venerdì, dicembre 31, 2021

Dicembre 2021. Il meglio del mese


Nei giorni scorsi si è dato ampio rendiconto dell'anno trascorso ma il sunto del mese è immancabile.

PAUL WELLER - An Orchestrated Songbook con Jules Buckley & la BBC Symphony Orchestra
Registrato dal vivo il 15 maggio 2021 con l'orchestra della BBC Symphony Orchestra diretta da Jules Buckley e l'accompagnamento di Steve Cradock alla chitarra.
Diciotto brani riarrangiati con archi e fiati e un'impronta classica, sontuosa, solenne, pescati dall'ormai infinito repertorio, dai Jam (una commovente "English Rose" e "Carnation", gioiello spesso dimenticato che però non trae giovamento da questo pomposo trattamento) agli Style Council (quattro, che molto meglio si prestano all'uso dell'orchestra, con tanto di Boy George alla voce - incerta - in una comunque buona versione di "You're the best thing") alla lunga carriera solista, in cui spiccano quel capolavoro soul che è "On sunset" e una sempre bella "Wild Wood" con la voce di Celeste.
L'inarrestabile Paul si è tolto un'ennesima soddisfazione con risultati come sempre di alta qualità.

PIAGGIO SOUL COMBINATION & LAKEETRA KNOWLES - Soultimate
Ancora un gioiello di soul, latin, boogaloo, northern soul in arrivo dalla band toscanca che padroneggia la materia con una capacità unica. Soprattutto nella scelta dei suoni e nella capacità di riprodurre alla perfezione quelle atmosfere. Le canzoni sono di livello eccelso, il groove abbonda, album superlativo.

SMALL JACKETS – Just like this!
Spacca come sempre la band romagnola, che se ne esce con un album d torrido rock blues, rock ‘n’ roll, i 70’s nell’anima, un groove funk soul e un favoloso tiro che li ha sempre contraddistinti. I nove brani sono sempre di altissimo livello e rendono l’album pulsante e arrembante, tra i migliori italiani del 2021.

G.U.N. Inc - Grim Up North Inc.
Poderoso e spettacolare esordio di una super band che raccoglie nomi noti della scena italiana (da Hormonauts a Upset Noise), alle prese con un'originalissima miscela di punk e hardcore (tra TSOL e il meglio della scena californiana degli 80). Violentissimi, esecuzioni impeccabili, uno degli album dell'anno nell'ambito.
https://guninc.bandcamp.com/releases

GABRIELS - Bloodline
Un ep intenso per il trio di L.A. Un modernissimo gospel blues, ammantato di umori jazz, la voce di Jakb Lusk che riporta a quella di Antony Hegarty, un mood oscuro e minaccioso, grandi arrangiamenti orchestrali.
Da tenere d'occhio.

TERRACE MARTIN - Drones
Ospiti di grande prestigio (da Kendrick Lamar a Snoop Dogg, Leon Bridges, Kamasi Washington) per un album in cui un nusoul dal gusto jazz si accompagna a RnB, jazz, tribalismo. Moderno e pieno di spunti innovativi.

KINA - Questi anni
Un prezioso documento che sublima la storia dei KINA, una delle più importanti (hardcore punk) band italiane di sempre.
Il box contiene lo splendido docufilm "Se ho vinto se ho perso" di Gianluca Rossi (i dettagli del film con intervista al batterista Sergio Milani qui: http://tonyface.blogspot.com/2019/07/se-ho-vinto-se-ho-perso-di-gianluca.html), a cui si aggiunge un elegante libretto a cura di Marco Pandin con foto, testi e interviste ai protagonisti, relativamente al tour di reunion del 2019.
Documentato da un CD di un'ora registrato nelle 12 date tra Italia, Germania, Olanda in cui la band suona alla perfezione, potentissima e con una registrazione di primissima qualità.
In aggiunta cartoline e reperti vari.
Per chi reputa che Quegli anni siano stati importanti, un documento imperdibile.

CRISTINA DONA' - Desidera
A sette anni di distanza dal precedente lavoro (anche se non è certo rimasta con le mani in mano tra concerti, collaborazioni e altri progetti), la Donà, tra i nomi di vertice della scena cantautorale alternativa italiana, torna con un nuovo sorprendente album. Aspro, complesso, sperimentale, spigoloso, in cui alterna elettronica, orchestrazioni, la sua classica e riconoscibile scrittura. Ancora una volta siamo ad altissimi livelli.

RATS - Tenera è la notte
I Rats stupirono l’Italia (ma anche il mondo, visto il grande apprezzamento che dedicò loro John Peel alla BBC) con l’esordio “C’est disco”, nel 1981. La prima formazione, con la voce di Claudia Lloyd, non ebbe però ulteriore fortuna e il secondo album, pronto per le stampe, non vide mai la luce. La band proseguì con un’altra formazione, spostando l’indirizzo artistico/sonoro verso lidi più rock ‘n’ roll. Dopo quaranta anni viene finalmente stampato “Tenera è la notte”, evidenziando il rammarico per un’occasione perduta, tanto è ancora valido il materiale. Post punk dalla forte personalità grazie a una vena rock che aggiunge carattere e originalità. Un documento preziosissimo.

MAGIC POTION - Cast a spell
Band nata a Roma nella seconda metà degli anni Ottanta all'indomani della scissione dei Technicolour Dream, due album all'attivo e una serie di brani sparsi tra demo e 45 giri, ritrova la luce con una ristampa dell'opera omnia, più un brano registrato pochi mesi fa, "Cast a spell che era la B side di "Magic Potion" 45 giri degli Open Mind, da cui la band prende il nome, sorta di chiusura del cerchio.
Il sound della band era tipicamente psichedelico, strettamente avvinghiato ai colori inglesi tardo 60's, primi Pink Floyd in particolare. La preziosa ristampa ci consente di apprezzare una band di grande gusto e qualitativamente avanti rispetto al periodo delle incisioni.

TOM MORELLO - The Atlas Underground Fire
La seconda parte dell'album di collaborazioni coin gli artisti più disparati (Springsteen, Vedder, Damian Marley nel primo, Idles, Metallica, Ben Harper tra i tanti del nuovo). L'impressione è di un grande minestrone senza nessun amalgama, con brani scollegati, stili contrastanti, senza un filo conduttore.

KILLS BIRDS - Married
Bella grattuggiata che arriva da LA. Punk, noise, post punk, durezza chitarristica diffusa. Non male anche se un po' anonimi.

ALAN EVANS TRIO - Elephant Head
Album di ottimo funk strumentale con molte infueze conematografiche. Pur nella sua prevedibilità e scontatezza.

MODERN STARS - Psychindustrial
Secondo album per la band laziale che conferma la predisposizione a un sound atipico ai nostri giorni, che scava nelle lande più oscure e ipnotiche dello shoegaze ma con le radici ben piantate nel terreno ancora fertile dei Velvet Underground. Sette brani notturni e cadenzati per un lavoro molto personale.

LETTO

Paul McCartney - The lyrics: 1956 to the Present
Uno dei migliori (IL migliore?) libri musicali di sempre.
Anche se pertinenza soprattutto dei più profondi conoscitori di Paul e Beatles, contiene spunti imperdibili e storie uniche e importanti.
Estratto da cinquanta ore di conversazioni con il poeta Paul Muldoon, raccolte tra il 2015 e il 2020, "The Lyrics" è un monumentale (doppio) volume di 900 pagine arricchito da incredibili e inedite memorabilia, estratte dal suo archivio di oltre UN MILIONE di pezzi.
Paul parla di 154 brani che ha firmato, dai Beatles a oggi.
E' ironico, colloquiale, schietto, talvolta nostalgico, molto amabile nel raccontare in modo disarmante una delle carriere artistiche e umane più entusiasmanti degli ultimi 100 anni.
I brani sono in ordine alfabetico e quindi le storie si intrecciano, si salta dalla fine degli anni 50 agli 80, si torna ai Beatles, si corre ai Wings.
Non di rado i brani sono semplici facciate B di dimenticati 45 giri dei Wings o oscuri momenti di dischi minori.
Paul racconta di quelli dedicati ai suoi animali, il cane Martha ("Martha My dear"), il pony Jet ("Jet") o alla sua jeep ("Helen Wheels").
Quando in "Obladi Oblada" parla di Desmond, fa riferimento a Desmond Dekker e non a caso il brano è su un ritmo ska.
Il padre di Paul, Jim comprò il suo pianoforte da Henry Epstein, padre di quel Brian che anni dopo divenne mentore e manager dei Beatles.
Quando decide di comporre una "canzone scozzese" perché constata che ci sono solo tradizionali, scrive "Mull of Kyntire", consapevole che nel 1977, in piena esplosione punk sarebbe stato ignorato. Diventa il 4° singolo più veduto di sempre in UK e un classico.
Ci parla della sua infanzia proletaria (orgogliosamente più volte rivendicata), di come nelle sue canzoni ci siano spesso doppi sensi, messaggi nascosti, riferimenti colti, derivati da letture e studi, altri semplicemente e volutamente sciocchi.
C'è spesso il ricordo commosso di John e una lettura lucida dei loro contrasti.
Inserisce accordi (vedi "Michelle") solo perché "ci stanno bene".
"Ticket to ride" si riferisce anche a Ryde, sull'isola di Wight, dove i giovani Paul e John andarono in autostop a trovare gli zii di Lennon.
L'aspetto più interessante è la descrizione di come compone, come scrive, come si ispira ed è bellissima la rivelazione che segue:
"Con i Beatles non sapevamo leggere o scrivere la musica, così ce la inventavamo.
Molto di quello che abbiamo fatto è derivato da un profondo senso di meraviglia e non dallo studio. Non abbiamo mai davvero studiato musica".
Un libro definitivo che sviscera ulteriormente il mondo beatlesiano, prezioso proprio perché i quattro di Liverpool hanno rappresentato uno dei momenti più importanti nella storia del rock. Divertente perché Paul lo sa essere con uno humor particolare e personale, entusiasmante perché ci porta nelle profondità più oscure del suo mondo.
"Il bello dei Beatles è che eravamo una piccola band maledettamente brava.
Tutti e quattro sapevamo come accompagnarci l'un l'altro e suonare insieme e questa era la nostra forza. Con "Get back" volevo fare tornare la band agli esordi.
Ma far rivivere i Beatles di una volta non era possibile.
Era troppo tardi per consigliare di non dimenticare chi eravamo stati e da dove eravamo venuti."

Laura Carroli - Schiavi nella città più libera del mondo
La bellezza di una lotta sta nella lotta stessa, non tanto nel suo successo...
E Laura ha lottato sempre.
Ha vissuto il passaggio dall'antagonismo post 77 con gli "indiani metropolitani", abbracciando fin da subito la nascente scena punk bolognese, dagli incerti inizi in cui confluiva di tutto, alla creazione di quell'entità unica che furono i Raf Punk, l'Attack Punk Records, il collettivo nazionale "Punkaminazione" e tanto altro.
Laura racconta la vita complessa di chi si divideva tra lavoro, occupazioni, concerti, aggressioni fasciste, viaggi senza soldi in Europa e nell'agognata Londra dei primi anni 80:
La città è un gran luna park, un parco di divertimenti con tutto ciò che si può desiderare dalla vita, ma per salire sulle giostre ci vogliono molti soldi, non si può fare il giro di tutti i baracconi.
La scena hardcore e la "scelta" Crassiana, la scoperta e il lancio dei CCCP, avventure tragicomiche e sullo sfondo una disperata, erotica quanto dolce storia d'amore.
Lo sguardo è lucido e disincantato, nessuna agiografia dei "bei tempi", solo un ritratto fedele di come e cosa è stato e chi ci è stato (molti ricordi coincidono, eravamo nello stesso luogo).
Le considerazioni sono sempre acute e fanno spesso emergere aspetti mai sottolineati:
E' divertente vedere la rovina hardcore che si svolge solto il palco...tutti cercano di raggiungere il palco per fare tuffi e ributtarsi nelle onde tumultuose di corpi sudati trascinati da una musica forsennata.
Si, il maschio è servito, noi ragazze siamo state estromesse dalla brutalità muscolare...non c'è più posto per noi.
Laura continuerà, dopo questa esperienza, per altre strade, sperimentando, cercando, vivendo sempre intensamente.
Un'ennesima testimonianza di un periodo lontano che ha lasciato in chi lo ha vissuto una visione diversa della vita e che ha consentito a tanti di affrontarla in modo differente e con un altro sguardo.

Gil Scott Heron - L'avvoltoio
L'esordio di Gil Scott Heron come scrittore, nel 1970, ne denota già il carattere di futuro compositore di alcuni dei migliori testi della black music.
Preciso, duro ma soprattutto causticamente ironico, utilizza le storie per portare alla luce i problemi dell'America e del trattamento riservato agli afro americani.
Per scrivere il libro interruppe i (pur fruttuosi) studi universiatri, rischiando di non terminarli (ce la fece e si laureò alla Johns Hopkins University di Baltimora).
"Non credo sia un'esagerazione dire che la mia vita sia dipesa dall'essere riuscito a finire "L'avvoltoio" e a farlo pubblicare.
Metterlo insieme è stato il mio modo di camminare bendato sulla fune, sapendo che se non avesse funzionato, se non fosse stato pubblicato, non ci sarebbe stata nessuna rete di protezione in cui cadere e nessun buco in cui nascondermi, niente soldi per andare da qualsiasi parte".
"Volevo scrivere una storia che ognuno, che chiunque potesse trovare godibile, su cui tutti potessero formulare delle ipotesi a mano a mano che leggevano.
Ma i miei personaggi, il loro modo di parlare e la loro lingua dovevano essere fedeli al ghetto e l'omicidio fedele alla cultura del sottobosco criminale e ai suoi simboli"...spero che il birdwatching vi piaccia".
(Gil Scott Heron. New York. 1996).
Il mensile “Essence” lo definì “un forte inizio per uno scrittore con cose importanti da dire”. Il romanzo racconta la strana storia dell’omicidio di John Lee, attraverso le parole di quattro uomini che lo conobbero quando era solo un ragazzo che lavorava dopo la scuola, in attesa che accadesse qualcosa.
I racconti dei quattro sono il pretesto per descrivere un'America in cui soprusi, razzismo, violenza e ideali infranti erano all'ordine del giorno e che cinquant'anni dopo non sembrano, in molti casi, essere cambiati.
Un thriller brillante, veloce, ben scritto con freschezza e grande verve. Tradotto brillantemente da Paola Attolino che esalta tutte le sfumature dei dialoghi in "black english".
Gil scriverà un altro eccellente romanzo "La fabbrica di negri" ("Nigger's factory" (tradotto in italiano da Shake) ma preferirà poi votarsi alla poesia e alla forma canzone.
"Il romanzo non si presta a una scrittura immediatamente politica che è invece possibile nella poesia e nella canzone.
Il mio lavoro è serio ma è anche intrattenimento. perché voglio raggiungere la gente".

Vivien Goldman - La vendetta delle punk
Tra i tanti aspetti che hanno reso il PUNK così IMPORTANTE c'è stata la centralità della figura femminile che ha preso posto sul palco finalmente non più come figura comprimaria ma come protagonista principale.
Bastino nomi come Patti Smith, Siouxsie, Chrissie Hynde o Debbie Harry ma c'è tutto un sottobosco meno noto che va da PolyStirene a Pauline Black, Rhoda Dakar, le Slits, le Raincoats, Vi Subversa, Pussy Riot o nomi rivoluzionari come Grace Jones e mille altre che hanno aperto porte, orizzonti, possibilità a tante altre ragazze e ricodificato un genere apertanente e dichiaramente maschilista come il "rock".
Vivien Goldman, prestigiosa giornalista musicale, ma non solo, scrive un pregevole saggio in cui percorre varie esperienze di questi personaggi analizzando quattro temi fondamentali come identità, denaro, amore e protesta che dimostrano quanto il punk sia stato un elemento determinante e importante per la liberazione delle donne. Si parla anche di artiste sconosciute ma per ogni capitolo c'è una playlist dettagliata per andare alla ricerca di nomi oscuri.
Ma anche di nomi famosi:
"Oggi alcune delle sobillatrici sono artiste super commerciali come Beyoncé. Probabilmente è una delle nuove svolte della musica di protesta".
Un libro che va oltre un mero elenco di nomi, al contrario un'analisi profonda di un periodo di enorme importanza in ambito non solo musicale ma sociale e culturale.

Gil Scott Heron - L'avvoltoio
L'esordio di Gil Scott Heron come scrittore, nel 1969, ne denota già il carattere di futuro compositore di alcuni dei migliori testi della black music.
Preciso, duro ma soprattutto causticamente ironico, utilizza le storie per portare alla luce i problemi dell'America e del trattamento riservato agli afro americani.
Per scrivere il libro interruppe i (pur fruttuosi) studi universiatri, rischiando di non terminarli (ce la fece e si laureò alla Johns Hopkins University di Baltimora).
"Non credo sia un'esagerazione dire che la mia vita sia dipesa dall'essere riuscito a finire "L'avvoltoio" e a farlo pubblicare. Metterlo insieme è stato il mio modo di camminare bendato sulla fune, sapendo che se non avesse funzionato, se non fosse stato pubblicato, non ci sarebbe stata nessuna rete di protezione in cui cadere e nessun buco in cui nascondermi, niente soldi per andare da qualsiasi parte".
"Volevo scrivere una storia che ognuno, che chiunque potesse trovare godibile, su cui tutti potessero formulare delle ipotesi a mano a mano che leggevano.
Ma i miei personaggi, il loro modo di parlare e la loro lingua dovevano essere fedeli al ghetto e l'omicidio fedele alla cultura del sottobosco criminale e ai suoi simboli"...spero che il birdwatching vi piaccia".
(Gil Scott Heron. New York. 1996).
Il mensile “Essence” lo definì “un forte inizio per uno scrittore con cose importanti da dire”.
Il romanzo racconta la strana storia dell’omicidio di John Lee, attraverso le parole di quattro uomini che lo conobbero quando era solo un ragazzo che lavorava dopo la scuola, in attesa che accadesse qualcosa.
I racconti dei quattro sono il pretesto per descrivere un'America in cui soprusi, razzismo, violenza e ideali infranti erano all'ordine del giorno e che cinquant'anni dopo non sembrano, in molti casi, essere cambiati.
Un thriller brillante, veloce, ben scritto con freschezza e grande verve.
Tradotto brillantemente da Paola Attolino che esalta tutte le sfumature dei dialoghi in "black english".
Gil scriverà un altro eccellente romanzo "La fabbrica di negri" ("Nigger's factory" (tradotto in italiano da Shake) ma preferirà poi votarsi alla poesia e alla forma canzone.
"Il romanzo non si presta a una scrittura immediatamente politica che è invece possibile nella poesia e nella canzone. Il mio lavoro è serio ma è anche intrattenimento. perché voglio raggiungere la gente".

Gianrico Carofiglio - La nuova manomissione delle parole
Carofiglio riprende la prima edizione del libro, uscita undici anni fa, e ne fa un aggiornamento rapportato ai nostri giorni, radicalmente diversi, da un punto di vista sia politico che sociale.
Si parla di linguaggio, della sua aderenza alla "verità" e alla sua conseguente manomissione per fini elettorali e/o di tornaconto personale.
Si attinge spesso da altri libri, a citazioni, estraendo contributi significativi alla comprensione del saggio e della tesi di Carofiglio.
Il libro è un atto politico, una scelta di campo, una scommessa sulla possibilità di distinguere la buona dalla cattiva politica.
La scelta delle parole è un atto cruciale e fondativo: esse sono dotate di una forza che ne determina l'efficacia e che può produrre conseguenze...le parole possono costituire la premessa e la sostanza di pratiche manipolatorie ma anche razziste, xenofobe o criminali.
La disamina si concentra dal camio comunicativo che abbiamo vissuto/subito da Berlusconi in poi, di cui personaggi come Salvini e affini hanno saputo fare (drammaticamente) tesoro.
Le frasi fatte si impadroniscono di noi. Di noi e della politica, che, negli ultimi 30 anni, nel nostro paese è stata più che mai dominata dalla ripetizone di slogan volgari ma virali, di metafore grossolane. Come diceva Primo Levi: Quante sono le menti umane capaci di resistere alla lenta, feroce, incessante, impercettibile forza di penetrazione dei luoghi comuni?"
Libro intenso e denso ma lettura veloce e di grande efficacia.

VISTO

The Beatles Get back di Peter Jackson
Uno degli eventi più attesi degli ultimi anni, di cui si erano avute alcune interessanti anticipazioni ma che, contro ogni aspettativa, è riuscito ancora una volta, in modo tipicamente beatlesiano, a sorprendere e a cambiare la narrazione e la sostanza della “vera” storia dei Beatles.
Il regista Peter Jackson (al suo attivo pellicole come “Il Signore degli anelli”, “King Kong”, “Lo Hobbit”) ha selezionato tra 60 ore, girate da Michael Lindsay Hogg nel 1969, “riducendole” a sole otto (!), per confezionare uno dei docu film più particolari, nella sua unicità, della storia del rock.
Il film di Lindasy-Hogg, “Let it be”, era già uscito nel maggio 1970 (vincendo un Oscar per la colonna sonora), poco dopo lo scioglimento della band, mostrata in drammatica decadenza.
“Get Back” di Jackson cambia le carte in tavola e ci propone tutt'altra storia, con un gruppo in preda a cambiamenti e scontri personali ma ancora terribilmente vivo e creativo ma che, soprattutto, continua a volersi un sacco di bene.
Due puntualizzazioni sono necessarie: il film è pertinenza (quasi) esclusiva dei fan più sfegatati e profondi conoscitori dei Beatles. Solo loro sono in grado di apprezzare, sopportare, comprendere in pieno la lunghezza del film.
Per il resto del mondo le prove, gli scherzi, i dialoghi, i litigi, le improvvisazioni caotiche, le cover raffazzonate risulteranno insignificanti, noiose e inutili.
In seconda battuta, come si è sempre erroneamente creduto, non è rappresentata “la fine dei Beatles”, che, dopo queste riprese, resteranno insieme ancora per un altro anno, sfornando quello che è presumibilmente il loro capolavoro, “Abbey Road”. “Get back” è invece la ricostruzione del mese di lavoro della band che porterà, il 30 gennaio 1969, al famoso e breve concerto sul tetto della Apple Records, qui interamente documentato.
Si parte dal 2 gennaio 1969, quando Paul, John, George e Ringo si ritrovano in un enorme studio di Twickenham per preparare uno spettacolo, un rientro sulle scene, un ritorno alle origini (“Get back”) della band, dopo anni di voluta assenza dai palchi, una serie di capolavori discografici, l'ascesa nell'Olimpo della musica, arte, cultura, assurti a opera d'arte vivente.
Paul McCartney vuole che la band, dopo i sempre più numerosi contrasti degli ultimi tempi, si ricomponga per sfuggire alla forza centrifuga che sta proiettando ognuno versi altri progetti. Pensa ai Beatles che riprendano in mano gli strumenti e suonino come facevano agli esordi (sette anni prima, solo sette anni, durante i quali hanno cambiato il mondo della musica e non solo), per ritrovare spontaneità, freschezza, genuinità.
E che tutto ciò venga dettagliatamente filmato, dalle prove fino allo show finale. Che, anticipa il preveggente Paul, “tanto sarà il nostro ultimo concerto”.
Il progetto iniziale prevede di esibirsi a Sabrata, in Libia, nei resti del teatro romano. In poco tempo l'idea, pur suggestiva, viene cassata.
Si passerà a un concerto londinese a Regent's Park, a Londra. Ma l'unico a volerlo è lui, agli altri non interessa più risalire su un palco.
Passano i giorni, le tensioni salgono, John sembra assente (con Yoko costantemente a fianco), George infastidito e incattivito, Ringo annoiato.
Paul cerca di stimolarli “Non siamo pensionati del rock”), prende le redini delle prove ma finisce sempre malamente, tra nervosismo (George gli si rivolge, durante un'accesa discussione, in modo sprezzante, “Non mi infastidisci Paul, ormai non mi infastidisci più”), tempo perso, musicisti annoiati.
Alla fine George si alza e lascia il gruppo. “Ci si vede in giro in qualche locale” dice. La scena è incredibile, i tre sembrano non prendersela, pensano a sostituirlo con Eric Clapton, poi si lasciano andare all'isteria e alla depressione, con occhi lucidi e sconforto palpabile.
Lo convinceranno a ritornare e da lì la faccenda cambia radicalmente. Sono tutti più distesi, propositivi, emerge l'imponente figura artistica e creativa di Paul che compone, arrangia, crea in diretta capolavori immortali, rende geniali le bozze degli altri.
In mezzo gli scherzi, le battute, il caustico humor dei quattro che ritrovano unità e voglia di fare e stare insieme. Soprattutto quando si aggiunge Billy Preston, geniale tastierista (suonerà con Stones, Aretha Franklin, Ray Charles, Bob Dylan, Miles Davis, Elton John e mille altri) che passa a salutare i ragazzi (conosciuti ad Amburgo anni prima) e si ritrova di punto in bianco nella band. Osservare la sua faccia quando glielo propongono, così, sui due piedi, e quella dei quattro Beatles, subito entusiasti ad ascoltare quello che suona, è imperdibile.
La sublimazione dell'innocenza.
Ricordiamoci che Billy aveva 23 anni, i “quattro” andavano dai 25 ai 28. Anche se nel nostro immaginario ci appaiono adulti, immortali, saggi e onniscienti erano ancora ragazzi giovanissimi. La sua presenza rivitalizza la band, nascono nuove canzoni. Nel film ne vediamo la prima scintilla, le progressive modifiche, i reciproci suggerimenti, i cambiamenti, in un lavoro corale, condiviso, in cui ognuno apporta il proprio contributo.
Fino ad avere sotto gli occhi “Let it be”, “The long and winding road”, “Two of us”, “Don't let me down”, “Get Back” e le radici di successivi capolavori come “Something”, “All things must pass”, “Jealous guy”.
La band stringe i tempi, lo show, non ancora definito, si avvicina e alla fine decidono (ennesimo colpo di genio) di farlo sul tetto della Apple, nei cui studi si sono spostati.
Gli dei della musica assurgono al cielo, si avvicinano al divino.
Lasciando a terra l'incredibile fauna che li circonda anche durante le registrazioni (mogli, compagne, fonici, produttori, discografici, fotografi, cameramen, amici in visita, manager, personaggi di vario tipo).
E da lì, il 30 gennaio 1969, in un breve concerto di una manciata di brani, lanciano l'ultimo messaggio al mondo.
E' il momento clou del film (e degli anni Sessanta).
La gente in strada non capisce, sono i Beatles, si sentono ma non si vedono, si crea affollamento, in tanti salgono sui tetti circostanti per avvicinarsi e guardarli insieme (inconsapevolmente) per l'ultima volta, la maggior parte apprezza, in pochi protestano perché la confusione creata “danneggia il commercio”.
I Beatles, a dispetto dei detrattori ignoranti, suonano benissimo, cantano divinamente, diventano un unicum di suono, immagine, creatività.
L'icona Beatles risplende in tutta la sua luminosità, solamente perché sono loro e perché nessun altro è mai stato e mai sarà più come Paul, John, George e Ringo insieme.
Gli anni Sessanta si chiudono e un'epoca irripetibile lascia spazio ad altro (meglio o peggio è pertinenza esclusiva del giudizio personale).
Il capolavoro dei Beatles è stato nello sciogliersi alla fine del decennio di cui sono stati simbolo. Anche se, emerge chiaro dal film, non ne avevano alcuna intenzione all'epoca.
George confida a John e Yoko di voler fare un album solista con lo scopo di poter aver finalmente lo spazio che ormai meritava ma che nei Beatles non poteva avere, sottolineando che sarà anche un modo per rafforzare l'unità del gruppo.
Alcuni brani, che ritroveremo negli album solisti dei componenti, sono in predicato di entrare nel prossimo album della band.
Il motivo scatenante dello scioglimento emerge, inconsapevolmente, verso la fine del film, quando il manager Allen Klein si offre di gestire gli affari della band.
Paul vorrà il padre della moglie Linda, gli altri tre rifiuteranno e i Beatles finiranno (anche per questo).
E finalmente da queste immagini Yoko Ono, da sempre vituperata e considerata la causa della rottura, viene “scagionata”. E' sempre appiccicata a John ma non interferisce mai, se ne sta in silenzio, legge, prende appunti, fa persino l'uncinetto.
Sostiene la fragilità di John, ne smussa le asperità del carattere. E' costantemente presente ma con dolcezza, mai ingombrante o invasiva.
Uno dei momenti più esplosivi del film è quando arriva la polizia a sospendere il concerto sul tetto. Sono due giovani ragazzi che sotto gli elmetti e il piglio autoritario nascondono un caschetto alla Beatles.
Ma devono mantenere fede al loro ruolo.
Imbarazzati, impacciati, probabilmente devastati dall'ingrato compito. Le telecamere li spiano nel loro straziante dilemma.
Un altro elogio all'innocenza.
Tutto intorno esplodono i colori, la naiveté e la freschezza dei protagonisti, l'abbigliamento del pubblico del concerto sul tetto, le pettinature, le minigonne, le giacche a tre bottoni, la sensazione di un mondo nuovo che stava per esplodere.
“Get Back” è un inimitabile ritratto di un'epoca tanto esaltante quanto finita.
E che i Beatles hanno rappresentato, tanto più in queste immagini, in cui li vediamo veri, presenti, “umani” in maniera imbarazzante.
E per questo ancora più vicini e immortali.

The Peeble and the Boy di Chris Green
Ero partito con parecchi pregiudizi e molto scetticismo per questo nuovo film "mod" e invece mi sono piacevolmente ricreduto.
La trama è esile, qualità e contenuto non entreranno nella storia della cinematografia ma alla fine, soprattutto per chi ha vissuto e vive la cultura mod, "The Peeble and the Boy" è godibilissimo.
Il giovane John, al funerale del padre (che aveva raramente frequentato), scopre che era un mod.
Decide di portare le sue ceneri da Manchester alla spiaggia di Brighton con lo scooter del padre, indossando il suo parka, in occasione di un concerto di Paul Weller.
Lo accompagnerà la dolce ma decisa Nicki.
Vivranno diverse avventure tipiche di un road movie, ritroveranno le tracce del padre, personaggio noto nell'ambito mod degli anni 80 e renderanno giustizia alla sua memoria (evito di svelare la vicenda fino in fondo).
Sullo sfondo mods, scooter, parka, poster mod, colonna sonora con Jam, Style Council, Paul Weller, Chords, Secret Affair e tanti riferimenti "quadrophenici".
Nel film anche una breve comparsa di Patsy Kensit (co produttrice del film).
Tono un po' mieloso/melodrammatico ma la visione è consigliata.
Un'ulteriore sottolineatura è la constatazione di come un film del genere sia improponibile in luoghi extra Gran Bretagna in cui il fenomeno è comprensibile per la quasi totalità degli spettatori mentre altrove risulterebbe assolutamente indecifrabile e la trama oscura nei suoi significati.
In UK il Mod è diventato Cultura, altrove è rimasto nicchia.

giovedì, dicembre 30, 2021

Il mio 2021



Ancora un anno proficuo e bulimico per le mie velleità letterarie:
"CROCODILE ROCK" scritto in copia con Ezio Guaitamacchi segna l'approdo a una grande casa editrice, Hoepli, con grande spinta promozionale e tante soddisfazioni.

COMETA ROSSA mette a segno due nuove uscite, la biografia degli SMALL FACES e quella di GRAHAM DAY, scritta a quattro mani con Luca Frazzi.
(Entrambe ancora disponibili nelle ultimissime copie:
https://www.facebook.com/roberto.gagliardi.9828).

Ho partecipato con una serie di schede anche a "David Bowie. Tutti gli album" curato da Francesco Donadio.

Entusiasmante tornare ad Ales (Oristano) per il Festival RockXGramsci.

Con i NOT MOVING LTD abbiamo ripreso a girare un po' (Bologna, Torino, Pisa, Firenze, Piacenza, "Bloom"/Mezzago, Parma, Savona) e abbiamo registrato un nuovo album.
Nel fattempo Go Down records ha ristampato in vinile "Live in the 80's"

E' felicemente proseguita la collaborazione settimanale con il quotidiano di Piacenza LIBERTA', quella mensile con CLASSIC ROCK e VINILE, quella quotidiana con il portale RADIOCOOP, quella con IL MANIFESTO, é proseguita quella con GOODMORNING GENOVA, sia su Facebook, con video settimanali, che nel sito con articoli a sfondo calcistico/sportivo.
Con molto piacere continuo a fare parte delle giurie del PREMIO TENCO e dei ROCKOL AWARDS.

Tra le interviste di quest'anno:
Billy Bragg, Lydia Lunch, Negrita, Graziano Uliani, Wolf Alice, I Ministri.

INTO 2022
Due nuovi libri, un nuovo capitolo per Cometa Rossa, nuovo album dei Not Moving LTD con relative date promozionali, un album con un nuovo progetto musicale, una rassegna letteraria nelle valli piacentine con ospiti prestigiosi in cantiere.

mercoledì, dicembre 29, 2021

Film 2021


Una serie di eccellenti film musicali visti nel 2021.

Summer of soul (...or when the revolution could be not televised) di Ahmir "Questlove" Thompson
"We are black, we are beautiful, we are proud" (Rev. Jesse Jackson).
Semplicemente il film musicale più bello di sempre.
Che paradossalmente musicale non è o almeno non del tutto. Protagonista il The Harlem Cultural Festival a Mount Morris Park (ora Marcus Garvey Park), a Harlem, New York, una serie di concerti che andarono in scena dal 29 giugno al 24 agosto del 1969.
In totale parteciparono circa 300.000 persone al cospetto di nomi come Stevie Wonder, Nina Simone, B.B. King, Sly and the Family Stone, Chuck Jackson, Abbey Lincoln & Max Roach, The 5th Dimension, Gladys Knight & the Pips, Mahalia Jackson, Chambers Brothers e tanti altri.
Presentati da Tony Lawrence.
Il materiale è stato a lungo "dimenticato", abbandonato, ogni tentativo di farne un film rifiutato. Ahmir "Questlove" Thompson (membro dei The Roots) è riuscito alla fine a mettervi mano e a ricavarne un documento SPETTACOLARE
In cui a esibizioni mozzafiato (Stevie Wonder, Nina Simone, Sly and the Family Stone o come Gladys Knight & the Pips con una versione unica di "I heard it through the grapevine" e che salutano ballando con il pugno chiuso, Mavis Staple duetta con Mahalia Jackson in un gospel da brividi, David Ruffin incanta con "My girl", Ray Barreto porta il latin sound sul palco) si uniscono interventi di spessore socio politico, interviste alle persone, immagini della New York dell'epoca. Il reverendo Jesse Jackson parla alla folla, usa parole chiare, dure, incisive, sui diritti degli afroamericani. Gli artisti sono tutti ELEGANTISSIMI con look ricercati e raffinati.
Il dato saliente è il PUBBLICO, quasi totalmente nero.
Elegante, composto, sorridente, partecipe, consapevole.
Ci sono esponenti dei Black Panthers e anziane famiglie, bambini che giocano, giovani, estetiche esuberanti e raffinatissime.
La gente è coinvolta ma rispettosa, non si accalca, applaude, pensa, riflette, si diverte. Immagini antitetiche al carnaio fangoso e tossico di Woodstock.
Forse il motivo per cui tutto ciò non è mai stato trasmesso c'é.
Vedere quanto gli afroamericani fossero molto più "civili" e socialmente avanti rispetto a chi, nello stesso momento, mandava a morire migliaia dei suoi giovani in Vietnam, poteva fare la differenza.

Beatles - Get Back di Peter Jackson
Uno degli eventi più attesi degli ultimi anni, di cui si erano avute alcune interessanti anticipazioni ma che, contro ogni aspettativa, è riuscito ancora una volta, in modo tipicamente beatlesiano, a sorprendere e a cambiare la narrazione e la sostanza della “vera” storia dei Beatles.
Il regista Peter Jackson (al suo attivo pellicole come “Il Signore degli anelli”, “King Kong”, “Lo Hobbit”) ha selezionato tra 60 ore, girate da Michael Lindsay Hogg nel 1969, “riducendole” a sole otto (!), per confezionare uno dei docu film più particolari, nella sua unicità, della storia del rock.
Il film di Lindasy-Hogg, “Let it be”, era già uscito nel maggio 1970 (vincendo un Oscar per la colonna sonora), poco dopo lo scioglimento della band, mostrata in drammatica decadenza.
“Get Back” di Jackson cambia le carte in tavola e ci propone tutt'altra storia, con un gruppo in preda a cambiamenti e scontri personali ma ancora terribilmente vivo e creativo ma che, soprattutto, continua a volersi un sacco di bene.
Due puntualizzazioni sono necessarie: il film è pertinenza (quasi) esclusiva dei fan più sfegatati e profondi conoscitori dei Beatles. Solo loro sono in grado di apprezzare, sopportare, comprendere in pieno la lunghezza del film.
Per il resto del mondo le prove, gli scherzi, i dialoghi, i litigi, le improvvisazioni caotiche, le cover raffazzonate risulteranno insignificanti, noiose e inutili.
In seconda battuta, come si è sempre erroneamente creduto, non è rappresentata “la fine dei Beatles”, che, dopo queste riprese, resteranno insieme ancora per un altro anno, sfornando quello che è presumibilmente il loro capolavoro, “Abbey Road”. “Get back” è invece la ricostruzione del mese di lavoro della band che porterà, il 30 gennaio 1969, al famoso e breve concerto sul tetto della Apple Records, qui interamente documentato.
Si parte dal 2 gennaio 1969, quando Paul, John, George e Ringo si ritrovano in un enorme studio di Twickenham per preparare uno spettacolo, un rientro sulle scene, un ritorno alle origini (“Get back”) della band, dopo anni di voluta assenza dai palchi, una serie di capolavori discografici, l'ascesa nell'Olimpo della musica, arte, cultura, assurti a opera d'arte vivente.
Paul McCartney vuole che la band, dopo i sempre più numerosi contrasti degli ultimi tempi, si ricomponga per sfuggire alla forza centrifuga che sta proiettando ognuno versi altri progetti. Pensa ai Beatles che riprendano in mano gli strumenti e suonino come facevano agli esordi (sette anni prima, solo sette anni, durante i quali hanno cambiato il mondo della musica e non solo), per ritrovare spontaneità, freschezza, genuinità.
E che tutto ciò venga dettagliatamente filmato, dalle prove fino allo show finale. Che, anticipa il preveggente Paul, “tanto sarà il nostro ultimo concerto”.
Il progetto iniziale prevede di esibirsi a Sabrata, in Libia, nei resti del teatro romano. In poco tempo l'idea, pur suggestiva, viene cassata.
Si passerà a un concerto londinese a Regent's Park, a Londra. Ma l'unico a volerlo è lui, agli altri non interessa più risalire su un palco.
Passano i giorni, le tensioni salgono, John sembra assente (con Yoko costantemente a fianco), George infastidito e incattivito, Ringo annoiato. Paul cerca di stimolarli “Non siamo pensionati del rock”), prende le redini delle prove ma finisce sempre malamente, tra nervosismo (George gli si rivolge, durante un'accesa discussione, in modo sprezzante, “Non mi infastidisci Paul, ormai non mi infastidisci più”), tempo perso, musicisti annoiati.
Alla fine George si alza e lascia il gruppo. “Ci si vede in giro in qualche locale” dice.
La scena è incredibile, i tre sembrano non prendersela, pensano a sostituirlo con Eric Clapton, poi si lasciano andare all'isteria e alla depressione, con occhi lucidi e sconforto palpabile.
Lo convinceranno a ritornare e da lì la faccenda cambia radicalmente. Sono tutti più distesi, propositivi, emerge l'imponente figura artistica e creativa di Paul che compone, arrangia, crea in diretta capolavori immortali, rende geniali le bozze degli altri. In mezzo gli scherzi, le battute, il caustico humor dei quattro che ritrovano unità e voglia di fare e stare insieme.
Soprattutto quando si aggiunge Billy Preston, geniale tastierista (suonerà con Stones, Aretha Franklin, Ray Charles, Bob Dylan, Miles Davis, Elton John e mille altri) che passa a salutare i ragazzi (conosciuti ad Amburgo anni prima) e si ritrova di punto in bianco nella band. Osservare la sua faccia quando glielo propongono, così, sui due piedi, e quella dei quattro Beatles, subito entusiasti ad ascoltare quello che suona, è imperdibile.
La sublimazione dell'innocenza.
Ricordiamoci che Billy aveva 23 anni, i “quattro” andavano dai 25 ai 28. Anche se nel nostro immaginario ci appaiono adulti, immortali, saggi e onniscienti erano ancora ragazzi giovanissimi.
La sua presenza rivitalizza la band, nascono nuove canzoni.
Nel film ne vediamo la prima scintilla, le progressive modifiche, i reciproci suggerimenti, i cambiamenti, in un lavoro corale, condiviso, in cui ognuno apporta il proprio contributo. Fino ad avere sotto gli occhi “Let it be”, “The long and winding road”, “Two of us”, “Don't let me down”, “Get Back” e le radici di successivi capolavori come “Something”, “All things must pass”, “Jealous guy”.
La band stringe i tempi, lo show, non ancora definito, si avvicina e alla fine decidono (ennesimo colpo di genio) di farlo sul tetto della Apple, nei cui studi si sono spostati.
Gli dei della musica assurgono al cielo, si avvicinano al divino.
Lasciando a terra l'incredibile fauna che li circonda anche durante le registrazioni (mogli, compagne, fonici, produttori, discografici, fotografi, cameramen, amici in visita, manager, personaggi di vario tipo).
E da lì, il 30 gennaio 1969, in un breve concerto di una manciata di brani, lanciano l'ultimo messaggio al mondo. E' il momento clou del film (e degli anni Sessanta).
La gente in strada non capisce, sono i Beatles, si sentono ma non si vedono, si crea affollamento, in tanti salgono sui tetti circostanti per avvicinarsi e guardarli insieme (inconsapevolmente) per l'ultima volta, la maggior parte apprezza, in pochi protestano perché la confusione creata “danneggia il commercio”.
I Beatles, a dispetto dei detrattori ignoranti, suonano benissimo, cantano divinamente, diventano un unicum di suono, immagine, creatività.
L'icona Beatles risplende in tutta la sua luminosità, solamente perché sono loro e perché nessun altro è mai stato e mai sarà più come Paul, John, George e Ringo insieme.
Gli anni Sessanta si chiudono e un'epoca irripetibile lascia spazio ad altro (meglio o peggio è pertinenza esclusiva del giudizio personale).
Il capolavoro dei Beatles è stato nello sciogliersi alla fine del decennio di cui sono stati simbolo.
Anche se, emerge chiaro dal film, non ne avevano alcuna intenzione all'epoca.
George confida a John e Yoko di voler fare un album solista con lo scopo di poter aver finalmente lo spazio che ormai meritava ma che nei Beatles non poteva avere, sottolineando che sarà anche un modo per rafforzare l'unità del gruppo.
Alcuni brani, che ritroveremo negli album solisti dei componenti, sono in predicato di entrare nel prossimo album della band.
Il motivo scatenante dello scioglimento emerge, inconsapevolmente, verso la fine del film, quando il manager Allen Klein si offre di gestire gli affari della band.
Paul vorrà il padre della moglie Linda, gli altri tre rifiuteranno e i Beatles finiranno (anche per questo).
E finalmente da queste immagini Yoko Ono, da sempre vituperata e considerata la causa della rottura, viene “scagionata”. E' sempre appiccicata a John ma non interferisce mai, se ne sta in silenzio, legge, prende appunti, fa persino l'uncinetto.
Sostiene la fragilità di John, ne smussa le asperità del carattere. E' costantemente presente ma con dolcezza, mai ingombrante o invasiva.
Uno dei momenti più esplosivi del film è quando arriva la polizia a sospendere il concerto sul tetto.
Sono due giovani ragazzi che sotto gli elmetti e il piglio autoritario nascondono un caschetto alla Beatles.
Ma devono mantenere fede al loro ruolo.
Imbarazzati, impacciati, probabilmente devastati dall'ingrato compito. Le telecamere li spiano nel loro straziante dilemma. Un altro elogio all'innocenza.
Tutto intorno esplodono i colori, la naiveté e la freschezza dei protagonisti, l'abbigliamento del pubblico del concerto sul tetto, le pettinature, le minigonne, le giacche a tre bottoni, la sensazione di un mondo nuovo che stava per esplodere.
“Get Back” è un inimitabile ritratto di un'epoca tanto esaltante quanto finita.
E che i Beatles hanno rappresentato, tanto più in queste immagini, in cui li vediamo veri, presenti, “umani” in maniera imbarazzante. E per questo ancora più vicini e immortali.

ZEROCALCARE - Strappare lungo i bordi
E' molto bello avere un autore, fumettista, intellettuale (esatto, INTELLETTUALE) come ZEROCALCARE che scrive e propone piccoli capolavori come "Strappare lungo i bordi", con la capacità di gestire il difficilissimo equilibrio tra risata (anche grassa) e pura commozione, aprire ferite nuove e antiche, scrivere e rappresentare realtà e attualità in modo, allo stesso tempo, leggero e profondo.
Le sei puntate della serie su Netflix sono irresistibili e da vedere e il tanto criticato romanesco parlato è un'ulteriore aggiunta qualitativa.
Senza dimenticare i costanti riferimenti a quel sottobosco antagonista che continua a vivere, pulsare e (r)esistere in un mondo così difficile e rivoltante
Per me, stupendo.

MCCARTNEY 3,2,1
Paul McCartney racconta le canzoni dei Beatles, affiancato da un adorante Rick Rubin, in sei episodi di mezzora l'uno in onda su Disney+.
In rigoroso bianco e nero.
Ascoltano i brani davanti a un mixer, alzano e abbassano i canali, evidenziano parti, ne tolgono altre, in un affascinante gioco arricchito ovviamente da mille aneddoti.
I Beatlesiani li hanno sentiti ripetutamente ma fa sempre piacere sentirseli raccontare da Paul in persona.
Rick Rubin fa qualche domanda e poi si limita a dire "Wow" e "Fantastico" ma è il suo ruolo ed è quello che faremmo tutti
Paul "svela" che la parte di basso di "Maxwell's Silver hammer" è la sua (a quanto fare tolse quella suonata da George), che in molte canzoni lasciavano deliberatamente gli errori ("se non se ne accorgeva George Martin non se ne sarebbe accorto nessun altro"), di come il loro obiettivo fosse di andare costantemente avanti e come fossero spinti dall'entusiasmo e dalla voglia di sperimentare qualsiasi cosa gli capitasse a tiro in studio, della basilare influenza di James Jamerson dei Funk Brothers sul suo modo di suonare.
Dimostra quanto le sue linee di basso fossero basilari allo sviluppo dei brani dei Beatles, spesso quasi uno strumento solista.
E che finalmente è diventato un fan dei Beatles:
"Col tempo sono diventato un fan dei Beatles.
All’epoca ero solo un Beatle. Ora che l’intera opera del gruppo è alle spalle, la riascolto e penso: aspetta un attimo, com’è quella linea di basso?".
Niente di indispensabile ma per chi continua a credere che i Beatles siano la più importante opera d'arte, cultura e spettacolo del '900, la visione è ovviamente imprescindibile.

SIDNEY POLLACK / ALAN ELLIOTT - Amazing Grace
Raramente un doc musicale ha raggiunto una simile intensità, pathos, vetta di trasporto emotivo. Ci sono sequenze in cui é difficile non lasciare scorrere le lacrime, non farsi travolgere, venire i brividi.
Un film semplicemente SPETTACOLARE che documenta le due serate del 13 e del 14 gennaio 1972 in cui ARETHA FRANKLIN, artista di ormai enorme successo, tornò a cantare nella chiesa battista the New Temple Missionary di Los Angeles, dove aveva esordito con le sorelle sotto la guida del padre, C.L. Franklin.
Ad accompagnarla il reverendo James Cleveland con il Southern California Community Choir e la sua band con eccellenze come Bernard Purdie alla batteria, Chuck Raney al basso, Cornell Dupree alla chitarra, tra gli altri.
L'album ricavato dal concerto, "Amazing Grace", venderà 2 milioni di copie diventando il disco gospel di maggior successo di sempre.
Insoddisfatta dalla resa delle riprese e da problemi tecnici (solo recentemente sistemati con le nuove tecnologie) Aretha impedì l'uscita del film.
Solo dopo la sua morte gli eredi concessero il permesso. Le telecamere riprendono il concerto, diviso in due serate, ma soprattutto il pubblico, i musicisti, restituendo un'atmosfera incredibile.
A partire dall'estetica dell'epoca, proseguendo con sporadiche riprese a Mick Jagger e Charlie Watts, presenti nella seconda serata, riprendendo momenti di PURA ESTASI MISTICA in cui cadono coristi, James Cleveland, la stessa Aretha, componenti del pubblico, posseduti, in trance, mentre il sudore solca il volto dei protagonisti.
L'esecuzione di "Amazing Grace" é qualcosa che ci porta nell'irrazionale, nel divino, nel sopranaturale, "Old Landmark" travolge, "You'll never walk alone" toglie il fiato. I colori, il montaggio (diretto, grezzo, immediato), il contenuto artistico e culturale fanno il resto.
Uno dei migliori doc musicali di sempre.

Lydia Lunch - The war is never over di Beth B.
Nel migliore dei mondi possibili Lydia Lunch non avrebbe bisogno di presentazioni.
Siamo in un mondo imperfetto, di conseguenza due parole vanno dette.
Artista a 360 gradi, performer, cantante, musicista, compositrice, personaggio di prima grandezza nella scena “alternativa”, icona, disturbatrice, terrorista sonora e verbale. Potremmo aggiungere una lunga serie di accrescitivi e definizioni.
Possiamo riassumere il tutto in un concetto basilare ed elementare: personaggio unico.
La regista Beth B, da tempo immemorabile sodale di Lydia, ha realizzato un documentario sulla sua attivià artistica intitolato “The war is never over” (La guerra non è mai finita), un grido di battaglia inequivocabile.
Che ribadisce in un'intervista esclusiva in cui di certo non si risparmia:
“Andiamo amico mio... citerò Kafka "C'è speranza... ma non per noi". Il mondo come lo conosciamo raramente è stato senza conflitti, espropri di terre per le risorse naturali, schiavitù, un complesso di Dio, profughi creati da guerre inutili (molti dei quali negli ultimi settantacinque anni esportati dall'incredibile Complesso Militare Industriale degli Stati Uniti...ottocento installazioni militari in tutto il mondo, per non parlare del sistema di ingiustizia criminale americano, più prigionieri di qualsiasi altro paese del pianeta), la disuguaglianza dei sessi, il razzismo e, in generale, il disprezzo per la vita di questo pianeta e tutto ciò che contiene.
Possiamo fingere che questi problemi non esistano mentre conduciamo una vita comoda da classe media, ma questi problemi non vengono risolti ed è incredibilmente frustrante che come civiltà che ha tali incredibili progressi tecnologici, non abbiamo ancora progredito abbastanza per imparare come trattare il pianeta e le persone che ci vivono con più rispetto.
NO.
La guerra non è mai finita.”
Il documentario di Beth B non ci risparmia nulla. Crudo, essenziale, diretto, senza filtri, ci mostra lo spirito e l'anima iconoclasta di Lydia Lunch, approdata a New York agli albori del punk, a fine anni Settanta, da cui ha attinto il gusto per la provocazione, mai fine a sé stessa ma indirizzata a un concetto di abrasione delle certezze morali, dell'omologazione, la classica spina nel fianco alla cosiddetta “moralità” o comune senso del pudore.
Non solo da un punto di vista civico ma anche musicale. Peraltro, a quanto mi dice Lydia, è solo l'inizio.
“Che ne dici della parte due, ti chiedo? C'è solo una parte della mia carriera di quarantre anni che puoi spremere in settanta minuti. Ho portato a termine molti progetti da quando il documentario è stato terminato. Due album, una commedia, una sceneggiatura, più tour sia musicali che parlati.
Il mio podcast “The Lydian Spin” ora ha 117 episodi e continua a pubblicare un nuovo episodio ogni settimana.
Ho completato un documentario che ho prodotto con Jasmine Hirst chiamato “Artists- Depression/Anxiety & Rage” dove ho intervistato trentacinque persone di diverse discipline creative che uscirà il prossimo anno.
Il film è un'istantanea di ciò che ho fatto e continuerò a fare.”
Una vita, artistica e non, vissuta radicalmente, resistente a ogni contaminazione con il mainstream, posizione rara da trovare nel mondo accondiscente di oggi.
“Perché avrei dovuto cercare strade più facili? Non credo che nulla di ciò che faccio sia così "radicale". Documento le mie esperienze personali sullo sfondo degli eventi mondiali e parlo, scrivo, recito monologhi che descrivono sia la storia presente che la mia isteria riguardo a questi eventi.
Ho pubblicato troppi diversi tipi di musica, testi e persino fotografie per dipingere tutto come radicale, a meno che per radicale non intendi seguire il mio percorso e non essere dettato dalle tendenze, dai social media, dalla popolarità o dalle stronzate.”
La sua carriera è complessa, ricchissima e difficilmente riassumibile in poche parole.
Inizia con i Teenage Jesus and the Jerks, una delle band protagoniste della cosiddetta scena “No New York”, in cui nomi come quelli di Lydia, dei Contortions di James Chance, dei DNA di Arto Lindsay, riscrivevano la musica alternativa contemporanea, irridendo il clangore del punk rock (che a quel punto e al loro confronto diventava semplice epigone del pub rock e rock 'n' roll) inserendo nella loro proposta noise, jazz, sperimentazione, violenza, abrasione, il punk e l'avanguardia più estrema.
A produrre un signore che di suoni sperimentali se ne ne intende da sempre, Brian Eno.
E' il 1978 e da quel momento Lydia incomincia un lungo percorso che la porta tra musica e arte, sempre ai limiti.
Queen Of Siam del 1980 è il suo primo album solista e già preconizza alla perfezione il percorso futuro che la porterà a fianco di icone della musica più estrema, dai Sonic Youth (il piccolo monumento all'abrasione che è Death Valley 69) a Exene degli X (con cui condivide un conturbante libro di poesie), Nick Cave, Einsturzende Neubaten fino alla recente e devastante collabotrazione con Marco Bertoni dei Confusional Quartet, Franco Bifo Berardi e Bobby Gillesie dei Primal Scream nell'apocalittico progetto Wrong Ninna Nanna. Inoltre libri, film, video, collaborazioni di ogni tipo e concerti dal vivo di un'intensità rara, in cui riesce sempre a esprimere quel senso di “pericolo” e incertezza che ormai non troviamo più in nessun palco.
Lydia Lunch rimane ancorata al suo guscio che non significa auto ghettizzazione ma semplicemente consapevolezza di un ruolo che intende continuare ad affermare anche in un contesto culturale che concede sempre meno spazio alle diversità antagoniste e scomode. Quando le chiedo chi vorrebbe che vedesse il film a lei dedicato risponde sicura e spavalda:
“Chiunque sia stufo del pop pulp, chiunque non sia soddisfatto dello status quo. E che crede nel potere dell'individuo di superare il trauma e risorgere dalle ceneri per poter parlare. Qualsiasi individuo che sia stato trascurato, chiunque non abbia potuto ascoltare la voce di queste persone,o che non sia stato in grado di lanciare il grido di giustizia che è stato così spesso soffocato. Questa è la mia gente. Chiunque altro potrebbe farlo meglio o evitarlo del tutto. Comunque grazie.”
Lydia Lunch è un personaggio e un'artista unica, preziosa, da preservare, sostenere e seguire, perchè parla un linguaggio che sta scomparendo.
Quello che non conosce compromessi, che percorre cocciutamente strade sconnesse, ne apre di nuove, ritorna su quelle meno frequentate, incurante di successo, notorietà, guadagni facili, sempre in bilico, sempre in discussione, senza un futuro scritto, alla faccia di certi sloganistici “no future”.
Continua a chiedersi come le donne possano essere passate “da Medusa a Madonna”.
“The war is never over” non usa mezzi termini e ci mostra Lydia affrontare le tematiche femministe in modalità totalmente diverse dalla retorica “buonista” e a favore di telecamera del MeToo o mediaticamente spendibile. Anche in questo caso il linguaggio è scabroso, crudo, efficace e diretto come un pugno in faccia.
Il tutto declinato con ironia, umorismo, onestà, approccio esplicito e dissacrante.

A SOUL JOURNEY di Marco Della Fonte
“A Soul Journey” di Marco Della Fonte, è un gradevolissimo film che racconta il Festival Soul di Porretta Terme (che quest'anno raggiunge la 33° edizione e si svolgerà dal 27 al 29 dicembre: https://www.porrettasoulfestival.it/) attraverso le interviste a molti dei protagonisti.
Un film che trasuda passione e anche commozione.
Graziano Uliani in tutti questi anni ha portato star di prima grandezza (da Solomon Burke a Rufus Thomas) ma anche tanti nomi dimenticati, che hanno avuto successo e popolarità negli anni 60 e 70 e poi sono finiti nell'oblio.
E che ora non si capacitano della calorosa accoglienza ed entusiasmo che trovano in questa piccola cittadina emiliana, quando invece in patria nessuno se ne ricorda più. Da vedere, un documento importante.
Che ha, tra l'altro, vinto recentemente il premio come miglior documentario al London Independent Film Festival.

Todd Haynes - Velvet Underground
E' prassi ormai consolidata, una sorta di inevitabile necessità, indicare i Velvet Underground tra i gruppi più influenti e il loro primo album, uscito nel marzo 1967, come uno dei migliori dischi rock di sempre.
C'è ovviamente molto di vero, il gruppo di Lou Reed e John Cale, supportati dalla spinta visiva e artistica di Andy Warhol, creò uno stile unico, che mischiava gli scampoli del beat, con folk, sperimentazione, influenze di musica classica contemporanea, proto punk.
A cui si univano la spettrale voce di Nico, la chitarra di Sterling Morrison e la batteria primitiva di Maureen Tucker che in un momento in cui incominciava a emergere una generazione di musicisti sempre più raffinati e tecnici, percuoteva i suoi tamburi in maniera ossessiva, minimale, senza nessuna concessione alla tecnica.
Che peraltro, John Cale a parte, che veniva da studi classici, non era prerogativa nemmeno degli altri componenti della band.
In un'epoca in cui l'estetica si faceva sempre più colorata ed estrosa i Velvet si presentavano in nero e con giubbotti di pelle.
E mentre i testi delle canzoni in classifica svoltavano verso paradisi artificiali e sognanti, con afflati di pacifismo, anelanti amore ed escapismo dalla realtà, Lou Reed scriveva e cantava di eroina, sadomasochismo, prostituzione, devianze sessuali.
Il primo disco, ora assurto all'olimpo della storia del rock, famoso soprattutto per l'iconica banana in copertina disegnata da Warhol, passò praticamente inosservato. Vendette poche copie, non più di 30.000 (per l'epoca briciole) ma come ipotizzò Brian Eno “ognuna di quelle 30.000 persone dopo averlo ascoltato formò una band”.
I Velvet Underground sono votati alla distruzione ma soprattutto all'autodistruzione, sia artistica che fisica. E perdono pezzi, prima Warhol e Nico, poi John Cale.
Nel secondo album “White light/White Heat” ricorda Cale che “facevamo a gara a chi teneva il volume più alto, nessuno parlava più agli altri. Peggio dei bambini”.
v Infine lo stesso Lou Reed si stanca e lascia, dopo “Loaded” (che contiene due suoi capolavori, “Sweet Jane” e “Rock 'n' Roll”, che si porterà appresso nella carriera solista), il tutto in mano al solo Doug Yule, entrato a sostituire John Cale che porterà avanti, impropriamente, il nome del gruppo ancora per un po'.
Disintegrato il gruppo, Lou Reed troverà il successo grazie a una carriera solista tra le più fulgide dell'intera storia del rock, macinando momenti di eccellenza a provocazioni e sperimentazioni, qualche caduta di stile ma rimanendo sempre a livelli di assoluta eccellenza. John Cale prosegue un'oscura strada solista pur distinguendosi come produttore (gli Stooges di Iggy Pop, Nico, i Modern Lovers, Brian Eno, Happy Mondays, Siouxsie, Patti Smith) e come compositore di colonne sonore. Nico diventa un'icona dark, con dischi oscurissimi e ostici, persa negli abissi più bui dell'eroina, Sterling Morrison e Moe Tucker rientrano nell'ombra.
Il punk e la new wave tributeranno immediato omaggio ai Velvet Underground, riconoscendone l'importanza primaria come influenza sonora ma soprattutto attitudinale.
E il progressivo successo di Lou Reed li sublimerà come band seminale ed essenziale nella storia della musica rock.
John Cale e Lou Reed si ritroveranno in concerto a Parigi con Nico, nel 1972 e poi nel favoloso album tributo a Andy Warhol, morto da poco, nel 1990, “Songs fo Drella”, quindici canzoni composte insieme per ricordare il loro scopritore. Nel 1993 la formazione originale si riunì per un tour che, purtroppo, risultò parecchio deludente, come mi confermò amaramente la data milanese.
Come ogni gruppo di culto che si rispetti, dei Velvet Underground sono rimaste poche testimonianze video e anche quelle fotografiche non sono così frequenti. Non deve essere stato facile per il regista Todd Haynes riuscire a costruire un documentario di due ore dedicato alla band. “The Velvet Underground” risente infatti della scarsità di materiale, affidandosi, come è spesso frequente nei contesti visivi, a una lunga serie di testimonianze di protagonisti più o meno diretti della vicenda.
Ma è proprio in questa limitata possibilità di scelta che riesce a destreggiarsi, centellinando filmati e foto rare o inedite, riuscendo a tenere in magico e sapiente equilibrio la visione di un lavoro destinato a diventare un classico.
La partenza è un po' lenta ma necessaria ed efficace, con la contestualizzazione del periodo in cui la band nasce, il John Cale che arriva a New York dal remoto Galles, il Lou Reed che frequenta i locali gay della città, in una situazione in cui l'omosessualità è ancora vista come un male da estirpare anche con la forza e passibile di arresto. Spettacolari poi le immagini in bianco e nero alla Factory di Warhol, il laboratorio in cui l'artista creava e raccoglieva idee, persone, immagini e dove “la gente andava perché c'erano sempre le telecamere accese e questo faceva pensare loro che avrebbero potuto diventare delle star del cinema”.
La band é seduta in circolo con altri ragazzi e ragazze, a farsi leggere i tarocchi.
Sguardi febbrili, un'estetica che andava già oltre il concetto del beat o della psichedelia, non si curava delle mode e delle tendenze. L'arrivo di Nico, voluta nel gruppo da Warhol che, come spiega Cale, immaginava questo “iceberg biondo in mezzo a una band invece tutta vestita di nero” non fu bene accetto dal resto dei componenti che lo subirono come un'imposizione. Ma nella testa del loro mentore il gruppo era una sua opera d'arte e ci voleva una ragazza bella, attraente, misteriosa (e pure relativamente nota, avendo fatto una piccola parte nella Dolce Vita” di Fellini ed essendo stata una modella discretamente famosa). Fu lo stesso Cale a doversi occupare su come impiegarla vocalmente (nonostante avesse già inciso un 45 giri in Inghilterra prodotto dal giro Rolling Stones e suonato dal futuro Led Zeppelin, Jimmy Page) e a confezionarle un ruolo all'interno della band.
I Velvet Underground erano una specie di “quadro” di Warhol che lui portava nei musei o in situazioni artistiche.
La gente, i collezionisti, i radical chic, gli intenditori d'arte andavano per Warhol, la band si esibiva come compendio alla sua presenza ma come ricorda Moe Tucker, non erano interessati alla loro musica:
“Scherzavamo spesso su questo. Quanta gente se ne è andata stasera quando suonavamo? La metà? Ah allora è andata bene”.
“Sono stanco di dipingere e ho pensato ai Velvet Underground come a una combinazione di musica, arte e cinema, tutto insieme” (Andy Warhol).
Nel documentario si sentono le voci di Lou Reed, Sterling Morrison mentre John Cale e Maureen Tucker appaiono in immagini recenti, commentando con tranquillità e profondità le vicende. Ci sono anche David Bowie, vari esponenti della Factory, artisti, registi e un emozionato Jonathan Richman (leader dei Modern Lovers) che li vide in concerto una quarantina di volte e descrive alla perfezione cosa significava assistere a un loro concerto.
“Andy è stato fantastico e non sarebbe accaduto niente senza di lui. Non credo avremmo mai ottenuto un contratto senza la sua copertina o se Nico non fosse stata così bella. Abbiamo potuto fare quell'album così come ci piaceva solo perché Andy ci ha dato la massima libertà e nessuno avrebbe mai osato contraddirlo”(Lou Reed).
Il documentario ci mostra anche le convulse fasi finali, il tentativo di uscire dal giro New Yorkese ma invano.
“Nella West Coast erano hippies e non odiavamo gli hippies e il loro “pace e amore”, quella merda “pace e amore” la odiavamo. Sii realistico. Aiuta qualche homeless, fai qualcosa, invece di andartene in giro con i fiori nei capelli” (Moe Tucker).
Nel frattempo Lou Reed licenzia prima Warhol e poi John Cale, Nico preferisce una strada tutta sua, la band perde verve e viene superata dalle nuove tendenze musicali, fino al definitivo epilogo. Il film è un lavoro interessante, esaustivo, necessario, che scrive l'epitaffio definitivo su una band determinante e assolutamente unica e inimitabile.
Lou Reed ci lascia un'indicazione essenziale per ogni musicista:
“Noi concepivamo le canzoni come uno spazio aperto in cui non mettere cose in più ma toglierle che è l'esatto opposto di come lavorano gli altri. Non abbiamo mai aggiunto strumenti o chiamato session men a suonare. Non abbiamo mai inciso niente che non fosse possibile riprodurre dal vivo”.

Respect di Liesl Tommy
Quando guardiamo un film su qualche famoso artista dobbiamo, prima di iniziare, scrivere cento volte sulla lavagna "non è un documentario, è un film".
Di conseguenza, noi saccenti conoscitori di ogni virgola della storia del protagonista, dobbiamo metterci un cerotto sulla bocca ed evitare di puntare il ditino inquisitore sulla mancanza di questo o di quello.
E' UN FILM.
Teatrale, superficiale, "cinematografico", melodrammatico, enfatico, appunto.
Americano, soprattutto.
Detto questo, Jennifer Hudson è una credibile e superba Aretha (anche vocalmente, esteticamente e fisicamente regge il confronto), interpreta bene le sue instabilità e up and downs, le contestualizzazioni storico/scenografiche sono fedeli e (quasi) perfette, i particolari curati. Il film si ferma al ritorno al gospel di Aretha nel 1972 con "Amazing Grace".
"Respect" si colloca bene a fianco di "Ray" di Taylor Hackford su ray Charles e "Get on up" di Tate Taylor su James Brown.
Un dignitoso (per quanto eccessivamente lungo, quasi due ore e mezzo) omaggio.
Non entrerà nella storia ma gli appassionati apprezzeranno.

Gregory Fusaro - Se il cielo é tradito / Claudio Galuzzi
Claudio Galuzzi é stato uno dei personaggi più importanti in ambito culturale degli anni 90.
Era un intellettuale, un pensatore, un visionario, una figura ormai così desueta ai nostri giorni.
Una persona che conosceva in maniera approfondita musica, cinema, letteratura, arte. Ne conosceva gli aspetti più particolari, “alternativi” (quando ancora questa definizione aveva un senso e significava appartenenza, personalità, distinzione da quella massa che segue le mode, che non approfondisce, non ricerca, non ama la curiosità).
E metteva a frutto questo aspetto scrivendo, organizzando, parlando.
Per il sottoscritto é stato anche un caro amico, fino alla sua tragica scomparsa, nel 1998.
Un'amicizia tutta “padana”, riservata, senza tanti baci e abbracci.
Poche parole, tanta comunanza di intenti, di prospettive, speranze, progetti. E tanta ironia, perché era, come ogni intellettuale, persona molto divertente, che sapeva prendere e prendersi in giro.
Negli anni 90 ero spesso a Milano per lavoro e quando tornavo dalla caotica metropoli percorrevo la statale per potermi fermare nel suo negozio di dischi (e centro culturale, di fatto), “Muzak”, a Casalpusterlengo.
Non solo per comprare qualcosa ma per parlare.
Sapendo di poter spaziare su ogni argomento, di imparare un sacco di cose nuove, di potermi confrontare, di restare spesso stupito davanti alla sua capacità di collegare e mettere insieme mille riferimenti che attingevano in ogni ambito artistico di “un certo tipo”.
Aprì un locale, diventato mitico, il “Lenz”, a Terranova, in una ex chiesetta, dove non si sentiva granché bene ma in cui trovavi un'atmosfera unica (sempre che, in certe serate nebbiose, come ancora c'erano ai tempi, si riuscisse ad arrivare al club), fuori dal tempo.
Suonammo spessissimo con Lilith e altrettanto frequentemente andammo a vedere concerti della scena milanese che stava nascendo (Afterhours, La Crus, Cristina Donà).
Ma c'erano anche eventi letterari, culturali e cinematografici.
Claudio non era nuovo a questo tipo di esperienze perché già negli anni 70 era stato uno dei principali agitatori culturali della zona, aprendo la prima radio privata di Casale, Radio Scimmia e partecipando a tante altre iniziative che contribuirono a smuovere le acque.
Scrisse per “Pulp” (rivista letteraria che fondò, allegandola al mensile “Rumore”) e “Rendiconti” (curata da Roberto Roversi, poeta, artista, scrittore, a lungo collaboratore di Lucio Dalla) ma anche per “Il Mucchio”, “Rockerilla” e tanto altro. E fu proprio grazie a Claudio che Roberto Roversi scrisse le note di copertina dell'ultimo album di Lilith, “Stracci”, nel 1997. Disco nel quale é anche autore di una serie di testi (come fece anche per i La Crus). Testi affilati, crudi, pregni di significati, unici. Come quelli che ritroviamo nel suo libro di poesie dal titolo iconico, “La pianura dentro”.
Il regista Gregory Fusaro ha pazientemente ripercorso le tracce della sua vita artistica.
Faticosamente perché non erano tempi in cui ci si preoccupava troppo di lasciare tracce evidenti. L'importante era scavare cicatrici nell'anima degli astanti, lasciando un segno.
Fusaro ha riassunto il tutto in un'ora di documentario, “Se il cielo é tradito” (presentato alcuni giorni fa al Cinema Mexico di Milano e che sarà in autunno in tour in varie città e stampato in DVD).
Vari collaboratori di Claudio testimoniano i giorni trascorsi con lui (dai musicisti Cristina Donà, Lilith, Mauro Ermanno Giovanardi, allo scrittore Davide Sapienza, il giornalista Massimo Pirotta e tanti altri).
Lo stesso Fusaro testimonia, senza averlo mai incontrato, la sua ammirazione artistica e umana per Claudio:
“Una cosa che mi ha sorpreso é, a distanza di così tanti anni, il ricordo molto nitido che hanno le persone che lo hanno conosciuto. Le persone che ho incontrato facevano parte di un collettivo immaginario, che faceva tante cose insieme, seppure a distanza, pur non incontrandosi tutti i giorni, con delle dinamiche che oggi ci risultano estranee.
La condivisione di allora é decisamente diversa dal concetto di condivisione che abbiamo noi oggi.
E questo rende quel mondo molto più solido e con radici molto più profonde delle nostre, dal punto di vista artistico.
Scoprire Claudio é stato un po' come identificare l'epicentro di quel terremoto culturale che ha dato vita al movimento artistico degli anni 90.”

Bande giovanili - Nuovi sentieri nella giungla metropolitana
https://www.youtube.com/watch?v=CjzpuxYs8_A
Un documentario del 1983 sulle "bande giovanili" a Milano.
Si vedono i mod milanesi prima e durante un concerto dei Four By Art del gennaio 1983 all'Odissea di Milano e anche immagini di un concerto di Chelsea Hotel, Raw Power, Indigesti, Crash Box, Anti, Tiratura Limitata al "Pluto/Osteria di Sacc" a Piacenza il 27 novembre 1982.
Il filmato (che si vede nei minuti finali) fu lo spunto per l'articolo delirante del Corriere della Sera che riporto qui sotto.
In realtà il nostro cantante (dei Chelsea Hotel), Black Demon, non si ferì con un coltello (???) ma con un colpo di chitarra durante un salto...
Si chiamano Mods, rockabilly, metallari, rockers, punks-punx: alcuni rifiutano qualsivoglia impegno civile, altri si dichiarano politicizzati e antagonisti al sistema. Si tratta di aggregazioni spontanee sorte nelle grandi città tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta, sulle quali spesso la stampa si è espressa in modo duro, e in taluni casi arrivando alla criminalizzazione di questi giovani. Il film inchiesta vuole essere un viaggio senza pregiudizi attraverso i gusti, le idee, il modo di essere e di rappresentarsi di questi ragazzi, i quali affidano il proprio messaggio critico ai simboli estetici e a una rabbiosa protesta musicale. L'occhio della telecamera, cercando di evitare commenti esterni al pensiero dei giovani intervistati, mette a fuoco convinzioni e debolezze, fragilità ed entusiasmi, che insieme definiscono linguaggi nuovi e mutazioni antropologiche in atto nella società postindustriale. Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico.

E' stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino
Il nuovo lavoro di Sorrentino è un (lentissimo) film autobiografico, onirico, volutamente Felliniano, sulla perdita dell'innocenza e il passaggio al mondo adulto delle responsabilità (o perlomeno quelle che uno si dovrebbe prendere).
Non sono un fan del regista (di cui ho visto un po' di cose, sempre ottime) ma ho abbastanza apprezzato.
La maggiore fascinazione è nella minuziosa ricostruzione degli interni che a tratti sembra di risentire l'odore di quei mobili e quelle stanze.
PS: il mobiletto con le audiocassette è un tuffo al cuore per chi fu così tanto giovane negli anni 80.

Don't look up di Adam McKay
Perfetta, amara e desolante rappresentazione della società odierna.
La reazione credibilissima alla notizia dell'arrivo di un meteorite che ucciderà la vita sulla terra.
Un film da vedere.

martedì, dicembre 28, 2021

I dischi mod e affini 2021


Una serie di segnalazioni di album, 45 giri, libri, programmi video e radio in ambito MOD e affini del 2021.

The REFLECTORS - First impression
Il quartetto di Long Beach, prodotto dalla grandissima Time For Action Records, all'esordio con uno splendido mix di Chords, Jam, Undertones, Buzzcocks. Brani diretti, essenziali, grandi melodie, groove di gusto 79. Album fantastico.

FAY HALLAM - Modulations
Fay Hallam torna con uno dei migliori lavori della sua lunga carriera.
Un album strumentale, impeccabilmente prodotto dal maestro ANDY LEWIS, composto e realizzato nei lunghi mesi del lockdown.
Modulations conferma ed esalta la versatilità compositiva di Fay che si destreggia tra le sue tipiche passioni rhythm and soul (vedi la versione strumentale di "Cielo rosa" già incisa con Il Senato), momenti jazz lounge, un avvolgente episodio di enorme classe come "Aural sea" tra ambient e le parti orchestrali di "Quadrophenia". Un album strumentale è sempre "pericoloso" e arduo da proporre ma in questo caso la varietà della proposta, la cura e lo spessore dei brani, lo rende godibilissimo e interessante.

THE TRUTH - Just can't seem to stop us
La band di Dennis Greaves incise alcuni stupendi singoli e ottimi album come l'esordio "Playground" che uscì però nel 1985. Questa compilation raccoglie una serie di brani, sparsi su singoli e compilation che avrebbero dovuto costituire un ipotetico primo album antecedente, tra il 1983 e il 1984. Per chi li ha apprezzati un'ennesima conferma del loro grande valore, purtroppo mai sufficientemente esaltato al di fuori dalla nicchia mod (anche se il singolo "Confusion" toccò il 22° posto delle charts nel 1983), pur suonando un pop soul di marca Motown gradevolissimo, energico e composto benissimo.

THE TIMES - My Picture Gallery – The Artpop! Recordings, 6CD Box Set
Iconica band degli anni 80, tra mod, beat, artpop, i TIMES hanno sempre vissuto sottotraccia, con scarsi riscontri commerciali ma lasciando album di grandissimo valore e livello.
La band di Edward Ball trova finalmente la giusta considerazione con un box di sei cd che raccoglie gli album ‘Go! With The Times’(del 1980 ma pubblicato solo cinque anni dopo), ‘Pop Goes Art!’ (1982), ‘This Is London’ (1983), ‘Hello Europe’ (1984), ‘Up Against It’ (1986) e ‘Enjoy’ (1986).
Scontata l'aggiunta di bonus e rarità, per un totale di 126 brani che raccontano al meglio la carriera del gruppo.
L'etichetta autogestita di Ed Ball, la Whaaam! Records, fu grande fonte di ispirazione per Alan Mc Gee (che sull'onda dell'esperienza dei Times creò i suoi Biff Bang Pow) nella fondazione della Creation Records, per la quale successivamente i Times hanno inciso parecchi album (pormai però come marchio di fabbrica del solo Ed Ball, che non mancò di incidere anche qualche prova solista).
The Times: My Picture Gallery consente di recuperare la memoria storica di un gruppo molto personale e originale.
I suoni sono piuttosto datati e risentono di una produzione "casalinga" ma la creatività che emerge e i riferimenti profondi e accurati per la cultura Sixties, meritano una rinnovata attenzione.
I Times hanno proseguito discograficamente fino alla fine degli anni 90 per poi scomparire, come lo stesso Ball, dalla circolazione se non per sporadiche apparizioni concertistiche (ricordiamo quella al 45° Raduno Mod di Savona dell'11 aprile 2004 che aprimmo noi con il Link Quartet. Ed Ball si presentò con l'ex Chords Buddy Ascott alla batteria ).

THE VAPORS - Waiting For The Weekend
Scoperti e prodotti da Bruce Foxton dei Jam, fecero il botto nel 1979 con la pulsante e frenetica Turning Japanese che caratterizzava bene il loro pop punk chitarristico, misto a echi beat e power pop. Due buoni album e una veloce scomparsa. Esce ora un quadruplo box corredato da inediti, rarità e un ruvido live del 1979 che ci ripropone l'energia e l'urgenza di quei tempi.
Si sono riuniti da poco e nel 2020 è uscito il nuovo album "Together", carino ma anonimo.

THE SPECIALS - Protest Songs 1924-2012
Un lavoro anomalo, lontanissimo dall'abituale sound della band di Coventry, impegnata a recuperare una dozzina di canzoni di protesta (da Bob Marley ai Talking Heads, Frank Zappa, Big Bill Bronzy, Staple Singers) riproponendole in chiave prevalentemente folk blues acustica. Le concessioni al Jamaica Sound sono rarissime e a tratti si fatica a credere che si tratti proprio degli Specials. Ma rimane un ottimo lavoro, coraggioso e di spessore.

PAUL WELLER - Fat Pop (Volume 1)
Originariamente concepiti come una serie di 45 giri che la situazione attuale ha reso logisticamente poco praticabile, i dodici brani del sedicesimo album solista di PAUL WELLER sono stati rinchiusi in un album (che esce a meno di un anno dal precedent "On Sunset").
Registrati "a distanza" con la band abituale, consueto apporto di ospiti, tra cui non spiccano nomi celebri, caratterizzati da atmosfere abbastanza diverse.
Un album solido, che testimonia quanto il livello creativo e qualitativo dell'opera di Weller si sia consolidato nell'alveo dell'eccellenza, con un sound immediatamente riconoscibile, personale, originale, distintivo.

PAUL WELLER - An Orchestrated Songbook con Jules Buckley & la BBC Symphony Orchestra
Registrato dal vivo il 15 maggio 2021 con l'orchestra della BBC Symphony Orchestra diretta da Jules Buckley e l'accompagnamento di Steve Cradock alla chitarra.
Diciotto brani riarrangiati con archi e fiati e un'impronta classica, sontuosa, solenne, pescati dall'ormai infinito repertorio, dai Jam (una commovente "English Rose" e "Carnation", gioiello spesso dimenticato che però non trae giovamento da questo pomposo trattamento) agli Style Council (quattro, che molto meglio si prestano all'uso dell'orchestra, con tanto di Boy George alla voce - incerta - in una comunque buona versione di "You're the best thing") alla lunga carriera solista, in cui spiccano quel capolavoro soul che è "On sunset" e una sempre bella "Wild Wood" con la voce di Celeste.
L'inarrestabile Paul si è tolto un'ennesima soddisfazione con risultati come sempre di alta qualità.

THE PACIFICS - You Know You Make Me Wanna Stout!
Sferragliante ep con quattro brani per la band di Dublino che fa rivivere il fantasma dei Milkshakes. Torrido rhythm and blues bianco tra Pretty Things, Troggs, primi Kinks, Jam degli esordi.

THE FIVE FACES - Modernariato
Torna la band genovese con una raccolta nella quale raccoglie tutto quel materiale che non ha mai fatto parte di uscite ufficiali su cd, con anche demo e live sparsi tra Italia e Inghilterra. E inoltre un libretto di 120 pagine con storia della band, dei brani, foto e tanto altro. Cronaca di una storia mod.

HAMBURG SPINNERS - Skorpion Im Stiefel
Tra Booker T e il nostro Link Quartet, arriva dalla Germania un buon album di funk Hammond jazz strumentale, molto godibile e sicuramente apprezzato dai cultori del genere.

DELVON LAMARR ORGAN TRIO - I told you so
Dal Nevada, attivi dal 2015, due album alle spalle, super jazz funk Hammond groove tra Jimmy Smith, Meters, Booker T, Jimmy McGriff.
Super groovy.

CHANNEL THREE - This Is London / Small Flat By The Sea
In attesa di tornare in attività, metà dei francesi French Boutik uniscono le forze a Bobby Tarlton per un side project intrigante e gradevolissimo che partorisce un ottimo singolo con due brani di sapore soul, tra Style Council, il primo Joe Jackson, Elvis Costello e sapori beat anni 60.

PIP CARTER - The End From The Beginning- Part One/Two
Claudio Luppi, con il nickname Pip Carter, affronta il monumentale impegno di un doppio album. Che regge bene la distanza, immerso in un mondo di visioni lisergico/psichedeliche tra il folk inglese di fine anni 60, i primi Pink Floyd e i lavori solisti di Syd Barrett, gli Small Faces di "Odgen's Nut gone flake", Kinks ("nothing really matter") e tracce beatlesiane. Avvolgente, intenso, ben fatto.

MARK AND THE CLOUDS - Waves
Terzo album per la band italo/inglese guidata dall'ex membro degli Avvoltoi Marco Magnani. Uno splendido viaggio nei migliori sapori 60's, tra garage, psichedelia, Beatles, freakbeat. Grandi canzoni, cura minuziosa per i giusti suoni, quindici brani di caratura eccelsa.

LINK QUARTET - The Saint-Tropez Heist / Nizza Connection
Una discografia sterminata, spalmata su ormai 30 anni di attività, a cui si aggiunge un nuovo tassello, un prezioso 45 giri in vinile.
Un ritorno alle origini, quelle dell'Hammond sound più potente, con il turbo innestato, che caratterizza la side A, mentre si viaggia in un funk psichedelico dall'incedere quasi dub sul retro.
Non troverete di meglio in circolazione in questo ambito.

CLAUDIO CORONA - Laying it down
Produttore e tastierista di base a Londra, all'esordio con un ep all'insegna del miglior Hammond funk jazz, la cui matrice è tipicamente riconducibile allo spettro sonoro che dai Meters va al James Taylor Quartet ma con un'impronta moderna e attuale, che non pesca solo nel vintage e revival. Tanto groove, ottimi brani, lavoro interessante e di grande impatto.

THE BACKDOOR SOCIETY feat. Paolo Apollo Negri - On the run / Ballad of a liar
Ruggisce il garage punk della band piacentina, conosciuta per un sound debitore al Dutch dei 60's. Nel nuovo 45 giri si guarda a sonorità più ruvide (tra Sonics, Gravedigger V, Crawdaddys) con il Farfisa di Paolo Apollo Negri a inacidire il tutto.

AA.VV. - Staring at the rude boys
Tre CD per 69 brani e un ricco booklet di informazioni, riassume molto bene lo SKA REVIVAL inglese tra il 79 e l'89.
Ci sono i migliori, Specials, Madness, Bad Manners, Selecter, Bodysnatchers, The Beat i classici come Laurel Aitken, Desmond Dekker, Rico, Judge Dread, varie band dell'area mod come Merton Parkas, Lambrettas, Graduate - i futuri Tears for Fears - Teenage Filmstars di Edward Ball poi fondatore dei The Times e una serie di oscure band come i Charlie Parkas, o gli Akrylykz di Roland Gift, voce poi dei Fine Young Cannibals, fino ai Ded Byrds di Wayne Hussey che finirà poi aguidare la band goth dark dei Mission e a un'insospettabile pop star come Kim Wilde con "25680".
Un box che ci dimostra quanto fosse fresca, vitale e creativa la scena in quegli anni.

AA.VV. - Halcyon Days: 60s Mod, R&B, Brit Soul & Freakbeat Nuggets
Ennesima compilation dedicata ai 60's del periodo mod.
87 brani, tra episodi noti e classici a cui si aggiunge una lunga serie di oscurità interessanti e gustose. Kinks, Animals, Creation, Rod Stewart, Laurel Aitken, Yardbirds, il primissimo Bowie, Pretty Things, Action, Spencer Davis Group, Moody Blues sono i nomi più altisonanti e noti.
Poi é una piacevole immersione in (spesso eccellenti) in decine di brani e nomi dimenticati.
Tra i migliori il grande jazz soul "Baby never say goodbye" dei Bo Street Runners, il travolgente rhythm and blues di Ronnie Jones in "Little bitty pretty one", il bellissimo ska Mikey Finn in "Hush your mouth", l'indimenticabile minor hit della Zoot Money Big Roll Band con "Big time operator".
Triplo CD a 20 sterline, ottima qualità, contenuti spesso interessanti, vale la pena.

FILM

The Peeble and the Boy di Chris Green
Ero partito con parecchi pregiudizi e molto scetticismo per questo nuovo film "mod" e invece mi sono piacevolmente ricreduto.
La trama è esile, qualità e contenuto non entreranno nella storia della cinematografia ma alla fine, soprattutto per chi ha vissuto e vive la cultura mod, "The Peeble and the Boy" è godibilissimo.
Il giovane John, al funerale del padre (che aveva raramente frequentato), scopre che era un mod.
Decide di portare le sue ceneri da Manchester alla spiaggia di Brighton con lo scooter del padre, indossando il suo parka, in occasione di un concerto di Paul Weller.
Lo accompagnerà la dolce ma decisa Nicki.
Vivranno diverse avventure tipiche di un road movie, ritroveranno le tracce del padre, personaggio noto nell'ambito mod degli anni 80 e renderanno giustizia alla sua memoria (evito di svelare la vicenda fino in fondo).
Sullo sfondo mods, scooter, parka, poster mod, colonna sonora con Jam, Style Council, Paul Weller, Chords, Secret Affair e tanti riferimenti "quadrophenici".
Nel film anche una breve comparsa di Patsy Kensit (co produttrice del film).
Tono un po' mieloso/melodrammatico ma la visione è consigliata.

FABIO FANTAZZINI - Dread Inna Inglan
STREPITOSO saggio sulla CULTURA BLACK BRITISH.
La storia dell'immigrazione in Inghilterra dalle West Indies (Giamaica, Trinidad, Brabados, Grenada etc) colonie ed ex colonie britanniche.
Dal simbolico arrivo a Tilbury, sul Tamigi, della nave Empire Wildrush, il 21 giugno 1948 con i primi giamaicani, al successivo e progressivo insediamento di centinaia di migliaia di sudditi dell'Impero, ben presto stranieri in patria. A cui seguì lo straniamento di essere rifiutati da quella che erano stati educati a considerare la "madre patria" e i cui figli, nati in Inghilterra, vedono un potenziale ritorno nelle terre dei genitori come un'emigrazione in terra straniera.
Gli attacchi alla popolazione nera a Notting Hill nel 1958 certificano "l'esistenza del razzismo" e "sferrano un colpo simbolico a quell'English Dream custodito dai migranti afro-caraibici che per la maggior parte della popolazione inglese rimangono comunque migranti stranieri."
Che realizzano di essere semplicemente "negroes, blacks o West Indians".
"Nasce il "new racism": "le differenze non si giocano più sul piano biologico ma su quello culturale". Gli immigrati portano con sé calypso, ska, rocksteady, reggae e lo stile rudeboy che si inseriscono nella musica e cultura britannica e la cambiano radicalmente.
Un libro ESSENZIALE che si addentra alla perfezione e con uno spessore culturale di altissimo livello, in un contesto mai sufficientemente esplorato.
Arricchito da mille dettagliatissime citazioni, particolari sconosciuti, nomi, dischi, episodi.
Unico appunto la mancata traduzione delle parti in inglese, spesso importantissime.

ALBERTO ZANINI - Funk investigators
Ho avuto il piacere e l'onore di scrivere la prefazione al primo libro di ALBERTO ZANINI, grande boss della Cannonball Records.
Un libro che parla di passione, dedizione totale, amore per la musica.
Il SOUL nel nostro caso.
Parla dei suoi viaggi in USA alla ricerca di nastri oscuri, della sua attività discografica, dell'amore per una musica particolare, nato sui banchi della Scuola Mod. Quando una "sottocultura" diventa CULTURA, diventa lavoro, diventa una ragione di vita. A corredo una serie di bellissime fotografie che documentano le esaltanti avventura da FUNK INVESTIGATOR. Per il momento il libro è disponibile in italiano in versione digitale ma in futuro potrebbe vedere la luce anche in cartaceo.

UBER TUGNOLI - The Judas
Uber Tugnoli ci regala un prezioso tassello della storia del BEAT ITALIANO dei 60, ripercorrendo con dovizia di particolari e dettagli la storia dei JUDAS, band bolognese, seguace del sound di Stones e Animals, che sfiorò più volte successo e notorietà, senza riuscirci mai.
Il leader Martò provò brevemente la carriera solista, partecipando anche al Cantagiro con Massimo Ranieri nel 1966 con una versione in italiano (testo di Francesco Guccini) di "Hey Joe" di Hendrix. Tornò nella band, tentando di cogliere i primi scampoli del punk (in realtà una sorta di rock duro dai contorni demenziali), con l'album "Punk", pubblicato nel 1978 per la Spaghetti Records.
Purtroppo un incidente d'auto lo portò via per sempre, poco tempo dopo.
Il libro é ricchissimo di foto uniche e inedite e articoli di giornale d'epoca (tra cui la battaglia tra seguaci dei Judas e quelli dei Jaguars - futuri Pooh - nelle strade bolognesi).

lunedì, dicembre 27, 2021

Calciolandia 2021



L'imperdibile appuntamento sull'ANNO CALCISTICO appena trascorso a cura di ALBERTO GALLETTI.

CALCIOLANDIA, IL MEGLIO DEL 2021

Sta per chiudersi l’anno solare 2021 come sempre la stagione calcistica è in piena attività.
Il calcio è ripartito, proporzionalmente con alti e bassi di tutto il resto.
Si è giocato l’Europeo in differita di un’anno, ci ha detto bene.
I tifosi sono tornati allo stadio, bene.
Io anche e, nonostante le limitazioni della categoria, ammetto che dal vivo qualcosa di interessante ci trovo sempre.
Riecco dunque il giochino di fine anno, ho messo in fila un po della roba che ho visto quest’anno e che sono riuscito a ricordare.
Non è facile, tendo ormai a non ricordare più niente.


MIGLIOR GIOCATORE 2021
Robert Lewandowski è il migliore in circolazione sui campi d’Europa checchè si ostinino a dire i pagliacci che votano il pallone d’oro.
Dani Olmo è un folgorante trequartista che gioca su tutta l’ampiezza del campo e si infila benissimo tra le linee, sa mettere assist al bacio ed è costantemente destabilizzante per le difese.
All’ Europeo una rivelazione.
Consacrazione definitiva per l’ex-enigmatico centrattacco francese, Karim Benzema, un trascinatore.
Gol a grappoli che mantengono il Real ai vertici.
Richiamato anche in nazionale dopo anni risponde anche qui a suon di gol.
Gianluigi Donnarumma.I rigori parati a Londra valgono un tesoro. Bravo!
Poi da retta al procuratore e finisce in panchina nel campionato francese, meno bravo.
Non so se sia stato frutto di un disegno tecnico di Guardiola ma l’ingaggio di questo difensore centrale portoghese, Ruben Dias, gli ha davvero trasformato la difesa, che ora prende la metà dei gol. Fortissimo, può giocare allo stesso livello anche terzino.

1 Robert Lewandowski (Bayern)
2 Dani Olmo (RB Leipzig)
3 Karim Benzema (Real Madrid)
4 Gianluigi Donnarumma (Milan/PSG)
5 Ruben Dias (Manchester City)

MIGLIOR SQUADRA DI CLUB 2021 Campione di Francia, il Lille OSC firma l’impresa dell’anno considerando soprattutto la squadra da loro battuta.
Peccato abbiano smantellato mezza squadra allenatore compreso.
Falliscono un gran slam clamoroso e rimangono con in mano campionato e Coppa di Lega. Strutturalmente meglio di chi li ha superati in finale di CL. Forse la miglior versione del City targato Guardiola.
Raddrizzati in corsa dal Monaco tedesco, i blues centrano clamorosamente il bersaglio più grosso, meritando.
Ora, raddrizzati, al comando anche in campionato.
Tutto liscio in Germania i bavaresi steccano in CL, ma sempre una delle migliori cinque nel continente.
Scudetto dopo oltre un decennio per l'Inter.

1 Lille OSC
2 Manchester City
3 Chelsea
4 Bayern
5 Inter


MIGLIOR SQUADRA NAZIONALE 2021
L’Europeo a scoppio ritardato ha parlato.
Ci inframezzo l’Argentina campeon sudamericano dopo 28 anni.
In realtà a me la squadra migliore era sembrata la Spagna, specie nel confronto diretto, ma premio l’Italia perché ha vinto il torneo.

1 Italia
2 Spagna
3 Svizzera
4 Argentina
5 Austria

MIGLIOR GOL 2021
1 Patrick Schick in Scozia 0-2 Rep. Ceca, Campionato Europeo del 14 giugno, gol del 2-0
2 Yuri Tielemans in Chelsea 0-1 Leicester City, FA Cup Final del 15 maggio
3 Patrick Bamford in Leicester City 1-3 Leeds United, PL del 31 gennaio
4 Haris Seferovic in Francia 3-3 Svizzera del 28 giugno, gol del 3-2
5 Olivier Giroud in Atletico Madrid 0-1 Chelsea del 23 febbraio

MIGLIOR PARTITA 2021 Personalissima, anche qui.
Scelte tra le partite guardate per un motivo o per l’altro o senza particolare motivo.
Fondamentali le preferenze personali e il risultato finale.

1 Francia 3-3 (dts) Svizzera, Campionato Europeo del 28 giugno
2 Everton 5-4 (dts) Tottenham Hotspur, FA Cup 5° turno del 10 febbraio
3 Real Madrid 1-1 Chelsea, CL semifinale del 27 aprile
4 Scozia 2-2 Austria, Qualificazioni mondiali del 25 marzo
5 Benfica 1-3 Sporting CP, Liga Portugal del 4 dicembre

SORPRESE 2021
Vittoria inaspettata, ma anche meritata, per gli azzurri.
Vanno nelle sorprese in quanto la squadra, contrariamente a qualche avversaria, non è strutturata.
Ritorno al titolo nazionale per lo Sporting CP dopo diciotto anni e alla normalità dopo il disastroso quinquennio di presidenza de Carvalho.
Un double di grande prestigio, e valore, per questa piccola provinciale modello.
Il ritorno nella massima divisione belga di questa squadra storica dopo l’ultima apparizione del 1973 era già di per se notevole.
Ora la neopromossa USG guida la Jupiler League con una certa autorità.
Siamo già oltre il giro di boa, riusciranno ad arrivare fino in fondo?
Grande vittoria per questa provinciale terribile spagnola, quella in Europa League, che batte in finale i favoriti megaricchi-incapaci del Manchester United.
Un po' di pepe nella serie infinita di rigori chiusa dai portieri, grande Rulli che segna il suo poi va in porta e para quello del collega.

1 Italia campione d’Europa 2020
2 Sporting Lisbona campione del Portogallo 2020/21
3 St. Johnstone vincitore Coppa di Scozia e Coppa di Lega 2020/21
4 Union St. Gilloise promossa nella serie A belga e prima in classifica
5 Villareal CF vincitore Europa League 2020/21


MIGLIOR ALLENATORE 2021
Una nazionale che gioca bene, segna, ogni tanto da spettacolo e vince anche è tanto insolito quanto bello. I meriti del tecnico sono innegabili.
Questo nonostante le brutte prestazioni autunnali.
Impresa dell’anno!
Galtier ne è l’artefice massimo, certo la società lo ha spalleggiato ma con i propri modesti mezzi se rapportati a quelli dell’avversario diretto.
Un duro, un convinto, uno che non ha vergogna a fare difesa e contropiede quando serve.
La CL continua a sfuggire ma la squadra è ormai attestata al top.
Campionato vinto, due finali perse, una vinta.
Deludente per i sostenitori probabilmente, ma vista da fuori una squadra migliorata, specialmente dietro dove si vede poco ma bisogna anche guardare i numeri, grande stagione
Non conosco questo monaco di clausura tedesco molto bene.
Di certo ha trasformato il Chelsea e pure bene.
Ha vinto la CL, al comando in PL.
Doppio miracolo a La Spezia: promozione e salvezza giocando.
Ora a Firenze con giocatori migliori conferma la sua bravura.

1 Roberto Mancini
2 Christophe Galtier
3 Pep Guardiola
4 Thomas Tuchel
5 Vincenzo Italiano


MIGLIOR DIVISA 2021
Il giudizio è basato sui miei personalissimi criteri ispirati alla conservazione del patrimonio delle divise per giocare a calcio che considero da sempre importantissimo e motivo di distinzione.
Per giocare a calcio bisogna presentarsi vestiti come si deve.
Boca Juniors quest’anno: perfetta.

1 Boca Juniors 2021/22
2 Slavia Praga 2021/22
3 Heart of Midlothian 2021/22

4 Bochum VfL 2021/22
5 US Alessandria 2021/22


MIGLIOR DIVISA DA TRASFERTA 2021
1 Hertha BSC 2021/22
2 Aston Villa 2021/22
3 FK Crvena Zvezda 2021/22
4 Willem II 2021/22
5 Millwall 2021/22

I miei complimenti vanno a tutti coloro che ho menzionato e anche a tutti quelli che, pur meritevoli, ho volutamente tralasciato o dimenticato.

P.S.: Ho avuto la sfortuna di guardare il primo tempo di Juventus 3-2 Inter del 15 maggio e sono rimasto allibito dalla totale insensatezza nel comportamento di arbitri e giocatori.
Cinque o sei arbitri dei quali non so quanti davanti a una moviola che commettono errori a profusione e ventidue pagliacci miliardari che passano due ore su un prato a fingere e simulare per cercare di accaparrarsi decisioni favorevoli invece di sfidarsi in contesto sportivo.
A questo siamo arrivati, grazie VAR.

Un grande applauso anche ai pagliacci prezzolati e/o incompetenti che assegnano un altro pallone d’oro a Messi ormai tenuto in piedi da Nike, Fondo sovrano del Quatar etc; corporate businness insomma.
Che fanno il paio con quelli del sorteggio degli ottavi di CL - ooops…. avevamo già tutto pronto e pilotato ma il sistema computerizzato è andato in tilt e le fugnata è saltata…rifacciamo ‘sto pomeriggio alle tre – Poi la massa si indigna per la Superlega europea..che è già qui da un po'.

Anyway, per chi poi segue lo stesso le partite ricordarsi che la regola dei gol in trasferta è stata abolita e mandata in soffitta, era stata introdotta nel 1967/68.
Il primo incontro ad essere deciso dai gol in trasferta fu Valur Reykjavik – Jeunesse d’Esch primo turno di Coppa dei Campioni.
La partita di ritorno giocata il 1 ottobre 1967 in Lussemburgo finì 3-3 quindi dopo l’ 1-1 dell’andata il Valur passò al secondo turno in virtù dei tre gol di quella sera che trasformarono il 4-4 totale dei due incontri in un 7-5.
Dal prossimo turno non esisterà più.

Attenzione poi in Germania dove il mitico record del Tasmania Berlin 1965/66 è in serio pericolo.
Il Greuther Fürth fino ad oggi aveva fatto un solo punto in quattordici partite.
Stasera non vorrei essere un giocatore dell’Union Berlin.

Un pensiero infine a chi è passato a miglior vita (forse) dopo passato parte della propria esistenza ad allietare il tempo libero di un mucchio di gente:
Walter Smith, Giampiero Boniperti, Tarcisio Burgnich, Mauro Bellugi, Carlo Tacchini, Gerd Muller, Jimmy Greaves, Bernard Tapie, Ian St.John, Peter Lorimer, Terry Cooper, Roger Hunt, Paul Mariner, Ray Kennedy,.

A tutti buone feste!
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