mercoledì, aprile 20, 2022

Racconti dall'ex Urss - Ucraina marzo 2022


L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.


Le precedenti puntate qui:
https://tonyface.blogspot.com/2022/03/racconti-dallex-urss-ucraina-febbraio.html

e qui:
https://tonyface.blogspot.com/2022/03/racconti-dallex-urss-parte-1.html

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https://tonyface.blogspot.com/2022/03/racconti-dallex-urss-ucraina-maggio-2014.html

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https://tonyface.blogspot.com/2022/03/racconti-dallex-urss-febbraio-2022.html

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https://tonyface.blogspot.com/2022/04/ucrainarussia-ieri-e-oggi.html

Marzo 2022

Vibrazione… Messaggio Whatsapp - Kirill Kharkov

Gli ho scritto due giorni fa, quando hanno iniziato a bombardare Kharkov.
Un missile ha colpito un palazzo governativo in Piazza della Libertà, una delle più grandi in Europa.
Nella tradizione occidentale, l’agorà greca e il foro romano sono aree urbane in cui si esercitano la politica e il commercio, si intrecciano relazioni sociali e questa funzione è rimasta fino ai giorni nostri.
Al contrario, molte piazze progettate in epoca sovietica sono semplici spazi rettangolari, concepiti per parate, manifestazioni e comizi. Al centro una statua di Lenin.
Sono luoghi impersonali, hanno una funzione simbolica e teatrale.
Plosha Svobody è un ibrido tra simbolo e armonia, ha la forma di una goccia, o di una lacrima.
Una spianata di cemento si allarga in un cerchio diviso in sezioni geometriche di verde urbano che circondano una fontana incassata nell’asfalto.
Tutto intorno si alzano ordinatamente edifici amministrativi e fabbricati dell’università di Kharkov, una delle principali nel paese. Fondata nel 1804, è la più vecchia dell’Ucraina dopo quella di Lvov.

“Ciao Kirill. Mi dispiace moltissimo per tutti voi. Spero che tu e i tuoi cari stiate bene. Vi penso.”

Kirill è il titolare dell’azienda di Kharkov con cui collaboriamo da una decina d’anni.
Fino a qualche tempo fa la gestivano i suoi genitori, Lina e Leonid.
Ora si godono la pensione dopo aver passato le consegne all’unico figlio che continua ad amministrare l’attività di famiglia con pugno di ferro.
In occidente si parla di ambiente di lavoro inclusivo, spazi e atteggiamenti che favoriscono l’interazione tra colleghi.
Un’atmosfera positiva e serena favorisce la produttività e migliora il posizionamento del brand, è un aspetto consolidato del capitalismo moderno.
Conviene.
Vale anche per altri settori, come la scuola, dove l’insegnamento negli ultimi vent’anni è cambiato, sempre più rivolto ad un approccio inclusivo dello studente.
Se l’insegnante grida e terrorizza un ragazzino, difficilmente questo imparerà qualcosa.
In molte aziende dell’ex Urss vale l’opposto.
Nelle imprese di medie e piccole dimensioni, spesso vige una struttura piramidale per cui uno comanda e gli altri eseguono senza discutere.

In Russia e nell’Europa orientale il mercato del lavoro è comparso trent’anni fa.
Prima la gente nasceva, studiava e il partito trovava loro un lavoro, generalmente in linea con gli studi fatti.
Ora è diverso, una studia, chessò, ingegneria aeronautica e poi si trova a gestire un negozio di ferramenta o un centro assistenza di telefonia mobile per volontà o perché il caso lo ha portato lì.
Fino al crollo dell’Urss un ingegnere aeronautico avrebbe lavorato in una fabbrica di Tupolev.
Un poeta non poteva pubblicare un libro se non era membro dell’Unione degli scrittori, era tutto normatizzato e predefinito.

L’azienda di Kirill è di vecchio stampo, a partire dalla sede un po’ trascurata, un parallelepipedo giallo ocra degli anni sessanta, a un paio di chilometri da Plosha Svobody.
Nei mesi più freddi i dipendenti lavorano col giaccone e i guanti di lana, il riscaldamento tenuto al minimo.
Nelle grosse città e nelle aziende più grandi, soprattutto in quelle che hanno legami stretti con l’occidente o che operano nei settori più innovativi, si tende a favorire un approccio orizzontale a base di open space e relazioni informali.

Da Kirill si muovono tutti come formiche operaie, col proprio ruolo.
Non c’è rispetto per quelli che sono a tutti gli effetti dei sottoposti, c’è un clima di intimidazione favorito da una scala gerarchica molto rigida, chi sta nel gradino superiore fa valere il proprio grado anche nelle piccole cose, la richiesta di un caffè o di un’informazione.
Kirill è un ragazzone grande e grosso, cresciuto senza preoccupazioni e con una sicurezza economica garantita per lui e i suoi figli, cosa non scontata in un paese dove la maggior parte della gente ha risparmi per tirare avanti un paio di settimane, spesso neanche quelli.
Ha due figli piccoli, abita a 40 km dal confine russo e, mentre bombardano la sua città, deve gestire un’azienda e una sessantina di persone che dipendono materialmente da lui.
Il suo messaggio di risposta su Whatsapp contiene due meme.
Il primo è una vignetta in quattro sezioni.
Una mano esce dall’acqua, sotto c’è la scritta UKRAINE.
Ha le dita allargate, chiede aiuto.
Nel riquadro successivo compare un’altra mano sulla sinistra, indicata come THE WORLD.
Nella terza vignetta il mondo batte il cinque all’Ucraina con l’augurio STAY SAFE.
Nell’ultima immagine la mano-Ucraina affoga.

Il secondo meme è dello stesso tenore.
La metà superiore mostra una zona di guerra: un soldato identificato come UKRAINE chiede supporto aereo.
Nella sezione inferiore compare un velivolo di piccole dimensioni che tira un banner su cui c’è scritto “State andando alla grande”.

Da una settimana il presidente Zelenskij invoca una no fly-zone o un aiuto militare concreto dalla Nato.
Forse Kirill si aspetta che la situazione si sblocchi con questo messaggio.
O forse vuole litigare.
Mi infastidisce, lo ignoro e vado a dormire.
La mattina successiva mi manda una serie di foto, mostrano un palazzo residenziale colpito da un missile a Kiev.

Questa volta scrive:
“Giulio per favore, smettete di lavorare con la Russia e la Bielorussia. Bisogna che tutto il mondo si unisca contro questo oltraggio”

Ho già visto quelle immagini su Telegram, per alcuni è opera dei caccia russi, per altri un errore della contraerea ucraina.
Non credo sia interessato a punti di vista alternativi, provo a rispondere nel merito, non è così semplice.
“Noi lavoriamo con aziende private e persone normali.
Sono tutti sotto shock e molti hanno parenti in Ucraina.
Non ho intenzione di affrontare razionalmente questa cosa mentre voi siete sotto le bombe e io faccio colazione con la mia famiglia.
In nessun modo giustifico quello che sta succedendo.
Voglio solo dire che mi dispiace e sono molto preoccupato per tutti voi.
Dieci giorni fa ho comprato il biglietto per Kiev, dovevamo incontrarci e parlare.
Quando dico che vi ho in mente, penso realmente a persone che si preoccupano per i propri figli e i propri cari. Spero siate tutti vivi e sani.


In questi giorni ho sentito qualche decina di persone sotto le bombe, ho inviato messaggi. Cosa scrivi, quali sono le parole giuste per chi sta sotto le bombe?
Hanno risposto con dignità, speravano in una rapida conclusione del conflitto e mi hanno ringraziato per averli pensati.
Eppure… mandare un messaggio in cui ti auguri che i destinatari siano vivi ti fa sentire un po’ un imbecille.
Dopo un paio d’ore Kirill mi invia di nuovo il meme del velivolo con la scritta “State andando alla grande”, accompagnato da un commento.
Voi siete questi.
Segue un vocale pieno di rancore, ho presente come sbarra gli occhi quando si incazza con i dipendenti.
“Bisogna far capire ai russi che il loro è un governo criminale, dovete smettere di lavorare con loro! le cose che scrivi sono tutte cazzate!” “Eto vsjo khujnjà!” Это все хуйня, parla in russo, non conosce l’ucraino.
Affonda sull’aspirata di khujnjà con gusto, lo fa per colpirmi e ci riesce.
Evito di entrare in una rissa a distanza.
“Non voglio litigare con te al telefono. Capisco la tua posizione. In bocca al lupo.”

Kharkov si trova a circa trecento km da Luhansk, città teatro di scontri e bombardamenti tra esercito ucraino e separatisti filorussi da otto anni.

Secondo le stime ufficiali, la guerra nel Donbass dal 2014 a febbraio 2022 ha causato circa quattordicimila morti, equamente ripartiti tra civili, militari ucraini e separatisti filorussi.
Una media di cinque morti al giorno, ogni giorno, per duemila e novecento giorni di fila.


Negli ultimi anni, quando chiedevo notizie del Donbass, Kirill faceva spallucce, non sapeva, aveva smesso di interessarsi.
Di fatto nessuno parlava più di guerra che in russo si dice “vojnà” война, in ucraino “vijni” війни.
Sono termini derivanti dal sostantivo “voj” вой, che significa ululato e non è difficile coglierne il legame.

All’inizio del conflitto, nel 2014, una grossa fetta della popolazione maschile era disposta ad arruolarsi nell’esercito per difendere il paese “sotto attacco”.
Dopo un anno esatto il sentimento era cambiato, l’esigenza era fermare la guerra, non vincerla.
Il crollo di produzione nel Donbass aveva acuito la crisi economica, era rimasto l’obbligo del visto per entrare in Europa, la corruzione endemica non era scomparsa col nuovo presidente Poroshenko, aveva cambiato casacca.

Nel 2015 la “guerra” era sparita dai principali media ucraini, aveva perso la forma delle esplosioni, delle case sventrate, non si sentiva più la puzza di bruciato e l’odore del sangue.
Adesso si parlava del “problema”, проблема sia in ucraino che in russo.
La soluzione era la “pace” che però non era rappresentata e percepita come un processo strutturale, attivo e costante ma semplicemente come la fine del “problema”, un aspetto burocratico, la firma di un accordo.

Pace in ucraino e russo si traduce “Mir” e si scrive nella stessa maniera, мир.
È una parola ambivalente, usata in entrambe le lingue per indicare sia la pace che il mondo, il globo terrestre.
Ricalca il termine greco Kosmos, che esprime l’armonia degli elementi e quindi il mondo che noi conosciamo, contrapposto al caos.
Anch’io all’inizio mi ero interessato alla guerra nel Donbass, leggevo, non pensavo ad altro, scrivevo.
Poi, lentamente, mi ero adeguato al clima, mi ero assuefatto alla tragedia quotidiana e quando chiedevo com’era la situazione a Donetsk o Lugansk mi rispondevano “Streljajut”, sparano.
C’era un certo fatalismo, quasi fosse un evento naturale su cui non puoi influire, come dire “piove”.

Qua non piove da tre mesi, guardo le Dolomiti fuori dalla finestra del mio ufficio e telefono ai clienti russi, per sentire come stanno.
Parlo con Lena di Voronezh, a San Pietroburgo risponde Masha e chiacchiero a lungo con Natasha di Rostov sul Don.
Natasha, come le sue colleghe, gestisce la filiale del nostro grossista nella sua città, ci conosciamo e lavoriamo insieme da anni.
È originaria del Caucaso, minuta di corporatura, ha un caschetto nero pece e la pelle olivastra.
È meticolosa, responsabile e tratta i dipendenti con rispetto. È poco più giovane di me ma ha una figlia che va all’università, si è sposata presto e separata poco dopo.
Come Masha e Lena, è una persona indipendente, realizzata nel lavoro, da quando ha preso in mano la filiale pochi anni fa, ha raddoppiato il fatturato.
In molti paesi dell’ex Urss è abbastanza comune trovare donne capaci e rigorose che occupano posizioni di un certo rilievo nelle aziende.
Vero, difficilmente sono ai vertici ma ricoprono spesso ruoli strategici che garantiscono il corretto svolgimento delle attività principali: acquisti, logistica, amministrazione, raramente nelle vendite.

Nell’Unione Sovietica le donne hanno ottenuto il diritto di voto e l’uguaglianza giuridica nel 1917, l’aborto è stato legalizzato nel 1920, l’accesso al lavoro nei settori industriali ha offerto opportunità di istruzione ed emancipazione anche nei paesi in cui era molto forte l’influenza della cultura musulmana.
Altri diritti civili come il congedo di maternità e il divorzio erano già acquisiti a metà degli anni venti del secolo scorso.
Pur considerando tutti i limiti di una società maschilista e la sospensione temporanea di alcune conquiste durante l’era staliniana, le donne hanno comunque beneficiato di una serie di opportunità che in molti paesi occidentali sono comparse soltanto quarant’anni dopo.


Lena, Masha e Natasha sono felicissime di parlare, accolgono la mia chiamata come un gesto importante, la volontà di restare in contatto, di essere ancora amici, partner, persone.
Nonostante tutto.
Forse perché siamo al telefono ma nessuno usa la parola “vojnà”, guerra. Si parla di “situatsja” ситуация, è una circostanza più ampia, riguarda e condiziona tutti, non solo chi si trova sotto le bombe.
L
a “situatsja” è complessa, speriamo si risolva presto.
Il termine deriva dal latino situare, collocare in un determinato punto. Son trascorse poche settimane dall’ultima volta che ci siamo sentiti e nel frattempo il mondo è cambiato, la nostra condizione è diversa.
I russi domandano sempre:
“Cosa dicono da voi?”

Il sottinteso non è tanto cosa dicono della “situatsja”, quanto Cosa dicono di noi?
Nel 2022 uno che vuole informarsi può farlo a prescindere dai media governativi, anche in Russia, ci sono moltissime fonti disponibili.
La domanda è esistenziale. Abbiamo bisogno di essere riconosciuti per esistere.
Se una parte di mondo ti taglia fuori, ti cancella, ti blocca, tu non esisti più.
Certo continui a vivere, a sentire, a muoverti ma in misura ridotta, manca un riferimento con cui confrontarti, uno specchio.
Stili di vita, comportamenti, successi e fallimenti sono definiti dalla percezione degli altri e dal confronto costante con il diverso. Lo specchio ci ritorna la nostra immagine e non è sempre facile guardare il riflesso.

“Cosa vuoi che dicano, che siete il male nel mondo, la vergogna più infame degli ultimi settant’anni o giù di lì. Vi odiano tutti, voi, i vostri avi e i vostri figli, probabilmente anche i vostri nipoti.
E se qualcuno prova a fare dei distinguo, a portare altri punti di vista, a dialogare, odiano anche lui per cui meglio lasciar perdere.”


Questo dicono da noi, più o meno. Ma non lo sentirai da me.
“Cosa vuoi che dicano, da noi dicono quello che da voi non dicono e da voi dicono quello che da noi non dicono. La realtà è complessa”
“Eh già è vero, dispiace per tutti civili che non hanno colpe.
Speriamo che la situazione si risolva presto.”

La realtà è complessa, ogni giorno una rogna diversa.
Le banche russe fanno fatica a reperire valuta straniera, le banche italiane effettuano controlli asfissianti, l’UE ha già promulgato il secondo pacchetto di sanzioni che vanno a colpire l’export europeo verso la Russia, che a sua volta ha risposto con misure simmetriche.
Il mio settore, quello dei componenti, non è stato ancora toccato, Mosca ha bandito le materie prime e i prodotti finiti da parte degli “stati ostili”, se vendessi cucine o soggiorni sarei senza lavoro.
Con la temporanea sospensione delle attività da parte di alcune grosse catene straniere, la domanda di mobili presso i produttori russi è schizzata, stanno tutti lavorando a pieno ritmo.
Le mie prospettive sono meno sfavorevoli rispetto a una settimana fa ma ogni giorno il quadro può peggiorare o sparire del tutto, non riesco a immaginare il mese di giugno in termini lavorativi, faccio fatica a visualizzare la mia routine quotidiana, telefonate, mail, la scrivania con i fogli in disordine o la scrivania del cliente con me seduto dall’altra parte.
C’è chi non ha più una scrivania e passa le giornate in cantina o nella stazione della metro, prova a scambiare le prospettive e dimmi cosa vedi.
Ho vissuto uno stato di incertezza simile a marzo 2020, all’inizio della pandemia. Non sapevo se avrei mai più fatto il mio lavoro, se sarei ritornato a Mosca o se sarei mai uscito di casa.
Quando qualcuno mi chiede “come va?” rispondo sempre alla stessa maniera, sorridendo.
Sull’orlo del precipizio”

Anche quando sono al telefono, accompagno queste parole con un movimento preciso, sposto le punte dei piedi con cautela, come fossi in bilico sul cornicione di un palazzo.
È una mimica presa a prestito da uno dei miei eroi personali, Gil-Scott Heron.
Un artista capace di esprimersi attraverso jazz, poesia, cronaca sociale e politica attingendo dalla tradizione orale afro-americana. Illuminato da uno sguardo satirico e pungente, ha anticipato l’hip hop di almeno una decina d’anni e rimane ad oggi una voce unica e inimitabile.

Una sera di maggio 2010, quasi per caso, mi sono trovato a pochi chilometri da casa, a pochi metri dal palco, a godermi l’esibizione di uno dei più grandi esponenti della cultura black.
Prima del concerto, Gil Scott-Heron aveva ripercorso i momenti rocamboleschi nei giorni successivi all’eruzione del vulcano finlandese Eyjafjallajökull.
Prova a dirlo con la bocca piena di noccioline.
Gil raccontava che le ultime tappe del tour erano state segnate dall’incertezza, ovunque suonassero, la nuvoletta nera li inseguiva minacciando voli aerei e date programmate.
Alto e secco, con una coppola in testa, si spostava con agilità attorno agli strumenti in punta di piedi, le mani tese verso il pavimento per mantenere l’equilibrio.
Segnava un tragitto immaginario per rendere l’idea dei rischi e degli ostacoli aggirati ad un pubblico che capiva poco e niente di quella voce profonda ma che coglieva in pieno il senso di quei movimenti.
Aveva fatto ridere tutto il teatro senza dire una parola in italiano.

Poi si era seduto alla tastiera Fender Rhodes e aveva attaccato We Almost Lost Detroit, che parla del disastro sfiorato nel 1966 alla centrale nucleare Enrico Fermi, nello stato del Michigan.

A proposito di centrali, si combatte in prossimità dei reattori nucleari di Chernobyl e Zaporozhya, un missile poco intelligente manca il bersaglio e la “situatsja” è risolta per sempre.

A pochi chilometri di distanza, Maksim, il cliente di Kiev, è ancora rintanato in cantina.
Una villa a poche centinaia di metri da casa sua è stata bombardata. Mi manda le foto dell’edificio con il tetto sfondato e lo screenshot di Google Maps che indica la vicinanza all’esplosione.
Unica nota positiva, dopo aver fatto tappa in Austria, la moglie e i figli sono finalmente arrivati in Italia a Parma, dove abita la madre di Maksim. Tra pochi giorni il grande inizia la scuola.

Mio figlio più grande fa la quinta elementare, deve fare una ricerca sulla battaglia di Maratona.
Nel 490 AC Dario, re dei Persiani, invade l’Attica col suo esercito, considerato all’epoca invincibile, per risolvere a modo suo la questione delle colonie elleniche insofferenti al dominio persiano.
Erodoto racconta che i Persiani sbarcano nella baia di Maratona, a quaranta chilometri da Atene.
La pianura è collegata alla capitale da strade ed è ricca di corsi d’acqua potabile, elementi fondamentali per la logistica ed il sostentamento delle truppe e dei cavalli.
Gli Ateniesi sono indecisi sulla tattica da seguire, affrontare gli invasori nella pianura o farli avanzare fino ad Atene per difendersi tra le mura della città.
Il giorno della battaglia, l’esercito ateniese, numericamente inferiore ma ben addestrato ed equipaggiato, attacca in movimento gli invasori.
I persiani sfondano nel settore centrale ma le ali dei greci sono meglio disposte ai lati e circondano il nemico per poi ricacciare verso il mare l’esercito Persiano che subisce gravi perdite, anche in termini di equipaggiamento e imbarcazioni.
Per molti storici la vittoria dei Greci è significativa per la nascita della democrazia ateniese, un momento fondamentale per lo sviluppo della civiltà occidentale.
Non è così difficile da imparare, eppure mio figlio fa fatica, non si concentra, si blocca.
Perdo la pazienza, alzo la voce.
Sono nervoso. Sarà per la ginnastica che faccio al mattino.

Nei paesi dell’ ex Urss, Ucraina compresa, la festa della donna è un giorno di vacanza.
L’8 marzo mi chiama Oleksandr, il capo di Maksim.
È poco più giovane di me, ci conosciamo da una decina d’anni ma abbiamo iniziato a ingranare soltanto negli ultimi mesi. Oleksandr ha lasciato Kiev allo scoppio della guerra e si è spostato a L’vov, al confine con la Polonia.
Vorrei chiedergli cosa ha pensato quando ha chiuso la porta di casa l’ultima volta, cosa è riuscito a portare via con le mani e con gli occhi prima di girare la chiave nella toppa.
Ha mandato la famiglia in Polonia, adesso lui è ospite da alcuni parenti.
“Stiamo in quattro in una stanza ma abbiamo da mangiare e non manca niente” È euforico, su di giri.
“Vinceremo. Ormai la guerra sta finendo, hanno quasi esaurito le bombe. Poi arriveranno un sacco di soldi dei piani di ricostruzione, ci sarà un boom economico”
Abbasso la testa sulla scrivania, guardo la venatura artificiale del piano in melamina, sembra legno vero.
Faccio fatica a trovare parole, non riesco a dirgli cosa penso o quello che vorrebbe sentirsi dire.
“Speriamo che finisca presto”.
Parliamo dei suoi concorrenti, gli racconto di Kirill di Kharkov, della guerra che per otto anni era vicina a casa sua e adesso gli è entrata in salotto.
Oleksandr mi interrompe.
“Il Donbass è l’origine di quello che sta succedendo adesso. Per anni ho vissuto la mia vita senza pensare che c’erano persone come me che morivano a poche centinaia di chilometri da casa mia. Per anni sono andato a dormire la sera dando per scontato di stare nel mio letto e di svegliarmi il giorno dopo”.

Se fai particolare attenzione, se passi l’unghia sulla venatura, si sente che non è legno vero.



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