Dopo una breve sosta "forzata" si riparte alla perfezione con The Guv'nor, PAUL WELLER, con l'articolo che ho scritto per "Il Manifesto" nella sezione "Alias", ripercorrendo sinteticamente la sua carriera dagli esordi al nuovo "Find El Dorado".
Paul Weller è da tempo assurto all'invidiabile condizione di potersi permettere di fare quello che vuole, senza preoccuparsi più di tanto di pianificazioni o strategie discografiche.
Ha a disposizione un suo studio personale, il Big Barn Studios, che sfrutta a piacimento quando ha l'ispirazione.
La sua discografia solista negli ultimi anni si è arricchita di diversi album, singoli, ep, collaborazioni, non sempre riuscitissime ma costantemente contrassegnate da un livello qualitativo sempre dignitoso e tendente all'alto, a cui fa puntualmente seguito la scalata delle classifiche britanniche.
Il nuovo Find El Dorado, pubblicato alla fine di luglio è arrivato immediatamente al secondo posto.
Nonostante sia un album di cover.
"Sono canzoni che porto con me da anni. Hanno assunto nuove forme nel tempo. E ora mi è sembrato il momento di condividerle."
Come sua abitudine, le scelte non sono mai banali e le quindici canzoni scavano in ambiti profondi e oscuri, soprattutto inaspettati, come quando ripesca Bee Gees, Richie Havens o i Flying Burrito Brothers dell'ex Byrds Chris Hillman.
Più ovvio l'omaggio a uno dei suoi idoli, Ray Davies dei Kinks ma non un prevedibile brano della band, ma una sigla televisiva firmata dal chitarrista ma eseguita da un altro gruppo.
Azzeccatissima la riscoperta del soul rock di Lawdy Rolla dei dimenticati francesi The Guerrillas e il gran finale con Clive's Song, in duetto nientemeno con Robert Plant.
Come già sottolineato nessuno griderà al capolavoro ma la scelta è talmente oculata e poco comune che alla fine potrebbe sembrare un album di inediti, suonato con classe, eleganza e raffinatezza, perfetto ritratto del personaggio.
Fin dagli inizi, in realtà, ha sempre fatto quello che gli pareva, incurante del contesto in cui aveva incominciato a muoversi ovvero la scena punk rock londinese, con i suoi da poco nati The Jam, nel 1977.
Ci finirono dentro, come tantissimi altri ma distinguendosi volutamente e immediatamente.
Sound elettrico, amfetaminico, veloce e minimale ma con chiari riferimenti agli anni Sessanta e alla cultura mod. nessun vestito trasandato ma rigorosi completi in giacca e cravatta.
E quando la fanzine Sniffin' Glue, vera Bibbia del punk, parlò male di loro, giudicandoli nostalgici, Weller ne bruciò una copia sul palco del “Marquee”.
Anche Sid Vicious, icona punk per eccellenza, non se la cavò meglio quando molestò Paul in un locale.
Si prese un pugno e finì in ospedale "Lui l'ha iniziata e io l'ho finita".
La band si staccò velocemente dalla scena, girò il mondo in concerto e dopo i primi due grezzi album del 1977, In The City e This Is the Modern World, infilò una serie di gioielli compositivamente sempre più raffinati, come All Mod Cons (1978), Setting Sons (1979) e gli stupendi Sound Affects (1980) e The Gift (1982), portando una serie di singoli, da Going Underground a Town Called Malice in testa alle classifiche.
La musica non era più solo potente e arrabbiata ma guardava anche al folk, a Kinks, Beatles, Who e Small Faces, al soul e al funk.
In ottemperanza alla sua classica imprevedibilità caratteriale, Weller, all'apice del successo scioglie inaspettatamente la band, cogliendo tutti di sorpresa, i suoi compagni di avventura per primi.
Quello che appare un inspiegabile suicidio artistico, apre le porte alla nuova avventura degli Style Council, a fianco del tastierista Mick Talbot (già con Merton Parkas, Dexy's e Bureau).
Il nuovo progetto è un collettivo che ruota intorno al nucleo dei due musicisti.
Weller vuole creare un nuovo sound, un soul moderno, che attinga dalle più svariate influenze.
E così sarà.
Nel breve spazio di un lustro, dal 1983 al 1988, la band metterà insieme soul, jazz, funk, folk, hip hop, elettronica, perfino la musica classica orchestrale nel sottovalutato, conclusivo e scarsamente compreso, Confessions of a Pop Group del 1988, canto del cigno discografico dopo gli ottimi Café Bleu e Our Favourite Shop e l'incerto Cost of Loving.
Proveranno a portare la neonata house di Detroit nella musica inglese con Modernism: A New Decade ma l'etichetta lo rifiuterà, lasciando la band alla deriva e a spegnersi ingloriosamente (paradossalmente l'antitesi della voluta e brusca fine dei Jam).
Un'esperienza sperimentale, che ha rischiato tanto, non ponendosi mai limiti nell'osare commistioni e miscele sonore apparentemente improbabili.
Ebbero tanto successo e hanno lasciato un segno che è stato rivalutato nel giusto modo solo successivamente.
Paul Weller, alla fine degli anni Ottanta, si ritrova confuso e indeciso sul da farsi, soprattutto perché non ha un contratto discografico né una band e sembra che a nessuno interessi particolarmente una sua nuova avventura artistica.
Rimane in pausa per un paio di anni, riparte con il Paul Weller Movement in cui torna alle radici più rock, con il singolo Into Tomorrow che si affaccia timidamente nelle charts inglesi.
Ci vorrà la succursale giapponese della Go Disc a dargli una nuova opportunità.
Il primo omonimo Paul Weller del 1992 guarda ai consueti riferimenti ma introduce uno sguardo, poco praticato ai tempi, a quel sound che mischiava soul, folk, rock e blues, caro a nomi come Traffic o Joe Cocker, a cavallo tra i Sessanta e Settanta.
E' la formula giusta.
Il successivo Wild Wood e soprattutto il suo capolavoro assoluto, Stanley Road, del 1995, lo riportano in vetta alle classifiche.
E' la sua “terza vita artistica” (una particolarità pertinenza di pochi musicisti), un'ulteriore incarnazione all'insegna di una creatività che si è mossa nel tempo, ha assorbito cose nuove e vecchie, le ha fatte sue, personalizzate, rinnovate e rese una cosa pressoché unica.
Su tutto le sue capacità compositive, di rara efficacia e spessore, ancora brillanti e sorprendenti.
Forte del successo di nuovo ottenuto, l'avventura solista si dipana in varie direzioni.
Anche perché esplode nel frattempo il Britpop di cui è il più diretto padre putativo e a cui i vari Oasis, Blur, Supergrass non possono che rendere omaggio.
I primi anni 2000 segnano una battuta d'arresto ispiratrice, con album poco interessanti e ripetitivi (nonostante non manchino mai brani di grande spessore)
. Complice anche un periodo di abusi alcolici e di sostanze, che non portano sicuramente benefici.
Si riprenderà con una superba triade As Is Now (2005), lo sperimentale 22 Dreams, un doppio album in cui esplora vari generi (sorta di personale “Album Bianco”) e Wake Up the Nation (2010) dove ritrova l'amicizia e l'apporto dell'ex bassista dei Jam, Bruce Foxton.
Vira verso umori elettronici nell'incerto Sonik Kicks, preludio a Saturn Patterns del 2015, album decisivo, in cui sintetizza tutto ciò che ha suonato in ormai 40 anni in un Paul Weller Sound definitivo, immediatamente riconoscibile e totalmente personale, con l'utilizzo, con discrezione e oculatezza, dell'elettronica che si mischia a soul, rock, blues, Beatles, funk, l'amore per le ballate struggenti.
I successivi lavori, con l'eccezione dell'acustico folk di True Meanings, sono figli di questa nuova impostazione.
I concerti sono sempre grintosi, ricchi di sorprese, con qualche centellinato omaggio al passato remoto e la voglia di spaziare nell'ormai immensa discografia (18 album solisti, 5 con gli Style Council, 6 con i Jam più un numero spropositato di singoli, ep e altro).
Artista completo, vocalmente, a 67 anni, ancora possente, ottimo chitarrista, polistrumentista, tuttora compositore di altissimo livello.
Personaggio sempre di nicchia in Italia.
Per chi non lo conoscesse bene è il momento di farlo. Per i fan di riascoltarlo, c'è solo l'imbarazzo della scelta.
lunedì, settembre 08, 2025
Paul Weller
Etichette:
Heroes,
Mod Heroes,
Paul Weller,
Wellerism
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento