venerdì, maggio 27, 2022

Odessa


L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.


Le precedenti puntate qui:
https://tonyface.blogspot.com/2022/03/racconti-dallex-urss-ucraina-febbraio.html

e qui:
https://tonyface.blogspot.com/2022/03/racconti-dallex-urss-parte-1.html

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https://tonyface.blogspot.com/2022/03/racconti-dallex-urss-ucraina-maggio-2014.html

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Odessa Luglio 2014

Lunedì 14 luglio atterro a Odessa a ora di pranzo.
Trenta gradi, umidità accettabile.
Entro nel terminal vecchio, con le pareti giallo ocra un po’ scrostate. Sembra una stazione degli autobus di provincia.
Raggiungo la zona degli arrivi dove, tra la piccola folla radunata, individuo facilmente il mio amico e cliente Evgenij detto Zhenja. Più alto della media, ha le spalle leggermente incurvate in avanti e nella mano destra stringe l’inseparabile borsello di cuoio nero.

Odessita di nascita, è innamorato della sua città, di un amore che sfiora un fanatismo che ho subito in varie occasioni.
Carichiamo le valigie in macchina e partiamo verso casa sua, una villetta di mattoni con il tetto marrone poco distante dal mare, nella periferia nord della città.
Oggi compie 55 anni. Da qualche settimana parenti, amici e dipendenti gli stanno organizzando una festa in spiaggia.
Arriviamo che non ci sono ancora ospiti, la moglie Olga è indaffarata ma mi saluta con affetto, come uno di casa.
Beviamo un bicchiere di kompòt freddo, una bevanda a base di frutta bollita che lascia un retrogusto affumicato.
Evgenij ha voglia di parlare, è convinto che dietro qualsiasi evento si nascondano macchinazioni e trame occulte e approfitta di ogni occasione per svelare verità di cui si considera depositario esclusivo.
Visto che parlo russo e che sono uno dei pochi che gli presta un po’ di attenzione, mi considera un interlocutore affidabile, uno con cui ci si intende.
Nel suo studio c’è una libreria che copre un’intera parete. Contiene un migliaio di libri.
Leggo le scritte sui dorsi dei volumi ma non riconosco neanche un autore o un titolo. Ci sono solo trattati di storia e saggi di teorie complottiste.
Nemmeno un romanzo.

Nella parete di fronte è appeso un ritratto ad olio di Josif Vissarionovic Dzhugasvili – Stalin per gli amici – che veglia con aria sorniona su quell’arsenale di sapere alternativo. Per mettermi a mio agio dopo il viaggio, Zhenja mi fa accomodare su un divano azzurrino e parte con una lezione sull’antisemitismo. Inizia dai bolscevichi e Lev Trotskij, prosegue con i protocolli dei savi di Sion per poi arrivare ad Arsenij Yatsenjuk, l’attuale primo ministro ucraino, circonciso pure lui.
Snocciola date, cita fonti e accadimenti incontrovertibili e, per concludere, mi porge un’edizione finemente rilegata del pamphlet antisionista di Henry Ford, il costruttore di auto che considerava le organizzazioni sindacali espressione del complotto mondiale giudaico.

Quindi Henry Ford era antisemita?
Henry Ford era una brava persona.


Finalmente arriva qualche ospite e la moglie ci chiama in soggiorno, carichiamo un po’ di roba da mangiare in macchina e ci trasferiamo in uno stabilimento balneare di stampo sovietico poco distante da casa loro, dove ci aspettano altri amici e collaboratori di Sasha.
È quasi ora di cena quando ci sistemiamo in un’area all’aperto circondata da prefabbricati, bungalow e tettoie in plastica e eternit.
Attorno a noi famiglie in costume che si fanno la doccia nell’area comune o siedono a tavola, i capelli ancora bagnati, l’odore del balsamo sospeso nell’aria che si mescola a quello dei peperoni grigliati.
Alla cena di compleanno ci sono una cinquantina di invitati di età compresa tra i quindici e i settantacinque anni, tutti disposti su tavoloni e panche di pietra.
Per la serata hanno organizzato un programma da Giochi Senza Frontiere presentato da uno speaker.

Per stimolare l’appetito, partiamo con il tiro alla fune in riva al mare.
Rischio di farmi male, un bisteccone che stringe la corda davanti a me mi molla un pestone sulla caviglia. Perdiamo per colpa mia.

Mi fanno sedere accanto a Dasha, la figlia maggiore del festeggiato.
Ha la mia età e un divorzio senza figli. È laureata in lingue, lavora col padre a cui è molto legata e vive da sola.
Porta i capelli castani raccolti all’indietro da un cerchiello, gli occhi azzurri brillano sul volto abbronzato e disteso. Indossa una maglia traforata molto leggera su un paio di pantaloni bianchi.
È una bella donna, se non sai chi è suo padre.
Altrimenti è impossibile non riconoscere tratti ed espressioni di Zhenja nel volto di Nadja. Mentre lei mi racconta delle vacanze in Montenegro vedo lui che annuncia l’arrivo degli ufo.
Sulla tavola sono disposti vassoi da cui si servono gli ospiti.

Pane nero con forshmàk, un patè di aringa e mele verdi; caviale di melanzane; pollo e pesce farcito; pescetti fritti; conserve e torte. Tutti piatti della cucina ebraica.
L’alcol non è particolarmente abbondante perché Evgenij è astemio e i commensali si adeguano.
Ogni cinque minuti lo speaker interviene, racconta una barzelletta, annuncia una canzone che fa partire da un portatile collegato a una cassa nera. Poco prima del taglio della torta il presentatore mi invita a ballare.
Impossibile rifiutare davanti a tutti. La compagna di ballo è l’assistente personale di Evgenij, Irina, una signora sulla cinquantina con i capelli lunghi raccolti sulla nuca.
Parte la canzone, un classico del folklore sovietico che si intitola 7.40, Sjem’ Sorok.
Parla di un treno in arrivo alla stazione di Odessa. In uno dei vagoni viaggia un signore elegante che indossa una bombetta, ha il fuoco negli occhi ed è atteso con impazienza alle otto meno venti del mattino.
Forse è Theodor Herzl, figura di spicco del movimento sionista di fine ottocento. O forse è una metafora per l’avvento di Gesù. Fatto sta che il treno non arriva.
La melodia è incentrata su sonorità klezmer, genere tradizionale degli ebrei aschenaziti dell’Est Europa che incorpora strutture ritmiche e melodiche originarie dai Balcani, della Russia e della Polonia. I musicisti erano originariamente chiamati klezmorim e si esibivano in occasione di matrimoni e celebrazioni.
La marcetta si apre con un fraseggio di violino intrecciato al clarinetto.
Le note incalzanti del contrabbasso evocano lo sferragliare della locomotiva sulle rotaie. È una canzone simpatica, ricorda un po’ i film di Kusturica ma è musica da sagra, non le assocerei mai con una pista da ballo.
E invece mi tocca far la parte, prendo la mano di Irina, la alzo sopra le nostre teste e mi avvicino a lei sculettando a destra e a sinistra. Dieci secondi potrebbero bastare ma è solo l’inizio, attorno a noi sono raccolte una cinquantina di persone, alcune guardano sedute, altre ballano e battono le mani a tempo. Il sole cala sul mare, le ombre si allungano sull’asfalto.
Il ritmo sincopato lascia poca libertà di improvvisare ai mocassini neri che sbattono le punte sul cemento.
Avanti e indietro, poi di lato. Alterno qualche colpo di tacco come un ballerino di sirtaki un po’ disabile. Fosse per me andrei a sedermi ma non mi posso fermare.
Faccio lavorare Irina, alzo il braccio e la invito a compiere una serie di piroette. Una ciocca di capelli si sfila dall’elastico e le scende sulla fronte un po’ sudata.
Ci dà dentro, sorride e non stacca lo sguardo quando la faccio roteare sotto la mia ascella. Entra il break strumentale, manca ancora metà canzone.
Gli archetti dei violini fanno da contraltare al clima di allegria, sfregano note e coloriti malinconici, a bilanciare lo spartito emozionale della canzone. Il battito accelera, assolo di clarinetto.
La svasatura dei miei pantaloni in lino ondeggia freneticamente come una bambolina hawaiana da cruscotto.
Anche il prendisole bianco di Irina ondeggia, i suoi occhi sempre più larghi, sempre più blu.
Finalmente la musica rallenta, l’archetto piega le ultime note.
È finita.

Giro di applausi, inchino, lo speaker mi invita a fare un altro ballo ma declino.
Irina sia avvicina al marito, un signore che sembra molto più vecchio di lei, è serio in volto, la guarda e non dice una parola.
Torno a sedermi al tavolo, chiacchiero con Nadja, mi racconta della sua festa di matrimonio, il giorno più bello e stressante della sua vita, volato in un attimo.
Sono in piedi dalle quattro del mattino, vorrei andarmene in albergo ma dobbiamo ancora assistere alla premiazione. Dopo la distribuzione a vario titolo di certificati, caricature e ninnoli di plastica, è il momento di assegnare il premio come miglior ballerino. Lo speaker dice che il vincitore gli assomiglia molto, è vestito come lui.
Ha la testa rasata sui tre lati, i capelli corti che si impennano in uno spoiler ingellato sopra la fronte, è avvolto in una maglia da marinaio da cui scappano rotoli di ciccia verso tutte le direzioni e indossa un paio di braghe a quadri da cuoco.
Ai piedi sandali in plastica da piscina.
Suspense.
Il vincitore sono io.

L’alter ego con la polo nera in filo di scozia, i pantaloni sartoriali in lino con un quadro sottile ed elegante, i mocassini con le nappine e la suola in cuoio. L’unico trofeo che io abbia mai ricevuto in vita mia è un cuscino azzurro con la stampa di un’ancora, il bordo circondato da una corda nautica bianca intrecciata. Alla fine Zhenja mi porta in albergo, ho prenotato una stanza all’Hotel Kalifornia - si chiama proprio così - accanto ad una delle sinagoghe della città, in Ulitsa Evrejskaja. La mia finestra si apre su un rosone con la stella di David.

Odessa, quarta città per popolazione in Ucraina, conta poco più di un milione di abitanti di cui 50.000 ebrei.
Fanno parte del tessuto economico e sociale della regione da centinaia d’anni. Le prime tracce risalgono al sedicesimo secolo quando ebrei polacchi si insediarono nell’Ucraina meridionale per svolgere attività di mercanti, importatori ed interpreti al seguito dei cosacchi di Zaparozhija.
L’immigrazione ebraica in città dai territori della Polonia, dell’attuale Bielorussia e di altre regioni dell’attuale Ucraina si intensificò all’inizio dell’ottocento grazie alle possibilità di crescita economica offerte dal porto sul Mar Nero e dalle favorevoli condizioni climatiche e sociali che portarono molti ebrei a vivere il proprio credo religioso in maniera più libera ed aperta rispetto ai paesi di provenienza.

Nonostante le politiche antisemite promosse nei territori dell’impero russo, alla fine del diciannovesimo secolo Odessa era un polo culturale di rilievo per la comunità ebraica, un terzo della popolazione parlava Yiddish.
La maggior parte delle attività commerciali era in mano ad ebrei così come la compravendita di grano.
Prima dell’occupazione nazista nel 1941, gli ebrei costituivano oltre il trenta per cento della popolazione di Odessa. A seguito dei massacri e delle deportazioni subite, questa percentuale si ridusse al dieci per cento dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Rilevante è l’apporto offerto dalla comunità ebraica locale alla musica pop e al jazz.
Serge Gainsbourg, Bob Dylan e George Gershwin hanno sangue odessita e mi piace pensare che quell’atmosfera cosmopolita intrisa di melodie italiane, folk slavo, sonorità dei Balcani e musica klezmer abbia avuto un’influenza particolare sulla loro sensibilità artistica.

Il giorno dopo Zhenja passa a prendermi, ha organizzato una visita della città con una guida che è una sua amica, Natasha.
Ha passato la settantina, è molto colta e gentile, porta dolcemente il peso degli anni con l'ironia del sorriso odessita. Oltre al russo e all'ucraino, parla francese, inglese ed un ottimo italiano.
Sasha mi chiede di far parlare la guida in italiano, io acconsento e Natasha mi ringrazia di cuore perché è la prima visita guidata in italiano che fa quest'anno.
Mi spiega che di solito a Odessa sbarcano oltre 150 navi da crociera durante la stagione estiva.

Quest'anno, a causa della guerra nel Donbass, ne hanno avute soltanto 5, un colpo tremendo per tutto il settore turistico, fondamentale per l’economia della città.
Natasha racconta a sommi capi la storia della città partendo dalla presa della fortezza ottomana Khadzhibej nel 1789 da parte delle truppe russe nel corso della guerra russo-turca (1787-1792). Alla battaglia partecipò un italiano di origine spagnola, Giuseppe de Ribas, figlio del console di Spagna presso il regno di Napoli.
De Ribas era un militare rispettato nei ranghi alti dell’esercito russo e dopo la fine della guerra divenne comandante della flotta russa nel Mar Nero.
Propose alla zarina Ekaterina di trasformare il villaggio Khadjibej in un porto dell’Impero. La temperatura mite del Mar Nero avrebbe scongiurato il rischio di ghiacciarsi durante l’inverno.
Odessa venne fondata nel 1794 per decreto imperiale di Ekaterina che nominò amministratore capo De Ribas.
Il napoletano, nel frattempo promosso al grado di ammiraglio della flotta, diede l’avvio alla costruzione degli edifici ministeriali e dei palazzi di pietra che costituiscono il nucleo urbano originario della città che lo stesso Deribas decise di chiamare Odisseo, nome successivamente femminilizzato in Odessa dall’imperatrice.

Lo sviluppo iniziale avvenne per mano del Duca di Richelieu, nobile francese nipote del cardinale, scappato dalla Francia della rivoluzione per servire nell'esercito russo di Caterina la Grande.
Appuntato governatore di Odessa dallo zar Alessandro I, Armand-Emanuel di Richelieu ne curò lo sviluppo economico, sociale e culturale fino al 1814. Offrendo terreni a prezzi bassi, garantendo tolleranza religiosa ed esenzione dal servizio militare, riuscì ad attrarre nel neonato centro marittimo una nutrita comunità di espatriati provenienti da tutta Europa: bulgari, serbi, moldavi, greci, armeni, italiani, ebrei e tedeschi che contribuirono al primo boom economico e commerciale. La sua statua, in stile neoclassico, accoglie i visitatori che arrivano dal mare e che entrano in città salendo la scalinata Potemkin.

È uno dei luoghi più belli e significativi di Odessa, anche a livello turistico.
È un tardo pomeriggio meravigliosamente estivo, ci troviamo sul lungomare.
Giovani coppie e famiglie passeggiano nella camminata ombreggiata da acacie importate direttamente da Vienna, si nota l’assenza degli stranieri.
Natasha sa che per gli italiani la scalinata Potemkin fa parte dell'immaginario collettivo grazie al Secondo Tragico Fantozzi.
La scalinata, ultimata nel 1841, è stata progettata nel 1815 da un architetto italiano, Francesco Boffo, responsabile della creazione di altre opere in stile neoclassico ad Odessa. Rappresenta l’accesso alla città dal mare.
Inizialmente costruita con lastre di marmo verde provenienti dal porto di Trieste, la scalinata è caratterizzata da un’illusione ottica. Vista dall’alto i quasi duecento gradini che la compongono non sono visibili, osservata dal basso spariscono le sezioni orizzontali intermedie.

La guida mi parla del ruolo importante che gli italiani hanno storicamente svolto ad Odessa.
Proseguiamo la passeggiata sul lungomare e raggiungiamo l'inizio di quello che una volta era chiamato il viale italiano “ital’janskij bulvar’”, abitato prevalentemente dai miei connazionali.
Domando di cosa si occupassero e mi risponde che c'era un po' di tutto: attori e cantanti che si esibivano presso lo spettacolare Teatro dell'Opera, ristoratori, pasticceri, artigiani, banchieri, commercianti, architetti. Importante anche la presenza di marinai napoletani, genovesi e livornesi.
Il cuore e l'anima di questa città così fortemente voluta da Ekaterina sono stati disegnati emotivamente e stilisticamente da italiani. La prima banca d'affari in città è stata fondata da italiani.
‘O Sole Mio è stata scritta da Giovanni Capurro e Edoardo di Capua proprio a Odessa, pare che la musica sia stata ispirata da un’alba sul Mar Nero. L'italiano era una lingua diffusa nell'Odessa dell'ottocento, ne parla anche Pushkin nel suo Evgenij Onegin, molto comune l’utilizzo anche per la stesura e redazione di documenti commerciali. Rientro di fatto nella categoria dei commercianti italiani, versione 2.0 con smartphone e connessione internet permanente. Spostamenti su aerei di linea e comunicazioni via mail o telefono. Trasporti della merce affidati a broker.

Provo ad immaginare cosa volesse dire partire dall'Italia 200 anni fa, raggiungere Odessa con uno stock di mercanzia da piazzare, tutti i disagi, i rischi e le tempistiche del viaggio per terra e per mare.
Terminato il giro ringrazio Natasha e ci salutiamo.

La panoramica culturale su Odessa sarebbe incompleta senza qualche cenno letterario.
Non ho mai letto i racconti di Issak Babel’, ebreo morto fucilato nel 1941 con l’accusa di deviazionismo Trotskista. Parlano di quel sottobosco di ladri, malviventi, papponi e contrabbandieri, circa 40.000 secondo una stima del 1918.
Ho letto e consiglio sempre Beniam Venedikt Livshits, poeta e fondatore del movimento cubo-futurista russo.
Nato da una famiglia di ebrei benestanti nel 1887 a Odessa, studiò giurisprudenza a Kiev.
Non fu un poeta eccelso o particolarmente originale ma occupa un posto nella storia della letteratura russa grazie a L’arciere dall’occhio e mezzo, “autobiografia del futurismo russo” che descrive la nascita del movimento dalla sua nascita nel 1911 fino allo scoppio della prima guerra mondiale.
Avevo vent’anni, abitavo tra San Marco e Rialto e non dimenticherò mai l’emozione che mi hanno regalato quelle pagine, le storie di un gruppo di miei coetanei che vagavano per le strade di San Pietroburgo nel 1912 con i volti dipinti, le giacche addobbate di drappi di stoffa colorata declamando versi ad alta voce.
Punk e situazionismo sessantacinque anni prima dei Sex Pistols e degli indiani metropolitani.

Zhenja se ne frega di Livshits, quando gliene parlo fa un cenno con la mano “Livshtis era ebreo”.
Effettivamente era ebreo, si fece battezzare cristiano ortodosso nel 1914 e morì fucilato, come Babel’, per deviazionismo trotskista nel 1938.
A cena con Zhenja e la moglie, parliamo di lavoro e casualmente mi racconta che a giugno hanno bombardato lo stabilimento produttivo di un'azienda di mobili che ha sede nella periferia di Donetsk.
A dicembre del 2013 ho tenuto un seminario presso il loro show-room appena ultimato. Mi ha impressionato la qualità dello stabile dal design moderno e razionale, lo spazio interno organizzato con ordine e gusto.
Non il solito caotico bazar che si trova spesso in molti paesi dell'area ex-sovietica. Sono rimasto colpito dall'imponenza degli investimenti sostenuti. Ho parlato con il direttore che era un po' preoccupato per la situazione a Kiev, ma tutto sembrava così lontano e remoto che nessuno avrebbe mai sospettato che di lì a 6 mesi quei luoghi sarebbero diventati teatro di guerra.
A fine maggio 2014 ho nuovamente incontrato un venditore di quell'azienda in fiera a Kiev.
In quei giorni era appena stato eletto Poroshenko ed era scattata l'offensiva armata contro i separatisti.
Il giovane rappresentante era nella capitale per lavoro mentre nei pressi di casa sua si sparava e la gente moriva.
Ricordo il nostro ultimo incontro.
Due venditori che si stringevano la mano augurandosi buon lavoro.
Pochi giorni dopo uno dei due si sarebbe ritrovato senza azienda e sostanzialmente senza mercato.

Se non hai luce, gas e acqua potabile non pensi ad acquistare una nuova cucina, sempre ammesso che ti sia rimasta una casa dove montarla.
Non posso fare a meno di ripensare a quell'azienda moderna e curata.
Agli sforzi intrapresi per allinearsi agli standard occidentali, ai progetti che riguardavano le vite e le famiglie dei dipendenti, le loro speranze.
Tutto crollato sotto il peso delle bombe aria-terra.
Il 16 Luglio rientro in Italia e il giorno successivo sopra Donetsk viene abbattuto il Boeing 777 della Malaysia Airlines partito da Amsterdam e diretto a Kuala Lumpur.
Gli ucraini incolpano i separatisti filorussi di aver colpito il velivolo con un missile terra-aria Buk. Quest’ultimi replicano di non avere avuto a disposizione quel tipo di arma.
Fossi rimasto un giorno in più sarei sicuramente incappato in ritardi o cancellazioni di voli verificatisi successivamente alla tragedia che ha comportato la morte di 298 civili innocenti.

Dicembre 2018 Kiev

Sono a cena con Gennadij, il titolare dell’azienda di Donetsk.
Nell’estate del 2014 ha spostato tutto a Kiev, molti dipendenti si sono trasferiti nella capitale perché la sede centrale nel Donbass è andata perduta.
Negli ultimi anni ha fatto crescere l’azienda, ha aperto altre filiali e cercato di acquisire nuovi clienti.
Siamo in un ristorante caratteristico ucraino di buon livello.
L’arredamento del locale riprende l’atmosfera e la cucina di un villaggio di campagna, forno a vista in sala, vasellame, sciabole, piatti decorati e dipinti in stile appesi alle pareti.
Il personale veste abiti tradizionali.
I ragazzi indossano camicioni di lino grezzo senza colletto, la scollatura al centro ornata di ricami colorati, sotto portano pantaloni larghi e scuri con una fascia rossa in vita.
Le colleghe hanno vestiti lunghi ricamati sulla scollatura, sul petto e sul bordo delle maniche, corpetti e grembiuli decorati e una ghirlanda di stoffa e fiori sulla fronte.

Abbigliamento comodo e pratico per il lavoro quotidiano, il servizio militare e il ballo. A tavola ci sono collaboratori di Gennadij e altri fornitori italiani, io sono l’unico che parla russo.
C’è un triestino, Sandro, cinquant’anni ben portati, alto, fisico asciutto, decisamente un bell’uomo.
E’ filo-russo e non ne fa mistero.
Lo ero anch’io nel 2014, dopo il Maidan. Poi mi sono stancato di sostenere una delle due versioni.
Non era la mia guerra, avevo una vita da vivere, nelle banalità e nelle cose serie.

Più avevo a che fare con la gente e più mi accorgevo che le esistenze, i desideri e le ambizioni delle persone non potevano essere incanalati in un modello unico, monolitico.
La realtà era complessa e sfaccettata. Nel corso degli anni ho conosciuto tantissime persone come me, con le mie aspirazioni e i miei desideri.
Persone che lavorano per mantenere le proprie famiglie, far studiare i figli, pagarsi il mutuo e le rate della macchina. Gente che ama la compagnia, che vuole vivere tranquilla e, se ha due soldi da parte, viaggiare e vedere un po’ di mondo.

In tutti questi anni non ho incontrato neanche un nazista.

Forse uno, Ruslan, un esaltato di Kiev. Ho fatto appena in tempo ad accorgermene che è morto di tumore.

Sandro invece non ha mai cambiato idea.
Anche qua, a Kiev, a tavola al ristornate con Gennadij nel 2018.
È un tipo equilibrato, Gennadij.
Ha un capoccione rasato e lucido, l’espressione serena.
Non alza mai la voce coi dipendenti, non increspa mai le ciglia, sorride spesso. Sembra un monaco buddista. Racconta di quando, nel giugno 2014, hanno iniziato a bombardare il capannone nuovo di zecca a Donetsk. Poco distante erano dislocate le milizie separatiste. Forse è stato un errore dell’esercito di Kiev, forse ce l’avevano proprio con la sua azienda.
È stato un mezzo miracolo che non ci fosse nessuno dentro allo show-room.
I collaboratori erano in magazzino. Quando ha visto il fumo uscire dal tetto ha preso l’auto, è passato per casa, ha caricato la moglie e la figlia, lo stretto necessario ed è scappato.
Ha guidato fino a Kiev senza fermarsi.
Sandro ascolta quello che gli traduco e mi obbliga a fare una domanda:
“Chi ha ragione?”

Gennadij sorride e continua a parlare.
Qualche mese fa è ritornato a Donetsk per salutare amici e parenti e ha avuto l’impulso di rivedere la sua azienda, si è avvicinato al terreno recintato che adesso è sotto il controllo delle milizie separatiste.
Un soldato lo ha apostrofato con fare aggressivo.
Lui gli ha parlato con deferenza, gli ha spiegato che una volta quei capannoni erano suoi.
Ha chiesto se fosse possibile dare un’occhiata.
Il soldato lo ha accompagnato all’interno.
La sua azienda adesso è un ospedale militare, dove c’erano le scaffalature del magazzino adesso ci sono le brande coi feriti.

“Chi ha ragione?”
Allarga le braccia, sorride, alza le sopracciglia come a dire “che domanda del cazzo, amico mio”.

6 commenti:

  1. Questi racconti sono davvero bellissimi. È da un bel po che mi voglio complimentare. Complimenti

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  2. Ciao sono Cate, che figo leggerti!!! Prima o poi dovrai farmelo vedere quel cuscino premio !!! Aspetto la prossima puntata

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  3. Mai come i nostri balletti con la Ca la Lu e la Ga! Grande scrittore Giulio, spero tu scriva un libro che leggero e regalero’ . Dal Ciakle

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    1. Intanto afferro al volo il consiglio e mi prendo il libro di Livshtis. Ciao Julius, grazie per questi racconti. E ciao Ciakle. Greta (tra San Marco e Rialto)

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  4. Grazie per il tuo racconto

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