lunedì, novembre 21, 2022

I folli del rock


Riprendo l'articolo che ho scritto per "Libertà" e pubblicato ieri.

“Non esiste genio senza una vena di follia” sentenziava Seneca. E anche la musica rock ne sa qualcosa, potendo “vantare” una lista lunga e infinita di “folli” e follie ma anche una triste e inquietante serie di nomi e personaggi che hanno dovuto gettare la spugna a causa di problemi psichici, non di rado indotti da un uso spregiudicato di sostanze stupefacenti e alcol.

Hanno spesso lasciato piccoli capolavori e sono scomparsi dalla circolazione tra rimpianti, ricerche infruttuose da parte dei fan e un'infinita malinconia.

Il caso più noto e celebre è quello del primo chitarrista dei Pink Floyd, di cui fu anche fondatore, Syd Barrett.
Con loro realizzò i primi due album, perdendo poi in modo molto veloce e progressivo il controllo di se stesso, risultando sempre più instabile mentalmente, ingestibile sul palco e in studio, tanto da costringere la band a sostituirlo con il nuovo chitarrista David Gilmour. Fu una separazione pressochè consensuale, tanto che i membri del gruppo collaborarono ai suoi due unici album solisti usciti poco tempo dopo e non mancarono mai di fargli avere un supporto economico per tutta la vita.
Da metà degli anni Settanta scompare dalla scena musicale, si ritira a casa con la famiglia, dipinge, rifiuta ogni contatto con il pubblico.
Ricompare improvvisamente in studio mentre il gruppo sta registrando “Wish you were here” (Vorrei che tu fossi qua), brano e album dedicati proprio a lui. Poi se ne perdono le tracce.
Respinge fan e giornalisti che vanno bussare alla sua porta, viene fotografato di nascosto, rivelando impietosamente una figura distrutta dalla malattia e dall'incuria, fino alla sua morte, nel 2006. Le ipotesi sul suo stato mentale sono state sempre molto vaghe.
La più accreditata e credibile è che l'abuso che ha fatto di LSD e droghe varie abbia compromesso uno stato psichico già instabile in partenza. La musica ha perso un genio, la vita ha perso un uomo.


Un percorso simile ha caratterizzato la vita di Brian Wilson, mente creativa dei Beach Boys negli anni Sessanta.
Anche nel suo caso a un'instabilità psichica si aggiunse l'abuso di droghe che lo portarono a una sorta di costante esaurimento nervoso che si acuì anche artisticamente quando, lavorando a quello che avrebbe dovuto essere il capolavoro della band, “Smile”, che considerava "una sinfonia adolescenziale diretta a Dio” ma che divenne invece un'ossessione che lo portò a continuare a volere migliorare e rifinire l'album (soprattutto dopo essere stato travolto dall'ascolto di “Sgt. Peppers” dei Beatles che lo convinse dell'impossibilità di poterlo superare in perfezione).
Continuò a collaborare con la band ma il suo ruolo divenne sempre più marginale, anche perché sono anni in cui cade in una forte depressione, si abbandona ad ogni eccesso, infarcendo la sua biografia di aneddoti in costante bilico tra il grottesco e il drammatico.
La band nel frattempo, senza il suo apporto, entra in una fase artistica sempre più decadente e grottesca, infilando album insignificanti e deludenti. Brian Wilson tornerà lentamente sulla scena, dopo anni di oblìo.
La ripresa non fu facile, con alti e bassi, reunion dei Beach Boys, litigi, collaborazioni (anche con il nostro Zucchero) ma alla fine, da qualche anno, ha continuato l'attività con nuovi lavori, concerti, la ripresa e conclusione dell'adorato e incompiuto “Smile”, pur in condizioni non sempre ottimali, ma niente male per chi ha appena compiuto ottanta anni.

Sly Stone è stato tra i più geniali autori e protagonisti della scena rock, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, tra i primi a mischiare black music e rock 'n' roll.
Attivo già da anni come autore e produttore formò nel 1966 Sly and the Family Stone, uno dei primi gruppi multi razziali americani (in epoche in cui la cosa non era vista tanto di buon grado), infiammarono il palco del Festival di Woodstcok, incisero stupendi album in cui psichedelia, blues, rock, soul, funk si mischiavano alla perfezione. Fu il primo in “There's a riot gon on” del 1971 a utilizzare una batteria elettronica in un album rock.
Ma le cattive abitudini gli sconvolgono mente e sistema nervoso e finisce malamente.
Gli anni Settanta lo colgono ancora attivo con altri album sempre di buona fattura, improntati ad un ottimo funk soul che cerca di aggiornarsi, mantenendo le radici salde nel fulgido passato, consegnandoci spunti e momenti di grande classe e sprazzi di genialità.
Ma la china che ha preso lo portano sempre più verso la rovina, nonostante i grandi della musica (da Miles Davis a Brian Eno, tra i tanti) ne riconoscano sempre più l'importanza e l'influenza avuta sulle nuove tendenze. Scompare dalla circolazione con sporadici ritorni. Conduce a lungo una vita da homeless in una roulotte, dimenticato da tutti fino a quando non gli vengono riconosciuti diritti d'autore a lungo bloccati da una vertenza legale. Ma artisticamente non ha più fatto sentire la sua voce.
Una delle più importanti icone degli anni Sessanta e Settanta, delle più significative, delle più originali in assoluto.
Lascia una serie di brani e album epocali che lo consacrano nella storia del rock, del soul, della black music, del pop.
Non è poco.
A breve compirà ottanta anni, di lui si sa sempre poco o niente ma pare accertato che finalmente abbia trovato pace e confort in una casa a Los Angeles dove vive in tranquillità la sua vecchiaia, nonostante problemi non indifferenti di salute.

I Fleetwood Mac sono tra i gruppi più famosi e di successo di sempre. Il loro album del 1977, “Rumours”, ha raggiunto circa i quaranta milioni di copie, diventando uno dei dischi più importanti e venduti in assoluto.
Curiosamente, nel corso della loro attività, agli esordi, è scesa una sorta di “maledizione” su alcuni componenti.
Il loro primo chitarrista Peter Green, diventato spesso una sorta di spartiacque tra gli estimatori e i detrattori della band, considerata valida prima della sua dipartita e pessima dopo, lasciò il gruppo nel 1970, incise qualche ottimo album solista, tra cui l'apprezzatissimo “The end of the game”, ma visse un proseguio di carriera sempre problematico, sia per problemi di schizofrenia che di abuso di stupefacenti.

Peter non andava troppo d'accordo con l'altro chitarrista Danny Kirwan, un personaggio talentuoso che, ancora una volta, non esitava ad assumere ogni tipo di sostanza gli capitasse a tiro.
E così, rituale ormai scontato, si distrugge di acido lisergico e alcol, perde il controllo, distrugge i camerini, terrorizzato dall'impatto con il pubblico e dalla respondabilità di dover sostituire Peter Green che nel frattempo se ne è andato.
Lascia il gruppo nel 1972, finisce nel baratro della malattia mentale, suona sempre meno e le poche volte evidenzia la fine di quel talento cristallino che lo aveva caratterizzato.
Vivrà a lungo in mezzo a una strada, ormai abbandonato a sé stesso. Il batterista Mick Fleetwood lo cercherà più volte per assisterlo e dargli una mano ma sarà sempre inutile.
Danny se ne va nel 2018 dopo avere trascorso decenni in condizioni miserrime, senza una casa, lavoro, futuro. L'ultima sua dichiarazione risale al 1993: “Vado avanti e suppongo di essere un senzatetto, ma poi non ho mai avuto una casa da quando ero in tour, non potevo gestire tutto mentalmente.
E’ andata così, è la mia vita”.

Daniel Johnston è stato un cantautore particolarissimo, scomparso nel 2019, con problemi piuttosto marcati, che ne connotavano la scrittura naif, spontanea, semplicemente pura, nel suo minimalismo, tra pop e rumorismo.
Apprezzato da Kurt Cobain e David Bowie combattè per anni tra crisi, aggravate dai consueti abusi di droghe e alcol, terapie riabilitative, tentativi di suicidio.

E infine la storia di Joe English, che fu batterista nel primo gruppo post Beatles di Paul McCartney, gli Wings con i quali incise una serie di album e affrontò trionfali tour mondiali.
Finito nella spirale della tossicodipendenza, dopo aver lasciato Paul, suonò ancora in qualche band per poi unirsi a gruppi cristiani di dubbio spessore religioso e scomparire dalla circolazione.
Vive ora in una comunità di estremisti religiosi in North Carolina, rifiutando ogni contatto con i giornalisti e anche con lo stesso ex Beatle.

La musica, rock o meno, è notoriamente salvifica ma può essere anche infernale.
Non sempre la mente e la volontà di chi ne diviene parte integrante regge a certe pressioni, alle lusinghe del successo e della notorietà, soprattuto chi è più debole e fragile. A cui va un abbraccio incondizionato e un ringraziamento per quanto saputo ugualmente donarci.

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