mercoledì, marzo 15, 2023

Sly and the Family Stone


SLY STONE compie oggi 80 anni.
Gli ho dedicato una doppia pagina nelle pagine del "Manifesto".

Uno dei rari casi in cui il classico (e spesso tristemente famoso) connubio tra genio e sregolatezza ha avuto un perfetto equilibrio, anche se alla distanza la seconda ha di lunga battuto il primo.
Sly Stone, nato Sylvester Stewart, compie 80 anni ed è ricordato per alcuni capolavori della black music, per avere ideato uno dei gruppi più esplosivi, creativi, innovativi di tutti i tempi.
Anche se andrebbe onorato più per la sua idea rivoluzionaria, in largo anticipo sui tempi, di voluta inclusione razziale, sociale, artistica.

L’adolescenza è subito caratterizzata da uno stretto legame con la musica, con la classica partecipazione al coro gospel della sua chiesa di riferimento, a Vallejo, California e la formazione di una prima band vocale, gli Stewart Four con i fratelli Rose, Freddie (poi membri della Family Stone) e Loretta.

Sly è un bambino prodigio che a undici anni suona più che bene tastiere, chitarra, basso, batteria oltre a cantare alla perfezione. Tra le tante iniziali esperienze musicali la più significativa è quella dei Viscaynes, gruppo doo wop con cui suona nei primi anni Sessanta, con Coasters e Platters come riferimento.
Ma la band ha una particolarità, pressoché inedita e piuttosto inusuale ai tempi negli States: è composta da due uomini, due donne, un uomo di colore, Sly, e un filippino, perfetta immagine di una (ancora improbabile e “scandalosa”) totale integrazione. Una manciata di 45 (in "Yellow moon" il sax lo suona Jerry Martini che poi sarà colonna portante della Family Stone) di moderato successo e lo scioglimento.
Solo Sly proseguirà nella musica, riproducendo, volutamente, il concept "misto" della line up nella nuova incarnazione artistica, gli/le altri/e si disperderanno con alterne fortune.

Sly si immerge nella carriera professionistica partendo dall’attività di dj in una radio dell’area di San Francisco, la KSOL.
Il proprietario lo ricorda così: “Era un ragazzo formidabile, vivace, adattabile a ogni situazione. Quando parlava, invece di volere far sembrare a qualcuno che veniva dal ghetto, era sofisticato. Si sedeva e parlava con modalità pertinenti all’interlocutore che si trovava davanti. Si vestiva con grandissimo gusto e trasmetteva il meglio della black music in circolazione”.

Entra nella Autumn Records di San Francisco e incomincia l’attività di produttore, lavorando per artisti come i già affermati Beau Brummels e Mojo Men e con una band esordiente, i Great Society con alla voce una giovane Grace Slick, di lì a poco leader dei Jefferson Airplane.
Suona anche come turnista per una lunga serie di nomi prestigiosi, tra cui Marvin Gaye e Dionne Warwick.
Ma incomincia a mettere le basi per il suo futuro grande progetto.

Sly and the Stoners suonano cover rhythm and blues ma con una personalità particolare e arrangiamenti più ricercati.
Allo stesso tempo suo fratello fa più o meno le stesse cose, con Freddie and the Stone Souls. Inevitabile unire le forze, raggruppare gli elementi migliori e creare una nuova band:
Sly and the Family Stone. Uomini, donne, neri, bianchi, tutti insieme.

Jerry Martini (saxofonista): “Sono cresciuto con musicisti bianchi a cui la black music non solo non piaceva ma proprio non interessava. Sly voleva intenzionalmente musicisti bianchi da inserire nella band. Sapeva cosa voleva, aveva le idee chiare ed era anni avanti rispetto al suo tempo. Voleva assolutamente un batterista bianco. C’erano decine di batteristi neri migliori di Gregg Errico e centinaia di saxofonisti che mi facevano il culo. Ma lui sapeva esattamente cosa voleva. Ragazzi, ragazze, bianchi, neri”.

Inizia una delle avventure più appassionanti e creative nella storia della musica rock. Non è un caso che il primo album, pubblicato nel 1967 si chiami “A whole new thing” (“una cosa completamente nuova”).
L’intenzione è quella giusta, i semi stanno germogliando ma, paragonato a quanto arriverà successivamente, è un lavoro ancora acerbo in cui la vena soul/rhythm and blues, seppure non riprodotta nei canoni classici, è ancora ampiamente prevalente e si perde nelle modalità già conosciute.
Bisogna aspettare poco.

Nell’aprile 1968 esce “Dance to the music”, un album rivoluzionario che osa andare oltre, mischiando soul, gospel, rock e psichedelia e che crea quello che verrà di lì a poco definito semplicemente “psychedelic soul”. Le voci ora sono quattro, che si alternano, si rispondono o sovrappongono, le chitarre innestano la distorsione, i fiati spingono verso il soul, i ritmi sono sempre veloci e frenetici, le modalità compositive assolutamente innovative.
Il brano che titola l’album, imposto dalla casa discografica che voleva qualcosa di marcatamente pop pur se inviso alla band che lo considerava troppo commerciale, diventa una hit e proietta la band alle porte del successo.
L’album è invece più complesso e ricercato, vedi il medley di dodici minuti “Dance to the medley” che riprende il tema della title track, lo sviluppa, lo dilata, con la base ritmica pulsante, inserti vocali a cappella, follìa, freschezza, irruenza.
I testi si aprono a istanze pacifiste e anti razziste, il manifesto di Sly Stone si sta mettendo sempre più a fuoco.
Pochi mesi dopo esce il terzo album “Life”, che gioca spesso e volentieri con effetti speciali e vocalità originalissime, come sempre suonato praticamente live in studio e con “campionamenti” anti litteram come in “Plastic Jim” in cui il coro cita esplicitamente “Eleanor Rigby” dei Beatles. Il disco è tra i più pulsanti della loro discografia, ritmi altissimi, canzoni allegre e ottimiste, divertimento e ballo.

Siamo alla viglia del salto in alto. “Stand!” esce poche settimane prima della trionfale apparizione al Festival di Woodstock e all’Harlem Cultural Festival di New York e sfonda nelle classifiche, vendendo mezzo milione di copie, grazie anche all’epico “I want to take you higher”, diventato un classico della black music ma non solo.
L’album vira verso un proto funk torrido, sperimentale, dalle influenze jazz, psichedeliche, rock, non risparmia espliciti riferimenti anti razzisti in “Don’call me nigger, whitey”, si avventura nei quattordici minuti della suite di ipnotico funk “Sex Machine”.
La band è famosa, vende un sacco di dischi, ha il programma concertistico pieno di richieste ma Sly sprofonda velocemente in un abisso di abusi, cocaina, alcol, eccessi di ogni tipo. La casistica e l’aneddotica di questo periodo sono ricchissime.

Sly diventa più conosciuto per la quantità di concerti che annulla o in cui semplicemente non si presenta (a volte con la band sul posto e lui ancora a casa e ormai senza più possibilità di raggiungere il luogo) che per quelli in cui effettivamente suona. Stephani Owens, manager di Sly ai tempi: “A volte dovevo noleggiare un aereo privato, poi un elicottero, poi una Limousine per portare Sly a un concerto mentre il gruppo lo aspettava da ore, senza sapere dove fosse o se sarebbe arrivato. Più aumentava l’uso della droga, più i concerti venivano cancellati”.
Le sue finanze vengono erose oltre che per i soldi spesi in droghe e in lussi di vario tipo, anche dalle continue penali che deve pagare per concerti saltati e contratti non rispettati.
Trascorre giorni e giorni in studio di registrazione senza mai dormire, sempre sotto effetto di sostanze, continuando a incidere musica, ad aggiungere strumenti e sovra incisioni ma non riuscendo mai a concludere nulla di concreto.

Nella band la tensione sale sempre di più, Sly si rinchiude nella sua villa di Los Angeles, passando il tempo a produrre musica, cancellare quanto registrato e a rifarlo di nuovo, spesso non ricordando o riconoscendo quanto fatto la sera prima.
Ovviamente circondato da una fauna di spacciatori, consumatori, approfittatori, gente di malaffare, e anche cani feroci e aggressivi.
Uno dei protagonisti dei quei folli party senza fine, JB Brown, ricorderà anni dopo: “Il concetto di “famiglia” era una delle cose più ipocrite che avessi mai visto. Ho pensato che fosse una situazione triste perché li rispettavi, pensando che fossero una specie di chiesa e che la loro cosa religiosa fosse valida. Ma poi li hai visti permettere che tutte queste stronzate avvenissero... le cose più strane che tu abbia mai potuto pensare di vedere”.

Ci vorrà molto tempo ma alla fine riesce a pubblicare quello che rimane un capolavoro assoluto della black music. “There’s a riot goin’ on” (risposta a “What’s goin on” di Marvin Gaye), accompagnata da un’iconica copertina con la bandiera americana con il nero al posto del blu e i soli al posto delle stelle, è il drammatico ma realistico manifesto di un’epoca. E’ finita l’esaltazione pacifista, la gioia di vivere, di ballare.
Lo sguardo è pessimista, decadente, la “rivoluzione” è sfumata per sempre, gli ideali crollati, la droga pesante ha inondato e annegato tutto. Sly registra suonando quasi tutto da solo e utilizzando, tra i primissimi, una batteria elettronica, su cui ne reincide una acustica, mischiando i due suoni, creandone uno unico e all’avanguardia. I brani sono spesso lunghi e ipnotici, profondamente funk, ricoperti da una patina paranoica e malata.
Da cui emergono gioielli pop come “Family affair” che divenne il successo più importante della sua carriera, raggiungendo il primo posto in Usa e Canada.
La sua vita continua ad essere caratterizzata da brutte storie, dipendenza e una carriera ormai distrutta a causa della conclamata inaffidabilità, anche e soprattutto nei confronti di musicisti e collaboratori mai pagati.

Abitualmente si tendono a ignorare gli album successivi che, seppure non altezza di quanto finora inciso, rimangono di alto livello qualitativo.
Ormai, pur se uscendo ancora con il classico nome della band, sono prevalentemente composti e suonati dal solo Sly, con l’aiuto di vari collaboratori e membri della Family Stone reclutati all’occorrenza.
“Fresh”, uscito nel 1973 dopo due anni di lavoro e di continui remix e reincisioni, è un lavoro più convenzionale, in un contesto di funk tradizionale che non si avvale dei picchi di creatività abituali ma, oltre al successo del singolo “If you want me to stay”, conserva un grande groove e un’immediata riconoscibilità, oltre a un marchio di fabbrica inimitabile. Nomi come Miles Davis e Brian Eno lo citarono come ispirazione, sia da un punto di vista artistico che di tecnica di registrazione.

Anche “Small talk” del 1974 è un buon lavoro, anche se è evidente che l’ispirazione incomincia a calare e che il livello compositivo sembra essersi adagiato su schemi prevedibili, come confermano “High on you” (attribuito al solo Sly Stone) del 1975, “Heard Ya missed me, well I’m back” (1976), “Back on the right track” (1979), uscito a tre anni dal precedente ma con meno di mezzora di musica, a base di un funk soul piuttosto convenzionale.
Sembra incredibile ma “Ain’t but the one way” del 1982 è di fatto l’ultimo album di Sly Stone.
Al suo fianco un gigante del funk come George Clinton dei Funkadelic. Le premesse erano fantastiche ma le cose non andarono per il verso giusto. Pare che a un certo punto Sly sia letteralmente sparito dalla circolazione piantando l’album a metà e costringendo il produttore Stewart Levine a confezionare il disco con quanto rimasto a disposizione (tra cui una versione curiosa ma alquanto discutibile di “You really got me” dei Kinks che già aveva provinato in chiave soul negli anni Sessanta). Le vendite saranno scarse e chiuderanno di fatto ogni possibilità di un nuovo contratto discografico.

Di Sly si perdono progressivamente le tracce, torna alle cronache quando viene arrestato più volte per possesso di cocaina. Riemerge occasionalmente per sporadiche collaborazioni discografiche (con Funkadelic, Earth, Wind and Fire, Bobby Womack, Bar-Kays) ma non contribuiscono minimamente a distoglierlo dai suoi guai (anche economici).

Nel 1993 Sly and the Family Stone entrano nella Rock n Roll Hall of Fame.
Introdotti nella cerimonia da George Clinton, improvvisano una spettacolare “Thank you” a cappella, in attesa che arrivi anche il loro leader.
Che si materializza per un solo minuto, in un completo azzurro elettrico, un taglio di capelli improbabile, condizioni fisiche precarie, parla per venti secondi e scompare di nuovo.
Tornerà a farsi vedere nel 2007 con una serie di apparizioni con la Family Stone in tour, con cui suonerà talvolta per brevi momenti, altre volte con più continuità.
Ma la salute è palesemente deteriorata, i filmati su Youtube sono spesso impietosi, talvolta si alza e sparisce dal palco.
Pare accertato che abbia vissuto a lungo (e tuttora viva) in una roulotte con cui si sposta nell’area di San Francisco.

Nel 2011 esce “I’m back! Family and friends” un discutibile album con suoi brani classici risuonati e parzialmente remixati, la sua voce roca e debole che emerge a malapena dai nuovi arrangiamenti.
La presenza di grandi della musica come Ray Manzarek, Jeff Beck, Johnny Winter, George Clinton, Ann Wilson non solleva il disco da una trascurabile mediocrità. In un’intervista del 2015 appare sorridente, sereno e rilassato davanti al suo camper ma ormai senza più voce.

Negli ultimi anni ha battagliato a lungo con ex manager per ottenere il risarcimento di diritti non pagati (ma che pare avesse già ceduto in precedenza) tra cause vinte e poi rigettate.
Un talento che si è espresso al massimo del suo splendore nell’arco di un lustro, con ottimi precedenti e qualche lodevole prosieguo. Distrutto artisticamente e umanamente dall’incapacità di gestire successo e dinamiche logistiche dell’industria e del sistema discografico.
Probabile vittima di riflesso di quell’opera di distruzione dell’antagonismo creato dai movimenti per i diritti degli afroamericani a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta (forse non è casuale che fosse piuttosto vicino alle istanze dei Black Panthers).

Fortunatamente è riuscito a lasciarci segni tangibili e indimenticabili della sua arte, della quale continuiamo a godere, nonostante “tutto”.
La drammatica, triste ma perfetta chiosa è di Freddie “Stone” Stewart, fratello di Sly, sempre al suo fianco fin dagli esordi, chitarrista e cantante, diventato poi il Pastore Frederick Stewart della Chiesa Evangelica di Vallejo (città di residenza degli Stewart/Family Stone), dove ancora si esibisce con chitarra e voce in salmi cantati:
“Sly sa cosa non ha fatto. Sa cosa vorremmo che avesse fatto. So che vorrebbe aver fatto di meglio. Lo sa da me e da molte altre persone. Credo che ci pensi tutto il tempo”.

3 commenti:

  1. Chuck D dei Public Enemy disse di loro : “ Sly & the Family Stone assieme ai Rolling Stones sono le due bands piú importanti della storia della musica per aver contribuito all’integrazione sociale tra Neri e Bianchi”.

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  2. Dimenticavo di aggiungere : in gran parte la band fu l’ispirazione per Prince & the Revolution, Arrested Development e sicuramente Miles Davis adottó lo stile sartoriale di Sly Stone durante Il periodo “On the Corner”.

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  3. La portata artistica e culturale di Sly Stone è ancora molto sottovalutata

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