lunedì, ottobre 24, 2022
U.Net - Original London Style
Il 6 dicembre 1982 il videoclip di "Buffalo Gal"s di Malcolm McLaren, trasmesso a "Top of the Pop", sconvolge la scena musicale e sottoculturale inglese.
L' HIP HOP irrompe in Inghilterra e cambia le coordinate sonore, (sotto) culturali e artistiche di migliaia di giovani, soprattutto in quella che è la Black British Culture.
il libro di U.NET approfondisce in modo capillare l'arrivo e l'evoluzione della nuova tendenza in Inghilterra, con testimonianze dirette dei protagonisti, le contaminazioni e l'importanza dei sound systems del giro reggae.
Pubblicazione interessantissima, basilare, indispensabile per comprendere certi passaggi e peculiarità di come si è mossa la black culture in Gran Bretagna.
U.Net
Original London Style
Agebzia X Edizioni
200 pagine
15 euro
Dalla lettura del libro ho ricavato un articolo per "Libertà" pubblicato ieri.
La storia ci insegna che ci sono date iconiche che determinano inellutabilmente un “prima” e un “dopo”. Anche nella storia della musica rock.
Quando nel 1955 il brano “Rock around the clock” finì nel film “Il seme della violenza”, il neonato rock 'n' roll sconvolse menti e costumi di migliaia di giovani americani.
Gli stessi che dopo aver visto in TV i Beatles nel febbraio 1964 all'Ed Sullivan Show, decisero di impugnare uno strumento, allungarsi i capelli e cambiare visione della vita.
Accadde anche quando i Sex Pistols fecero i primi concerti in Inghilterra e il giorno in cui Michael Pergolani portò per la prima volta il punk alla televisione italiana con un servizio da Londra per “Odeon”, trasmissione condotta da Renzo Arbore, che illuminò la strada per centinaia di adolescenti, ignari di quello che accadeva in Inghilterra.
Ai nostri giorni, sommersi da infodemia e bulimìa di immagini, articoli, stimoli (sempre più improntati al ribasso culturale e artistico), situazioni come le sopracitate sono ormai obsolete e difficilmente di nuovo realizzabili.
Ma non disperiamo, l'attesa di una nuova ondata artistica che spazzi via il vecchio e rinnovi menti e spiriti, chiudendo negli armadi della storia suoni e usanze a cui continuiamo nostalgicamente ad essere attaccati, non è mai vana.
Personalmente non solo la auspico ma la cerco in continuazione con impazienza, per ritrovare quell'eccitazione che provarono migliaia di ragazzi e ragazze inglesi il 6 dicembre del 1982.
Quel giorno la trasmissione musicale più seguita dai giovani, “Top of the pops”, mandò in onda un video di una vecchia volpe della scena musicale.
Quel Malcolm McLaren, che, da sapiente manager, aveva preso e plasmato i Sex Pistols facendoli diventare un gruppo di fama mondiale, si dedicava ora a una carriera musicale come compositore e cantante.
Visionario e con uno sguardo sempre all'avanguardia, scoprì che a New York, nelle comunità nere, era esploso quello che conosceremo di lì a poco com il nome di rap e hip hop.
Musica e immagini che portò nel video e nel brano “Buffalo Gals”.
Scrive U.Net nel libro appena pubblicato dalla casa editrice Agenzia X, “Original London Style”:
“ Fu come se quel video avesse scoperto un vaso di Pandora e tutta la cultura di strada del Bronx si fosse riversata sul suolo britannico. Quei giovani non solo avevano scoperto nuove pratiche di strada, ora potevano osservarle e imitarle. In quel video c'era tutto: rap, scratching, graffiti colorati e il più sorprendente degli stili di danza. C'era un ballerino che ruotava su se stesso, poggiandosi solo sulla testa. Se al telegiornale avessero trasmesso un ipotetico sbarco marziano probabilmente quei giovani sarebbero stati meno sbalorditi”.
Nasceva una nuova tendenza che fu abbracciata immediatamente, in particolare dalla comunità nera.
Quella arrivata dalle West Indies (le ex colonie britanniche dell'America Centrale, Giamaica in particolare).
Continua U.Net:
“Il razzismo fu una sorpresa per la popolazione caraibica che era stata educata a considerare la Gran Bretagna come la gloriosa Madrepatria. Tuttavia, sin dal loro arrivo, furono indirizzati verso lavori a bassa retribuzione con condizioni precarie e oggetto di ricatti discriminatori; per esempio venivano sistemati in alloggi fatiscenti e relegati a un sistema scolastico scadente.
Con loro grande sorpresa una “barriera di colore” venne eretta tra i neri e il resto della società britannica. “C'era questo forte senso dell'impero, eravamo tutti inglesi. Per la generazione dei miei genitori scoprire che non erano veramente britannici fu davvero un shock. Erano solo dei neri” racconta un figlio di immigrati giamaicani.
Ma questa prima generazione sopportò con stoicismo privazioni ed emarginazione, con la prospettiva di tornare prima o poi a casa, con qualche soldo in più in tasca, dopo una dura parentesi oltreoceano.
Le cose cambiarono invece drasticamente per i figli e i nipoti, nati in Inghilterra, cresciuti nella società britannica e che non erano mai stati in Giamaica, per loro un paese lontano e straniero, di cui non conoscevano usanze e nemmeno lingua (il patois), se non attraverso i racconti dei genitori e dei nonni.
Incomincia a formarsi quella che viene definita “Black British Culture”.
Anche attraverso la musica.
Non più solo e unicamente reggae, ska e calypso, la musica di riferimento in Giamaica ma una rielaborazione, un'attualizzazione dei generi, mischiandoli con quanto arrivava e accadeva dove erano nati. Si viene a determinare il passaggio da una generazione che aveva riprodotto la cultura caraibica, a una nuova che intendeva lasciare il proprio segno, “da una presenza afrocaraibica in Gran Bretagna all'emergere di una cultura britannica nera”.
Per quei giovani era più facile identificarsi con Londra piuttosto che con la Giamaica.
E' in questo momento che incomincia a svilupparsi un'identità originale.
Dice ancora U.Net nel libro:
“Negli anni Settanta non si sentivano più fuori luogo, in difetto perché né caraibici né inglesi, così era nata una generazione diversa dalle precedenti. Proprio per questo la musica, la poesia, la letteratura e il linguaggio utilizzato raccontavano questa esperienza collettiva, tra trasformazione, ansia sfida e speranza. La loro politica si esprimeva attraverso la musica, o forse la stessa musica era diventata un veicolo della loro opinione politica”.
Fino a quel momento le comunità caraibiche vivevano nei propri quartieri, preservando le proprie radici e non interagendo con il resto dell'Inghilterra bianca.
I giovani nati sul suolo britannico furono costretti a relazionarsi con un'altra dimensione, diventandone parte e cambiandola.
Iniziò il punk a condividere sonorità reggae (vedi i Clash), proseguì la scena ska di Specials, Madness, Selecter, The Beat a prendere le radici giamaicane e a mischiarle con l'energia della new wave, creando i primi gruppi interrazziali, fino ad allora rarissimi in Gran Bretagna, arrivarono poi funk e soul e alla fine il rap e l'hip hop.
Anche la scena reggae inglese, fino ad allora impermeabile ai cambiamenti si aprì, dapprima al soul e al funk (la scena “Lover's Rock”) e poi sempre più ad altre contaminazioni, vedi in particolare gli elementi di elettronica, di jazz, rock, lo stesso hip hop che stanno creando musiche sempre più nuove e stimolanti.
Alla base ci furono le feste intorno ai sound system (definiti come “una specie di discoteca itinerante”), impianti voce attorno a cui valenti DJ proponevano le musiche più nuove ed eccitanti, richiamando tutta la scena giovanile di colore.
Dice uno dei protagonisti, Jazzie B
“L'importanza del sound system andava molto al di là del semplice intrattenimento musicale, erano la nostra connessione con gli altri immigrati dei Caraibi. Era un rifugio da tutto ciò che accadeva durante la settimana di duro lavoro, dove potevi stare e incontrare persone che la pensavano come te. Per l'operatore i sound system erano un'opportunità di lavoro, una sorta di mix tra musica, affari e vita, ma soprattutto erano qualcosa su cui potevano avere totale controllo e autonomia dai bianchi”.
Ribadisce Simon Jones:
“Ebbero un ruolo fondamentale per la comunità nera fornendo l'accompagnamento musicale a tutta una serie di eventi sociali come feste di compleanno, matrimoni, ricevimenti. Furono il collante sociale della comunità nera e in pochi anni divennero importanti quanto la chiesa. Tutti i luoghi dove apparivano si trasformavano in spazi di solidarietà, di festa, di gioia. Un'enclave di resistenza sempre sulla difensiva, poiché a partire dagli anni Cinquanta fino ad oggi, questi spazi sono sempre stati oggetto di particolare repressione della polizia. Politicamente stiamo parlando di una sfera pubblica alternativa che si è evoluta, alimentando la coscienza politica dei giovani neri di diverse generazioni”.
Da pari nostro, in Italia, stiamo assistendo a modalità molto simili di tentativi di integrazione e relativa emarginazione di chi è arrivato da lontano alla ricerca di pace, di una fonte di lavoro, di una ricostruzione della propria vita.
E che ha concepito giovani, nati qui, italiani a tutti gli effetti (nonostante leggi disumane e stupide che con cavilli assurdi continuino a cercare di impedirlo).
Sarebbe bello, naturale, umano imparare qualcosa da queste storie.
Ma, purtroppo, personalmente, non ci conto. L'epoca è buia e di luci in fondo al tunnel per queste nostre sorelle e nostri fratelli (oltre che per noi stessi) non se intravedono, al momento.
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