giovedì, febbraio 23, 2023

Mosca e San Pietroburgo. Settembre 2022 #2



L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.


Mosca e San Pietroburgo. Settembre 2022 - Seconda parte.

La prima parte qui: https://tonyface.blogspot.com/2023/02/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022.html

Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss

Dopo il primo appuntamento rientriamo a Mosca, lasciamo Tatjana a una fermata della metro e carichiamo in auto Vjačeslav, un suo collega con cui andiamo a visitare un produttore di cucine, un’azienda da trecento dipendenti.
Sono più a mio agio on Vjačeslav e Rafael, posso parlare in maniera diretta.
“È possibile che dichiarino la mobilitazione?”
Sui media occidentali se ne parla da qualche settimana e se Mosca dovesse arruolare i riservisti, lo status di “operazione militare speciale” potrebbe cambiare in “stato di guerra” con tanto di chiusura delle frontiere e introduzione della legge marziale.
“Tutto è possibile. Speriamo di no.” risponde Vjačeslav, che poi è quello che dice il russo medio.

“Non ci voglio pensare”, “speriamo si sistemi tutto”, “non possiamo farci niente”.

“Ma se annunciano la mobilitazione potresti essere richiamato?”
“Se chiamano i riservisti vanno per fasi. Conta il grado militare, l’età e l’anno del congedo. Io sarei chiamato al terzo turno. Comunque è difficile che ci sia una mobilitazione.”
“Parli mai con i clienti di quello che succede?”
“In genere cerco di evitare.
Qualcuno sostiene la guerra ma quando gli domando se è pronto a partire, tentenna. Anche tra quelli fanatici, quando gli chiedo se ci manderebbe figli o nipoti, il patriottismo si ammoscia.”
“E i prezzi? Sono aumentati?”
Sì è tutto più caro! Quest’anno non abbiamo neanche fatto le ferie. In famiglia siamo in quattro, avrei pagato il doppio rispetto a gennaio. Aspettiamo, magari ci andiamo il prossimo anno.”
“Il mangiare?”
Gli alimentari sono aumentati del 20%, dove non hanno alzato i prezzi hanno rimpicciolito le confezioni.
Lo zucchero costa un sacco, l’olio di semi è raddoppiato, adesso lo usano in pochi.”
L’olio di semi, che noi lo usiamo per friggere le patatine.

L’azienda è in un’area recintata.
Solita trafila: passaporti all’ingresso e telefonate alla referente con cui abbiamo appuntamento perché confermi che è tutto ok.
Dopo qualche minuto il guardiano ci rilascia un foglietto di carta che dovrà essere firmato e timbrato prima di uscire.
È una struttura grande, recente, il capannone in buone condizioni.
Abbiamo appuntamento al quarto piano, saliamo a piedi. Nell’alzata di ogni gradino è stampata una frase motivazionale in russo, tipo “La vittoria nasce dentro noi stessi” di Henry Ford e cose del genere.
Attraversiamo corridoi male illuminati e polverosi, alla fine di uno di questi ci aspetta Marina che chiede di pazientare un attimo, entra ed esce per vari uffici, poi ci invita a seguirla.
Scendiamo di un paio di piani, ci conduce dal direttore in una sala riunioni che sembra un ufficio prototipi.
Bussolotti di compensato, pannelli sagomati, cassetti, maniglie e complementi sparsi per la stanza.
Ci accomodiamo a un tavolo lungo quattro metri, sembra quello dell’incontro tra Putin e Macron, prima della guerra. Devo presentare articoli tecnici: attaccaglie per appendere i mobili alle pareti, reggiripiani per fissare le mensole, piedini di regolazione e sistemi di apertura a spinta, il push-to-open che tanti qua chiamano push-up, come il reggiseno imbottito, e invece serve per aprire le ante senza maniglia.
Impossibile mostrare dettagli grandi come un’unghia a oltre due metri di distanza, è più facile farlo su Zoom, mi alzo e mi metto a fianco del direttore, Vadim.
Parlo con calma della facilità di montaggio e di regolazione, gli spiego la capacità di carico, sia statico che dinamico. Vadim mi guarda, all’inizio non commenta, poi annuisce, come a dire che sì, effettivamente ci sono un sacco di vantaggi e inizia ad aggredire i collaboratori, Marina e i tecnici, due panzoni con il maglioncino arrotolato sopra la pancia.
“Perché non usiamo questo?” interroga il tipo alla sua destra, mostrandogli il piedino regolatore che gli ho appena passato “È quello che cercavo, ve l’ho detto un mese fa!” parla come se fossero servi.
Marina abbassa gli occhi, uno dei due cerca di tirarsi giù la maglia con le mani, quasi volesse acchiappare l’addome che sguscia via dappertutto.
Nessuno risponde, incassano con lo sguardo fisso sul tavolo, come gli scolaretti di trent’anni fa perché adesso se alzi la voce ti prendono a sberle, ti rigano la macchina e postano il video su TikTok.
Vadim indossa un piumino smanicato sopra una t-shirt che gli lascia le braccia scoperte; mentre parla con noi si leva dal gomito le crosticine della psoriasi, le valuta brevemente e poi le lascia cadere a terra.
Vuole provare gli articoli che ho mostrato, dà disposizioni ai due tecnici perché cambino tutto.
La presentazione sta andando bene, troppo a dire il vero, perché non funziona mai così, non con le grosse aziende. Qualsiasi cambiamento tecnico, pur offrendo una serie di benefici, anche economici, richiede sempre operazioni aggiuntive.
Per prima cosa bisogna testare gli articoli, costruire i prototipi dei mobili, effettuare le forature e poi le prove. Se i campioni funzionano, vanno modificati i disegni tecnici, le codifiche in anagrafica e nelle distinte-basi, poi c’è da fare un po’ di formazione in produzione e ai montatori perché cambiano le procedure a cui erano abituati.
Se dopo un incontro un’azienda decide di inserire due componenti è già un successo, Vadim ne vuole sostituire quindici.
Andrà a finire che faranno qualche test a caso, diranno che va tutto bene ma che ci devono pensare.
E rimarranno ingolfati su questi pensieri per dei mesi, nel prossimo incontro presenterò le stesse cose e reagiranno come fosse la prima volta che le vedono. Prima di andarmene faccio leva sul cavallo di battaglia degli ultimi mesi.
“Quante aziende europee vi hanno visitato di recente?”
“Nessuna.” rispondono prontamente.
Vadim però non ci sta a far cadere la cosa e rilancia.
“È vero che in Italia ci sono tanti episodi di russofobia?”
“No, mai sentito.”
“Qua da noi mentono?”
“Dipende. In Europa del sud e in Germania non credo ci sia un sentimento ostile verso la Russia. Nell’Europa dell’est, tipo in Polonia, è più diffuso.” Chiedi a Salvini.
“È vero che da voi il gas costa tre volte tanto?”
“Sì.”
“Ci vorrebbe… come si chiama…”
“Berlusconi.” rispondo controvoglia.
“Sì Berlusconi! Ha Ha Ha” sghignazza con lo sguardo da lucignolo. “Ci vorrebbe lui, per fare il governo con la mafia siciliana.”
“Ognuno ha la sua mafia.”
Vadim sorride ma non credo abbia capito.

Rientro in albergo prima di cena e accendo la tv.
Sul primo canale c’è un talk show, il conduttore calvo che a maggio esaltava l’umanità dei soldati russi oggi indossa una maglia nera con una V bianca. Riconosce le difficoltà delle truppe di Mosca sul campo, chiede il parere di un commentatore presente in studio, un signore sulla sessantina con fisico appesantito, occhiaie e voce roca da un pacco di cicche al giorno.
Il tipo inspira, come se stesse per dire qualcosa di sgradevole ma necessario.
“Noi combattiamo con un esercito di volontari mentre l’Ucraina ha il supporto di mercenari addestrati dalla Nato e dispone di armamenti sofisticati. Già a febbraio Kiev ha mobilitato una buona parte della popolazione maschile.”
“E allora cosa possiamo fare?” lo incalza il conduttore.
“Adesso noi stiamo conducendo un’operazione militare speciale. I nostri soldati stanno lottando meglio che possono ma sono pochi rispetto al nemico. Bisogna dichiarare lo stato di guerra, almeno in quelle regioni che sono al confine con le zone del conflitto.”

Pubblicità. Dopo il telegiornale una nuova serie tv, una produzione russa su Pietro Il Grande.
Nella rubrica dello sport ignorano i risultati della Champions League, mostrano gli highlights di Lokomotiv – Krasnodar. Un giocatore sconosciuto segna un gol davanti a uno stadio quasi vuoto.

Il giorno dopo ho altre visite in programma.
Alla mattina passa a prendermi Ruslan, un venditore.
In auto chiudo gli occhi, cerco di riposare.
Fuori è come ieri: grigio, bagnato, deprimente.
Lontano dal centro, il cemento dei cantieri e dei capannoni cede al verde selvatico e al legno delle casette fatiscenti. Attorno alle ville più recenti non ci sono ringhiere o staccionate ma lastroni di lamiera ondulata conficcati nel prato, quasi sempre sfasati, come i dossi nel terreno. Sono tre giorni che non vedo il sole e avverto già i sintomi del rachitismo.
Tiro fuori il cellulare, leggo un articolo sul sito del Guardian: in crisi l’autorità di Mosca nell’Asia Centrale.
Parla della guerra tra Armenia e Azerbaijan e del conflitto tra Tadjikistan e Kirgizistan, secondo il giornalista le ex repubbliche sovietiche stanno approfittando della debolezza della Russia, troppo impegnata in Ucraina per intervenire militarmente anche in quelle zone.
Ruslan mi distrae.
“Anche in Italia dovete mettervi le cinture?”

Iphone 13 e nessuna idea di come gira il mondo.
Eppure è anche grazie a gente come lui se vendo in questo paese.

In quindici anni ho visitato centinaia di aziende in uno spazio che va da San Pietroburgo a Irkutsk, seimila chilometri e cinque fusi orari.

Spesso ho portato io la luce nel buio pesto dell’estetica e della funzionalità, mostrando articoli e offrendo soluzioni inimmaginabili con un livello di presentazione e un grado di eloquenza abbastanza rari in quei posti, in molti casi mai più eguagliati.
Ho concluso delle vendite all’istante, a caldo, in maniera istintiva ed emozionale come ormai non si usa più, perché adesso ci sono mille aspetti da esaminare e certe volte la concorrenza fa i regalini al referente degli acquisti, una vacanzetta in Turchia o qualche cena al ristorante.
Ma quando poi te ne vai, quando prendi un aereo e ti metti sulle orecchie le cuffie della Bose con il noise-cancelling per zittire le miserie della gente seduta accanto a te, quando reclini lo schienale per leggere il Mago del Cremlino, sono i Ruslan di turno che prendono la macchina, il treno o il bus e continuano a visitare le fabbriche e i garage pieni di truciolo sul pavimento, anche se fuori fa meno trenta, e si occupano di tenere la roba a magazzino, di spiegare quel poco che han capito dei tuoi training di formazione e di vendere quello che tu vendi a loro.
E certe volte tu ti focalizzi sulle cifre, i moltiplicatori di una confezione e l’economia di scala, gli aspetti tecnici da trasmettere come il diametro della punta o l’escursione della regolazione e non importa quanto impegno e passione tu ci metti in questa cosa, prima di tutto devi aprire una porticina nella testa di Ruslan, guardarci un po’ dentro e rassicurarlo che sì, anche in Italia dobbiamo mettere le cinture di sicurezza quando si va in auto.

Terminato il primo incontro, mi viene a prendere Olga per andare a un appuntamento in centro.
Ci conosciamo da diversi anni e abbiamo un po’ di confidenza.

“Negli ultimi mesi è diventato tutto più caro. Non solo il mangiare ma anche i quaderni, i libri di scuola per mia figlia.”

Alla radio L’italiano di Toto Cutugno, l’ultima volta che l’ho sentita da noi andavo ancora alle elementari. Passa un camion verde, col telone. A bordo un gruppo di soldati giovani, uno fuma sporgendosi fuori, i capelli rasati e i segni dell’acne sulle guance. Chissà dove vanno.
Le domando della guerra.
“I primi giorni ero sotto shock, non riuscivo a crederci. Paralizzata dalla paura.” scuote la testa, come fosse ancora incredula “Mio marito ha fatto l’ufficiale in artiglieria. Potrebbe partire in qualsiasi momento. Piangevo. Cercavo in ogni modo di aiutare gli ucraini.”
“Tipo?”
“Una mia amica si occupa di beneficenza, le ho dato una mano a raccogliere vestiti e giocattoli per i bambini. Poi mio marito mi ha detto: “Non puoi continuare così, la tua vita è qui, con la tua famiglia.” E un po’ alla volta mi sono abituata.”
C’è amarezza nella sua voce. Rassegnazione.
“E tuo marito?”
“Non ne abbiamo mai parlato apertamente. Non vorrebbe partire ma ha detto che se lo chiamano lui ci va. Quando tutto questo è cominciato era d’accordo, poi forse ha cambiato idea.”
Alla sera guardo il solito talk show, ascolto mentre faccio addominali, i lombari che premono sulla moquette.
Anche oggi il conduttore indossa una maglietta con la V, intervista altri esperti che criticano aspramente la sudditanza dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti.
“Bruxelles non decide niente, fa tutto quello che ordinano gli USA. Oggi le sanzioni, domani un’aggressione armata contro la Russia.”

Il giorno dopo, venerdì, lo trascorro in ufficio dal mio distributore.
Devo mostrare i nuovi prodotti ai venditori, così sanno come presentarli quando vanno in giro. In una stanzetta buia sono radunate una ventina di persone, su uno schermo appeso al muro vengono proiettati video e disegni tecnici.
È un’altra cosa rispetto a un incontro frontale perché richiede maggiore chiarezza nell’esposizione, un’impostazione diversa della voce, il tono più caldo, occorre fare pause; filmati e immagini devono partire in maniera tempestiva, coordinata, bisogna catturare l’attenzione di più teste e mantenerla viva per un’ora o poco più.
Ho iniziato una quindicina di anni fa a tenere seminari, la prima volta a Nižnyj Novgorod, davanti a duecento persone.
Una sala grande, il pavimento di piastrelle lucide, un pubblico interessato e io rimbecillito dal sonno dopo una notte in treno, non ero nemmeno riuscito a ripassarmi i testi delle presentazioni perché stavo in cuccetta con quattro persone al buio e il bambino sopra il mio letto giocava coi soldatini e faceva il rumore delle esplosioni con la bocca, neanche la madre riusciva a zittirlo.
Il giorno dopo mi ero trovato in una situazione imbarazzante, a corto di voce, le parole mi si spegnevano in bocca, tutti gli occhi puntati addosso con l’espressione di chi pensa:
“Che cazzo sta dicendo questo?”
Rimasi scottato da quell’umiliazione e per i seminari successivi mi preparai con cura, imparai a memoria la presentazione di ogni articolo e feci decine di prove davanti allo specchio.
Quando pochi mesi dopo ad Omsk, nella Siberia occidentale, fu organizzato un evento con cinque aziende, parlai per ultimo e feci il miglior speech di tutti davanti a sette persone in un teatro polveroso di epoca sovietica.

Nel corso degli anni gli strumenti si sono evoluti, oggi condivido dal mio portatile un report della fiera di Milano, il focus sui nuovi trend.
Le basi sospese che permettono di giocare con i volumi, la popolarità delle tinte pastello, l’importanza dell’illuminazione all’interno delle vetrine e il design pulito delle ante senza maniglie.
Qualcuno sonnecchia, altri fanno domande impossibili.
No, la reggimensola Star non è disponibile in verde e non si può produrre in dieci paia.
Siamo un’industria, non un’officina.
In pausa pranzo esco a fare due passi con Lëša, uno dei product manager. Studia il mercato, la concorrenza, raccoglie tutte le informazioni tecniche sugli articoli che poi finiscono a catalogo, risponde alle domande dei venditori.
È un ragazzo simpatico, attacca sempre allo stesso modo.
“Ciao, como estai?”.
Facciamo il giro del quartiere, abbottono il trench perché tira aria.
“Senti ma in tv è da un paio di sere che parlano dello stato di guerra. Tu come la vedi?”
“Non ci voglio neanche pensare. Con gli amici, quando tutto è iniziato, ci si trovava e non riuscivamo a discutere d’altro. Poi abbiamo fatto un patto, abbiamo smesso di parlarne.” articola tutte le sillabe lentamente, in maniera netta, per rendere meglio il concetto, come quando spieghi le cose ai bambini. Poi però cambia tono e accelera, dubbioso “Ma dov’è che l’hai sentita ‘sta cosa? Da voi?”
“No, qua, sul primo canale, a ora di cena.”
Scoppia in una risata potente, sollevato.
“Lascia stare la tv! Da noi in ufficio non la guarda nessuno, chiedi a Slava.”
Slava è il suo capo, il ragazzo di origine bielorussa con cui lavoro da quindici anni.
All’inizio andavamo insieme a fare i seminari in giro per la Russia. Slava si metteva con le mani congiunte davanti al pacco come certi buttafuori e quando era il suo turno recitava la parte a duecento all’ora, senza respirare. Poi ha imparato a inalare dal naso e forse anche per questo è diventato capo dell’ufficio dove era entrato come stagista.
Costeggiamo un palazzo con la facciata ricoperta di piastrelle marroncine, il perimetro delimitato da un nastro bianco e rosso perché i passanti non camminino sotto il tetto.
“Occhio che ci casca in testa un oligarca.” dico scherzando.
Lëša ride, ma in maniera meno convinta rispetto a prima.
“Hai visto che la scorsa settimana è caduto dal settimo piano un dirigente di Lukoil?”
“No” risponde serio “è la prima volta che lo sento. Ma sei sicuro?”
“Sì, sì, era su tutti i giornali.”
Inarca le sopracciglia e piega la bocca verso il basso, incredulo.
Rientrati in ufficio, Slava invita i colleghi e le ragazze degli acquisti a disporsi attorno alla scrivania di Andrej, un collaboratore che oggi compie gli anni.
Sono tutti radunati in piedi, aspettano che Slava prenda la parola. Il capo si sistema il bavero della giacca, raddrizza la schiena e parla con tono formale. Tiene ancora le mani raccolte davanti al pacco.
“In questo giorno importante, Andrej, a nome mio e dei colleghi, ti auguro che tutti i tuoi sogni si avverino. Sei un professionista, è un piacere lavorare con te e ti meriti tutto ciò che desideri.”
Andrej è rosso in faccia, non si aspettava queste parole, anche se in Russia si usa così, per gli auguri di compleanno fanno sempre il discorsetto. Si alza in piedi per rispondere.
“Grazie, grazie di cuore. Per me è un onore lavorare con voi.” borbotta commosso, gli occhi lucidi.

A fine giornata prenoto un taxi, Slava mi accompagna alla porta e facciamo due chiacchiere.
“Uhh non vedo l’ora di venire in Italia per la fiera, a ottobre. Sono tre anni che aspetto.”
“Prima il covid, adesso la guerra. Speriamo che non chiudano tutto.”
“Se l’occidente smette di mandare armi la guerra finisce in due mesi.”
Lo guardo senza rispondere, gli occhi allargati e la fronte increspata. Slava si scalda.
“Quante armi ha mandato l’America? Da quanti anni si preparava l’Ucraina? Sai che io non sono per la guerra ma magari è vero che se non fossimo intervenuti…”
“Dai Slava! Il secondo esercito del mondo non ha fatto errori? È arrivato con le truppe preparate, gli armamenti a posto?”

È un classico in Russia, quando c’è un problema è difficile che qualcuno dica “ho sbagliato”, “è colpa mia”, “sono un cazzone”. Nessuno si prende la responsabilità, parte lo scaricabarile secondo la struttura verticistica, dall’alto verso il basso, e quando si arriva all’ultimo anello della catena si passa al metafisico: “chi lo avrebbe immaginato?”, “non è mai successo”, “non possiamo farci niente”.

“Cosa succede se dichiarano lo stato di guerra?”
“Non ci voglio pensare.”
“Chiudono i confini?”
“Te lo ripeto, non ci voglio pensare. Perché tanto né io né tu possiamo farci niente e se dichiarano lo stato di guerra cambia tutto. Non staremo più qua a parlare di vendite, meno venti, più trenta percento, novità, trasporti, pagamenti, crisi. Cambia tutto. Ci sarà un prima e un dopo e a quel dopo non ci voglio pensare.”
“E gli oligarchi che cadono dai palazzi?”
Mi guarda sorpreso, come se parlassi degli ufo.
“È la prima volta che lo sento.”

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