martedì, luglio 12, 2022
Istanbul / Mosca maggio 2022
L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.
Le precedenti puntate qui:
https://tonyface.blogspot.com/2022/03/racconti-dallex-urss-ucraina-febbraio.html
e qui:
https://tonyface.blogspot.com/2022/03/racconti-dallex-urss-parte-1.html
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https://tonyface.blogspot.com/2022/03/racconti-dallex-urss-ucraina-maggio-2014.html
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https://tonyface.blogspot.com/2022/03/racconti-dallex-urss-febbraio-2022.html
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https://tonyface.blogspot.com/2022/04/ucrainarussia-ieri-e-oggi.html
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https://tonyface.blogspot.com/2022/04/racconti-dallex-urss-ucraina-marzo-2022.html
e infine qui:
https://tonyface.blogspot.com/2022/05/odessa.html
...continua domani...
Fino al 27 febbraio col volo diretto da Venezia ci mettevo tre ore per arrivare a Mosca.
Adesso ci impiego una giornata e mezza e costa quattro volte di più.
Venezia – Istanbul, venti ore di scalo in Turchia e poi Istanbul – Mosca.
L’area accettazione dell’aeroporto Marco Polo è la stessa ma al check-in di Turkish Airlines cambiano le facce:
barbe, turbanti, attaccature basse e chiome dense e scure, quasi inesistente il biondo paglia che trovavi in fila al banco di Aeroflot.
È un’altra umanità rispetto ai turisti russi o a chi viaggia per lavoro, il principale aeroporto turco è un hub importante per i paesi del medio-oriente e dell’Africa.
Il signore nordafricano che parla in dialetto veneto si prende una pausa per ricalibrare il peso del bagaglio, nel desk a lato estrae dalla valigia almeno cinque bottiglie di detergenti: Ajax, Cif, Vetril e altro ancora.
Il ragazzo ghanese che fa il check-in accanto a me parla poco l’italiano, ha tre scatoloni legati con lo scotch marrone e un paio di valigie.
Il suo accompagnatore se la cava meglio con la nostra lingua ma non riesce a convincere la hostess a farlo imbarcare.
“Mi spiace ma con questo tampone non lo posso accettare. Serve il PCR, il test mo-le-co-la-re”.
Il passeggero mancato porge un foglio piegato alla signorina che lo lascia cadere.
Arrivato a Istanbul ne approfitto per farmi un giro per la città, che non ho mai visitato.
Fuori dal terminal prendo un taxi a caso, contratto un prezzo decente per il mio hotel e partiamo su una Fiat Egea sporca e ammaccata.
Fa caldo, dai finestrini aperti passa un po’ d’aria, si sta bene. Nell’abitacolo c’è un forte odore di tabacco, tipo sala fumatori, la parte interna della portiera è rigata da un liquido rappreso.
Il mio autista guida a caso, guarda il telefono e poi il navigatore, anche se siamo appena partiti, sta in mezzo alle due corsie.
Si becca un po’ di insolenze e sguardi sbalorditi dagli altri tassisti che lo superano. Li osservo con un po’ di invidia.
L’aeroporto Istanbul, grandissimo, è stato aperto un paio di anni fa e la zona circostante è poco sviluppata e ancor meno curata.
Ai lati della strada sono distribuiti in maniera disordinata edifici bassi e sgarrupati, anche quelli più recenti sembra abbiano almeno trent’anni, nei campi spuntano cumuli di rifiuti abbandonati, pallet sfasciati, ferraglia arrugginita tra ciuffi di verde selvatico.
Un gruppetto di vacche bruca ai lati della strada, all’interno di un giardino recintato una capra occupa metà dello spazio.
Il mio autista inizia a palesare qualche difficoltà nell’orientamento, si toglie il berretto grigio e si gratta la testa sudata, consulta il navigatore su entrambi i telefonini mentre entriamo in un quartiere di case e negozi da uno o due piani.
Il sole batte a picco, in giro non c’è quasi nessuno, due ragazzini in braghette corte accovacciati sul marciapiede armeggiano accanto ad una bmx distesa per terra.
Uno dei due tiene una sega che in mano sua sembra enorme, taglia un copertone della bici mentre l’altro guarda con attenzione.
Il taxi devia dalla strada principale e imbocca una discesa larga appena per un motorino, impossibile che il mio albergo sia da quelle parti.
Dopo dieci minuti buoni di sali e scendi in mezzo a uno dei quartieri meno esclusivi della città, lo obbligo a telefonare all’albergo.
Urla quattro motti gutturali, chiude la conversazione e sentenzia
“Ok. No problem my friend”
Arrivati finalmente a destinazione, mi spiega
“Driver no bad. Navigation bad”.
Prendo le chiavi della camera, mi do una sciacquata e salgo a bordo di un altro taxi per andare in centro, a piazza Taksim. Con la pulizia dell’auto sono più fortunato ma con l’autista non va tanto meglio.
Non parla una parola di inglese, ripete meccanicamente “no problem my friend” e non guarda mai la strada.
Avvicinandoci alla città, la vegetazione si fa più curata, tanti pini marittimi, betulle e querce.
In pieno centro ci sono diversi edifici diroccati, molti palazzoni hanno facciate scrostate, i panni appesi ad asciugare fuori dalle finestre.
Fumano tutti, bambini non ne vedo ma se ci fossero fumerebbero anche loro. Gli uomini se ne stanno seduti su sgabelli ai lati delle strade a chiacchierare, le attività commerciali non sono quelle tipiche da città gentrificata.
Oltre ai tanti saloni da barbiere coi cilindri girevoli bianchi-rossi-blu, si trovano diverse gastronomie, piccole officine, il sarto, il calzolaio e una serie di botteghe che da noi sono sparite trent’anni fa.
I baracchini di street food sono super invitanti, ti viene voglia di mangiar tutto, dolce e salato e una badilata di gelato, di quello gommoso che prima di mettertelo sul cono fanno mezz’ora di show per i turisti con un aggeggio che sembra la pala per infornare la pizza.
Come in tutti i centri urbani caotici e sovraffollati, i mezzi si muovono nervosamente tra gli edifici e i passanti, le distanze calcolate nell’ordine dei millimetri.
Gli scooter, rumorosissimi, schizzano dappertutto: nella via principale, per le stradine in pendenza, anche contromano, al manubrio invariabilmente un tizio con l’attaccatura bassa e la cicca in bocca.
Passo un bel pomeriggio a zonzo lungo Viale Istikal, che congiunge Piazza Taksim al quartiere di Galata.
Poi proseguo per Karakoy e attraverso casualmente la via degli ombrelli, raggiungo il ponte sul Bosforo e ritorno alla piazza.
Il taxista che mi riporta in albergo si chiama Ali, parla un po’ di inglese e ogni tanto guarda la strada. Quando gli dico che sono italiano fa partire Perdono di Tiziano Ferro dalla chiavetta inserita nell’autoradio. “Tis very very old music”.
Mi mostra un quartiere di case in legno, tutte scrostate “Tis… how you say… favelas!!! Ha ha ha”.
Ali è originario di Istanbul, gli piace la sua città ma si lamenta perché ci sono “too many arabic people, from Iran, Pakistan, Siria, Azerbaijan”.
Arrivato in albergo, la preghiera serale del muezzin della moschea di fronte mette in crisi l’isolamento acustico della mia stanza.
Prendo il volo per Mosca domenica mattina alle sette e mezzo.
L’aereo è pieno di turisti russi che ritornano a casa dopo le vacanze di maggio.
Iniziano con la festa dei lavoratori e spesso fanno tutto un dritto fino al 9 maggio, giorno della vittoria sulla Germania nazista.
Atterriamo a Vnukovo, terzo aeroporto di Mosca dopo Sheremetevo e Domodedovo. Il controllo passaporti è più spedito del previsto, nessuna domanda, timbro sul passaporto e via al ritiro bagagli. Prendo un taxi che pagherò in contanti, visto che bancomat e carte di credito rilasciate all’estero non sono più accettati in Russia.
Domenica 15 maggio, a Mosca gli alberi, betulle spennacchiate, iniziano a gemmare, la temperatura massima prevista per la giornata è di 15 gradi, il cielo sfuma in tutte le tonalità dell’antracite.
Guardo fuori dal finestrino e mi sembra non sia cambiato niente. I capannoni in acciaio e vetro dei concessionari d’auto sono rimasti al loro posto con le vetture parcheggiate all’esterno, le pareti dei centri commerciali hanno ancora le insegne dei brand occidentali.
Nella hall dell’albergo trovo Lesha, un ragazzo con cui lavoro, che mi aspetta per cambiarmi gli euro nei rubli con cui pagherò la mia stanza.
Mi riporta a quando andavo in Russia da studente con i dollari in contanti. Sistemo la mia roba che sono le due e mezza del pomeriggio, sono in piedi dalle quattro della mattina ma non ho nessuna voglia di rimanere in camera.
Negli ultimi dieci o quindici anni, quando ero in viaggio, ho sempre rimandato le attività che non erano legate al lavoro, alla lettura, alla musica o al tapis roulant.
Poi il 24 febbraio oltre al terrore di perdere mercato e lavoro, di non poter incontrare le persone che avevo appena rivisto dopo due anni di pandemia, ho avuto paura di non vedere i musei, i palazzi e le piazze che avevo visitato nel corso degli anni per cui ho deciso che, se fossi ritornato in Russia, avrei sfruttato qualsiasi opportunità per conoscere posti e persone.
Prendo un taxi per raggiungere la Galleria Tret’jakov, museo che ospita una delle più grandi ed importanti collezioni di arte russa al mondo e che ammonta a più di 180.000 opere.
Il percorso espositivo è composto da icone, dipinti e sculture che narrano ai visitatori la storia dell’arte russa dall’XI al XX secolo.
Uno degli aspetti straordinari della pittura russa, così come della letteratura e della musica, è che si tratta di una forma espressiva pienamente sviluppatasi e maturata nel corso di un paio di secoli per poi raggiungere picchi stratosferici di maestria e creatività.
È soltanto nel XVII secolo che nell’iconografia religiosa compaiono la profondità e la ricchezza di dettagli già presenti nell’arte occidentale da quasi trecento anni, ed è l’avvento di Pietro il Grande agli inizi del 1700 a dare l’avvio ad una vera e propria scuola di pittura profana, spesso incentrata su temi storici e classici in cui l’elemento mitico sfocia in quello patriottico.
All’inizio dell’ottocento si diffonde la pittura di paesaggio e a metà del secolo, contestualmente alla crisi del sistema feudale e all’abolizione della servitù della gleba, nuove tematiche di tipo sociale entrano nel dibattito intellettuale e nelle opere d’arte con l’affermazione della scuola realista.
Le correnti europee di fine secolo influiscono sulle tecniche e sulla scelta dei colori dei soggetti che mantengono comunque un carattere prettamente nazionale per arrivare poi a rompere del tutto gli schemi accademici con le avanguardie russe dei primi del ‘900.
Attraversando il centro, osservo dal finestrino la gente che passeggia, le famiglie al parco, il papà che guarda il cellulare e che usa la mano libera per spingere il figlio sull’altalena, la mamma col piumino leggero che tiene per mano le bambine bionde, sorridenti e incantate, una coppia di ragazzi che cammina senza fretta chiacchierando e agitando le braccia.
Provo un sentimento forte, inedito, per questa normalità, per la tranquillità del vivere quotidiano, come se fosse una colpa di quelli che incrocio.
Arrivato alla Galleria Tret’jakov, a pochi passi a sud del Cremlino, compro un biglietto per pochi rubli e inizio la mia visita.
Nonostante sia un giorno festivo non c’è molta gente e probabilmente sono l’unico straniero, i locali sono popolati da un’altra umanità, più educata e silenziosa rispetto a quella che trovo in metropolitana e nei ristoranti.
È un modo naturale di vivere la cultura in Russia, anche a teatro la gente fa lo sforzo di mettersi una giacca elegante o un vestito da sera e di rispettare l’ambiente in cui si trova. Uno dei quadri che voglio rivedere è Ivan Il Terribile E Suo Figlio Ivan, 16 Novembre 1581 di Il’ja Efimovich Repin, uno dei massimi esponenti dell’arte russa.
Nato nel governatorato di Kharkov nel 1844, attualmente parte dell’Ucraina, si iscrisse all’accademia Imperiale di Belle Arti di San Pietroburgo nel 1866.
Soggiornò in Italia e poi in Francia, dove entrò a contatto con gli impressionisti che esercitarono un’influenza sull’utilizzo del colore vivo e luminoso nei suoi quadri.
In molte sue opere raffigurò realisticamente la condizione di contadini e gente comune con una sensibilità disincantata e un approccio razionale per cui è considerato uno dei principali ispiratori del realismo socialista.
Repin, artista non allineato ai canoni dell’accademia, faceva parte del movimento artistico dei “peredvizhniki”, gli ambulanti, gruppo che si proponeva di portare l’arte al popolo attraverso mostre itineranti.
Fu proprio durante una loro esposizione a San Pietroburgo che il quadro venne mostrato per la prima volta nel 1885.
L’opera raffigura Ivan Il Terribile che stringe tra le braccia il figlio Ivan, lo zar cerca di tamponare con la mano la ferita mortale alla tempia che ha causato al principe con lo scettro a seguito di un eccesso d’ira.
Il volto dell’omicida è illuminato da una luce quasi teatrale, lo sguardo folle di terrore, rimorso ed incredulità per l’atrocità commessa; di contro, lo tsarevich Ivan appoggia una mano sulla spalla del padre, come ad indicare un gesto di perdono.
Il dipinto fu acquistato subito dal mercante d’arte Tret’jakov e per un certo periodo non poté essere mostrato pubblicamente a causa del divieto imposto dallo zar Alessandro III per il ruolo di omicida attribuito al suo antenato, Zar di Tutte le Russie, segnando così il primo caso di censura di un quadro nel paese.
Nella tela, oltre alle varie tonalità di rosso, sono miscelati storia, leggenda e superstizione.
Il soggetto è tratto dall’infanticidio dello tsarevich occorso alla fine del sedicesimo secolo ma è condizionato anche da fatti di cronaca e aspetti culturali dell’epoca di Repin.
Nel 1881 lo zar Alessandro II venne ucciso nel corso di un attentato dinamitardo organizzato dal gruppo rivoluzionario “Narodnaja Volja”, Volontà Popolare. Lo zaricidio e l’ondata di violenta repressione che ne seguì colpirono fortemente Repin, che presenziò all’impiccagione di alcuni attentatori in piazza a San Pietroburgo. Non potendo riportare il dramma contemporaneo, il pittore ricorse ad un parallelo storico.
Durante un soggiorno in Spagna, l’artista ebbe modo di assistere alla corrida, spettacolo che ebbe un’influenza concreta sulla rappresentazione del sangue nella tela e la suite sinfonica Antar, del compositore Rimskij-Korsakov, stimolò in Repin uno scenario emotivo che si impegnò a riprodurre visivamente.
La fisionomia dello tsarevitch è ispirata dal volto dello scrittore Vsevolod Garshin, e qui entra in campo la superstizione perché, per quanto bravo e dotato, pare che Repin portasse un po’ di sfiga ai soggetti ritratti e infatti il povero Garshin, che soffriva di gravi disturbi schizoaffettivi, morì suicida a 33 anni buttandosi dalle scale.
Per altro non gli riuscì nemmeno di morire al primo colpo visto che si spense dopo cinque giorni di sofferenze.
Ivan Il Terribile E Suo Figlio Ivan è un’opera molto famosa che ha avuto una certa diffusione sui social dopo il 24 febbraio, anche in questo caso per la sua valenza allegorica, la capacità di trasmettere la feroce brutalità del male e la banalità con cui può essere causato al nostro prossimo. Nel corso dell’ultimo secolo la tela ha subito due gravi atti di vandalismo.
Il primo avvenuto nel 1913 per mano di un pittore di icone, un tizio un po’ instabile, oggi verrebbe definito un fondamentalista religioso, che inferse tre tagli sulla tela in corrispondenza del volto dello zar e del principe.
Il curatore della Galleria si buttò sotto un treno per la disperazione e il senso di colpa.
Lo stesso Repin, ormai sessantottenne, si occupò del restauro e riuscì a salvare la sua opera.
Se questo atto di sfregio fu sostanzialmente il gesto di uno squilibrato, nel secondo caso, avvenuto nel 2018, le motivazioni sarebbero invece di natura ideologica dato che la versione per cui lo zar uccise il figlio non è mai stata pienamente confermata dagli storici russi ed è stata contestata nel 2017 anche dal presidente Putin che l’ha bollata come un’invenzione dell’occidente per screditare il suo paese.
Il tentativo di distruggere l’opera è un atto politico, la volontà da parte di un nazionalista di cancellare una falsa testimonianza, infamante per la Russia.
Fortunatamente, il trentottenne di Voronezh che ha scagliato un palo metallico contro la vetrata di protezione del quadro non ha causato danni irreparabili, successivamente è stato riconosciuto come sano di mente e condannato a tre anni di prigione.
Il danno occorso alla tela è stimato in circa mezzo milione di dollari, il processo di restauro è ancora in corso, motivo per cui non riesco a godermi il capolavoro di Repin che a quasi centocinquanta anni dalla sua creazione suscita ancora sentimenti fortissimi e contrastanti.
Lascio il museo poco prima dell’ora di chiusura; anche se i polpacci e i tendini delle gambe lamentano il tempo trascorso in piedi, ho passato tre ore in mezzo ad alcuni dei maggiori artisti di sempre, slegato dalle rogne della tv e dei giornali, circondato dalle opere di Vrubel’, Repin, Serov, Brjullov, Kramskij e decine di altre tele incredibili.
Mi muovo a piedi verso la Piazza Rossa, sono quasi le sette di sera e non c’è molta gente in giro. Ragazze in posa che si fanno la foto con il Cremlino alle spalle, turisti con lo sguardo fisso sullo schermo del telefonino ma anche coppiette che in occidente verrebbero definite fluide, dal genere indefinito e con capelli rosa e indaco, giacche di pelle o in tecno-tessuti dai volumi ampi, piercing alle orecchie, incarnato pallido su volti apatici.
Camminano tenendosi a braccetto, è una cosa abbastanza anomala per la mia esperienza nei paesi dell’ex Urss, non è un caso che avvenga nel luogo più ricco ed internazionale di tutta la Russia.
Di fronte al teatro Bol’shoj, entro per comprare qualcosa da mangiare in un minimarket da hipster, di quelli che vendono macadamia, mezze porzioni di humus e succhi spremuti a freddo.
È tutto carissimo, un caffè costa circa otto euro, una vaschetta di anguria tagliata a cubetti viene 880 rubli, quasi dodici euro al cambio attuale.
Subito dopo l’inizio della guerra, il clima di instabilità e l’effetto delle prime sanzioni ha causato una forte svalutazione della moneta locale, per un euro servivano 150 rubli contro gli 86 di metà febbraio.
Gli analisti occidentali avevano preventivato il tracollo dell’economia russa nel corso di poche settimane, paventando uno scenario simile a quello del default statale del 1998, anno in cui la Russia dichiarò di non essere in grado di pagare il debito estero con una conseguente svalutazione del 400% da parte del rublo rispetto al dollaro, una crescita dell’inflazione di oltre l’80% e la chiusura di varie banche.
In effetti, dopo il 24 febbraio la gente si è fatta prendere dall’angoscia, molti si sono messi in fila ai bancomat per ritirare contanti, prosciugando le riserve di alcune banche e alimentando così la spirale di incertezza.
Il Cremlino ha poi introdotto misure di supporto alla moneta locale che hanno portato al rialzo dei tassi di interessi e alla rigida regolamentazione dell’acquisto di valuta estera da parte di aziende, privati e operatori; il rublo si è rafforzato del 25% e a maggio viene cambiato a 65 rubli per un euro.
Questo è un aspetto favorevole per la mia attività perché l’acquisto di beni in euro ora è più conveniente per gli importatori locali ma crea qualche problema ai produttori russi, che si ritrovano ad essere meno competitivi rispetto ai concorrenti occidentali ed asiatici, visto che il rublo si è rafforzato anche sul dollaro e sullo yuan cinese.
In sostanza, gli articoli di importazione che prima costavano 100 adesso costano 75 mentre i beni di produzione locale hanno subito un rincaro per effetto dell’inflazione, stimata intorno al 15%. Nel frattempo gli stipendi non sono cresciuti.
Entro nella Piazza Rossa, caratterizzata da un mix di stili e sensibilità eterogenei: glamour, militare e religioso.
Lascio alla mia sinistra il GUM, il megastore di lusso precursore di almeno mezzo secolo dei centri commerciali.
Alla mia destra, la ziqqurat bolscevica del mausoleo di Lenin, mai visitato a causa degli orari di apertura particolarmente scomodi.
Nel lato in fondo, delimitato dalle cupole colorate della cattedrale di San Basilio, stanno smantellando il palco della parata del 9 maggio. Sempre sulla destra, oltre il sarcofago di Lenin, troviamo una delle mura di cinta del Cremlino, dal russo Kreml’, fortezza, considerato un simbolo assoluto della Russia anche se la sua storia è fortemente legata al nostro paese.
Fu Ivan Il Grande, nonno di Ivan Il Terribile, ad invitare a Mosca maestranze e architetti italiani grazie alla fama di abili costruttori.
La prima delle nove torri, detta Tajnitksaja fu progettata dall’architetto vicentino Antonio Gislardi e i lavori incominciarono nel 1495. L’architetto che lavorò per primo alle mura del Cremlino fu Aristotele Fioravanti che a Bologna aveva progettato il palazzo della Podestà.
Altri architetti italiani come Antonio Solari, Marco Ruffo e Aloisio da Milano hanno contribuito alla costruzione di torri ed edifici della fortezza.
Oggi non c’è molta gente in piazza, principalmente turisti che indossano ancora cappotti e piumini, l’atmosfera è malinconica, la festa è ormai finita, lunedì si torna a lavorare dopo due settimane di vacanza. I tavoli delle verande dei bar e dei ristoranti sono tutti occupati, il negozio di Louis Vuitton è aperto, espone borse e valigie in vetrina, attivi anche gli store dei marchi di abbigliamento di lusso che espongono le nuove collezioni primavera-estate.
A parte l’assenza di stranieri, non vedo cambiamenti rispetto all’ultima volta che sono stato qua.
Rientro in albergo e guardo un po’ di tv.
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Applausi anche a 'sto giro !
RispondiEliminaLa tua descrizione di Istanbul mi ha fatto tornare indietro nel tempo, io e Simona ci eravamo stati nel 1989...
RispondiEliminaBella testimonianza grazie, io andro' ad istambul per la prima volta fine luglio, faccio tesoro di quanto scrivi
RispondiEliminaGrazie dei bellissimi reportage.
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