lunedì, marzo 13, 2023

Stefano Gilardino - The Stranglers. Uomini in nero


La travagliata carriera degli Stranglers, uno dei gruppi più innovativi e personali nella storia del rock inglese, raccontata e sviscerata in mille particolari e gustosi aneddoti, con discografia commentata, spezzoni di interviste, fotografie, nella dettagliata biografia di Stefano Gilardino.

Libro assolutamente completo, scorrevole e documentato che ci ricorda la grandezza di una band troppo spesso non sufficientemente celebrata come meriterebbe.

Stefano Gilardino
The Stranglers. Uomini in nero
Tsunami Edizioni
336 pagine
25 euro


*** Traendo spunto dal libro ho riperso la storia della band ieri nelle pagine di "Libertà", quotidiano di Piacenza. ***

Qualcuno li soprannominò, con una buona dose d’ironia e sarcasmo, Punk Floyd.

In effetti gli Stranglers sono stati (sono tuttora in attività con solo uno dei membri originali, il fumantino bassista Jean Jacques Burnell) uno dei gruppi più anomali e indefinibili della scena rock e punk inglese di sempre.
Il giornalista e scrittore Stefano Gilardino ne riassume la storia, con dovizia di particolari, aneddoti, grande passione e competenza, nel libro “Stranglers. Uomini in nero”, appena uscito per Tsunami Edizioni.

Già un gruppo che in tempi non sospetti, in cui la provocazione punk ha ancora qualche anno prima di comparire sulla scena, decide di chiamarsi Stranglers, gli strangolatori, non ha prospettive che si indirizzino a orizzonti commerciali e compiacenti per il grande pubblico. Quando arriva l’ondata punk ci finiscono in mezzo e, paradossalmente, nonostante il nichilismo e l’estremismo della nuova ondata, riescono ad essere anomali e fuori luogo anche in quel contesto.

Innanzitutto il batterista ha quarant’anni, già più vecchio di Ringo Starr e Charlie Watts, una bestemmia all’interno di un mondo improntato al giovanilismo che vuole cancellare e ribaltare il “vecchiume” rock (che ai tempi era inteso per gruppi come Beatles, Stones, Who, Pink Floyd, i cui membri, nota bene, avevano da poco superato i trent’anni.
Le cose sono cambiate parecchio visto che corriamo a vedere ottantenni non più in conclamata forma, spendendo almeno metà di uno stipendio, accalcati in un pertugio da cui al massimo si vede il maxischermo).
In più sia lui, Jet Black, che il virtuoso tastierista Dave Greenfield hanno un look che è tutto fuorché punk. Barba e baffi, capelli lunghi, un’estetica che più approssimativa non si può.
Anche il chitarrista e cantante Hugh Cornwell non si distingue per gusto. L’unico è il bassista JJ Burnell, giubbotto di pelle, vestito di nero, sguardo duro, personaggio violento e poco raccomandabile, perfettamente consono all’immaginario punk. Anche la musica è lontana da quello che in quel momento, 1977, viene definito punk o new wave.
L’impeto ritmico e sonoro appartiene alla nuova ondata musicale ma le tastiere che inseguono suoni e parti melodiche care ai Doors e perfino al prog, ritmiche che talvolta si avventurano in tempi spezzati, sono l’antitesi di quanto viene strillato come “nuovo”.
E infine i testi.
Gli Stranglers non urlano slogan politici, né fanno gli arrabbiati o gli iconoclasti.

Al contrario seguono uno strano e inquietante percorso personale in cui si muovono sul filo del rasoio di misoginia (le donne dei loro testi sono trattate sempre, per usare un eufemismo, piuttosto male, anche se si difenderanno sempre sottolineando che ciò che cantano non corrisponde necessariamente a ciò che pensano ma semplicemente descrive un mondo circostante che comunque non apprezzano), violenza, complottismo, esoterismo, sesso.
Ovviamente tutto ciò non contribuisce a farne un gruppo particolarmente simpatico.
In particolare con la stampa inglese l’antipatia è subito reciproca e ingaggeranno una lotta permanente a suon di colpi bassi.

Ad aggiungere benzina al fuoco l’attitudine violenta di Burnell a cui Cornwell è ben felice di dare una mano, numerosi incidenti di percorso, arresti, concerti annullati, risse (famosi la notte in carcere e il processo alla band a Nizza per avere istigato il pubblico a distruggere un teatro, cosa puntualmente avvenuta, con l’avvertenza, rispettata, di non toccare i loro strumenti, a causa dell’impossibilità di esibirsi in condizioni adeguate, dovuta a una pessima organizzazione).

E, ciliegina sulla torta, una pericolosa predisposizione per le droghe pesanti che porterà Hugh Cornwell in carcere per parecchie settimane. Non è solo la stampa a non sopportarli ma anche buona parte dei gruppi coevi che se ne resteranno sempre a dovuta distanza.

A supportarli c’è invece un solido gruppo di fan, riuniti sotto il nome di Finchley Boys, che li seguono in ogni concerto, diventano amici e compagni di nottate interminabili e non esitano ad alzare le mani, spesso e volentieri, quando si tratta di difendere i loro paladini o semplicemente per rendere più interessanti le serate. Come talvolta accade, per lungo tempo, sono più le vicende extra artistiche a catalizzare l’attenzione sul gruppo rispetto a quelle musicali. Sbagliando, purtroppo, perché la loro produzione discografica è interessantissima e quanto di più originale si possa trovare in ambito pop rock alternativo dalla fine dei Settanta in poi, almeno per una decina di anni. In seguito la band si adagerà su schemi risaputi e non saprà più ripetere la magìa e lo stupore delle prime esaltanti prove.
I primi due album escono nel 1977, uno la continuazione dell’altro.

“Rattus Norvegicus” e “No more heroes” sono due capolavori in cui si mischiano punk, rock, psichedelia, dark, new wave e una personalità decisamente unica.
I testi sono aggressivi, disincantati, misogini, violenti. Le copertine inquietanti, il basso roboante, le tastiere acide, la capacità di conferire a ogni brano una nota minacciosa, rendono l’ascolto quasi allarmante. Anche dal vivo (visti alcune volte in Italia ai tempi) non sono certo rassicuranti e tutto il concerto rimane costantemente su un filo di tensione che lascia pensare che improvvisamente possa succedere di tutto. La band è però ambiziosa, iper produttiva, piena di (buone) idee e in breve tempo confeziona altri tre eccellenti lavori come “Black and white”, “The raven” (più sperimentale e che affronta, a modo loro, temi più “politici” e sociali) e il concept “The meninblack” (che va a rovistare tra alieni e forze occulte), spostando la musica verso orizzonti sempre più larghi e meno legati al loro classico suono ormai consolidato.

La band trova anche un look che li caratterizzerà fino ai nostri giorni ovvero il nero totale (che ovviamente porta con sé il sospetto di idee fasciste, quando invece, al contrario, la band si è sempre espressa in tutt’altra direzione).
Agli inizi degli anni Ottanta prendono una brusca direzione verso suoni più felpati, soft, elettronici, avvolgenti.

“La folie”, “Feline”, “Aural sculpture” sono tre album genericamente piuttosto simili che traghettano la band verso un mondo musicalmente meno aggressivo e più raffinato. Che porta anche il loro più grande successo commerciale con il singolo “Golden brown”che raggiunge il secondo posto delle classifiche inglesi e le vette in altri paesi. La particolarità è che il ritmo ha una cadenza di valzer ma declinato in tempi stranissimi per una canzone di successo.
A cui si aggiunge il tema del testo, evidentemente non compreso dalla maggior parte degli ascoltatori e delle radio che gli diedero ampio spazio. Come disse l’autore del testo, il cantante Hugh Cornwell:
“Il testo parla di una ragazza e di eroina. Entrambe le cose mi hanno sempre dato molto piacere”. In effetti sia Hugh che JJ sono da tempo dipendenti dalla droga più pesante, mentre gli altri del gruppo e dello staff non disdegnano altre sostanze solo apparentemente meno pericolose. Al tutto si aggiunge una situazione finanziaria piuttosto precaria che li tiene in costante bilico sull’orlo della bancarotta. Anche perché i dischi non vendono più particolarmente bene, i concerti latitano, il tentativo di approdare al pubblico statunitense viene frustrato da mancanza di interesse.

Nel 1990 Hugh Cornwell lascia la band con la quale non si ricongiungerà mai più.
Incide una quindicina di buoni album solisti senza mai riuscire a riemergere alle porte della notorietà. Gli Stranglers proseguono con una nuova formazione e vari sostituti che si alternano nel tempo ma incapaci di ripetere i fasti di un tempo, pubblicando una serie di album talvolta mediocri, altre volte più dignitosi, spesso a distanza di anni l’uno dall’altro, il più recente dei quali, “Dark matters”, del 2021 segna anche il triste addio del tastierista Dave Greenfield, stroncato dal Covid.
Il batterista Jet Black aveva appeso le bacchette al chiodo già nel 2018 e ci ha lasciati lo scorso anno all’età di 84 anni.

Il gruppo prosegue imperterrito con il solo bassista Burnel come membro originario, con concerti in cui ad attirare pubblico e fan è soprattutto la riproposizione delle vecchie hit.
Rimane intatta la stella splendente del loro talento iniziale che ne ha fatto uno dei gruppi più significativi del rock inglese.

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