mercoledì, maggio 25, 2022
Afrofuturismo
Riprendo l'articolo che ho scritto per "Il Manifesto" nell'inserto "Alias" sabato scorso.
La finzione speculativa che tratta temi afroamericani e si occupa delle preoccupazioni afroamericane nel contesto delle tecnocultura del ventesimo secolo - e più generalmente, la significazione afroamericana che si appropria delle immagini della tecnologia e di un futuro protesicamente potenziato - volendo individuare il termine più adatto potrebbe essere chiamata "AFROFUTURISMO".
E' il concetto attorno cui ruota il libro di Giorgio Rimondi, “L'invasione degli Afronauti” (edito da Shake Edizioni), un saggio colmo di suggestioni, stimoli, particolarità semi sconosciute che approfondisce, in modo dettagliato, colto, accademico e mai banale, il rapporto tra la cultura afroamericana, la tecnologia e la fantascienza.
Come e quando musica, cinema, letteratura hanno interagito con l'immaginario spaziale, con l'idea dell'alieno, soprattutto in epoche in cui negli Stati Uniti la conquista dei pianeti e i viaggi interstellari, erano diventati un obiettivo di enorme portata politica e sociale.
“Si dava così spazio al desiderio della middle class di impossessarsi dello spazio interstellare per colonizzarlo, una volta crollata la macchina mitografica del Far West e divenuto impraticabile il mito della frontiera interna”.
La constatazione è quanto gli afroamericani siano stati refrattari e quasi indifferenti all'attrazione per le imprese spaziali, missili, visioni futuristiche.
Come sempre causticamente si era già in qualche modo espresso Gil Scott Heron nell'album d'esordio del 1970 in “Whitey on the moon” quando racconta metaforicamente:
“Un topo ha morso mia sorella Nell, mentre i bianchi (whitey è usato in termine dispregiativo) sono sulla Luna / La sua faccia e il uo braccio hanno incominciato a gonfiarsi e i bianchi sono sulla Luna / Non posso pagare nessuna fattura al medico ma intanto i bianchi sono sulla Luna / Tra dieci anni dovrò ancora pagare mentre i bianchi sono sulla Luna”.
Le priorità della popolazione nera sono altre, il tempo di pensare allo spazio non c'é, soprattutto considerando che con i soldi per un missile si potevano risolvere ben altri problemi sulla terra.
Ma c'è di più, più drammatico, una ferita aperta da sempre e impossibile da rimarginare. La schiavitù, retaggio di un recentissimo passato, ha distrutto ogni illusione, ogni sguardo al futuro, soprattutto quando il presente è così problematico.
“La schiavitù ha funzionato come un'esperienza apocalittica, come l'equivalente di un rapimento alieno: a quale normalità potremmo mai sperare di tornare dopo quanto accaduto? Le idee, le esperienze e anche le speranze che ritroviamo nelle pratiche afrodiasporiche partono tutte dall'antica abduzione, dal rapimento originario, poiché da quel momento i ponti sono stati tagliati e non c'é alcuna possibilità di recupero. Ciò che manca infatti è il prima, il termine di paragone, ovvero la possibilità di confrontarsi con un'idea di normalità. L'Apocalisse determina infatti una frattura multipla, allo stesso tempo sociale, temporale e ontologica: qualcosa scompare e questo qualcosa ha a che fare con la possibilità che si dia un punto di partenza, un'origine.
Da quel momento il soggetto afrodiasporico è costretto a vivere in una Alien Nation ovvero a considerarsi come un popolo allo stesso tempo alieno e alienato”.
Come sottolinea Ryan Coogler, regista del film “Black Panther”:
“Ci hanno insegnato che abbiamo perduto le nostre origini, tutto ciò che ci faceva africani”.
Peraltro le conoscenze astronomiche nelle popolazioni africane sono spesso una componente religiosa o tradizionale (vedi il clamoroso e spesso dibattutto caso dei Dogon del Mali che, pare, fossero parecchio informati, pur essendo isolati da ogni forma di contatto con la “civiltà”, su come vanno le cose nel cosmo, tra rotazioni di pianeti, stelle sconosciute e altro). Ciononostante esiste una produzione di primissima qualità che mette insieme science fiction e cultura afroamericana.
Se ne interessò un insospettabile Duke Ellington ("considero lo Sputnik un'opera d'arte nello stesso tempo in cui osservo un grande dipinto, leggo una grande poesia, ascolto una grande opera musicale") che fece spesso riferimento a tematiche “spaziali” (vedi brani come “Dream of the flying saucers” e album come “The Cosmic Scene” e “Blues in orbit”.
Già nel 1920 William E.B. DuBois, tra i suoi libri che rilevavano l'importanza della comunità nera nella storia americana, inserì il racconto “The Comet”.
Quella cometa che stermina il genere umano, lasciando vivi solo un uomo nero e una donna bianca che decidono di ripopolare la terra senza più pregiudizi razziali.
Fino a quando non spuntano altri sopravvissuti e le distanze sociali ritornano le stesse di prima.
Neppure la fantascienza è in grado di cambiare le cose sulla terra.
In ambito musicale da George Clinton e i suoi Parliament/Funkadelic a Janelle Monae, attraverso lo “Space Flight”, lo “Space Jungle”, il “Science fiction” o, suo unico 45 giri, “Man on the moon” di Ornette Coleman, i riferimenti sono numerosi e suggestivi.
Non dimenticando John Coltrane quando negli anni Sessanta suonava “Star Ship” o “Sun Ship” e che poi ritroviamo postumo in album con titoli come “Interstellar Space” o “Stellar Regions” o il Jimi Hendrix che viaggiava nell'esordio fino alla “3d Stone from the sun” per poi andare “Up from the skies”.
Il principale esponente del “genere” è stato però Sun Ra, personaggio indescrivibile che fece di una personalissima filosofia cosmica il perno attorno a cui è ruotata la carriera artistica.
Cialtrone o convinto filosofo portatore di una nuova era (d'altronde asseriva di provenire da Saturno)? Con la sua numericamente sconfinata Arkestra esplorò vari confini del (free) jazz, attraverso una sterminata discografia di almeno duecento album le cui tematiche sono state il più delle volte strettamente legate al concetto della science fiction. Basti citare “We travel the space ways” o “Sun Ra visits Planet Earth”, tra i tanti.
Non è solo un bizzarro (quanto innovativo) sperimentatore ma un lucido osservatore, da un'ottica stramba e personale ma molto più profonda di quella di tanti altri, che si ricollega alla perfezione con il concetto espresso più sopra, relativo all'”apocalisse” subita dal popolo nero:
“Quando ci si oppone a una struttura ostile e implacabile come il razzismo sudista, bisogna creare un universo alternativo, dove i tuoi talenti siano riconosciuti e le tue speranze incoraggiate”. La fantascienza può essere dunque un linguaggio in grado di superare o scavare al di sotto dei pregiudizi e delle discriminazioni.
E il suo appello ai giovani neri è ancora più convincnete in quest'ottica e vero e proprio manifesto di quello che chiamiamo “afrofuturismo”:
“Io non sono reale proprio come voi. Voi non esistete in questa società. Altrimenti il vostro popolo non dovrebbe lottare per i diritti. Non siete reali, altrimenti sareste riconosciuti tra le altre nazioni. Siamo entrambi miti, io e voi. Se non giungo a voi come una realtà ma come un mito è perché il nostro popolo non è altro che questo: un mito. Io arrivo da un sogno che gli uomini neri hanno sognato tanto tempo fa. Sono una presenza inviata dai vostri antenati”.
Il libro di Rimondi offre una lunga serie di spunti, grazie anche a una ricchissima e dettagliata bibliografia che ci permette di poter approfondire un contesto così poco conosciuto e ancora in buona parte da esplorare, soprattutto nei suoi significati più reconditi.
Un nuovo viaggio mentalmente interstellare da intraprendere per potere avere una visuale da un'altra ottica e distanza (sempre meno siderale).
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