giovedì, novembre 24, 2022

Russia. Giugno e Luglio 2022 #1


L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.

Le precedenti puntate sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss

A fine giugno ritorno in Russia.

I prezzi dei biglietti sono raddoppiati negli ultimi due mesi; adesso, in piena stagione estiva, costano cinque o sei volte in più rispetto a febbraio. Il volo Venezia – Istanbul è in ritardo, arrivo all’imbarco per Mosca qualche minuto prima che chiuda.
A bordo ci sono principalmente turisti russi di rientro dalle ferie. Guance e nasi arrossati, sguardi fissi sugli Iphone, Apple watch al polso, polpacci e bicipiti tatuati con inchiostro scuro.
Fisici sportivi, sneakers Balenciaga, Rolex acciaio e oro e qualche IWC, borsoni Louis Vuitton. La fascia alta della classe media che mantiene rapporti con l’occidente, almeno in termini di shopping.

Ci sono anche quelli rasati, il cranio fasciato da una banda elastica nera, di spugna.
Li guardi e pensi ai fan di Charles Barkley e invece si sono appena fatti il trapianto di capelli. Atterro all’aeroporto di Vnukovo che ormai è sera, aspetto una buona mezz’ora alla consegna bagagli.
La mia valigia non si vede, anticipo un gruppetto di pensionati che continuano a fissare a bocca aperta il nastro nero mentre gira a vuoto e mi affretto verso il Lost & Found, un corridoio grigio, pieno di valigie con i cartellini legati al manico. L’impiegato al banco mi conferma che il mio trolley è rimasto a Istanbul e arriverà col volo di mezzanotte.
Non può aprire una pratica perché ha bisogno della denuncia di mancata consegna da parte della dogana. Attraverso nuovamente lo stanzone illuminato dal bagliore sintetico dei neon, entro in un ufficio con le porte a vetri. Dietro a una scrivania, schiacciata contro il muro, sono infilate due ragazze in divisa verde scuro.
Quella alla mia destra mi invita a chiedere il modulo alla collega che sta al banchetto fuori dall’ingresso. L’impiegata se ne è appena andata, quasi avesse annusato l’aria, davanti alla sua postazione si sta formando una fila di anziani in stato confusionale.
Rientro nell’ufficio e inizio a supplicare con voce piagnucolosa. È una cosa che ho imparato nel corso degli anni, spesso funziona anche con gli sbirri. Per ottenere qualcosa dall’autorità in carica bisogna riconoscerne il ruolo, meglio implorare che fare il gradasso. “Dovete aiutarmi, vi prego. Devo prendere un volo domani. Ho bisogno della valigia. È importante, davvero. Aiutatemi.”

L’impiegata alla mia destra si lascia intenerire, si alza un po’ scazzata e tira fuori dei fogli A4 da un armadio ad ante battenti.
Si muove meccanicamente sui tacchi, le spalline della giacca sollevate verso le orecchie e le unghie smaltate che escono dalle maniche troppo lunghe.
Sbuffa, mi aiuta a compilare un modulo a mano, si segna qualcosa sul computer, poi ricopia gli stessi dati su altri due fogli uguali.
Firma e timbro sulle tre copie.
Una se la tiene lei, le altre due le devo portare all’ufficio smarrimento bagagli per poi ritornare col documento che mi daranno. In qualsiasi aeroporto europeo una situazione del genere viene gestita da un unico ufficio, consegni il talloncino adesivo del bagaglio all’impiegata che dopo qualche istante ti rilascia un foglio con i tuoi dati e il numero di pratica.

In Russia la burocrazia raggiunge livelli di psicosi e non c’è molto da fare.

Una volta entrato nel labirinto, tocca mettersi pazientemente alla ricerca dell’uscita.
La gente pensa sia un’eredità del sistema sovietico, in realtà risale all’organizzazione della società introdotta da Pietro Il Grande secondo leggi e parametri che hanno formalmente regolato la società russa per duecento anni.
Nel XVIII secolo la vita sociale e professionale era definita dal čin, dal grado che un individuo rivestiva in ambito civile o militare e in base al quale doveva comportarsi, anche nelle piccole cose.
Un funzionario o un ufficiale che incrociava per la strada una persona di grado superiore, era tenuto a cedere il passo.
Stesso discorso nei trasporti o nei locali pubblici dove non si poteva occupare un posto riservato a un rango più alto, pena multe salate.
Nella corrispondenza epistolare, nome, cognome e patronimico erano indicati nel foglio in alto a destra o a sinistra, a seconda del čin.
Poi è arrivato il comunismo che ha cambiato nomi e sigle all’organizzazione piramidale che regolava i rapporti sociali, senza per altro sciacquare via il pantano melmoso di cavilli, pedanterie e formalità amministrative.
Prendi una denuncia per furto in Italia.
Vai in questura o dai carabinieri e aspetti che ti facciano accomodare in una stanzetta. Quando arriva il tuo turno, ti fanno sedere davanti a una scrivania e un impiegato in divisa ascolta la tua storia. La riporta per iscritto in una lingua inventata apposta per compilare un verbale che poi leggi e firmi per conferma.

In Russia è diverso.

Una decina di anni fa ero a Mosca con Michele, il mio titolare, in occasione di una fiera.
Tutti gli hotel erano strapieni e ci eravamo sistemati in due alberghi separati. Una sera, mentre cazzeggio su Facebook davanti a un petto di pollo ai ferri, mi arriva una chiamata di Michele.
Tono a metà tra il panico e l’imbarazzo.
“Mi hanno rubato il portafogli, vieni qua in questura.

Finisco la bistecchina con il purè di patate, come quella che mi faceva mia mamma da bambino.
Salgo in camera a prendere il giaccone, monto su un taxi e lo raggiungo all’indirizzo che mi ha mandato.
La stazione della polizia è all’interno di un palazzone scuro a cinque o sei piani, probabilmente degli anni trenta del novecento. Michele mi aspetta all’ingresso, un androne poco illuminato, davanti a un finestrone incassato nella parete che ci separa da un ufficetto.
Dall’altra parte del muro, un poliziotto in divisa grigia fa scivolare un paio di moduli identici attraverso una feritoia, come quelle nelle biglietterie delle stazioni.

Nella parete alle mie spalle, un antro scavato nel cemento.
All’interno due tizi magri, volti scarni e lineamenti asiatici un po’ annacquati, forse tajiki. Stanno in piedi, la testa infossata tra le spalle, uno tiene le mani appoggiate alle sbarre che li separano dal corridoio.
È la prima volta che vedo due galeotti dal vivo. Sembra una di quelle celle dei film western di Sergio Leone, solo che questi non hanno il ghigno nevrotico di Tuco, han l’aria tranquilla, rassegnata, quasi fossero vittime di un errore, in attesa che venga risolto. Con una penna blu, legata con lo spago a una mensola di legno, inizio a ricostruire sul foglio le disavventure di Michele, un signore elegante, sul metro e novanta. Bersaglio ideale per il borseggiatore che gli ha sfilato il portafoglio dalla tasca del cappotto, appeso accanto al suo tavolo al ristorante, mentre cenava. Lavoro con Michi da quasi venti anni, non abbiamo mai avuto una discussione e buona parte della mia professionalità la devo a lui.
Ho un grande rispetto nei suoi confronti ma provo ammirazione per il ladro che gli ha ciulato il borsello, per la capacità di individuare una preda, seguirla, agire in pochi istanti e poi sparire senza lasciare traccia.
Per inciso, il mio titolare è un tipo abbastanza sgamato che viaggia in tutto il mondo, certo non il pollo più tenero da spennare, il che conferma la maestria del professionista in campo.
Scrivo le ultime parole sulla carta con orgoglio, una laurea in russo, quattro anni di studi e di viaggi pagati dai miei e sintetizzati in quattro righe di denuncia per furto.
A Mosca.
Il poliziotto mi fa cenno di ricopiare i dati sull’altro prestampato.
Glieli passo attraverso la feritoia.

“E adesso mi date la denuncia con timbro e firma?”
“Adesso con questa vai al quarto piano dall’ispettore.” e mi ritorna uno dei due fogli con un timbro sbavato.
Saliamo varie rampe di scale passando per corridoi e cunicoli coi pavimenti in legno, scricchiolanti.
Camminiamo per centinaia di metri, ci perdiamo un paio di volte e alla fine arriviamo all’ufficio dell’ispettore Mancov (pronunciato Mantsòv), un bisteccone sui quarantacinque anni, i capelli corti e le occhiaie di chi non si fa una dormita come si deve da almeno vent’anni. Il suo ufficio è grande, disordinato e mal illuminato.
Odora di cicche spente e sudore. In mezzo alla stanza due scrivanie: una piena di libri e riviste, sull’altra c’è un personal computer e una tazza vuota con la bustina del te rinsecchita, la linguetta di carta attaccata al filo ricoperta di polvere. Accanto alla porta, un divano in pelle, sfondato. Dai radiatori verniciati di blu scuro esce un caldo opprimente.
Ci fa accomodare davanti alla sua postazione con l’invito a raccontare nuovamente tutta la storia nel dettaglio. Mentre io parlo, un collega di Mancov, un sottoposto, riporta tutto sul computer. Fanno un sacco di domande.
“Perché non eravate assieme? In che albergo stai tu? Quando siete arrivati? Quando ripartite? Perché non ha cenato in camera? Qual è il suo livello di istruzione?”

Che poi ormai il portafoglio e i contanti chi li rivede più, la denuncia serve per i documenti e le carte di credito.
Rispondo puntualmente a ogni interrogativo, Michele zitto in parte a me che al quarto piano con l’inglese al massimo ci pulisci le tazze sporche.
Mancov mi fa ripetere il racconto tre volte. Viene stilato un secondo rapporto. Potrebbe finire qua e invece è appena cominciata.
Indossiamo i giacconi, facciamo il percorso a ritroso e ci troviamo fuori in strada, sul marciapiede. L’ispettore mette in moto un suv nero, Mercedes. Saliamo in quattro.
Io, Michele, una ragazza carina di nome Alesia e un tizio con una valigetta metallica lucida, successivamente ribattezzato “i Ris di Mosca”. Arriviamo di fronte al ristorante dove è avvenuto il furto, ripeto tutta la storia dal marciapiede mentre, attraverso una vetrina, osserviamo la colonna su cui era appeso il cappotto di Michele. Quando mostro con l’indice dove era seduto, Mancov mi abbassa la mano stizzito.
“Non indicare!” dice quello che guarda il dito e non la luna.
Entriamo infine nel locale dove ci confermano di non avere telecamere di sorveglianza.
In tutto questo tempo, “i Ris di Mosca” porta la valigetta a spasso senza mai aprirla. Risaliamo sul Suv di Mancov e ritorniamo in questura, al quarto piano, dove Alesia stila un pre-rapporto in inglese.
Sistemo alcune cose qua e là ma nel complesso è corretto.
Per la versione definitiva abbiamo appuntamento con la biondina il giorno seguente.
Anche in questo caso, piagnucolo per far sì che ci liberi entro le nove del mattino perché poi alle undici abbiamo un appuntamento e girare per Mosca è sempre un casino.
E così l’indomani, alle otto o forse prima, io e Michele siamo di nuovo alla stazione di polizia, davanti alla scrivania di Alesia, il volto stanco che sicuro è andata a dormire tardi e si è alzata prima di noi. Fa sempre caldissimo, ha le guance rosse e i seni che spingono contro il maglione bianco di lana e fibra sintetica, chissà se fa le scintille quando se lo sfila.
Le dita ticchettano sulla tastiera per un tempo interminabile finché ci porge il verbale con firma e timbro. Tempo di esecuzione: dodici ore.

Moduli compilati e stampati: una ventina circa.

Di sicuro ho tralasciato qualcosa.
Forte di questa esperienza, me la cavo meglio degli anziani con la pratica per lo smarrimento bagagli a Domodedovo.
Visto che il corriere non mi garantisce una data di consegna, scelgo di ritirare il bagaglio di persona dal deposito l’indomani, di mattina presto, prima del volo per San Pietroburgo.
Non sono neanche le sei quando mi presento di nuovo al Lost & Found, una funzionaria che indossa un tailleur color verde bottiglia in panno pesante mi accoglie in uno stanzone pieno di valigie, zaini e borse.
Mi congeda dopo avermi fatto firmare la ricevuta su un quadernone a quadretti, le sezioni sulla pagina suddivise a mano in righe verticali e orizzontali.

CONTINUA LA PROSSIMA SETTIMANA a San Pietroburgo.

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