giovedì, maggio 05, 2022

Abiodun Oyewole


Riprendo l'articolo che ho pubblicato per Il Manifesto sabato scorso.

Abiodun Oyewole è un eroe minore dell’epopea della musica pop(olare).
Membro dei Last Poets, i primi che nei tardi anni Sessanta seppero scrivere le basi di quello che sarebbe stato successivamente conosciuto come hip hop e rap.
Lo stesso Jimi Hendrix, noto visionario e preveggente, nel novembre del 1969 registrò nei mitici studi Electric Ladyland il funk rap “Dorella Du Fontaine” con la voce di un altro Last Poet, Jalalmansun Nuruddin (ai tempi ancora noto come LightinRod). I Last Poets declamano versi al vetriolo su basi tribali, parlano di diritti civili, senza metafore e giri di parole.

Fanno proseliti nei club di New York e anche un giovane scrittore e attivista ne rimane affascinato. Li raggiunge nei camerini e chiede loro come potere fare una cosa simile “Vai su un palco e fallo”.
E così il giovane scrittore Gil Scott Heron diventa musicista.

Abiodun è nella band nell’esordio del 1970 ma per un po’ è costretto ad abbandonarla perché si prende quattro anni di galera per furto.
La buona condotta gli permette però di frequentare un college vicino alla prigione e di laurearsi, aumentando nel frattempo la propria autoconsapevolezza socio politica:
"Malcolm X è stato il nostro percorso verso una comprensione rivoluzionaria. Malcolm X ha attraversato una serie di riti di passaggio. Tutto questo perché l’uomo Malcom non ha mai smesso di cercare di sviluppare e riconoscere il meglio di sé.
Era autodeterminato.
Malcolm stava dicendo che dobbiamo essere di più. E noi lo abbiamo percepito. E lo ha detto meglio di chiunque altro.
Ci ha chiarito le idee.
Quindi tutto ciò che volevamo fare era essere discepoli di Malcolm, usando la poesia per illuminare gli stessi valori che lui ha piantato nella nostra testa”.


Sfrutta la laurea intraprendendo la carriera accademica, insegnando poesia e scrittura.
Negli anni ‘90 torna nei Last Poets, appena riformati, e nel 1994, insieme a un altro membro originario del gruppo, Omar Ben Hassen, siede a fianco di Pharoah Sanders nella compilation “Stolen Moments: Red Hot + Cool”, prima di pubblicare il suo esordio solista, "25 Years", a cui fa seguito, solo nel 2014, "Love Has No Season”.

“Graduate” è il nuovo lavoro, uscito da poco, in cui la sua voce baritonale torna a scavare l’anima, a parlare di una realtà che dai suoi esordi fatica ancora a cambiare, nella quale è sempre necessario ribadire la bellezza della cultura nera, il suo spessore artistico e sociale, in un momento in cui è indispensabile urlare con il pugno chiuso “Black lives matter”.
“Siamo in guerra in America.
È una guerra spirituale e va avanti da molto tempo. Siamo sempre stati in guerra. Quella guerra continuerà finché non ci rendiamo conto di essere una razza: la razza umana”.


Personaggio sempre lucido e attento alla realtà circostante, in un'intervista dell'ottobre 2020 preconizzava un futuro che abbiamo poi visto realizzarsi:
“Tutte queste proteste (del Black live matters), causate dal vivere in un mondo radicato nel razzismo, non significheranno nulla se i neri non si faranno avanti per essere coloro che decidono, definendo chi siamo e chi dovremmo essere. Insomma, dobbiamo avere un potere reale nel 2021. Biden dovrebbe essere il presidente, ma Trump ha in programma di barare come al solito. L'America lotterà contro entrambe le pandemie (Trump e il Covid), ma alla fine l'umanità vincerà la battaglia”.

Ma altrettanto razionalmente ci tiene a sottolineare il suo ruolo:
“Non mi vedo come un profeta. Mi vedo come un poeta attento a tutti i segni circostanti.
Essere qui da un po', mi permette di avere chiarezza sulla vita e su ciò che la vita ha da offrire. Tutto avviene in cicli. Mentre andiamo in giro, dovremmo anche evolverci. La storia ci insegnerà il nostro futuro”.


I Last Poets furono i figli diretti di una generazione di afroamericani che riuscì, a un prezzo altissimo, a evolversi, a conquistare spazi sociali, culturali, politici.
Che prese in mano il proprio destino e ciò che possedeva. La soul music dei primi anni Sessanta dimostrò che poteva gestire il proprio patrimonio culturale.
Le etichette Motown e Stax non erano più entità alla mercé di proprietari bianchi che diluivano il contenuto “nero” per renderlo rispettabile. Chi componeva, suonava, cantava, produceva era nero e finlmente possedeva i diritti sulla propria musica, proposta secondo i propri gusti.
E che incominciò non più solo a lamentarsi di una condizione sociale subalterna nell'America razzista e segregazionista del tempo ma a proporre, a emanciparsi, a parlare di ciò che accadeva nelle città, nelle strade, nei ghetti.
Non a caso Abiodun crebbe in una famiglia in cui il jazz era di casa, con Sarah Vaughan, Ella Fitzgerald, il gospel di Mahalia Jackson in costante sottofondo e dove i genitori successivamente fecero passare sul loro giradischi i dischi della Motown, dagli Impressions ai Tempations e portarono riviste e libri che parlavano dell'autodeterminazione degli afroamericani.
E così il 19 maggio 1968 nacquero i Last Poets.
Non a caso il giorno del compleanno di Malcom X (diventato in una quindicina di Stati degli Usa, il “Malcom X Day”), ucciso tre anni prima.
“Erano i tempi giusti. Avevamo a che fare con le idee di Malcolm e il suo intero concetto di autodeterminazione e nazionalismo nero. Volevamo essere la voce di questa cosa. Quello fu lo slancio della nostra esistenza. Non potevo davvero accettare il programma di Martin Luther King. Rifiutavamo l'idea di sederci accanto a loro in una sala da pranzo o in un bagno. Devi costruire il tuo bagno. Non pregare nessuno per la tua amicizia. Sii quello che sei. Sii rispettoso di te stesso e di ogni cosa vivente intorno a te. Fai sapere loro che queste cose tu non le stai avendo e perciò non li includi nella categoria del rispetto. Questo vale per qualsiasi razza, sesso o religione”.

Un collettivo di poeti, inusuale, ognuno con un'idea diversa ma uniti dallo stesso ideale.
Un connubio difficile che ebbe infatti una vita interna complicata, tra contrasti, scioglimenti, scontri personali. Ma furono la scintilla che diede fuoco a quello che conosciamo come rap.
“Eddie Jefferson e Oscar Davis erano rapper. Avevano intuizioni proto rap, allusioni liriche a cui non avrei mai pensato. C'è molto che può contribuire al concetto di rap. Penso che quello che è successo è che i Last Poets hanno davvero giocato un ruolo importante. Gli schemi in rima che usava Jalal (altro membro della band) erano contagiosi, quella era la roba che catturava l'immaginazione di molte persone. È stato ascoltato ed è stato tramandato. Jalal aveva sempre una poesia. Non ho mai conosciuto nessuno che potesse mettere tutto in rima come lui. E non erano rime sciocche o stupide. Il suo genio è indiscutibile. Onestamente credo che sia stato il suo genio ad accendere le menti di questi giovani rapper. "Deve fare rima, se non fa rima, non va bene."

Un suono seminale, un'idea primitiva che fece partire tutto che arrivò, sia a Gil Scott Heron che alla Sugarhill Gang, sia ai Clash che ai Public Enemy.
“Noi Last Poets eravamo arrabbiati e avevamo qualcosa da dire. Lo abbiamo fatto con il linguaggio. Dritto sulla tua faccia. Siamo stati genitori della generazione hip-hop. Non posso negarlo. Ho lavorato con molti di loro e hanno la nostra stessa rabbia e li capisco. All'epoca c'era un movimento con i Black Panthers e altre organizzazioni, che cercava di garantire i diritti umani per la comunità. Avevamo queste linee guida. Questi ragazzi non hanno queste ringhiere. La rabbia va in ogni direzione. È autodistruttivo. Bisogna ristabilire queste linee. Altrimenti, voleranno tutti giù dalla scogliera. Amo questi ragazzi”.

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