mercoledì, marzo 23, 2022

Racconti dall'ex Urss - Febbraio 2022


L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.


Le precedenti puntate qui:
https://tonyface.blogspot.com/2022/03/racconti-dallex-urss-ucraina-febbraio.html

e qui:
https://tonyface.blogspot.com/2022/03/racconti-dallex-urss-parte-1.html

e qui:
https://tonyface.blogspot.com/2022/03/racconti-dallex-urss-ucraina-maggio-2014.html

Febbraio 2022

Il 18 febbraio, rientrato da Mosca, ho una riunione in azienda per un progetto di marketing.
Per qualche minuto parlo della situazione attuale con le mie colleghe.
Hanno la faccia sconvolta.
Guardano i telegiornali italiani e sono terrorizzate dallo scoppio imminente di una guerra.
Le tranquillizzo, senza particolari sforzi, riportando le conversazioni di un paio di giorni prima per cui un conflitto su larga scala è categoricamente escluso da tutti i miei interlocutori.
Non succederà niente, nessuna guerra. 
Le colleghe si rasserenano visibilmente.

La sera a cena parlo con la mia compagna.
“Se parto per Kiev tra 10 giorni... saresti preoccupata?”
“Se tu sei tranquillo… io mi fido.”
“Guarda… che ci sia un’invasione e che arrivino a Kiev coi carri armati no… impossibile… 
Che ci possa essere un po’ di tensione nel Donbass per cui sospendono voli o collegamenti non è da escludere. Vediamo cosa succede nei prossimi giorni e poi decido.”

Siamo seduti attorno alla penisola bianca e sagomata della nostra cucina, illuminati da una luce calda.
Finiamo di cenare mentre i bambini in soggiorno guardano i cartoni alla tv.
Una famiglia proiettata verso il weekend.

In quegli stessi istanti, nelle Repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk vengono evacuati migliaia di anziani, donne e bambini verso la Russia a seguito di violenti scontri ed esplosioni nella regione.
Mosca parla di un’intensificazione dei bombardamenti da parte di Kiev che accusa Il Cremlino di depistaggio.

Dicembre 2021
A dicembre ritorno a Kiev per la prima volta dall’inizio della pandemia.
Prendo un taxi in aeroporto.
L’autista, Gennadij, ha voglia di chiacchierare.
Mi fa i complimenti per il russo, si interessa al mio lavoro.
Rispondo meccanicamente con una serie di frasi che riassumono il mio percorso linguistico e professionale negli ultimi venti anni.
Conosco le mie parole a memoria, mi capita di ripeterle spesso.
Per quanto Gennadij ascolti con attenzione, la recita auto-biografica mi annoia per cui sposto l’attenzione su di lui, faccio la domanda che infallibilmente apre mille portoni e allarga la prospettiva nell’esistenza delle persone, soprattutto nei paesi dell’ex-Urss. 
Gli chiedo se è originario di Kiev. 

L’Unione Sovietica è stata per molti aspetti un esperimento socio-culturale in cui le etnie, le razze, i credo-religiosi sono stati volutamente mescolati all’interno di tutto il territorio, in particolare attraverso il servizio di leva.

Spesso, parlando con qualcuno, entri a contatto con vite che si sradicano in più paesi, etnie, lingue e culture
. Uno degli autisti che mi porta in giro per Mosca, Rafael, è Azerbaigiano di origine armena e abita in Russia da quarant’anni.
La storia di Gennadij è più lineare ma non meno complessa. 
È originario di Lugansk e vive a Kiev dal 2014, anno in cui è iniziata la guerra tra separatisti filo-russi e governo centrale.
A casa sua si occupava di logistica, con lo scoppio delle ostilità si è trovato senza lavoro e a rischio di essere richiamato in uno dei due eserciti, quello filo-russo o quello ucraino.
Si è quindi trasferito nella capitale dove fa il taxista da 7 anni.
Negli ultimi tempi è particolarmente difficile rientrare a casa perché hanno chiuso il confine dalla parte ucraina per cui è costretto a passare per la Russia.
Il tragitto comporta un viaggio in auto di oltre ventiquattro ore e un tempo di attesa imprecisato alla dogana per l’espletazione dei controlli, anche 2 giorni.
Non vede la moglie di persona da quattro anni.
Si sentono via whatsapp e viber.
La figlia, che ha 18 anni, è venuta a trovarlo qualche giorno in estate per ottenere il passaporto ucraino.
Giorni di festa.
A Kiev fa fatica a inserirsi perché lo considerano filo-separatista.
Nella sua città, l’ultima volta che c’è andato, amici e conoscenti erano un po’ diffidenti perché si è trasferito nella capitale del paese che li bombarda.

Ascolto la storia di Gennadij con un certo distacco, stravaccato sul sedile posteriore di una Toyota Camry.
Attivo un filtro emotivo per non farmi coinvolgere nel dramma di questo sconosciuto.  Funziona solo in parte. 
Non riesco a non pensare all’ultima volta che ha abbracciato sua moglie.
1460 giorni senza toccarsi.
1460 notti e non sussurrare a tua figlia sogni d’oro.
Come cambia un’esistenza in quattro anni? 

Febbraio 2022

Il 21 febbraio Vladimir Putin riconosce ufficialmente le repubbliche popolari indipendenti di Lugansk e Donetsk con un discorso in diretta tv. 
Parte bene.
“Per la Russia, l’Ucraina non è solo un paese vicino ma una parte integrante della storia, della cultura, della sfera spirituale”
  Sottolinea i legami con gli ucraini: “i nostri compagni, i nostri cari in mezzo ai quali non ci sono soltanto colleghi, amici, ex commilitoni ma anche parenti, persone legate a noi da vincoli di sangue, da legami familiari”
Poi il tono si fa più aspro, il discorso si carica di tensione.
Rimprovera ai bolscevichi e a Lenin di aver creato artificialmente (nel 1917) la Repubblica Socialista Sovietica Ucraina per accontentare i nazionalisti locali.
Parla apertamente di errori commessi da Stalin nell’aver ceduto territori dell’impero russo, della Polonia, della Romania e dell’Ungheria all’Ucraina dopo la seconda guerra mondiale. Ne ha anche per Kruschev che ha inspiegabilmente regalato la Crimea alla RSSU nel 1954. 

L’Ucraina contemporanea è stata creata dai comunisti e se volete la decomunistizzazione, cari nazionalisti di Kiev, io vi accontento subito.
Parlando dell’intensificarsi dell’attività militare nel Donbass a scapito dei civili, Putin si dichiara costretto a riconoscere l’indipendenza di queste due repubbliche per fornire supporti militari.
Con la sua retorica secca e tagliente, Vladimir Vladimirovic Putin ritorna indietro di oltre 100 anni, contempla i confini occidentali della Russia zarista mentre alle sue spalle pende la bandiera bianca-rossa-blu con l’aquila bicefala dei Romanov.
Stemma presidenziale dal 1993, in araldica l’aquila con due teste rivolte in direzioni opposte indica l’unione di due imperi, l’occidente e l’oriente, l’Eurasia.

L’indomani, 22 febbraio, leggo le dichiarazioni del presidente russo di prima mattina. 
Pufff
La certezza granitica che mi aveva avvolto per mesi si polverizza all’istante.
Telefono a Maksim, uno dei miei referenti di lavoro a Kiev.
“Maks, mi spiace tantissimo ma devo cancellare il viaggio la settimana prossima.
Il nostro ministero degli esteri sconsiglia ogni spostamento. Non vale la pena rischiare”

Maksim è mortificato, quasi si vergognasse.
“Non preoccuparti, ti capisco benissimo.
Qua adesso sono tutti spaventati.
Nel weekend hanno cancellato eventi e concerti con ospiti stranieri. Vediamo di organizzare i training online e poi quando si sistema tutto li facciamo qua di persona”


Chiamo Aleksandr, cliente di Odessa.
Personaggio originale, super complottista, filo-russo e filo-separatista, è sereno “Qua è tutto tranquillo. Lavoriamo, andiamo avanti.
Adesso ci sarà un po’ di tensione per due mesi poi o si mettono d’accordo o ritorniamo a essere parte della Russia”

La mia risata fa eco alla sua.

Il 23 febbraio in Russia, Kirgizistan, Bielorussia e Tadjikistan è un giorno di vacanza.
La festa delle forze armate si celebra dal 1922, in occasione del quarto anniversario della formazione dell’Armata Rossa.
Ufficialmente la ricorrenza è denominata “Giorno del difensore della Patria”, informalmente la data è considerata “Festa dell’uomo”.

Nel pomeriggio incontro un architetto che dovrebbe curare l’ampliamento di casa mia.
Gli spiego la situazione.
L’80% dei miei introiti da libero professionista dipende da Russia e Ucraina.
Non sono lavori essenziali per cui, data la situazione di grande instabilità, concordiamo di prenderci una pausa. 

Il 24 febbraio mi sveglio verso le 6.00 per fare ginnastica.
Prima di alzarmi, cazzeggio col telefonino avvolto nel piumone, un occhio socchiuso e l’altro schiacciato sul cuscino.
Apro casualmente la pagina del Corriere e rimango paralizzato dal titolo principale.
“La Russia attacca l’Ucraina. Esplosioni in tutte le principali città, centinaia di morti tra i civili.”

Mi manca il respiro, mi sembra impossibile.
Consulto la pagina di Ria Novosti, agenzia di notizie russa. 
Un titolo stringato sintetizza “il presidente Vladimir V. Putin ha dato il via all’operazione militare speciale in Ucraina”
Clicco sul link e ascolto parte della dichiarazione pronunciata in tv nel cuore della notte.

Putin esordisce con la tranquillità lucida e glaciale che lo accompagna nei discorsi pubblici, si rivolge ai russi, il tema riguarda ancora l’Ucraina.
Accenna a quanto avviene nel Donbass per poi allargare il campo, accusa la Nato di essersi inarrestabilmente allargata verso Est nel corso degli ultimi 30 anni fino ad arrivare minacciosamente ai confini della Russia.
Ritorna al crollo dell’Urss, quando la paralisi del potere e della volontà ha portato a degrado e oblio.
“Appena abbiamo perso per qualche momento la fiducia in noi stessi, è crollato tutto. L'equilibrio di potere nel mondo si è infranto.”
Il cambio di scenario avrebbe dovuto tenere conto delle esigenze e ambizioni di tutti i paesi ma chi si è ritenuto vincitore della guerra fredda, spinto dall’euforia e guidato da un basso livello di cultura generale e da spavalderia, ha preso decisioni vantaggiose solo per sé.
La situazione ha cominciato ad evolversi in altro modo.
Non occorre andare lontano per trovare degli esempi, prosegue Putin.
Senza alcuna autorizzazione da parte del consiglio di sicurezza dell’ONU, è stata condotta una sanguinosa operazione militare contro Belgrado, bombardando centri abitati e infrastrutture civili. Poi è venuto il turno di Iraq, Libia e Siria, tutti paesi attaccati illegalmente dall’impero delle bugie, ossia dagli USA e dai paesi satelliti formatisi a loro immagine e somiglianza.

Dopo avere accennato al potenziale militare e atomico della Russia, ritorna all’Ucraina, dove per mano della NATO sono stati organizzati battaglioni neonazisti con lo scopo di punire gli abitanti del Donbass e della Crimea.
Fa riferimento alla richiesta di proliferazione del nucleare avanzata da Zelenskij al Summit sulla Sicurezza del 19 febbraio a Monaco di Baviera.
La Russia non può accettare queste minacce ai suoi confini per cui, conformemente all'articolo 51 della parte 7 della Carta delle Nazioni Unite, “ho preso la decisione di condurre un’operazione militare speciale”.

La calma di Putin cede il posto a livore e disprezzo che ne trasfigurano i lineamenti, gli occhi accesi sul volto gonfio, le labbra tirate.
Per difendere le popolazioni del Donbass, vittime di genocidio compiuto da parte del governo di Kiev, bisogna puntare a smilitarizzare e denazificare l’Ucraina. Esorta i militari rivali ad arrendersi e a ritornare dalle proprie famiglie.
Assicura che la Russia non intende occupare il paese.
Invita gli altri stati a non immischiarsi, altrimenti “la risposta della Russia sarà immediata e porterà a conseguenze che non avete mai visto prima nella vostra storia. Siamo pronti per qualsiasi eventualità”.

Porca puttana, è successo davvero.
Spengo telefono e cervello.
Come tutte le mattine in cui sono in Italia, faccio esercizi ad alta intensità davanti allo specchio, preparo la colazione per i miei figli e li porto a scuola a piedi.
Poi ritorno a casa, metto a posto la cucina e vado al lavoro in auto.

In ufficio, una volta acceso il computer, telefono ai clienti in Ucraina.
Sento per prima Kristina, che cura gli acquisti per il cliente di Charkiv secondo la dicitura ucraina, Kharkov secondo quella russa, che è l’unica che io abbia mai sentito.
Kharkov è un importante centro culturale ed industriale a pochi km dal confine russo, la seconda città come numero di abitanti dopo Kiev.
In Russia è soprannominata la città dei banditi e fino a una decina di anni fa era ritenuta pericolosa, almeno dai miei interlocutori.
Ci sono stato 3 o 4 volte e mi ci sono sempre trovato bene. 
La sua cattiva fama è legata ad un gruppo di gangster che dopo la rivoluzione del 1917 hanno seminato terrore in città per qualche mese fino a che l’ordine è stato ripristinato dai bolscevichi grazie all’arte diplomatica del piombo e della polvere da sparo. 
Fondata nella metà del XVII secolo da cosacchi ucraini come fortezza anti-tatara, è stata la capitale della Repubblica Sovietica Ucraina fino al 1934, anno in cui ha ceduto il passo a Kiev.
Considerata obiettivo strategico dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, la città è stata teatro di scontri violentissimi in un ping-pong di occupazioni e liberazioni che ne hanno provocato la distruzione nel 1943. 
Kharkov ha beneficiato dei fondi elargiti dall’Uefa in occasione degli Europei del 2012, la città ha ottenuto un aeroporto nuovo, strade allargate, alberghi moderni e il restyling di Piazza della Libertà, una delle più ampie d’Europa.

Kristina risponde al primo squillo. 
“Siamo stati svegliati stanotte dagli scoppi, erano lontani dalla città ma si sentivano lo stesso e si vedevano i bagliori nella periferia.
Adesso siamo tutti a casa in attesa, speriamo che questa cosa finisca al più presto”

C’è apprensione nella sua voce ma anche un certo sollievo per il fatto che i bombardamenti sono distanti, fuori dal centro abitato. 
Le auguro buona fortuna e concordiamo di restare in contatto.

Poi telefono a Maksim a Kiev, non mi risponde.
Gli mando un msg a cui replica poco dopo ripetendo le stesse cose che mi ha detto Kristina.
Sono a casa incollati alla tv ma non danno indicazioni, ci sono code interminabili per uscire dalla città.

Poco dopo mi chiama Vasilij, il mio referente principale presso il distributore russo a Mosca.
Parla con calma, rispondo con lo stesso tono, con una certa ironia gli faccio gli auguri per la festa dell’uomo, informalmente celebrata il giorno prima.
Ricambia, visto che sono un uomo e sono amico della Russia.
Ha appena ricevuto una telefonata da un fornitore italiano, il signor Loris Zonin, di Verona.
Conosco bene Zonin, è lo stereotipo dell’imprenditore del nord-est.
Partito da un garage negli anni ’80, è riuscito a costruire un’azienda di respiro internazionale sulla base di un’approfondita ricerca tecnologica e grazie alla qualità manifatturiera tipica del made in Italy.
Peccato che sia un grezzo.
Incapace di parlare in italiano, si esprime con esplosioni gutturali proiettate ad altissima velocità attraverso le labbra minuscole circondate da un bel faccione gonfio.
La gestione dell’azienda è interamente affidata alla moglie Franca che si occupa di qualsiasi cosa, nonostante abbiano 200 dipendenti.
Risponde al telefono, va in magazzino a impacchettare ordini, interviene su tutto.
Da qualche tempo non permette più al marito di frequentare i paesi dell’Est in solitudine, divieto che lo ha reso visibilmente meno effervescente.
Zonin, nel panico totale, ha chiamato Vasilij esigendo la restituzione immediata dei pagamenti in scadenza, manco ci fosse andato lui in Ucraina sul carro armato.
Vasija cerca di spegnere l’ansia dei fornitori, se adesso tutti chiedono alla sua azienda di rientrare coi pagamenti è un problema, non è detto che disponga della liquidità necessaria e ad ogni modo il rublo si è già deprezzato del 15% rispetto al giorno prima, il timore è che possa crollare ulteriormente.
Capiamo la situazione, se ci sono problemi ne parliamo.
Da parte nostra c’è massima disponibilità.
Vasilij cerca di minimizzare quanto sta accadendo in Ucraina, si tratta di un blitz volto a distruggere gli armamenti ucraini.

Pensiamo entrambi a una riedizione aggiornata dello scontro con la Georgia nell’agosto del 2008 quando, a seguito di violenti scontri tra l’esercito georgiano e la repubblica separatista filo-russa dell’Ossezia del Sud, nell’arco di 5 giorni, le truppe russe sono entrate nel territorio georgiano ed hanno distrutto le infrastrutture militari fino alle porte di Tbilisi causando perdite militari per svariati miliardi di dollari, alcune centinaia di morti e decine di migliaia di sfollati.

Chiedo infine a Vasja se si aspettasse un’escalation del genere.
Una settimana prima ne avevamo parlato di persona a Mosca e aveva categoricamente negato la possibilità di una guerra tra Russia e Ucraina.
Tentenna, tira fuori i bambini morti nel Donbass, a nessuno è mai importato di loro in questi 8 anni.
Lo interrompo, non serve parlare di questo, non con me.
Ammette che non pensava sarebbe mai successo.

Giovedì ricevo più telefonate di Di Maio.
Amici e conoscenti chiedono il mio parere.
Si beccano tutti la risposta pre-compilata.

No, non me lo sarei mai aspettato, speriamo che la situazione si risolva rapidamente come la guerra in Ossezia del 2008.

Quando domandano del mio lavoro, spiego che intanto è tassativo che tutto finisca alla svelta, poi che le sanzioni non siano troppo pesanti e che la Russia non venga esclusa dallo SWIFT, il metodo di pagamento comunemente accettato dalle banche occidentali, l’unico canale attraverso il quale possiamo ricevere i pagamenti dalle aziende russe.
Non lo dico a nessuno ma in cuor mio so che, qualunque sia l’esito militare, la guerra è già persa.
Se anche tutto si fermasse entro 2 giorni, lo squarcio che si è aperto tra i due paesi e le due popolazioni è insanabile, ci vorranno decenni per ristabilire relazioni amichevoli.
Un amico mi segnala un canale Telegram in cui postano video di azioni militari nelle varie città ucraine: Kiev, Kharkov, Mariupol, Odessa, Dnipro.
L’esercito russo avanza senza incontrare resistenza alcuna, si evince dalle immagini e dalle descrizioni.
I soldati ucraini, faccia smunta, si consegnano senza combattere.
La resa da parte di Kiev è questione di giorni.
A cena tranquillizzo i miei figli, il papà non va in Ucraina la settimana prossima.
Mentre passo il panno in microfibra sulla superficie levigata della penisola in cucina, contemplo il silenzio che mi circonda.
Su Telegram arrivano aggiornamenti dalle varie città che sono colpite dai bombardamenti.
Metto a letto i miei figli e penso ai miei clienti, ai genitori che in questo momento stanno cercando di tranquillizzare i propri bambini.
Che parole usi per fare addormentare un bimbo terrorizzato dagli scoppi delle bombe?

Il giorno dopo cerco qualche fonte di informazione alternativa.
Trovo un’agenzia ucraina in russo.
Una giornalista ha postato un articolo su come vestirsi quando si passa la notte nella stazione della metropolitana.
Penso che sia un po’ una stronzata, fin quando leggo quello che scrive.
Di notte nella metro fa freddo, portatevi indumenti pesanti ma non dimenticate sedie pieghevoli, lettini e materassini.
Il pavimento è gelato, impensabile restare seduti sul marmo o sul cemento per ore.
Buono a sapersi, io ci sarei andato in mocassini…

Mi iscrivo a un canale di Kiev su Telegram, negli aggiornamenti condividono foto delle stazioni utilizzate come riparo dai bombardamenti.
Riconosco il mosaico della fermata di Shuljavska con i due proletari sovietici che sovrastano una quantità di persone che si rifugiano in condizioni precarie.
Mando un messaggio a Kristina di Kharkov, il profilo whatsapp indica che si è connessa da poco.
Mi dice che ha passato la notte nella metropolitana, sono tornati a casa per dormire un paio d’ore e le sirene antiaeree hanno ripreso a suonare.
Mi manda una foto scattata vicino al loro ufficio, nel prospekt Gagarin.
In mezzo alla strada, in corrispondenza di un attraversamento pedonale, c’è un missile inesploso con la punta conficcata nell’asfalto.
A circa un metro e mezzo di distanza un ragazzo sta fotografando il razzo.

Saluti da Kharkov.

Maksim di Kiev ha spedito la moglie e i figli all’estero.
Hanno preso l’auto e sono in viaggio verso il confine polacco.
Sono diretti in Italia, a Parma, dove abita sua madre.
Lui non può uscire dal paese, come tutti gli uomini tra i 18 e i 60 anni potrebbe essere chiamato nell’esercito.
Al momento è a casa, ha una cantina dove si rifugia e accoglie amici e vicini, le esplosioni sono terrificanti.
In uno degli account su Telegram vengono condivisi dei video con migliaia di ceceni che si preparano a partire per l’Ucraina.

Dal 1999 al 2006 nel territorio della Cecenia si è combattuta una guerra cruenta tra ribelli separatisti jihadisti e soldati russi coadiuvati dall’esercito lealista ceceno.
Il conflitto ha causato decine di migliaia di morti, non solo nel Caucaso ma anche in Russia a seguito di svariati attentati terroristici attuati dai separatisti, le stragi più cruente occorse nel 2002 al Teatro Dubrovka a Mosca e nel 2004 nella scuola di Beslan, nell’Ossezia del Nord.
I russi accusano gli americani di aver fornito armi e addestramento ai ribelli islamisti per destabilizzare la federazione russa.
Diversi nazionalisti ucraini, alcuni ai vertici di Pravij Sektor, hanno combattuto come mercenari contro i russi in Cecenia.
Nel corso delle ostilità, la capitale Grozny vene prima assediata dalle truppe russe e poi sostanzialmente rasa al suolo tanto che nel 2003 si posizionò al primo posto nella classifica di “città più devastata nel mondo” secondo le Nazioni Unite.
Al termine delle ostilità, Ramzan Kadyrov è stato nominato capo della repubblica cecena e da allora garantisce supporto e lealtà a Mosca che chiude un occhio sulle maniere forti con cui gestisce l’ordine interno in cambio di una relativa stabilità nel Caucaso.

Le immagini sono impressionanti, migliaia di uomini barbuti, vestiti di nero, ben equipaggiati, che marciano verso l’Ucraina accompagnati da un sound fortemente sincopato con un vago sapore di techno-islam.
Mercenari che combattono al fianco dei russi. Probabilmente è questione di ore prima che cada Kiev.

L’unico che si sta godendo il momento storico è Sasha di Odessa.
Festeggia come se avesse vinto europei, mondiali, Champions League e super-enalotto contemporaneamente.
Sono 8 anni che profetizza l’arrivo delle truppe russe, è ora di sistemare i contenziosi, con chi di preciso non è chiaro.
Faccio fatica a capire la sua posizione:
ha più di sessant’anni, un cognome ucraino, una famiglia numerosa, è titolare di un’azienda che ha quattro filiali e diverse decine di dipendenti, capannoni, macchinari, investimenti…
Un’eventuale guerra non gli gioverebbe per nulla.
Se Odessa finisse all’interno della federazione russa, si troverebbe a concorrere con player molto più agguerriti e strutturati della sua azienda in un mercato notevolmente più ampio di quello ucraino.
Eppure è felice, in modo contagioso.
Ci sentiamo sabato mattina: “Stiamo per entrare in un futuro luminoso e ne faremo parte insieme”.
Tempo un paio di giorni e si chiude tutto, i russi metteranno un loro uomo a Kiev e poi partirà una campagna denigratoria contro Zelenskij, a cui hanno già trovato fondi occultati in Argentina per oltre un miliardo di dollari.
Chiedo come stanno i dipendenti di Kiev, gli faccio presente che su Telegram ci sono dei video che riprendono scontri a fuoco vicino a Obolon, quartiere a nord di Kiev.
Qualcosa si incrina nella sua voce. “Obolon, dove abita mio figlio”.
Aleksandr ha quattro figlie avute da due matrimoni e un maschio, Nikolaj, nato da una relazione extraconiugale con una donna di Kiev, con la quale è in pessimi rapporti.
Ho incontrato Kolja 8 anni fa ad Odessa, era un ragazzino alto e con gli occhi azzurri del padre, la peluria facciale e la voce incerta della pubertà.
Era in vacanza presso la famiglia di Sasha, andava d’accordo con le sorellastre e la moglie di suo papà, che lo trattava bene, pur essendo il frutto tangibile di un adulterio.
Una situazione strana proprio perché naturale.
Poi qualcosa è cambiato.
Sono anni che Nikolaj non vuole più vedere suo padre, ha da poco iniziato l’università in Canada.

Sabato 26 febbraio è una giornata luminosa, i raggi del sole attraversano le finestre alle mie spalle mentre mi agito davanti allo specchio.
Corsa sul posto, squat, flessioni.
Cerco di tenere i piedi entro una delle assi del pavimento, come linea di riferimento.
Sempre più spesso le venature del legno prendono la struttura delle piastrelle della metropolitana di Kiev.
Mentre sudo in pantaloncini, migliaia di persone sono unicamente impegnate a proteggersi dal freddo, decine di metri sotto il livello stradale, immerse nell’angoscia e nell’incertezza.
Inizio a sentirmi a disagio nel comfort della mia vita, un’esistenza definita dalla lingua e dalla cultura russa per un quarto di secolo.
Prima una falsa partenza all’università di Udine e poi il riscatto a Venezia, una rinascita partorita a Ca’ Garzoni, a pochi passi dal Canal Grande, il sole che riverbera nella lucentezza dei vent’anni… San Pietroburgo, acqua e pietra, il giorno che non va mai a dormire, il fiume Neva che scintilla.
Niente sarà più come prima.

Dopo pranzo porto i bambini al parco dove ci troviamo con gli amici.
Per Natale mia figlia mi ha regalato una settimana di quarantena per cui ne ho approfittato per vedere e rivedere Get Back, il documentario di Peter Jackson sui Beatles, che sono così rientrati in heavy rotation a casa nostra.
Mio figlio Greg, con le sue manie da undicenne, si è cristallizzato su Back In The USSR che mi costringe a mettere ogni singola volta che saliamo in macchina.
Per quanto io l’abbia ascoltata un milione di volte nell’arco di quasi quarant’anni, rimane un pezzo irresistibile con un crescendo travolgente.
L’assolo di George, il battito di mani, l’incedere del piano offrono la base ideale per le acrobazie di un ballerino ussaro, piegato sulle gambe con la schiena dritta e le braccia conserte mentre scalcia a destra e a manca.
In auto la canto regolarmente a pieni polmoni, scandendo parola per parola, sia mai che i bambini imparano un po’ di inglese. 
Immancabilmente faccio il pieno di euforia, non mi pesa farla ripartire ancora una volta e un’altra volta ancora.
Oggi la magia non funziona.

Il refrain “The Ukraine girls really knock me out/Leave the West behind/ And Moscow girls make me scream and shout/And Georgia’s always on my, my, my, my, my, my mind” mi si secca in gola, amarissimo.

Non riesco a terminare la strofa. La settimana scorsa era un inno alla gioia e adesso è un incubo.
Non sarà più come prima.
Mosca e Kiev unite soltanto in questo rocker di Paul McCartney, nei libri di storia e nella memoria di chi ci è stato.
Prima.
Il pezzo di apertura del White Album viene registrato il 22 e il 23 agosto 1968, poche ore dopo che i carri armati sovietici sono entrati in Cecoslovacchia mettendo fine alla primavera di Praga.
Wooohh, Oooohh, Oooohh

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