel Humphryes, enormi problemi economici, la dipendenza dalle sostanze, Lou si tuffa in "I wanna be black", quello che diventerà "Street Hassle".

Un album costituito utilizzando brani scartati e parti registrate dal vivo con successive sovraincisioni in un assemblaggio caotico e non particolarmente coerente e riuscito.
Ma è "Street Hassle" che lo rende indimenticabile, iconico, unico.

Le radici erano in una sorta di improvvisazione basata su un solo riff suonata nel tour europeo, intitolata "Affirmative Action (PO#99)" (https://www.youtube.com/watch?v=_STLs40P4U8), in cui si sente spesso il futuro titolo "Street Hassle" poi rielaborato in un brano di due minuti che fu convinto ad ampliare e che diluì in 11 minuti di canzone.

Il fonico Rod O' Brien ne ricorda bene la genesi:
Il giorno in cui abbiamo iniziato a mixare la traccia stavo ascoltando gli archi sulla base e c'era qualcosa in quegli archi. Suonavano così bene, davvero belli.
Così ho detto all'assistente ingegnere, 'Fammi un favore, premi semplicemente registra sul due tracce, voglio solo registrare questo, mi piace molto il suono di queste parti di archi.' Così le ho registrate, tutte da sole, e poi le ho riascoltate, solo per assicurarmi di aver ottenuto il nastro a posto.
E mentre la stavo riascoltando, entra Lou e dice, 'Cos'è quello!?' Ho detto, 'Oh, stavo solo scherzando con qualcosa...' E Lou dice: 'Usiamolo come intro...'
E da lì è andato tutto.

"Ci siamo seduti lì a lavorarci per due giorni e mezzo, tre. E poi Lou ha scoperto che avevo conservato tutti e tre i suoi pezzi vocali.
E lui: "Oh, è fantastico. Okay. Facciamolo in questo ordine. No, no, spostiamo questa parte qui..." E così abbiamo dovuto capire come far combaciare tutte queste sezioni e storie. E a quei tempi non c'era il computer, dovevi letteralmente tagliare il nastro, metterlo insieme, fare un cross-fade con due macchine e poi...
"Ah, no, non funziona". E poi riprovare. Sono stati due giorni e mezzo o tre di questo genere di cose, in cui abbiamo continuato a cercare di far fondere e scorrere le cose.
E proprio alla fine, Lou mi ha fatto un bel complimento.
Disse "Sai, hai scritto questa canzone tanto quanto me".


Per un passaggio di spoken-word tardivo, temendo che la sua sincerità sarebbe stata presa per un'ironia se l'avesse pronunciata lui stesso, Reed si avvicinò a un altro cantante e gli chiese se l'avrebbe eseguita: Bruce Springsteen, che quell'autunno era al Record Plant, lavorando a Darkness On The Edge Of Town.

La presenza del Boss è nella sezione Slipaway, (dal minuto 9:02 a 9:39), non accreditata per motivi contrattuali.

L'album non ebbe particolare successo (89° in USA)

FONTE per il post: https://damienlove.com/writing/babe-im-on-fire-the-making-of-lou-reeds-street-hassle/

Street Hassle

Waltzing Matilda whipped out her wallet
The sexy boy smiled in dismay
She took out four twenties 'cause she liked round figures
Everybody's a queen for a day
Oh, babe, I'm on fire and you know how I admire your
Body why don't we slip away
Although I'm sure you're certain, it's a rarity me flirtin'
Sha-la-la-la, this way
Oh, sha-la-la-la-la, sha-la-la-la-la
Hey, baby, come on, let's slip away
Luscious and gorgeous, oh what a hunk of muscle
Call out the national guard
She creamed in her jeans as he picked up her means
From off of the formica topped bar

And cascading slowly, he lifted her wholly
And boldly out of this world
And despite people's derision
Proved to be more than diversion
Sha-la-la-la, later on
And then sha-la-la-la-la, he entered her slowly
And showed her where he was coming from
And then sha-la-la-la-la, he made love to her gently
It was like she'd never ever come
And then sha-la-la-la-la, sha-la-la-la-la
When the sun rose and he made to leavev You know, sha-la-la-la-la, sha-la-la-la-la
Neither one regretted a thing
Street hassle
Hey, that cunt's not breathing
I think she's had too much
Of something or other, hey, man, you know what I mean
I don't mean to scare you
But you're the one who came here
And you're the one who's gotta take her when you leave
I'm not being smart
Or trying to be cold on my part
And I'm not gonna wear my heart on my sleeve
But you know people get all emotional
And sometimes, man, they just don't act rational
They think they're just on TV
Sha-la-la-la, man
Why don't you just slip

venerdì, marzo 15, 2024

The Jam - The lost album

I "lost album", quegli album pianificati ma mai realizzati, sono sempre stati materia affascinante e intrigante.

Nel caso specifico in realtà i JAM un lost album non lo hanno mai avuto anche se nel 1978, poco prima della registrazione dell'epico "All Mod Cons" si prefigurò una simile eventualità.
Il precedente "This Is Modern World" non aveva ottenuto un’accoglienza eccessivamente benevola dalla critica e dal pubblico e la preparazione per il nuovo lavoro si era fatta difficoltosa.
Occorreva una svolta.
Ma Paul Weller si trova a fare i conti con una preoccupante mancanza di creatività e il totale coinvolgimento con la propria compagna, Gill Price, lo porta a distaccarsi dal resto del gruppo, pensando anche allo scioglimento della band.

Il produttore Chris Parry, scelto per il nuovo lavoro, liquida i primi demo come inadatti.
Alcuni dei brani sono firmati dal bassista Bruce Foxton a cui dice in faccia: "Non sei un compositore, scordatelo e finché Paul non tornerà a scrivere, di questo progetto non se ne può parlare".

I due singoli usciti tra la fine del 1977 e gli inizi del 1978 non a caso contenevano una versione di un brano dei Kinks, "David Watts" (cantata prevalentemente da Bruce), un paio di discreti episodi firmati da Foxton, "News of the World" e "Innocent Man", e uno trascurabile di Weller "Aunties and Uncles (Impulsive Youths)".
La sola "A Bomb in Wardour Street" lasciava ben sperare, troppo poco però per celare un’inequivocabile impasse creativa.

Per il nuovo album ci sono anche la discreta "The night" di Foxton, in pieno stile 77 (recuperata come B side di "Down the tube station at midnight"), l'energica "Billy Hunt" (poi riregistrata per "All Mod Cons"), due titoli come "I want to paint" e "On sunday morning", di cui non esistono testimonianze sonore e "She's got everything" (stampato su un acetato in possesso di un noto collezionista mod), buona ma non esaltante canzone, tipicamente Jam.

"Come compositore non avevo idee, ero prosciugato. Le canzoni non erano all'altezza degli standard.
Era un brutto periodo per i Jam e i problemi arrivavano principalmente da me. Scrivevo solo canzoni sdolcinate, cercando di essere flashy o arty.
E sappiamo bene che non erano cose che avevano a che fare con i Jam".
(Paul Weller)

Dopo una fase di crisi profonda, Paul torna per un po’ ad abitare con i genitori a Woking, ritrovando, così, tranquillità e ispirazione.

Allontanato Chris Parry e assoldato il nuovo produttore Vic Coppersmith Heaven, i Jam si buttano a capofitto in "All Mod Cons", il primo capolavoro della band.

Registrato a Londra tra il 4 luglio e il 17 agosto 1978 in un clima, ricorda Foxton, “felice e rilassato, soprattutto vedendo che i brani uscivano alla perfezione e ci rendevamo conto che stava succedendo qualcosa di speciale”, porterà i Jam al sesto posto delle chart inglesi, vendendo più di 100.000 copie.

GRAZIE A CPT.STAX per la consulenza.

giovedì, marzo 14, 2024

Punky Reggae Party - Punk e reggae 1977

Riprendo l'articolo che ho scritto sabato scorso per "Il manifesto" nella sezione "Alias".

Nel 1977 la giornalista inglese Vivien Goldman, al lavoro per un articolo per "Sounds" sulle connessioni tra punk e reggae che stavano emergendo nella nuova scena inglese, intervistò Bob Marley e Lee Scratch Perry, di stanza a Londra per registrare "Exodus".
Bob cercava un ambiente più tranquillo dopo essere scampato ad un attentato a Kingston, in Giamaica.
Non che da quelle parti fosse tutto tranquillo (vedi gli scontri al carnevale di Notting Hill) ma sicuramente la vita era un po' più al sicuro.
Vivien portò con sè l'acetato del primo album dei Clash (che uscirà l'8 aprile) e fece ascoltare ai due la versione di "Police and thieves", brano di Junior Murvin che era stato prodotto proprio da Lee Scratch Perry.
All'inizio i due apparvero "spaventati" dalla voce roca di Joe, così in contrasto con il dolce falsetto che caratterizza l'originale.
Bob disse: "E' diverso ma mi piace. I punk sono i reietti della società. Così come i rasta. Anche loro difendono ciò che noi difendiamo".

Poco tempo dopo registrò il brano “Punky Reggae Party” che uscì nel 1977 su 12 pollici, solo in Giamaica.
Divenne poi la B side di "Jamming" e successivamente venne ripresa in versione live in "Babylon by bus" e comparve in numerose compilation.
Il testo fa chiaro riferimento alla scena punk, citando una serie di band dell'epoca, Jam, Damned, Clash, Dr.Feelgood e ripetendo “New wave, sei coraggiosa”.
Lo stupore di Bob Marley era immotivato, in quanto da parecchio tempo la musica caraibica (dal calypso allo ska fino al reggae) era entrata stabilmente nelle orecchie e nella cultura inglese.

Come sostiene Don Letts, DJ e tra i principali responsabili dell'arrivo del reggae nel punk:
"Tra il 1969 e il 1974 i dischi della Trojan Records erano nelle classifiche quasi ogni mese. Una serie senza precedenti di dischi che le persone hanno finito per cantare nei campi di calcio fino ad oggi. Fanno parte del patrimonio culturale dell’Inghilterra. È diventato parte della coscienza del popolo britannico. Forse non per tutti, ma abbastanza da rendere questo posto vivibile."

Don Letts, chiamato, come Dj, a riempire gli spazi vuoti durante i cambi di palco tra i vari gruppi punk che si succedevano sul palco del Roxy Club a Londra, in mancanza di materiale da suonare (il punk era agli albori e dischi ne erano usciti ancora pochi) iniziò a utilizzare brani reggae.
In buona parte sconosciuti ai giovani punk anche se personaggi come Joe Strummer e Paul Simonon (quest'ultimo cresciuto a Brixton) avevano già buona dimestichezza con il genere.
Già alla fine degli anni Cinquanta le decine di migliaia di giamaicani e altri caraibici arrivati in Gran Bretagna (che ben presto scopriranno non essere “madre” ma perfida matrigna) portarono con sé tradizioni culturali e dischi dal ritmo in levare.
Non a caso Georgie Fame and the Blue Flames nei primi anni Sessanta avevano in repertorio alcuni brani ska per allietare le serate dei primi mod londinesi e non esitò ad arruolare Rico Rodriguez, trombonista appena arrivato dalla Giamaica.
“Come musicista era difficile essere riconosciuto se non eri europeo o caucasico.
Quindi quello che facevo era quello che fanno tanti immigrati cioé stare con la mia gente, ma non portava soldi. Ho avuto la mia prima occasione quando ho iniziato a suonare con Georgie Fame. Suonava in un posto chiamato The Roaring Twenties a Carnaby Street. Dopo di che ho iniziato a registrare regolarmente con Laurel Aitken e ho suonato anche con Dandy Livingston. Quei primi anni in Inghilterra li ricordo per lo più come molto duri."


Nel 1964 “My boy lollipop” di Millie Small, dal ritmo classicamente ska, sbanca le classifiche britanniche e americane e istituzionalizza la musica giamaicana.

Nel 1968 nasce la Trojan Records, decisiva nel produrre e importare musica caraibica in Inghilterra, addirittura i Beatles ne prendono spunto per “Obladì Obladà”, la neonata scena skinhead la rende colonna sonora delle sue serate.
L'arrivo del punk fu un catalizzatore per le istanze socio politiche di bianchi e neri che, come dice Marley, si ritrovarono uniti dagli stessi problemi e i medesimi propositi.

Ancora Don Letts: “La cosa interessante era che i giovani bianchi della working class apprezzavano davvero il sound e l'atmosfera anti-establishment dell'intera cosa, amavano le linee di basso e il fatto che i testi parlassero di qualcosa; era come un reportage musicale. L'altra cosa bella è che c'è stato questo interessante scambio culturale. La loro musica incominciò ad essere influenzata da ciò che suonavo al “Roxy”.
Vedi i Clash o quando i Pistols si sciolsero e i Public Image iniziarono, tutto ruotava attorno alla linea di basso.
Le Slits sono un altro grande esempio di crossover reggae punk.
Ciò che il reggae ne ha ricavato è stata l’esposizione, che non è qualcosa da sottovalutare.
All'epoca non era un suono così popolare, ma tre cose lo hanno portato alla ribalta: il film “The Harder They Come”, la scena punk e Bob Marley. Quindi è stata una cosa bellissima vedere queste persone andare avanti comprendendo le nostre differenze, piuttosto che cercare di essere uguali. Sono davvero un prodotto di quello che ora chiamano il “Puny Reggae Party”, una testimonianza della forza della cultura nell’avvicinare le persone. Alla fine degli anni '70 esplode il punk rock, tutta l'etica del Do It Yourself, questa energia così contagiosa dalla quale vuoi essere coinvolto. Non era uno sport per spettatori. Tutti i miei fratelli bianchi presero in mano le chitarre. Anch'io volevo raccogliere qualcosa. Presi una videocamera Super-8, ispirata all'etica punk DIY e iniziai a filmare le band. Poi ho letto sulla stampa musicale: “Don Letts sta girando un film punk rock”
.
Ho pensato:
"È una buona idea, lo chiamerò un film".
Quello è stato effettivamente il mio primo film, tutto con la potenza e l'ispirazione del punk rock.”

Il reggae si diffonde presto nella scena punk.
I Clash ne fanno ampio uso, i Police ci costruiscono letteralmente un nuovo sound, in cui all'energia mutuata dal punk uniscono la capacità di renderlo irresistibilmente pop e fruibile, le Slits sperimentano inserendo trame new wave e punk a linee di basso dub, i Members arrivano dal pub rock, inaspriscono il sound verso il punk ma, fedeli al verbo Clash, utilizzano volentieri ritmi in levare.
Nel luglio del 1977, Johnny Rotten, ancora leader dei Sex Pistols chiamato in un'intervista radiofonica a scegliere una serie di brani da trasmettere monopolizza la trasmissione con canzoni reggae.
Quei suoni e ritmi che ritroveremo in abbondanza, scarnificati e scartavetrati nei Public Image LTD, sua successiva incarnazione artistica.
I nord irlandesi Stiff Little Fingers nel furibondo esordio “Inflammable material” del 1979 coverizzano “Johnny Was” di Bob Marley, i Ruts di Malcolm Owen nel primo album “The crack” mischiano irruenza, grande tecnica e tanto dub e reggae (soprattutto nella stupenda “Jah war”).
Non dimenticando il singolo reggae del 1977 di Elvis Costello “Watching the dectives”, l'incedere, dello stesso anno, minaccioso di “Peaches” degli Stranglers, il Joe Jackson di “Sunday papers” e “Beat crazy”.

E la fine dei Settanta ci porta la “rivolta” TwoTone records con Specials, Madness, Selecter, The Beat a riprendere lo ska originale , accelerarlo e fonderlo con l'urgenza punk e riportare quei ritmi, atmosfere in classifica, unendoli spesso a testi militanti.
Uniti alla nascita di una scena reggae autoctona con nomi come Steel Pulse, Aswad, UB40 e alla “dub poetry” di Linton Kwesi Johnson, rendono la musica caraibica parte integrante di quella Britannica.
Per sempre.

giovedì, gennaio 25, 2024

Gil Scott Heron - The subject was faggots

Gil Scott Heron - The subject was faggots
https://www.youtube.com/watch?v=h2KZ7jaTb68

Probabilmente il brano e il testo più controversi della carriera di GIL SCOTT HERON.

Tratto dall'album d'esordio del 1970, Small Talk at 125th and Lenox, è un attacco sprezzante e omofobo alla comunità queer e omosessuale.
Da una parte potrebbe essere derubricato a una interpretazione non personale di un comune discorso di chi disprezza le differenze sessuali.
In questo senso alcuni critici lo considerano come una voluta provocazione per indurre alla riflessione sul tema.

Ma pare invece evidente che Gil affronti il tema in prima persona, ironizzando pesantemente sui “froci” (come li definisce), partendo dal presupposto diffuso nella comunità nera dell'epoca, soprattutto nell'ala più politica, che l'omosessualità fosse un' “attitudine controrivoluzionaria” che indeboliva la lotta per la conquista dei propri diritti e del potere.

Il maschilismo (parliamo del 1970) era ovunque nel mondo la normalità e le conquiste per le comunità gay ancora difficili, ardue e pericolose (anche e soprattutto fisicamente). L'omosessualità e la discriminazione nei suoi confronti non aveva ancora una dimensione politica ma era confinata alla definizione di “anomalia” sociale se non come malattia.

Giova ricordare anche che l'autore aveva 21 anni e ancora in fase di formazione e costruzione politico/ideologica.
D'altra parte Gil Scott Heron è sempre stato adamantino sui suoi errori: "Se devi pagare per tutte le cose brutte che hai fatto... mi aspetta un conto salato."

Il testo racconta in modo molto sgradevole ciò che ha visto all'ingresso di un locale gay dove si ballava.
Solo il cartello all'ingresso lo dissuade dall'entrare.

Il brano, voce e percussioni si chiude con un discutibilmente ironico:
"Se non ci fosse stato il cartello sulla porta con scritto 'Faggot Ball', forse sarei entrato, e Dio solo sa cosa sarebbe successo".

Garry Mullholland su “Uncut” suggerisce un'ulteriore approfondimento:
“Come molti radicali neri dell'epoca, il giovane Heron non era un liberale, e l'abisso tra il suo sé più e quello meno illuminato suggerisce una psiche fratturata con cui si è rivelato difficile convivere.”

Un'ultima osservazione mutuata da un forum sul web (non firmata):
“Faggot era un epiteto fin troppo comune, anche (e soprattutto nei) gruppi della Nuova Sinistra.
L’attivismo e l’avanguardia negli anni Sessanta erano convenzionalmente macho e il linguaggio omofobico e sessista era la norma. Sarebbe stato eccezionale se Gil non avesse usato quelle parole, anche se, come ho sottolineato all'inizio, uno dei pochissimi attivisti della Nuova Sinistra/Potere Nero (che non era associato alla Liberazione delle Donne, per dire) ad affermare la Liberazione Gay, era Huey Newton- che pure deve aver fatto parte dell'ispirazione artistica di Heron.
Tuttavia, ascoltandolo meglio, avverto un senso di stupore e meraviglia nella sua inflessione. Sento sicuramente qualcosa di beffardo, ma anche qualcosa di affascinato. Evoca un erotismo che a volte è alla base dell'omofobia: la paura della seduzione. Tuttavia, non è spaventato e sembra troppo sfumato per essere disgustato.
La risata (che si sente di Gil) sembra più imbarazzata che beffarda, e la sua introduzione nervosa e ridente ha questo tipo di vulnerabilità che può essere descritta solo come vergogna.
Il discorso è molto più diretto, ma poi li descrive in modo quasi amorevole. Sembra qualcosa che potrebbe provenire da un artista gay con una profonda conoscenza dei meccanismi interni della vita gay.”


The subject was faggots
We'd like to do a poem, if I can find it
Called, called "The subject was faggots"
Wait a minute. Yeah, yeah, Charlie's arms can hold out we're gonna do it
Because it came up one night
When I caught myself going to a dance
Going to a dance that was being held on 34th street 8th avenue
I'm sure you're all aware, what famous, what famous dance houses they have there
And I was standing outside, not being cool huh
Trying to find out who was going to go in, you know, that I'd figure I'd be able to talk to
And they were holding a faggot ball in the next half of the building
So I got kinda confused and I had to sit down and write this poem
The subject was faggots
And the quote was
Ain't nothing happening but
Faggots and dope
Faggots and dope
Faggots and faggots and faggots
Who lying
Dot, dot, dot, dot, dot
Like that
34th street and 8th avenue
Giggling and grinning and prancing and shit
Trying their best to see the
Misses and miseries and miscellaneous misfits
Who were just about to attend the faggot ball
Faggots who had come to ball
Faggots who had come to ball
Faggots who were balling
Because they could not get their balls inside the faggot hall
Balling, balling, ball-less, faggots
Cutie, cootie and snootie faggots
I mean you just had to dig it
To dig itThe crowning attraction being the arrival
Of Miss Brooklyn
Looking like a half-act in a miniskirt
With swan feathers covering his or her, uh, its pectorals and balls
As she, uh, he, uh, it
Prepared to enter the faggot ball
But sitting on the corner, digging all that I did
As I did
Long, long, black limousines
And long, flowing evening gowns
Had there been no sign on the door saying
"Faggot ball"
I might have entered
And God only knows just what would have happenedThe subject was faggots
I'm glad you made it, Charlie, I'm glad you made it

martedì, gennaio 09, 2024

The Complete Obscure Records Collection

Riprendo l'articolo scritto per "Il Manifesto" sul box (pubblicato dalla Dialogo Records) che raccoglie il catalogo della Obscure Records di BRIAN ENO.

La complessità e l’ampiezza dell’opera di Brian Eno, la concettualità filosofica della sua produzione, la capacità di muoversi in ambiti spesso conflittuali l’uno con l’altro con totale disinvoltura, ne hanno fatto un artista inclassificabile e costantemente al di fuori da ogni possibile catalogazione.
Dalla breve era con i Roxy Music, alle sperimentazioni soliste, fino alle grandi opere in veste di produttore e al percorso all’interno dell’ambient music, la sua carriera è ricchissima e sempre stimolante, immersiva, impossibile da riassumere e difficile da comprendere se relativizzata a un contesto di “musica pop”.

Ha preceduto la new wave di qualche anno con le sue prime opere soliste , ad esempio con “Here comes the warm jets”, del 1974, l’ha affiancata con “Before and after science” nel 1977, ne ha colto e assorbito i suoni, portandoli alla corte di David Bowie per la “trilogia berlinese”, immergendosi nella nuova ondata con la produzione di Talking Heads, Ultravox!, Devo, fino agli U2.
Scoprendo la scena “No Wave” new yorkese con nomi estremi come James Chance e Lydia Lunch.

Negli anni Ottanta introduce il concetto di Ambient Music (mutuata dalla “Furniture Music” o meglio, nell’originale francese, “Musique d’Ameublement” - “Musica per arredamento” - di Erik Satie, coniato nel 1917), idea che già preconizzava nel 1975 in un’intervista:
“Credo che siamo arrivati a un passo dall’usare musica e i suoni registrati con la stessa varietà di opzioni che adottiamo per i colori: potremmo usarla solo per colorare l’ambiente, potremmo usarla per modificare il nostro umore in modo quasi subliminale. Prevedo che il concetto di “muzak”, una volta spogliatosi delle sue connotazioni di immondizia sonora, avrà nuova (e assai fruttuosa) vita”.

In realtà già negli album solisti dell’epoca non mancavano brani contemplativi ma che si inserivano in contesti musicalmente più allargati e eterogenei.
Ma è nelle note di “Ambient 1: Music for airports” del 1978, primo di quattro capitoli di “musica ambientale” (seguirà “Music for films”, in tre progressive versioni) che codifica il concetto:
“L’ambience si definisce come un’atmosfera, un’influenza circostante: come una tinta. La mia intenzione è produrre pezzi originali apparentemente (ma non esclusivamente) destinati a momenti e situazioni particolari, nella prospettiva di costruire un catalogo piccolo ma versatile di musica ambientale adatta a un’ampia gamma di mood e atmosfere.L’obiettivo dell’ambient music è calmare e offrire uno spazio per il pensiero. L’ambient music deve poter conciliare vari livelli d’attenzione uditiva senza imporne uno in particolare: deve essere tanto interessante quanto ignorabile”.

E’ il culmine di un percorso, come visto, iniziato nel 1975 e a cui aveva dedicato addirittura un’etichetta discografica, la Obscure Records, operativa per soli tre anni, tra il 1975 e il 1978.
Pubblicò dieci album, tra cui uno autografo dello stesso Eno, in cui si sperimentava, osava, si creavano le basi per una moderna concezione della musica classica, tra ambient, avanguardia e ricerca. I dischi uscirono senza promozione, in sordina, andarono presto fuori catalogo diventando di scarsissima reperibilità e mai ripubblicati.

La nostra Dialogo li ristampa in un cofanetto, disegnato da Bruno Stucchi / dinamomilano, in edizioni CD e vinile completamente rimasterizzate da Andrea Marutti.
In entrambi i formati sono inclusi un libro con foto rare, materiale d'archivio e testi di, tra gli altri, Gavin Bryars, Bradford Bailey, David Toop, Max Eastley, Richard Bernas e Tom Recchion.
Gli album furono originariamente distribuiti dalla potente major Island Records, grazie anche alla convinzione di Brian Eno che la musica sperimentale dovesse essere accessibile e disponibile per gli ascoltatori di musica popolare, ai quali si tributava la “fiducia” che avrebbero saputo apprezzarne la qualità se solo fossero stati in grado di conoscerla.

L’esperimento non ebbe il successo sperato, nonostante lo sforzo e il nome già altisonante di Eno. Ci vorrà ancora parecchio tempo prima che il valore di queste produzioni fosse riconosciuto e arrivasse veramente a un pubblico relativamente più vasto, senza venire immediatamente derubricato a “musica sperimentale”.

I dieci album comprendono Gavin Bryars “The Sinking of the Titanic”,Christopher Hobbs, John Adams, and Gavin Bryars’ “Ensemble Pieces”, Brian Eno “Discreet Music”, David Toop and Max Eastley “New and Rediscovered Musical Instrument”, Jan Steele e John Cage “Voices and Instruments” (1976), Michael Nyman “Decay Music” (1976) Simon Jeffes /The Penguin Café Orchestra “Music from The Penguin Café” (1976), John White and Gavin Bryars “Machine Music” (1978), Tom Phillips, Gavin Bryars, and Fred Orton “Irma” (1978), Harold Budd “The Pavilion of Dreams” ‎(1978).

Si distingue in particolare l’album di John Cage e Jan Steele “Voices and instruments” in cui troviamo la chitarra di Fred Frith degli Henry Cow, l’incredibile voce/strumento di Robert Wyatt in “Experience no.2” in cui declama un poema di E.E. Cummings, solo voce, senza accompagnamento, in un’interpretazione (poco conosciuta) da brividi e la successiva “The wonderful widow of eighteen springs” composta da Cage nel 1942, brano per voce e piano che rimane chiuso e su cui il musicista percuote con dita o nocche delle mani mentre il testo riprende una parte di “Finnegan’s Wake” di James Joyce.
L’album prosegue con la voce della (da poco) compianta Carla Bley in “Forever and sunsmell”, accompagnata da sporadiche percussioni.

“Music from Penguin life” è invece il sorprendente esordio della Penguin Café Orchestra che nel 1976 prelude al concetto di world music. Attingendo da matrici sonore “lontane” non esprime una musica banalmente “esotica” ma utilizza quelle radici per creare, con una formazione di impostazione classica, un sound nuovo, stimolante, bizzarro, splendidamente creativo.
Al piano Steve Nye collaboratore di Frank Zappa, XTC, Japan, Fleetwood Mac. L’album passerà quasi inosservato per venire poi riscoperto nel momento in cui la band trovò finalmente visibilità.

Anche Michael Nyman trova nella Obscure l’opportunità dell’esordio con “Decay Music”, sublimazione del minimalismo. Continuerà la carriera con opere poco fruibili al grande pubblico, trovando però il successo con la colonna sonora del film “Lezioni di piano” di Jane Campion, nel 1993, con premi e nomination ai Golden Globe e Bafta.

“Discreet Music” di Brian Eno è un disco minimalista, parte del quale composto originariamente per una possibile ulteriore collaborazione con il fidato amico Robert Fripp ma che che alla fine venne pubblicato in chiave solista (il suo quarto album, il primo con il nome completo, i precedenti pubblicati solamente come “Eno”). Fu un album particolarmente gradito a David Bowie e che pare lo spinse a cercare la collaborazione di Eno per l’imminente serie di album che diventò la cosiddetta succitata “Trilogia Berlinese”.

Il resto della produzione della Obscure è altrettanto interessante per chi vuole (ri)scoprire un progetto unico nel suo genere, coraggioso, precursore e innovativo.
Certo, è anche ostico, richiede attenzione e approfondimento ma, in tempi di fruizione pressoché totalmente superficiale e disattenta, ben vengano operazioni che riportano la musica a quello che è sempre stata: Arte.

mercoledì, novembre 01, 2023

Quadrophenia

Riprendo l'articolo che ho scritto per "Alias" de "Il Manifesto" sabato scorso.

Usciva il 27 ottobre 1973 in USA (pur se la data è controversa e incerta. E' plausibile anche il 26 mentre alcune fonti indicano perfino il 19 o il 29) e il 2 novembre in Inghilterra, l'opera rock “Quadrophenia”, sesto (doppio in questo caso, come “Tommy”) album in studio degli Who.

Townshend, compositore ambizioso e dalla mente aperta a mille influenze (da Charlie Parker a Wagner), aveva già più volte sperimentato con il formato e concetto di “opera rock”, da quelle abbozzate nei brani “A quick one while's away” da “A quick one” (1966) a “Rael” da “Sell Out” (1967), a quella che ne è diventato simbolo e prototipo, “Tommy” (1969) a un tentativo, naufragato, “Lifehouse”, che finì per essere ridotto a semplice album, “Who's next” (1971), diventato uno dei capolavori della musica rock in assoluto.
L'anno successivo Pete Townshend ci riprova.
Dapprima con un progetto intitolato “Rock Is Dead, Long Live Rock” da cui sarebbe dovuto essere tratto un film.
In parallelo un’altra idea, chiamata “Four Faces” ossia quella di rappresentare in un disco le personalità dei quattro Who, riportandoli agli esordi.

In mezzo a tante idee e suggestioni Pete si ricorda di una notte trascorsa tra i mod a Brighton a metà anni Sessanta, dopo un concerto degli Who, in cui trovò una sensazione di libertà mai più provata e allo stesso tempo un senso di inadeguatezza rispetto alla società circostante.
Scrive febbrilmente una serie di pensieri e note, le stesse contenute nel booklet del disco. E da lì incomincia a lavorare sul nuovo soggetto.

Dalla fine del 1972 Pete compone, arrangia, suona, rifinisce, aggiunge, cancella, accarezza l'idea di registrare il nuovo album in quadrofonia (alla fine quasi impossibile da realizzare e perciò l'idea fu abbandonata).

Dichiara di avere scritto una cinquantina di canzoni anche se realisticamente non dovrebbero superare la trentina. La storia viene ristretta e decurtata da alcune ulteriori tematiche (che ritroviamo nei provini scartati) che avrebbero espanso l'album probabilmente a un triplo. Il 21 maggio 1973 iniziano ufficialmente le registrazioni. “Quadrophenia” è l’unico album degli Who interamente composto da Pete Townshend che arriva con i demo in cui le parti orchestrali e dei synth sono già suonate e quelle previste per i sodali Roger, John e Keith già impostate e pronte ad essere incise.
E lo scrive a chiare lettere sulla copertina:
«Quadrophenia is in its enterity by Pete Townshend».

Gli Who in questo album danno il meglio di sé, raggiungono l’apice delle capacità, il suono degli strumenti è tra i migliori in assoluto sentiti su un album rock. Non sapranno mai più ripetersi a questi livelli.

Pete Towsnhend: «È stato l’ultimo grande album degli Who. Non abbiamo mai registrato qualcosa di così ambizioso e audace ed è stato anche l’ultimo album in cui Keith Moon era in un buono stato di forma».

Il risultato è un lavoro orchestrale, sinfonico, a tratti vicino alla musica classica, magniloquente ma è soprattutto uno dei primissimi esempi di fusione tra musica rock ed elettronica.
Townshend lo aveva già palesato nel precedente “Who's next” con brani come “Baba O' Riley” e “Won't get fooled again” ma è in “Quadrophenia” che l'uso del sintetizzatore (l'ARP 2500, un'innovazione per l'epoca) diventa predominante e supplisce alle parti orchestrali.

La storia dell'opera vede protagonista il giovane mod Jimmy che vive il passaggio drammatico e drastico, avvenuto in pochi giorni, da una dimensione adolescenziale all’età adulta, attraverso alcune esperienze traumatiche ma anche esaltanti (la battaglia con i rocker, un amore fugace e tradito, l'identità e l'appartenenza acquisite nel gruppo dei mod). Quando (nella storia dell'album) si ritrova su uno scoglio in mezzo al mare a pensare alla sua vita e alle recenti vicende non si capisce se sia il preludio a un suicidio o al passaggio a una nuova vita.

Non lo chiarisce nemmeno lo stesso autore. “Non so davvero come possa tornare da quello scoglio o se anneghi, vinca o perda o qualche altra cosa. Non ho davvero deciso cosa succeda. Mi piace che la decisione finale sia nelle mani dell’ascoltatore”. (Pete Townshend).

Entra in gioco un altro aspetto peculiare dell'opera.
In un'epoca escapista in cui il rock si divideva tra band hard e glam che esaltavano la triade “sesso, droga e rock 'n' roll” e quelle prog che evocavano storie di elfi, demoni, epiche battaglie, Townshend sceglie quella di un ragazzo del proletariato inglese, esponente tipico della working class, che cerca una fuga da una condizione sociale opprimente, che perde il lavoro e si ritrova da solo, in collisione con famiglia e amici, in un mondo che sta cambiando e lo sta lasciando indietro.

L’album ebbe un’accoglienza molto positiva sia da parte del pubblico che della critica, vendendo oltre un milione di copie.
Purtroppo si verificarono parecchi problemi durante il tour di supporto. Fin da subito gli Who si resero conto di non poter eseguire l’opera interamente e alcuni brani vennero immediatamente tolti dalla scaletta. Townshend si accorse di dover cambiare chitarre e accordatura una ventina di volte in ogni concerto.
Spesso l’impianto non era adeguato a supportare l’impatto sonoro e la complessità della strumentazione.
Il pubblico reclamava i soliti successi ma soprattutto si annoiava a morte ad ascoltare le lunghe introduzioni ad ogni brano che spiegavano la storia di “Quadrophenia” (soprattutto quello non inglese aveva difficoltà a comprendere il profilo dei mod e le vicende ambientate in un contesto tipicamente britannico).

Nel frattempo Roger alla domanda di come fosse Keith Moon nel 1973 risponde: «Un po’ più ubriaco del 1972».

La band chiuse il tour tornando in Inghilterra prima e poi con qualche data in Francia nei primi mesi del 1974. Successivamente i brani di Quadrophenia vennero quasi tutti esclusi dai live.
Sempre particolarmente attenti all’aspetto visivo, dopo aver trasposto nel 1975 su pellicola “Tommy” nel visionario e lisergico omonimo film di Ken Russell, con Roger Daltrey protagonista, gli Who approdano di nuovo al grande schermo nel 1979 con ilfilm “Quadrophenia” di Frank Roddam , giovane regista con scarsa esperienza che diventerà poi noto per avere concepito e venduto in tutto il mondo il format della trasmissione “Masterchef”.

Phil Daniels (che rimpiazza tra le proposte Johnny Rotten, dei Sex Pistols) si cala alla perfezione nei panni di Jimmy, Sting è un credibile capo dei mod, il film riproduce piuttosto accuratamente il clima del mondo mod nel 1965, anno in cui Townshend ha ambientato la vicenda. La proiezione di “Quadrophenia” contribuirà alla rinascita della scena mod (chiamata mod revival) e al suo rilancio discografico, grazie anche alla spinta che avevano dato i Jam di Paul Weller da un paio di anni. Quando il film uscì furono in molti tra critici e fruitori a equivocare la fine, con il salto della Vespa dalla scogliera, intesa come il suicidio di Jimmy.
In realtà il finale è presentato in un flashback nei secondi iniziali, in cui si vede il protagonista risalire a piedi la scogliera (dopo aver lasciato cadere la Vespa rubata a Ace Face e, simbolicamente, chiusa la sua esperienza illusoria con la cultura Mod).
Subito dopo, sulle note di The real me con Jimmy che in primo piano guida orgoglioso la sua Lambretta per le strade di Londra, la storia ricomincia dall’inizio.

“Quadrophenia” a cinquanta anni di distanza è diventato un classico, sia da un punto di vista musicale che culturale, una pietra miliare, riuscendo nel difficilissimo intento di uscire da un contesto prettamente britannico, facendosi comprendere anche in realtà tradizionalmente lontane e creando una serie di “scene” sottoculturali e artistiche in moltissime parti del mondo.
Uno dei rari dischi che ha raccontato in prima persona, come in una sorta di cronaca, un'epoca, riuscendo a cambiare i gusti e perfino la vita di migliaia di persone.

Ben fatto, Pete!

giovedì, ottobre 12, 2023

Il Supergruppo

Alla fine degli anni Sessanta in Italia molti artisti lasciano gli anni beat e si evolvono verso il prog, altri abbandonano, altri ancora proseguono sui soliti sentieri portando avanti ad libitum il nostalgico repertorio di classici di successo della decade appena finita.

Nel 1969 si forma (un po' artificiosamente) uno dei primi "supergruppi" di sempre, sicuramente il primo in Italia: IL SUPERGRUPPO.

Ricky Gianco, cantautore di discreta fama, tra i prime mover della scena rock 'n' roll nostrana recluta alcuni nomi "eccellenti" della scena beat nostrana: Victor Sogliani dell'Equipe 84 (basso e voce), Mino Di Martino dei Giganti (chitarra e voce), Gianni Dall'Aglio dei Ribelli (batteria), Pietruccio Montalbetti dei Dik Dik (chitarra e voce).

Il progetto durerà un anno, lasciando tre singoli, un album, una (sfortunata) partecipazione al Festival di Sanremo 1970 (accoppiati a Rocky Roberts) e scarso successo commericiale.

L'album (prodotto da Ricky Gianco) è di discreta fattura con quattro cover: "Vieni con noi" riprende "Day after day" degli Shango, "Bocca dolce" è la classicissima "Sugar sugar" degli Archies, "Uomini" la poco conosciuta "Melting Pot" dei Blue Mink e "Un caso di coscienza" di Riz Ortolani dall'omonimo film di Giovanni Grimaldi con Lando Buzzanca e la souleggiante "I'm gonna make you mine" di Lou Christie ("Hey hey cosa non farei").

Tra i brani autografi c'è l'arrembante beat dal portamento rhythmn and blues e dai tratti psichedelici di "Susa" (opera di Ricky Gianco), la strappalacrime "Accidenti" di impronta Procol Harum e la scanzonata "Uffa che barba" firmata da Franco Mussida dei I quelli, futuro PFM.
Chiude l'album la demenziale ma musicalmente interessante (tra bubblegum e beat) "Salviamo e blasamiamo".

L'album non è imperdibile, si muove tendenzialmente tra tardo beat, pop, bubblegum e palesa un'evidente scarsa coesione artistica, pur se permeata di tanto divertimento ma ha il valore di testimonianza (pur se con potenzialità inespresse).

ALBUM
1970: Il Supergruppo (Dischi Ricordi)

SINGOLI
1969: Ehi ehi cosa non farei/Bocca dolce (Dischi Ricordi)
1970: Accidenti/Salviamo e balsamiamo (Dischi Ricordi)
1970: Star con te è morir/Vieni con noi (Dischi Ricordi)

Festival di Sanremo 1970
https://www.youtube.com/watch?v=GF1vhAx3EzQ

Susa
https://www.youtube.com/watch?v=Sy7Qw63mTCQ

lunedì, luglio 04, 2022

70's New York


Riprendo l'articolo che ho scritto ieri per "Libertà".
Si parla della New York degli anni 70 in cui visse e crebbe PATTI SMITH, recentemente santificata a Piacenza in un concerto riservato, più o meno, ad autorità, correntisti della banca che lo ha organizzato, notabili e un pugno di fortunati a caso che hanno avuto l'opportunità di accedervi.
La "santa", la stampa ha dimenticato di ricordarlo, ha iniziato in un ambiente non propriamente borghese ed edificante.
Di questo parla, genericamente (ci vorrebbe un libro) l'articolo.


C'è una narrazione dietro a ogni evento, luogo, epoca.
E' importante che qualcuno racconti le cose come sono state, in modo fedele, prima che qualcuno si prenda la briga di farlo “per sentito dire” e tramandi tutt'altra cosa.
Se pensiamo a New York ci sembrerà impossibile ma negli anni Settanta era una città pericolosissima, violenta, in bancarotta, in totale disfacimento logistico e umano.
Erano tempi in cui la polizia, ai passeggeri in arrivo all'aeroporto JFK, distribuiva un volantino, corredato da minaccioso teschio, con la scritta “Benvenuti nella città della paura”, con un vademecum in cui si consigliava di evitare luoghi come Manhattan (per non parlare di Bronx o Harlem, zone in cui spesso nemmeno le forze dell'ordine avevano l'ardire di entrare), di non avventurarsi in strada dopo le 18 e di lasciare perdere assolutamente la metropolitana. Ci vollero anni per “ripulirla”, spesso utilizzando metodi altrettanto violenti e discutibili.

E' probabilmente una forzatura ma il famoso concetto che esce da “Via del Campo” di De André, “Dai diamanti non nasce niente/ dal letame nascono i fior” ben si addice alla situazione della Grande Mela dell'epoca.
Da cui nacquero tanti fiori.
Alcuni “del male”
, per citare Baudelaire, ma che rimangono tutt'ora splendenti opere d'arte.
La suddetta narrazione spesso trascura il clima di degrado e disfacimento, umano e sociale, l'eroina che scorreva a fiumi, la prostituzione diffusa per procurarsela (maschile e femminile), il crimine, le condizioni di vita al limite della sopravvivenza.

Lo ricorda Patti Smith in un'intervista: “Per me, essere affamata e senza un soldo ma essere libera di vivere in un casino e non dovermi preoccupare se non facevo il bagno per una settimana, era sufficiente”.
Da quel calderone infetto emergono nomi destinati ad entrare nella storia della musica e dell'arte e tanti altri rimasti nell'oscurità ma che hanno dato un contributo essenziale alla storia culturale di tutto il mondo. Nel 1978 Jim Carroll scrive il capolavoro “Jim entra nel campo da basket”, libro spietato che spiega drammaticamente il passaggio da un'adolescenza, all'insegna di una promettente attività sportiva, all'inferno dell'eroina. L'amica Patti Smith che da qualche anno bazzica New York, lo spinge a dedicarsi alla musica, che produce un album di incredibile intensità come “Catholic Boy”, del 1980. Patti amoreggia con il fotografo Robert Mapplethorpe, che intanto immortala la fauna dell'epoca con il suo occhio fotografico, e scrive album come “Horses” e “Radio Ethiopia”, prima di trovare il successo mondiale con “Because the night” scritta per lei da Bruce Springsteen, altro personaggio che alla Grande Mela deve molto.

Sono giorni in cui il punk sta aprendo strade insospettabili fino a poco tempo prima, convogliando nella sua scia un grande numero di giovani artisti che trovano finalmente una modalità di espressione, all'insegna del Do It Yourself (il fallo da te) e della possibilità di proporre la propria arte liberamente, senza legami con il mainstream.

Il cosiddetto “punk” new yorkese è in realtà un insieme di influenze e di entità unite dalla stessa attitudine ma spesso lontanissime da un punto di vista musicale e sonoro. Ramones e Dead Boys picchiano duro, Talking Heads e Bush Tetras suonano un funk metroplitano, mentre si fanno notare le devianze latine dei Mink Deville di Willy Deville, il minimalismo psichedelico dei Television, l'apocalisse elettronica dei Suicide e il pop dei Blondie. Wayne County non ha ancora cambiato sesso e nome in Jane e infiamma i palchi con un rock 'n' roll sferragliante, figlio dei padri (madri?) New York Dolls che sublimavano il travestitismo cantato da Lou Reed in “Walk on the wild side”, presentandosi sul palco vestiti da donne.

New York assorbe e restituisce le vibrazioni creative non solo dell'underground eroinomane ma anche nell'ambito più “commerciale” e cocainomane. La fastidiosa sottolineatura non è ricerca sensazionalistica ma la cruda realtà quotidiana dell'epoca e del luogo.
E', ad esempio, nelle discoteche della Big Apple che Mick Jagger trova l'ispirazione per spingere i Rolling Stones verso sonorità più discomusic (“Miss You” e “Emotional rescue”, tra le cause della frattura quasi insanabile, ai tempi, con Keith Richards), quella musica e ambiente tanto bistrattati ma che invece assimilavano nello stesso abbraccio bianchi, neri, portoricani, immigrati, etero, omosessuali, transessuali, senza alcuna distinzione razziale, sociale, sessuale.

Da queste parti, reduci dai capolavori berlinesi con David Bowie, approdano anche Brian Eno, per produrre, nel 1978, i Talking Heads e la mente dei King Crimson, Robert Fripp, pure lui a fianco della band di David Byrne e in “Parallel lines” dei Blondie. Nelle strade pulsano i ritmi dei primi germi del rap che troveranno casa nel nuovo album dei Clash, “Sandinista!” che registreranno proprio in città e faranno da cassa di risonanza mondiale per il nuovo sound. Nel frattempo il “signore di New York” per eccellenza, Lou Reed, incide capolavori tossici che potevano nascere solo qui, come “Street hassle”, il ruvidissimo “Live Take No Prisoners”, “The Bells” che fanno seguito a “Coney island baby”.

Da qualche parte, in appartamenti fatiscenti, nasce il Colab (Collective Projetcs Inc) che organizza mostre (in particolare il Times Square Show. Ai tempi Times Square era luogo pericoloso, di spaccio e delinquenza) con giovani artisti, destinati a diventare celebrità, come Jenny Holzer, Nan Goldin, Keith Haring, Kenny Scharf, Jean-Michel Basquiat e Kiki Smith.

"Stavamo tutti cercando di portare fuori l'arte dalle gallerie e proporla sulla strada. L'importanza del luogo è stato poter camminare per 42nd Street e vedere la cultura pop declinata attraverso film da tre dollari, blaxploitation, negozi di pornografia, prostitute, gang e droghe...ci ha permesso di parlare del ventre della cultura." (Tom Otterness).

Secondo la scrittrice Fran Lebowitz, tutti coloro che leggevano “Interview”, il periodico curato da Andy Warhol e Gerald Malanga, si conoscevano, un piccolo mondo che ha avuto un'influenza duratura sul gusto e sulla musica americana, sulla pittura, sulla poesia e sui divertimenti.

John Lurie è stato un esponente affine alla scena No Wave.
Saxofonista con i Lounge Lizards che destrutturavano il jazz, mischiandolo all'attitudine punk, come i Contortions di James Chance. Poi diventato famoso per i film con Jarmusch e Benigni (“Daunbailò” in particolare) fu diretto protagonista di quegli anni e riesce a rappresentare l'epoca in poche parole: “Eravamo così sicuri di noi stessi, non abbiamo mai dubitato di nulla.
Eravamo potenti, intelligenti, energici, fiduciosi, egocentrici e incredibilmente ingenui. Niente al di fuori del nostro raggio di quattordici isolati aveva importanza. Da Houston alla Quattordicesima Strada, dalla Bowery all'Avenue A, quello era l'unico universo. A quel tempo nell'East Village nessuno faceva quello che sapeva fare”
.

Gli artisti della scena collaborano, si incontrano, fondono esperienze, vite, creatività: “ Io e Jean-Michel Basquait dipingevamo spesso insieme e poi, magari, io mi esercitavo al sax e lui tornava a dipingere. C’era una meravigliosa, quasi bambinesca libertà nel modo in cui lavoravamo” (John Lurie). Erano anni in cui gli affitti erano bassi, in cui aspiranti scrittori, cantanti, ballerini potevano permettersi di vivere nel villaggio di Manhattan, prima che tutti i marginali venissero ulteriormente emarginati e sostanzialmente espulsi verso altre zone mentre incominciava la selvaggia gentrificazione.

Negli anni Settanta, creativi di ogni tipo potevano incontrarsi senza dovere per forza avere progetti comuni, scambiarsi consigli o discutere di teorie, mercati o movimenti che stavano esplodendo e crescendo.
Paradossalmente Lurie coglie uno degli aspetti salienti:
“New York ha certamente perso qualcosa. Per esempio: non è più pericolosa come una volta. Male. Prima dovevi essere un duro: ci voleva carattere per viverci.
Adesso sembra un grande shopping mall per gente che si fa pagare l’affitto da papà e mamma”.
Related Posts with Thumbnails