giovedì, marzo 02, 2023

Mosca e San Pietroburgo. Settembre 2022



L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.


Mosca e San Pietroburgo. Settembre 2022 - Terza parte.

La prima parte qui: https://tonyface.blogspot.com/2023/02/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022.html

La seconda parte qui: https://tonyface.blogspot.com/2023/02/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022-2.html

Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss

Il tassista che mi riporta in albergo ha gli occhi a mandorla, il faccione largo e i capelli neri a spazzola. È originario del Kirgizistan, vive a Mosca da una ventina d’anni.
Prima lavorava come aiuto cuoco in un ristorante italiano.
“Da Maurizio. Lo conosci?”
“Mai sentito.”
“Anche tu hai un ristorante?”
“No, ferramenta per mobili.”
Parliamo della guerra tra il suo paese e il Tadjikistan. Nel Kirgizistan c’è un’enclave di tadjiki e adesso il governo di Dušanbe vorrebbe annettere quei territori.

Sono stato a Biškek, la capitale kirgiza, a visitare un cliente di nome Andrej Li; pare un condizionale e invece è un tizio di origine coreana.
La prima volta, cinque o sei anni fa, in pieno inverno, andavamo in giro sul Suv di Andrej, lungo le strade c’erano insegne e cartelloni con le scritte dai tratti più geometrici e regolari rispetto al cinese.
Pranzavamo in ristornati coreani e ogni volta ripeteva “Occhio che è piccante.” e questo lo sapevo perché stavo leggendo “Il vagabondo delle stelle” di Jack London.

Nei negozi e nei locali c’era un sacco di gente con gli occhi a mandorla e la pelle chiara, belle fisionomie, lineamenti dolci e così una sera, come in preda a una rivelazione fantozziana, gli domandai:
“Come mai ci sono tanti coreani qua?”
“Sono stati deportati da Stalin, nel ‘37.
Il Giappone aveva invaso la Cina. La Corea faceva parte dell’impero giapponese e in Russia vivevano centinaia di migliaia di coreani.”
“Tipo a Vladivostok?”
“Sì, principalmente nelle regioni orientali ma non solo. Stalin non è stato lì a guardare chi era giapponese, chi era cinese o coreano. Ha fatto un decreto e dall’oggi al domani ha deportato centinaia di migliaia di russi di etnia coreana.”
“Tutti qua in Kirgizistan?”

“No, in Kazakistan e in Uzbekistan, li ha spediti nel deserto. Che poi, pensa alle condizioni di allora, tutti ammassati sui treni. Sono morti a migliaia durante il viaggio.” “E tu come sei finito a Biškek?”
“Mio padre era ufficiale dell’esercito, lo hanno trasferito qua negli anni ottanta. Dopo il crollo dell’Urss molti se ne sono andati, per lo più in Russia.”
Dopo cena Andrej insisteva per portarmi al Karaoke, faceva l’occhiolino “Dai che ci rilassiamo” e la prima volta lo avevo guardato un po’ sorpreso “Ma come rilassarci? In piedi a cantare davanti a tutti…” e lui di nuovo ammiccante “Vedrai che ti piace” e mi è sempre rimasta la curiosità se fossero coreane, le cantanti.

Il giorno dopo è sabato e i mobilieri non lavorano, chiamo un taxi e vado in centro.
Attraverso ulica Tverskaja per raggiungere il museo Puškin, passo davanti al monumento di Maksim Gor’kij, lo scrittore sovietico.
Con le dita della mano destra stringe un cappello a falde larghe, il palmo appoggiato a un bastone da passeggio; il volto contratto in un’espressione altera, i baffoni spioventi, lo sguardo profondo e accigliato, la fronte alta e un piccione appollaiato sulla chioma folta.

All’ingresso della galleria c’è una discreta fila, quasi tutte donne, molto curate; non è neanche ora di pranzo e davanti a me ci sono già un cappottino lilla, un trench nero che si apre su un abito da cocktail giallo, tronchetti di pelle lucida, un chiodo rosa con le borchie, stivaletti con tacco squadrato, messe in piega voluminose e profumi intensi che restano sospesi nell’aria.

Il primo piano ospita una mostra intitolata “Sguardo tattile e percezione cieca”, dove viene affrontato il rapporto tra arte e vista, quest’ultima intesa come percezione, strumento di conoscenza e allegoria.
Un padre riassume ai figli biondissimi la funzione del vetro colorato nel corso dei secoli, due ventenni allungano le mani su una scultura sonora e ridacchiano rumorosamente, con le gengive scoperte.
Al museo come a casa, davanti alla tv o allo schermo del cellulare, milioni, miliardi di immagini scivolano lungo il nervo ottico in un flusso indistinto e si perdono per strada.
Guardare e non vedere, sapere e non capire.

Al secondo piano un po’ di impressionisti, Picasso, Monet e la cattedrale di Rouen.
Leger, il puntinismo di Paul Signac, Degas e le ballerine in blu.
C’è poca gente, sono l’unico straniero in giro per il museo, le vecchiette che controllano le sale mi seguono sospettose, la mascherina sotto il mento, lo sguardo offuscato di chi si è appena svegliato; qualcuna non se ne accorge e continua a dormire sulla sedia, le mani giunte sul ventre come se recitasse una preghiera sottovoce.

Esco a metà pomeriggio che il cielo è grigio e tira vento, zero voglia di passeggiare.
Prima di tornare in albergo prendo un’auto per la casa-museo di Vysockij (pronunciato Vysotskij), uno dei più famosi cantautori sovietici, una specie di Tom Waits con la voce ruvida, sfacciata e arrugginita da decenni di eccessi e dipendenze.

In Russia è famosissimo, la prima volta ne sentii parlare a San Pietroburgo che ero ancora studente, condividevo l’appartamento con una ragazza di Padova che stava scrivendo la tesi su Vladimir Semjonovič Vysockij; c’erano libri, cd e dvd dappertutto, il suo faccione squadrato in copertina, lo sguardo furbo, i capelli lunghetti e l’aria sfrontata da ribelle. La sua musica non mi ha mai preso, troppo rabbiosa e primitiva, però mi è sempre rimasta la voglia di conoscere meglio il personaggio e la sua storia.

La mostra è all’interno di un palazzo in mattoni, due piani di teche, memorabilia e schermi interattivi, è organizzata bene e c’è un sacco di roba, uno potrebbe passarci una giornata.
Vladimir Semjonovič era un artista completo, iniziò come attore di teatro, dove seguì dei corsi di canto e fu dietro le quinte che si mise a scrivere e a strimpellare canzoni sugli emarginati, una categoria che nell’Urss era considerata illegale, c’era un reato apposito per chi non aveva un’occupazione tradizionale, il reato di parassitismo.

Tutto si può dire di Vysockij tranne che fosse un fannullone, nel corso della sua breve vita (morì a quarantadue anni nel 1980) compose centinaia di canzoni, fu anche attore sul grande schermo con ruoli apprezzati da critica e pubblico, Pugačev il più celebre.
Tenne un’infinità di concerti in tutta l’Urss e, per quanto percepito dalle autorità come un elemento anti-sovietico, godette di un amore pressoché incondizionato da parte della gente.

L’esposizione è una capsula di oggetti di un tempo che si affaccia alla modernità: lettere scritte a mano con il pennino e l’inchiostro, i quaderni delle elementari e le correzioni con la matita rossa, libretti, tessere di qualche associazione, filmati e tante foto in bianco e nero. Diplomi e attestati compilati con l’eleganza del cirillico corsivo nella sua uniformità, nei tratti svolazzanti, senza errori o sbavature e chissà quanto ci mettevano a scrivere tutta quella roba. Falce e martello sullo sfondo in ogni pagina. Poi costumi di scena, vestiti, una bellissima giacca in tessuto bottonato grigio, indossata il giorno del secondo matrimonio, nel 1965.

C’è una parete intera piena di magnetofoni appesi, registratori a bobina che contengono buona parte delle composizioni musicali di Vysockij. Adesso ti sta tutto in tasca, qualche giga nella memoria del telefonino.
Fa un certo effetto vedere il suo soggiorno, ricostruito sulla base di alcune foto degli anni settanta. Due vetrinette, la tv in bianco e nero, un divano ad angolo e un tappeto caucasico appeso alla parete.
Qualche samovar e poco altro.

Viveva così uno degli artisti più amati dell’Urss, uno che aveva avuto la possibilità di viaggiare all’estero e di fare concerti anche a Parigi e New York, per un pubblico di emigrati, immagino. E in quel salottino così scarno e modesto riceveva attori, scrittori, cantanti, registi; passava le serate a discutere di arte e di politica e poi si metteva a cantare, a gridare con la sua voce aspra e graffiante, fradicia di vodka e annerita dal tabacco.

Esco e mi incammino verso una strada trafficata perché i taxi non arrivano in Ulitsa Vysockogo.
Gli hanno intitolato la via dove hanno istituito il museo statale nel 1992, dopo il crollo dell’Urss; finché era in vita non ha avuto nessun tipo di copertura da parte dei media sovietici, mai un’intervista sulla stampa né un concerto trasmesso in tv. A pochi passi c’è un hangar, la sezione semicircolare è alta sei metri e ospita un murale con il viso di Vysockij, la mascella decisa, il naso pronunciato, il testo di una sua canzone in dissolvenza, impercettibile in lontananza.

Fuori da un bar con le vetrate a specchio sono raccolti in cerchio dei biker con i capelli lunghi, i giubbotti con le pezze del club e gli stivali di pelle; parcheggiate sul marciapiede Guzzi, Ducati, Triumph e un paio di Harley, moto che costano come un appartamento.
Dall’altra parte della strada, a ridosso di un giardinetto, sono stravaccati su una panchina tre barboni con l’espressione confusa, vengono molestati da due quindicenni che gli ronzano attorno su un monopattino elettrico. A un paio di metri una ragazza intervista i passanti, sorride alla telecamera mentre i ragazzini scorrazzano alle sue spalle.

Altro taxi per tornare in hotel, l’autista è cordiale ma un po’ impacciato, dice che è il titolare di una palestra e fa il tassista per motivi economici, una cosa temporanea, giusto il tempo di sistemare due cose.
“Le peggiori sono le donne ubriache. Si sentono regine e ti trattano da servo. Fanno scenate, sbattono la porta e ti minacciano con le recensioni, stronze!”.

Ci sono pochissime auto con la Z, a maggio ne avevo notate di più, passiamo accanto alla statua del generale Kutuzov, quello che sconfisse Napoleone facendolo avanzare fino a Mosca per poi costringerlo durante l’inverno alla ritirata che portò alla disfatta dell’esercito francese, all’epoca il più grande al mondo.
Il militare è rappresentato in sella a un cavallo eretto sulle zampe posteriori, punta la sciabola di fronte a sé, come per comandare un attacco.

Alla sera devo beccarmi con Saša, il mio amico appassionato di musica, ci eravamo già incontrati a luglio.
Abbiamo appuntamento in un pub non distante dal mio hotel, c’è una festa mod.

Non so cosa aspettarmi ma non mi faccio grosse illusioni.
Ho fatto in tempo a godermi le sottoculture giovanili in un periodo ancora ricco di fermenti musicali e sociali, nella seconda metà degli anni ’90.
L’era del britpop, dell’acid jazz, quando in ogni città c’era almeno una discoteca che passava musica alternativa, nessuno aveva una connessione internet e per sentire un gruppo dovevi andare al concerto, poi magari ti compravi il disco, il cd o la cassetta.
Anche se non era un granché ci andavi lo stesso, ti facevi cento chilometri per una band sconosciuta, tanto sapevi che avresti trovato qualcuno del tuo giro. A Pordenone c’era una buona scena di mods e scooter boys, con i parka e i bomber pieni di toppe, le Lambrette e le Vespe senza bandine laterali, gli accessori e gli specchietti cromati. Solo nella mia provincia, che non aveva neanche sessantamila abitanti, c’erano un sacco di band, i punk e i dark si trovavano al Molo, noi alla Perseo, i Rockabilly sulle scale del Verdi e i bar erano frequentati in base alla musica suonata e al modo di vestire della clientela.
Sono passati quasi trent’anni da quando mi sono cucito la prima pezza sul giaccone verde, nel frattempo è cambiato il modo di stare assieme e di vivere la musica ma quel tipo di energia, di socialità e di attitudine un po’ snob nei confronti degli “altri”, di chi è fuori e non ha alba di cosa voglia dire farne parte, per me questa cosa non è mai cambiata, definisce in buona parte chi sono e chi frequento, ancora oggi.

Ho sempre evitato certe feste qua in Russia, perché non sapevo cosa aspettarmi, o meglio, lo sapevo e non ci tenevo ad averne conferma, e poi non più tardi di sei mesi fa un volo andata e ritorno costava tre o quattrocento euro, al venerdì ero già a casa, a riposarmi o prepararmi per andare a un party figo a Berlino, Londra, Barcellona o Rimini, a ballare la musica più bella e i dischi più rari al mondo.
Questa notte non farò l’alba e non sentirò i sette pollici più esclusivi ma va bene così, fuori inizia a fare freddo, domani devo partire per San Pietroburgo e non lo so quando mi ricapita di andare ad una festicciola da queste parti.
Sul marciapiede ci sono un paio di Vespa 50 special e un’altra più grossa, sembra un Gs dei primi anni sessanta.
La gente, più che in stile sixties, è vestita come a un matrimonio gipsy, c’è uno che ha l’anda da capoclan: cappotto di pelle nera e lucida come la crapa pelata, camicia rossa e cravatta gialla a pois, pantaloni bianchi e scarponi neri.

Se il diavolo è nei dettagli, questo è l’impero del male, il nostro esteta vuole imitare Sting in Quadrophenia ed è in buona compagnia: c’è la tipa coi capelli sfibrati e le ricrescite da Crudelia Demon, la gonna a quadrettoni bianchi e neri e la maglia con vestibilità ampia, la fantasia colorata tipo Emilio Pucci; quell’altra, che si definisce esperta di design, ha il caschetto asimmetrico, la punta di destra che le copre l’occhio, come i ragazzini emo quindici anni fa.
Faccio appena in tempo a massacrare mentalmente una minima parte dei presenti che un paio di ragazzi vengono a presentarsi. Uno si chiama Anton, l’altro Artjom, mi hanno riconosciuto, sono miei follower su Instagram.

Spiego a Artiom e Anton perché sono due anni che non posto più sul mio profilo, non ho mai smesso di vestirmi con cura, solo ho superato quel rigurgito di vanità adolescenziale.
Si aggrega al nostro gruppetto il presidente del Vespa Club di Mosca, un biondino sulla quarantina, un avvocato benestante che parla un po’ di italiano.

È venuto in Italia diverse volte in scooter da Mosca e ha girato tutto il paese sulle due ruote, da Milano a Palermo. Mai stato in Sicilia in vita mia e questo c’è arrivato dalla Russia in motoretta.
Mi mostra il modello simile al GS, parcheggiato sul marciapiede, con il fanale tondo e le bandine bombate.
È uno scooter sovietico che si chiama Vjatka, come il fiume che attraversa la regione di Kirov, negli Urali, dove era assemblata. È sostanzialmente la copia di una Vespa, più grande, ha la carrozzeria più spessa per via delle condizioni climatiche e delle strade, veniva prodotta in una fabbrica di carri armati all’inizio degli anni sessanta senza autorizzazione da parte di Piaggio.

Si inserisce un tipo vestito a caso, i pantaloni con la piega in tessuto lucido e le scarpe da ginnastica. Si chiama Pavel, è alticcio e biascica, vuole parlare con me, dice che ama l’Italia.
Sputacchia un campionario di banalità e luoghi comuni: pizza romana, pasta, espresso, Milano la più bella città del mondo. Interviene Saša: “Qua a Mosca ho mangiato la prima vera pizza, dopo le olimpiadi dell’80. Fatta da italiani, gente che era venuta con gli atleti e poi erano rimasti.”
Nessuno parla mai di guerra, Artjom prova a giustificarsi:

“All’inizio siamo rimasti sotto shock, per mesi non siamo usciti, non ci siamo trovati a ballare o a mettere i dischi.
Poi abbiamo capito che bisogna vivere, non potevamo continuare così.”


Allarga le palpebre in cerca di comprensione e continua.
“Già a marzo alcuni brand occidentali se ne sono andati, pensavano di prendersi una pausa e invece le cose sono andate per le lunghe. Adesso ci sono aziende che stanno già tornando.”
“Tipo chi?” domando incuriosito.
“Reebok, non direttamente ma col distributore turco. Una volta usciti è difficile rientrare. Avete fatto bene voi a restare.”
Ha ragione, quest’anno le vendite sono aumentate, nonostante la guerra, l’incertezza e tutte le difficoltà coi trasporti e i pagamenti siamo cresciuti di fatturato, anche grazie a quelli che hanno lasciato il paese lasciando scoperto il mercato.

Saša dice che questa situazione gli ricorda di quando faceva contrabbando di abbigliamento, verso la fine degli anni ottanta, vestiti che venivano dall’Europa e dagli Usa.
“Tutti volevano i jeans, soprattutto i Levi’s, potevi chiedere qualsiasi cifra. Per un periodo abbiamo venduto i Rica Lewis, roba vostra.
Facevano schifo ma si trovavano facilmente e noi dicevamo che erano meglio dei Levi’s, perché erano fatti in Italia.” e scoppia a ridere “Ci ho comprato una macchina con quei jeans” sottolinea soddisfatto.
“E adesso se continua così tornerai a fare contrabbando”, conclude Artjom.
Ridiamo tutti insieme, mi piacerebbe ascoltare altre storie sul mercato nero, c’è anche un bel racconto di Dovlatov ne “La Valigia”, quello in apertura, sui calzini finlandesi, ma ritorna di nuovo Pavel alla carica, sempre più ubriaco, continua a ripetere “Limancella” con tono solenne, da invasato, come se stesse celebrando un rito dionisiaco.

Entriamo nel pub a guardare il concerto di una band locale, erano abbastanza famosi all’inizio dei 2000, hanno avuto anche qualche passaggio su Mtv Russia.
Fanno cover di brani sixties, british r&b e garage, suonano bene, la gente è letteralmente in visibilio, mani alzate in aria, decine di telefonini a filmare, urletti di incoraggiamento, capelli appiccicati sulle tempie sudate. Il bassista con il caschetto da beatnick tiene il manico alto, tipo Paul McCartney, manda in frantumi una lampadina con la paletta del basso e interrompe il concerto.
“Scusate ho fatto un danno. Pago io.”
Torniamo di nuovo in strada, per fortuna mi sono vestito pesante perché fa freddo.
“Ma com’è ‘sta storia degli oligarchi che cadono dai palazzi?”, sono curioso di capire cosa ne pensano, che idea si sono fatti.
“Ci sono cose che non sappiamo.” Taglia corto Saša.
“Ho capito ma che senso ha?” insisto
“Tante cose non hanno senso e ormai nessuno si domanda il perché, capitano e basta.” chiude la questione Artjom.


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