lunedì, maggio 20, 2024

Steve Albini

Riprendo l'articolo pubblicato ieri per "Libertà" nell'inserto "Portfolio" diretto da Maurizio Pilotti.

Ci ha improvvisamente lasciati per un malaugurato infarto, a soli sessantun anni, Steve Albini, personaggio pressoché unico nella storia della musica cosiddetta “alternativa”.
Musicista con band a loro modo seminali, pur nella loro totale iconoclastia, provocatoria fino all'eccesso, come Big Black, Rapeman e Shellac, è stato soprattutto un fonico geniale in studio di registrazione, talvolta accreditato come produttore, etichetta che ha sempre sdegnosamente rifiutato.

"Quando una band mi chiama per registrare dico subito ai miei clienti che non voglio assolutamente essere citato nei loro bei dischettini.
Farò semplicemente un buon lavoro per loro e questo non implica sobbarcarsi alcuna responsabilità per i loro fottuti gusti o errori. E' la band a essere responsabile di un ottimo disco o di un disco orribile.”


Famosa la lettera che scrisse ai Nirvana all'indomani del successo planetario di “Nevermind” quando lo chiamarono a collaborare al nuovo disco “In Utero” in cambio di un compenso prestabilito e a una percentuale sulle vendite:
"Non voglio prendere e non prenderò royalty su nessun disco che registro. Punto. Penso che pagare una royalty a un produttore o a un fonico sia eticamente indifendibile. La band scrive le canzoni. La band suona la musica. Sono i fan della band che comprano i dischi. La band è responsabile se si tratta di un disco fantastico o di un disco orribile. I diritti d'autore appartengono alla band. Vorrei essere pagato come un idraulico: io faccio il lavoro e tu mi paghi quanto vale. La casa discografica si aspetterà che io chieda un punto o un punto e mezzo di percentuale sulle vendite. Se consideriamo tre milioni di copie vendute, il totale ammonta a circa 400.000 dollari. Non c'è alcuna possibilità che io prenda così tanti soldi. Non riuscirei a dormire. Devo sentirmi a mio agio con la somma di denaro che mi pagate, ma sono soldi vostri, e insisto affinché anche tu ti senta a tuo agio.
Kurt Cobain ha suggerito di pagarmi una quota che considererei il pagamento completo. Se poi pensate davvero che meriti di più, di pagarmi un'altra quota andrebbe bene, ma probabilmente ci sarebbero più problemi organizzativi che altro. Vi lascerò la decisione finale su quanto verrò pagato e quello che sceglierete non influenzerà il mio entusiasmo per il disco.”


Aggiungeva a questa lettera, illuminante su come ha sempre pensato il suo ruolo nella musica, una postilla finale:
"Alcune persone nella mia posizione si aspetterebbero un aumento degli affari dopo essere stati associati alla tua band. Io però ho già un lavoro, più di quello che riesco a gestire e, francamente, il tipo di persone che tali superficialità attireranno non sono le persone con cui voglio lavorare."

Una posizione inimmaginabile in tempi in cui il guadagno si antepone costantemente alla qualità del lavoro stesso, all'arte, alla cultura.
“Molti fonici o produttori aspirano a lavorare a progetti che soddisfino i loro gusti personali. Francamente a me non importa che tipo di musica facciano i miei clienti. Mi sforzo persino di non formarmi un’opinione sulla musica su cui lavoro. Se sento che sto diventando un fan, devo fare un passo indietro, altrimenti non lavoro come si deve.”

Umanamente controverso, difficilmente inquadrabile, sempre lucido e spiazzante, pervicacemente ancorato a una sua personale coerenza, soprattutto con i principi dell'auto produzione e gestione, lontano da mainstream e logiche capitaliste di profitto.
“Il mio modo di lavorare e la mia etica nascono dall’appartenenza a una band punk autosufficiente, indipendente e underground, cosa che ha plasmato tutta la mia visione del mondo. Comportandoti in modo onesto e rispettabile puoi scuotere le coscienze. È un approccio che influenza ogni aspetto della mia vita.”

Spesso ha giocato con frasi forti che lo hanno portato ad essere tacciato di eccessiva irriverenza, perfino razzismo, quando in realtà ha semplicemente sempre rivendicato la libertà di esprimersi senza troppe metafore o tanto meno con il politically correct, conservando le radici ostiche (nonostante il nonno italiano) di abitante del Montana, uno degli stati americani più isolati, rudi e oltranzisti. Il suo rapporto con la musica ha sempre (almeno se diamo credito alle sue parole, spesso usate volutamente in chiave provocatoria) avuto un distacco quasi fastidioso e infastidito:
“Niente mi stimola. Faccio questo ogni giorno da oltre trent’anni, è solo lavoro. Certo, è un lavoro molto gratificante, amo quello che faccio, interagisco con le persone più interessanti del mondo, permetto loro di realizzare le loro più sfrenate ambizioni artistiche, cosa che è estremamente soddisfacente per me, però ecco, non sono in estasi quando faccio il mio lavoro. Perché, appunto, è un lavoro”.

La sua carriera inizia a Chicago nei primi anni Ottanta, dopo alcune esperienze in ambito hardcore punk, con una band iconoclasta e senza compromessi come i Big Black che in due album, nel 1986 e 1987, piantò i semi per il noise rock più estremo di cui il secondo “Songs about fucking”, fin dal titolo, è esemplare dell'approccio lirico di Steve, estremo all'eccesso.
“E' difficile immaginare che oggi potrebbero nascere e avere successo band che si battezzano Rapeman o cantano quello che cantavano i Big Black. Se ciò sia un bene o un male lascio all'interpretazione personale di chi legge e ascolta".

La band successiva, Rapeman (stupratore, nome di cui in seguito si vergognò e per il quale fece ammenda), proseguì il discorso sonoro di quella precedente per poi approdare a suoni meno ostici con gli Shellac, con cui ha inciso mezza dozzina di dischi, dando il via all'ambito cosiddetto post rock. In tutti i casi la gestione dei gruppi è sempre stata assolutamente slegata da ogni logica commerciale.

In tempi di ormai totale conquista del mercato da parte dei CD, le sue band continuarono a pubblicare i loro lavori in vinile, distribuiti in canali indipendenti, a prezzi controllati e con la promozione affidata a loro stessi.
Anche i concerti erano prerogativa della band, senza intermediari. Se fosse stato necessario contattare Steve, email o telefono erano a disposizione di chi ne avesse avuto bisogno, senza manager o esterni.

La parte più importante della sua attività artistica è stata comunque legata alla registrazione di dischi, ben oltre 1.500.
Tra i più famosi ci sono pietre miliari come il già citato "In Utero" dei Nirvana, "Surfer Rosa" dei Pixies, "Rid of me" di PJ Harvey, "Tweez" degli Slint, "Pod" dei Breeders, “Goat” dei Jesus Lizard, il secondo omonimo della Jon Spencer Blues Explosion, “Walling into the Carlsdale” di Robert Plant & Jimmy Page. Sempre animato dal (discutibile) motto:
“Se ci vuole più di una settimana a fare un disco, qualcuno sta sbagliando qualcosa. Adoro lasciare spazio alla casualità e al caos. Produrre un disco senza che si vedano le cuciture, dove ogni nota e sillaba è al proprio posto e ogni colpo di grancassa della batteria è identico, è veramente facile. Qualsiasi idiota con sufficiente pazienza e denaro può permettere che si compia un tale scempio. Preferisco lavorare a dischi in cui contano cose più importanti come l’originalità, la personalità e l’entusiasmo.

Sferzante nei confronti della musica e musicisti, perfino gli stessi con cui aveva collaborato. Ad esempio i Pixies e il loro “Surfer rosa”, considerato un piccolo capolavoro degli anni Ottanta, vennero asfaltati da una dichiarazione acidissima:
"Un raffazzonato polpettone da una band che al suo meglio suona un blando college rock da intrattenimento.Non avevo mai incontrato quattro vacche tanto ansiose di essere portate in giro per l'anello al naso".

Negli ultimi tempi la musica, l'arte, la cultura sono state omogeneizzate e sigillate sotto vuoto spinto, con limiti ben precisi al di fuori dei quali non sono ammesse eccezioni, intrusioni, novità.
I suoni sono omologati ovunque (fatevi un giro sulle radio di ogni parte del mondo: i ritmi, i suoni, le frequenze, le melodie, sono pressoché tutte uguali).
Steve Albini era una variabile impazzita, incontrollabile, incatalogabile. Era un elemento di costante disturbo, mai supino alle regole prestabilite.
Ci mancherà.

1 commento:

  1. Mi torna in mente in loop una puntata di Sonic Higways dedicata a Chicago dove Albini spiega che è diventato un semiprofessionista del poker per continuare ad avere i soldi per produrre giovani band ma soprattutto racconta IL gesto più punk rock che abbia mai visto.
    Mostra la lettera di un tizio che gli chiede dritte su come usare il suono e menate così e lui non gli dice un cazzo ma gli invia un papiro enorme con tutti gli schemi e le specifiche tecniche per farsi un piccolo studio in casa ed imparare da solo
    Game, set, match.

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