lunedì, settembre 25, 2023

Russia. Febbraio 2023 #1



L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.


La prima puntata qui: https://tonyface.blogspot.com/2023/05/tashkent-novembre-2022.html

Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss

PARTE #1

L’ultima volta che sono stato in Russia, a settembre, Saša e Igor’ mi hanno proposto un paio di dj set a Mosca e a San Pietroburgo, quando sarei tornato. “Magari a novembre. Ti porti i dischi, troviamo un bel posto e facciamo il volantino. Vedrai che figata.”

Non era male come idea ma mi sentivo un po’ a disagio, meglio se non si sapeva niente in giro, Saša è sempre lì che posta su Facebook, anche se non potrebbe, vai a sapere come reagisce la gente che vede il tuo nome, una festa da qualche parte in Russia e tu che metti i dischi.
Eravamo rimasti che ci saremmo sentiti in autunno.

Qualche giorno dopo hanno dichiarato la mobilitazione, e la parvenza di normalità sospesa, a piede libero con la condizionale, la minaccia latente di una guerra vicina e lontana, la guerra degli altri, la guerra che si combatteva in tv, nei giornali e nei cartelloni lungo le strade, quella normalità originaria, stravolta dallo shock di febbraio che tanti russi avevano superato a colpi di tranquillanti, preghiere e “speriamo finisca presto”, quella normalità corroborata da un’estate calda alla riscoperta della propria terra, visto che per molti i viaggi all’estero erano diventati proibitivi, quella normalità era entrata in una nuova fase, ora a combattere ci andava anche la gente comune, non solo i militari di professione.
Un altro cambiamento nella vita del russo medio, che adesso rischiava di finire in tv, con l’elmo e la divisa.
Basta una cartolina con sopra il tuo nome e l’invito a presentarsi al distretto militare entro due giorni. Un altro passetto verso il precipizio perché un conto è parlare di Operazione Militare Speciale, un altro è se la Russia dichiara lo Stato di Guerra, la legge marziale, la chiusura dei confini e quelle cose lì, non solo per i russi arruolabili ma anche per gli stranieri, quelli come me, che magari, nel momento in cui Putin fa un annuncio a reti unificate, si trovano in territorio russo per vendere un po’ di ferramenta.
“Eh ma cosa vuoi che ti succeda?”

Non lo sa nessuno, l’ultima volta che è capitata una cosa del genere, ottant’anni fa, un tot di gente è finita nei campi di prigionia o c’ha lasciato le penne perché in tasca aveva il passaporto sbagliato.
A ottobre ho parlato con un editore che pareva interessato ai miei racconti e mi ha detto: “Mi sa che in Russia non ci andrai più per qualche anno.” Ho convenuto con lui e l’amarezza mi ha guastato il resto della giornata.
Poi col passare del tempo anche il bubbone della mobilitazione si è sgonfiato, riassorbito nella quotidianità delle brutte notizie, di quella bruttezza opaca e senza forma che dopo un po’ non sconvolge più.

Bombe su Kiev, bombe sul Donbass, civili morti, soldati morti, nuovo pacchetto di sanzioni, le minacce del Cremlino, gli aiuti militari, la difesa della democrazia e dei nostri valori, che è quasi un anno che le senti tutti i giorni, ormai c’hai fatto l’abitudine, come quando vai a fare il bagno al mare e appena metti i piedi in ammollo l’acqua ti pare freddissima e vorresti tornare a riva, poi ti immergi, due bracciate e ti sei già ambientato.

Potrebbe andare peggio, dicono i clienti.
In effetti a ottobre c’è stato un calo, chi è che si indebita per comprare una cucina se domani ti mandano a combattere, ma già a novembre la situazione si è stabilizzata, una volta chiusa la mobilitazione, il panico è rientrato, almeno in quelle famiglie, in quelle comunità che non hanno parenti o amici al fronte. La gente è tornata alla vita di prima, anche se non è chiaro di prima quando.
E così, dopo le vacanze di Natale, ho chiamato Vasja, il mio referente, che mi ha tranquillizzato:
“Qua è tutto a posto, c’è un sacco di roba da fare. Ti aspettiamo.”

Ho comprato il biglietto, cinque giorni a Mosca, quasi una settimana per trovarsi, guardarsi negli occhi, fare un po’ di analisi sulle vendite e sulle giacenze di magazzino, previsioni per i prossimi ordini.
Tutte attività che puoi gestire anche da remoto, e sarà un cliché, come dire che in Russia fa freddo, eppure, sedersi uno di fronte all’altro, parlare con i venditori, andare in giro dai clienti, ascoltare quello che hanno da dire, contare le macchine parcheggiate fuori dai capannoni, prendersi nota di quanti e quali scatoloni con il marchio della concorrenza sono accatastati in produzione, tutte queste cose non le sostituisci con una video-chiamata.
Puoi tamponare, confrontare dati e informazioni, percentuali, ma un meeting in presenza è fondamentale per superare un ostacolo, prendere una decisione condivisa, trasmettere un sentimento o un’emozione e più in generale andare avanti nelle trattative perché quando ti trovi nella stessa stanza con altre persone, senza il postino che citofona o tuo figlio che chiede il succo, sei obbligato a sentire e a osservare come tutti gli altri.
Le parole hanno un suono preciso, ti toccano in modo diverso, come l’acuto di una tromba dal vivo, pare impossibile che siano le stesse note quando le ascolti con gli auricolari del telefonino.

Non tutti lo capiscono, fan fatica certi miei colleghi, figuriamoci i miei genitori. Alla Nico invece non lo devo spiegare e questo è uno dei motivi per cui stiamo assieme da quasi vent’anni, non rompe il cazzo se vado in Russia ma non tutti ci arrivano, in ufficio mi interrogano con gli occhi spalancati:
“Ma davvero vai a Mosca? Non hai paura?”

Paura anche no, un po’ di ansia ma cerco di non pensarci, non cascherà il mondo per un viaggio di cinque giorni, speriamo non succeda niente e in queste cose mi sa che sono un po’ fatalista, o imprudente, come i russi.

All’inizio di febbraio ce ne sono un sacco, di russi, in aeroporto a Istanbul.
Li vedi per i corridoi, li senti parlare. Famiglie, donne, ragazzini, uomini obesi, sacchi a tracolla e borse piene, zaffate di aglio, il tizio con la felpa Emporio Armani che entra in aereo con lo stuzzica dente in bocca, a lato, come Vito Catozzo.
Tanti ventenni, visi puliti, riposati, lo sguardo sicuro di chi è a posto.
Soldi, posizione, viaggi all’estero.

Molti si alzano subito dopo il decollo, scattano in piedi appena si spegne la luce delle cinture di sicurezza e camminano avanti e indietro, con passo deciso, che rimbomba per la carlinga, come se avessero premura di andare da qualche parte.
Il peggio è quando hai il posto vicino al corridoio, arriva uno e inizia a chiacchierare con la coppia accanto a te e che cazzo avranno di così importante da dirsi.
Niente, parlano delle procedure per il tax-return, a Dubai sono organizzati meglio.
E tu in mezzo, col tipo che si dondola appoggiato al tuo schienale.
Atterriamo che è tardi, quasi le due di notte.
I russi non spostano le lancette in autunno per cui in inverno c’è un’ora in più di differenza, le coincidenze dei voli sono scomode.

In fila per il controllo passaporti ricomincio da dove ero rimasto.
Una signora con due figli ventenni mi passa davanti, come se non esistessi. Borbotto in maniera aggressiva che c’ero prima io e la donna alza lo sguardo con aria di sufficienza e si rivolge direttamente al ragazzo che indossa una tuta di Christian Dior, in ciniglia, verde e morbidosa che sembra la rana Kermit: “Lёša fai passare questo tizio.”

Mi chiama djadja, letteralmente significa zio ma è un modo colloquiale per indicare un uomo adulto, come guy in inglese.
Fino a qualche mese fa ero un molodoj čelovek, un giovanotto, e rispondevo con tono scherzoso, compiaciuto, quando mi apostrofavano in questo modo. Ormai sono diventato un djadja e vorrei sapere da quanto è, di preciso, che non sono più un molodoj čelovek.

Prendo un taxi per andare in albergo.
Il centro è tutto illuminato che sembra un parco giochi.
Le strade, le silhouette dei palazzoni, le finestre degli uffici coi neon ancora accesi e chissà se c’è gente che lavora o se fanno le pulizie, che poi è la stessa cosa.
Le facciate e le cupole delle chiese sono accarezzate dalle proiezioni dei fari dal basso, anche le gru e i cantieri sono puntinati in maniera armoniosa, simmetrica.
Ai lati degli stradoni, cartelloni pubblicitari dieci per venti, il concerto-tributo ai Nirvana per il compleanno di Kurt Cobain; l’orchestra sinfonica esegue le hit dei Queen in uno spettacolo intitolato The show must go on.

Le torri acciaio e vetro della city sono ricoperte di schermi led su cui sventola una bandiera russa.

Sullo sfondo, rossa che pare incandescente, brilla la stella sul tetto di una delle Sette Sorelle, i grattacieli fatti costruire da Stalin tra la fine degli anni quaranta e i primi cinquanta, per celebrare l’ottavo centenario della fondazione di Mosca.

Inizialmente erano previste otto costruzioni, uno per ogni secolo, ma i lavori per l’ultima torre non sono mai cominciati.
Il mix di casermoni, guglie e pinnacoli che caratterizza le Sette Sorelle ha dato vita a uno stile detto “gotico staliniano”, e anche se il binomio stesso non ispira allegria, in realtà nel panorama moscovita ha il suo perché, soprattutto di notte. Arrivo in albergo che sono le due passate di domenica mattina, faccio il check-in e salgo al nono piano.

Appena si spalancano le porte dell’ascensore, dal fondo del corridoio arrivano le urla di una donna che sta godendo.
Non sono gridolini sommessi, la tipa si sta sgolando, a intervalli regolari, in un crescendo e con un’intensità che ricordano più un parto che un amplesso.
Peggio ancora, i gorgheggi provengono dalla stanza accanto alla mia e in sottofondo c’è musica new age. Arpa e piano intrecciati sopra un base sintetica, i bassi che spingono, probabile che abbiano una di quelle casse portatili col bluetooth che la gente usa in spiaggia per ascoltare musica da maranza a tutto volume.
Come non bastasse, la mia camera è più piccola di quella dove dormo di solito, non c’è neanche spazio per fare ginnastica la mattina e il letto è troppo vicino alla scrivania, impossibile lavorare al pc la sera.
Chiamo la ragazza alla reception, le chiedo se c’è qualcosa di più spazioso. Si scusa con tono sincero, mi chiede di pazientare qualche istante, adesso mi porta la chiave della nuova camera.
Mi siedo sul letto, dalla parete filtrano le grida della donna, un po’ li invidio.

Ho conosciuto una ragazza che gridava così.
Tatjana.

Nel 2002 feci l’ultimo viaggio da studente a San Pietroburgo.
Il prof Aleksandr mi aveva sistemato all’ultimo piano del suo condominio, in un mini appartamento dove abitava sua madre. La vecchia l’aveva spedita in campagna con la moglie; il figliastro Denis si era dovuto sposare in primavera perché aveva messo incinta una tipa e quella che una volta era la mia camera adesso era occupata da un omone finlandese, Seppo, che studiava il russo quando non era impegnato a ubriacarsi. La madre e la moglie di Seppo erano malate di cancro, lui non ce la faceva a vederle morire e con la scusa di rinfrescare la lingua di Puškin si era preso una pausa ed era venuto a San Pietroburgo per sfondarsi di vodka.
Si faceva fuori una bottiglia al giorno di Zubrovka, da zubr, il bisonte raffigurato sull’etichetta che dà il nome al distillato di colore marroncino.

Seppo era grande e grosso, con i baffi biondi e l’anda da burbero, più che cattivo, pareva avvelenato dalle sfighe che lo circondavano. La sera che c’eravamo conosciuti, durante una sessione di vodkini e cetrioli nella cucina di Saša, mi aveva detto che ero “decadente”.
Parlava per invidia, faceva fatica a mascherare il risentimento per la leggerezza di chi è giovane, non ha rogne e non è obbligato a lavorare.
Uno che non era più giovane e lavorava poco era il prof. Debole di carattere e incline alla depressione, in quel periodo era in crisi con la moglie e con le finanze, certo un alcolizzato come coinquilino non gli era di aiuto.

Seppo non era l’unico tipo strano che girava per il trilocale di Saša, uno degli habitué era un certo Vasja, un altro sbevazzone con i baffi folti e gli occhi da donna, ma il più scroccone di tutti era Jurij, un impiegato statale, una specie di dirigente che abitava al piano di sotto. Era grosso, i capelli rasati ai lati, i baffetti curati e il portamento da sergente, di chi è abituato a comandare.
Era un acceso nazionalista, non perdeva occasione per provocarmi: “Venezia tra poco sprofonda! Il vostro Papa è messo male, vedrai che tira le cuoia.” e cose del genere a cui rispondevo alzando le spalle, del papa tremolante di Parkinson non me ne fregava niente e da Venezia prima o poi me ne sarei andato.
La prima volta che ci eravamo incontrati mi aveva guardato con disprezzo e aveva domandato a Saša, quasi non potessi sentirlo: “Otkuda etot bolgarin?”.
Da dove salta fuori questo bulgaro.
Bulgaro, a me, che indossavo una camicia a quadri con il button-down, Levi’s Sta-Prest e un paio di mocassini scamosciati.

Jurij esercitava una certa influenza sul prof, che un po’ lo temeva, forse per il suo ruolo di funzionario o semplicemente per il modo di fare, da prepotente. Entrava e usciva di casa a tutte le ore, apriva il frigo e si serviva senza tante cerimonie.
Una sera c’eravamo ritrovati nel mio appartamento, in cucina, forse perché da me si poteva fumare. Jurij aveva voglia di fare festa, sua moglie era fuori città… insomma voleva andare a troie. Io mi ero fatto questa idea che in Russia ci fossero dei bordelli eleganti, dove con pochi euro ti sceglievi una modella profumata, con l’intimo di pizzo e che poi te la portavi in una stanza con le tende damascate e le lenzuola di raso, per cui avevo detto di sì, io ci stavo.
Non avevo mai pagato per scopare ma per una volta si poteva anche fare, poi in Russia, non lo avrebbe mai saputo nessuno. E così, per curiosità, chiesi a Jurij se ci portava in un bel posto, che tipo di ragazze c’erano. Jurij mi puntò addosso i suoi occhietti furbi, lo sguardo perfido, spietato, e spiegò cosa aveva in mente: “Adesso noi andiamo giù in strada, troviamo una bella cagnetta, ce la portiamo qua in camera tua, ce la facciamo a turno e intanto che uno scopa gli altri guardano.” e sghignazzò con gusto mentre spingeva il palmo della mano destra avanti e indietro, a mo’ di stantuffo. Le palle mi si restrinsero come due noccioline e mi salirono in gola.

Montammo tutti quanti sulla Lada verde del prof e partimmo per il safari.
Appena Jurij vide una coppia di ragazzine che passeggiavano sul marciapiede, fece cenno al prof di fermarsi.
Uscì come un ossesso, disse qualche parola alle due e prese a strattonarne per il braccio una, che fu abbastanza pronta a divincolarsi e ad allontanarsi assieme alla sua amica.
Dall’abitacolo assistemmo a quella scena senza dire una parola, c’era qualcosa di comico e raccapricciante nelle movenze di Jurij, nelle espressioni del volto, solenni e sconce, chissà cosa aveva detto a quelle poverette.

Salì in macchina come se non fosse successo niente, imprecando sotto i baffi, e diede ordine a Saša di rimettersi in marcia. Vagammo per qualche strada semi-deserta finché non passammo davanti a una fermata del bus. Appoggiata al baracchino di metallo arrugginito, c’era una ragazza sulla ventina che teneva in mano un sacchetto di plastica. Anche in questo caso Jurij si mise a parlottare fitto fitto mentre stringeva il braccio della ragazza, che però non fece tante storie, si liberò dalla sua presa e salì in macchina in tutta tranquillità.
Dopo qualche istante di imbarazzo generale si presentò, disse che si chiamava Tatjana e che veniva da Novosibirsk, quattromila chilometri di distanza da San Pietroburgo.
Era in città per visitare un’amica ma qualcosa era andato storto, non avevo capito cosa di preciso. Prima di rientrare dal prof, ci fermammo in un negozietto a comprare un po’ di birre.

A casa, Tanja parlava con gli altri alla pari, senza soggezione, invece con me era restia, non mi guardava, se mi inserivo nel discorso girava la testa da una parte, il mento all’insù, la bocca piegata in una smorfia di sdegno.
Si vedeva che non ero russo e in quegli anni uno straniero coi capelli neri e la barba di tre giorni non poteva che essere un ceceno, un terrorista, il nemico numero uno.
E poco importava che i ceceni avessero la chioma rossiccia e l’iride azzurra, per quella ragazza siberiana con la pelle bianchissima e gli occhi allungati, io ero uno scurotto, un musulmano del Caucaso pronto a farsi esplodere. Quando le spiegarono che ero italiano, Tanja cambiò espressione, le pupille si allargarono, il volto si distese in un sorriso accattivante. Ora non ricordo i dettagli ma eravamo nel soggiorno del prof a chiacchierare del più e del meno, c’era un po’ di confusione, musica in sottofondo, c’era anche Denis, il figliastro del prof, chissà cosa era venuto a fare.
A un certo punto Tanja si alzò per uscire dalla stanza, prima di varcare la porta si girò verso di me e mi lanciò un’occhiata, giusto un lampo, i capelli castani le ondeggiarono sopra le spalle. Attraversò il corridoio ed entrò in una cameretta con una libreria di legno scuro alla parete. Quando la raggiunsi stava sfogliando un volume senza guardarlo, quasi mi aspettasse.
Io l’abbracciai da dietro, al primo tocco si voltò verso di me con le labbra socchiuse, un invito a infilarle la lingua in bocca, il libro che teneva in mano cadde a terra con un tonfo e io presi a palpeggiarla un po’ ovunque finché non fummo interrotti dal risolino di Denis che ci stava osservando dal corridoio.
Tatjana si ricompose e senza dire niente a nessuno ci trasferimmo nel mio appartamento. Appena entrata, chiese di farsi una doccia, ci spogliammo e restammo sotto il getto d’acqua per qualche istante. Non era una bellezza appariscente ma aveva i lineamenti regolari, armoniosi, il busto sottile e due tette incredibili.

Tanja era spiritosa e pronta a soddisfare tutte le mie voglie, si concedeva e godeva con gioia, in maniera sincera. Gridava con la bocca spalancata, mentre mi muovevo sopra di lei mi chiedevo se il tappeto appeso alla parete, accanto al letto, avrebbe attutito almeno in parte le sue urla, chissà se i vicini ci sentivano, magari li avevamo svegliati, chissà cosa pensavano.

Alla mattina scopammo di nuovo, io sarei rimasto a letto con lei tutto il giorno, era domenica e non avevo niente da fare ma Tanja era in para, era arrivata da Novosibirsk per trovare lavoro ma l’amica che l’aveva invitata era sparita. L’avevamo trovata sotto casa della tipa, era rimasta lì qualche ora senza sapere cosa fare, dove andare.
In mano un sacchetto con tutti i suoi averi. Poi era arrivato Jurij, avevamo riso di questa cosa, era talmente sfinita che non aveva neanche capito cosa volesse da lei.
Tanja doveva andare, forse c’era un’altra persona che poteva darle una mano. Mi chiese dieci dollari, non aveva un rublo con sé, aveva speso tutto per il biglietto del treno, tre giorni di viaggio.
Quando chiuse la porta presi a domandarmi, senza grossi tormenti, se avessi aiutato quella ragazza o se invece avessi pagato per farmela.

E la curiosità è sempre la stessa, in questa stanza di albergo.
La tipa qua accanto, quanto sono sincere le sue urla. La ragazza della reception bussa alla porta, mi ha evitato di scendere con le valigie per poi risalire.
Resta ben lontana dall’uscio, ferma al centro del corridoio, sarà una forma di cautela, avrà paura che la inviti ad ascoltare un po’ di new age, allunga la mano e mi porge la tessera magnetica della nuova stanza, al piano di sotto.
Apro le finestre appena entrato perché c’è un caldo fastidioso, ci saranno almeno venticinque gradi e il termostato non si regola.
Sono quasi le tre quando vado finalmente a dormire.

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