giovedì, dicembre 01, 2022

Russia. Giugno e Luglio 2022 #2 - San Pietroburgo / Saratov


L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.


La prima parte del viaggio di giugno e luglio è qui: https://tonyface.blogspot.com/2022/11/russia-giugno-e-luglio-2022-1.html

Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss

Attraverso la parte nord della città in taxi per raggiungere l’aeroporto Puškin di Šeremetevo, il più grande di tutta la Russia e fino a febbraio il più trafficato.
Adesso è rimasto aperto solo il Terminal B, per i voli interni. È domenica mattina e c’è un sacco di gente, famiglie e giovani con il cuscino gonfiabile al collo, pronti per le vacanze.

Il volo per San Pietroburgo dura poco più di un’ora, il cielo è limpido e durante il tragitto guardo fuori dal finestrino.
In basso una distesa verde, variegata da macchie marroncine e da specchi d’acqua. Ogni tanto, in corrispondenza di linee che si intersecano, spunta un agglomerato urbano che sembra un mucchietto di sassolini buttati in mezzo a un prato.
Quando atterriamo, la hostess ricorda che San Pietroburgo è un gorod-geroj, città eroina. Si tratta di un’onorificenza ricevuta nel 1945, quando era ancora Leningrado, per la resistenza opposta dalla popolazione all’assedio delle truppe naziste, durato novecento giorni, nel corso della seconda guerra mondiale. In tutto sono dodici le città dell’ex Urss a cui è stato conferito questo titolo.

Nella zona degli arrivi, il ristorante Mc Donalds è stato già ribattezzato Vkusno i Točka, buono e basta.
Il vecchio logo fasciato in una pellicola semi trasparente, allusiva come una canottiera traforata su un busto muscoloso. Non è un effetto voluto, non sono riusciti a far di meglio.

Monto su un taxi, al volante un autista di origine azerbaijana.
Vagif ha poco più di cinquant’anni, è scuro e secco come quei siciliani dei film neorealisti con le guance scavate dalla fame del dopoguerra. È venuto a fare il militare che era ancora Leningrado, poi è rimasto e adesso sono più di trent’anni che abita qua.
Dice che negli ultimi mesi è diventato tutto più caro.
Cibo, benzina, i prezzi sono fuori per fuori.
Per l’effetto delle sanzioni, le automobili adesso costano il triplo, se le trovi. Per non parlare dei pezzi di ricambio: pneumatici e componenti meccanici arrivano a cinque volte tanto.

È difficile trovare lavoro, gli stipendi sono bassi, in giro c’è meno gente. Gli stranieri sono spariti.

Si lamenta debolmente, lo specchietto retrovisore riflette la fronte corrugata e gli occhi neri incavati nelle orbite.
In sottofondo Radio Retro Fm trasmette Sunny, nella versione dei Boney M. Sorrido mentre le disgrazie di Vagif scivolano sugli arrangiamenti sintetici degli archi e i riff percussivi della chitarra mi riportano in un ristorante georgiano di Mosca nel novembre del 2010.

Per raggiungere l’area fumatori, passo davanti a una saletta riservata, la porta aperta.
Le luci evidenziano le silhouette di un gruppo di ragazze alte coi capelli lunghi e biondi che cascano sul top bianco della tuta da ginnastica. Ballano senza grande entusiasmo.
Vicino all’ingresso, Bobby Farrell, il cantante dei Boney M, si dimena col microfono in mano davanti a un laptop da cui fa partire le basi. Indossa anche lui una tuta ma si distingue per l’elmetto nuvoloso di capelli neri e lucidi come la crema da scarpe e per quel mezzo metro di dislivello che lo penalizza rispetto alle giocatrici della squadra russa di pallavolo, fresche vincitrici dei campionati mondiali di Tokyo. Il povero Bobby morirà di infarto qualche settimana dopo, il 30 dicembre, in un hotel di San Pietroburgo. Stessa città e stessa data in cui è stato assassinato il santone Rasputin, che dà il titolo a una delle hit più famose dei Boney M. “Ra-Ra-Rasputin Russia’s greatest love machine” Chissà se quella sera al ristorante georgiano l’ha ballata saltando come un cosacco.


San Pietroburgo, che qua viene affettuosamente chiamata Piter, è la seconda città più grande della Russia ma è più compatta rispetto a Mosca, coi suoi cinque milioni di abitanti ospita meno della metà della popolazione della capitale.
I runner in centro consegnano il cibo a piedi, il frigo parallelepipedo sorretto dalle bretelle sulle spalle. Nei palazzi più vecchi, il piano terra è quasi interrato.
“Come mai le finestre e le porte sono sotto al livello del marciapiedi?”
“E chi lo sa!” alza le spalle Vagif.

È una giornata solare.
Il cielo azzurro come i canali che attraversano la città. Deposito le mie cose in albergo ed esco subito per visitare il Russkij Muzej, che ospita una delle principali collezioni di arte russa, dalle icone del secolo XII all’underground della seconda metà del novecento.
Come per i selfie ai giorni nostri, la funzione del ritratto nel passato era quella di definire lo status del soggetto raffigurato e trasmetterlo all’osservatore.
Certi quadri sono testimonianze di stili di vita di epoche lontane, conservano una serie di particolari del comportamento e del costume che sono fondamentali per capire la società di quel tempo.
Nella seconda metà del 1700, la nobiltà russa vestiva secondo la moda francese, le donne con il petto scoperto, gli uomini indossavano i pantaloni sopra al ginocchio, le scarpe argentate con i tacchi rossi, almeno due secoli prima di David Bowie.
Il popolo disprezzava questo stile eclatante, lo riteneva scandaloso e lontano dai costumi nazionali che fino all’avvento di Pietro Il Grande erano rimasti sostanzialmente indistinti tra nobili e gente comune.
È con il romanticismo, agli inizi dell’800, che ritornano abiti più sobri tra la nobiltà russa, tuniche accollate, sparisce il trucco. Si afferma la sensibilità per la natura con l’ambientazione dei ritratti che si sposta all’aperto, dalle sale dei palazzi ai boschi e ai giardini.

Esco dalla succursale del Russkij Muzej, lungo il canale Griboedov, che è quasi ora di cena e il sole è ancora altissimo.
La gente per strada è euforica, eccitata dalla luce e dal caldo, signore di mezza età in prendisole, turisti in pantaloncini, curvi sui telefonini, famiglie che si mangiano un gelato
. Sorridono, scherzano, i volti rilassati.
Attraverso un parco curatissimo, con l’erba e le foglie di quel verde intenso che vedi nella pubblicità dell’aloe o di certe varietà di tè antiossidante.
E quelli che incrocio sono tutti belli, i ragazzi muscolosi, tatuati, con l’anda rilassata di chi è a passeggio con la ragazza più bella della città, in vestitino, canottiera, minigonna. Lembi e porzioni di tessuto che cadono senza pieghe su silhouette armoniose.
Cosce toniche, polpacci luminosi, capelli lunghi e lucidi e quei sorrisi appagati, efelidi sulle guance e denti bianchissimi, chissà che dentifricio usano e che miracolo questa luce calda che accende l’azzurro del cielo e dei canali e infiamma sguardi appena rivelati da lenti scure appoggiate su quei nasini arrossati.
E siamo solo alla fine di giugno, c’è ancora tempo per un paio di mesi di questa magia, la vita è bella, la guerra è lontana, non ci pensiamo. Tanto non possiamo farci niente.

Sono in piedi dalle quattro della mattina, è ora di tornare in albergo che domani si lavora, costeggio il canale Griboedov per raggiungere il Nevskij Prospekt e c’è una folla sul marciapiede che sborda anche lungo la strada, fanno capannello attorno a un gruppo di quattro ragazzi.
Canottiere, cappellini, lenti a specchio e tatuaggi sui muscoli abbronzati. Accanto al batterista un generatore ronza come un trattore ma nessuno sembra farci caso.
I musicisti pestano come fosse il concerto della vita e forse è così.
Suonano un rock metallico, il crossover anni ’90 delle band di ragazzini bianchi con le camicie a quadri e i dreadlock.
La gente applaude convinta, la maggior parte riprende l’esibizione col telefonino, come fosse una cosa da rivedere o da condividere con gli amici.
Una signora con i capelli corti decolorati si mastica le gengive dondolando avanti e indietro, il collo teso come una tartaruga, il viso rivolto verso il marciapiede, gli occhi chiusi, persa nell’attimo. Indossa un prendisole svarechinato, souvenir di qualche rave del secolo scorso.
Il cantante grida in russo con una voce roca. Non capisco una parola.
Fanno davvero schifo, mi provocano disagio per il genere musicale, il suono, la situazione e l’attitudine cazzona ma sono l’unico ragioniere contabile delle emozioni che non si gode il momento e prende appunti sul cellulare con il sopracciglio alzato.
Intorno a me sono tutti contenti, ondeggiano con il mento seguendo il ritmo sgangherato della canzone.
Attraverso la calca e finisco in bocca alla fermata della metro Nevskij Prospekt, dalle porte girevoli esce un odore di strada, sottosuolo, umidità, sudore, aglio, metallo e gomma esausta.
Non è cambiato negli ultimi ventidue anni e basta una zaffata di questa madeleine nauseante per riportarmi all’agosto del 2000, quando due sbirri, in questo punto esatto, mi chiesero i documenti ridacchiando in modo un po’ inquietante
. Presentai una fotocopia del passaporto, all’epoca era consigliato, girava voce che ti potessero trattenere il documento e estorcerti dei soldi per ridartelo.
“Aha, Italia. Squada Azzurri!” avevano commentato prima di ritornarmi il foglietto stropicciato.

Rispetto a venti anni fa sono rimasti i banchetti con i quadri, gli acquerelli dei paesaggi, i ritratti a carboncino di Brad Pitt e Viktor Coj (pronunciato Tsoj), il Sid Vicious sovietico, frontman del gruppo Kino, morto nel 1990 in un incidente d’auto.
Sulle colonne sono appesi poster di gruppi o cantanti russi, pochi volti giovani, per la maggior parte si tratta di vecchie glorie dell’Urss.
Gli artisti stranieri hanno cancellato concerti e tournée già da fine febbraio.

Il giorno dopo ho un appuntamento presso un rivenditore nella parte nord della città.
Dal finestrino del taxi osservo i palazzi in centro, il mix di stili. Alcuni hanno le facciate definite dalle colonne e il capitello in stile corinzio, con le foglie d’acanto.
Altre hanno i bassorilievi di putti seminudi e gli stemmi nobiliari, le strutture piramidali sopra alcune finestre e le teste degli angioletti che fanno capolino al centro, gli allori scolpiti, le statue neoclassiche e le cornici con motivi floreali o geometrici, decorazioni iper-dettagliate che hanno più di trecento anni, intervallate da interventi più recenti.
Alcuni interessanti, in armonia con le costruzioni adiacenti, altri severi e pesanti, probabilmente di epoca sovietica. Non tutti sono conservati, mostrano l’usura del tempo, i cornicioni scrostati, i volti delle sculture levigati. Il giallo, l’ocra e senape delle pareti sono sbiaditi o ingrigiti dallo smog e dagli inverni interminabili.

Costeggiando il fiume Neva, è evidente l’ordine e la cura delle proporzioni dei palazzi lungo gli argini, il più alto ha cinque piani, qualche camino in cotto, residuo delle officine dell’ottocento, per il resto edifici restaurati.
L’armonia ogni tanto è interrotta da condomini pacchiani, le facciate spezzettate in quadratini a specchio.
Hanno vent’anni e sono già più datati delle dimore del settecento.

Lasciamo sulla sinistra il Leningradskij Metalličeskij Zavod, un sito metallurgico in mattoni rossi, sviluppato in orizzontale, con le ciminiere che sembrano fatte di Lego.
La fabbrica è stata costruita oltre centocinquanta anni fa ed è ancora attiva.
Sulla riva opposta della Neva c’è lo Smol’nyj Sobor, la Cattedrale della Resurrezione in stile barocco, del 1745, le mura bianche e azzurre e le cupole dorate brillano al sole di una lucentezza vibrante, come capocchie di fiammiferi. In mezzo, sospeso sull’acqua, il ponte Bol’šeochtinskij di inizio 1900, metallo e rivetti per tre campate, quella centrale si solleva per far passare le navi di notte.
Poco dopo, grattacieli ultramoderni, in acciaio e vetro, una manciata dal design tradizionale, al centro una torre che si avvolge in un’elissi.
In poche centinaia di metri tre epoche convivono e dialogano, si specchiano nell’acqua.
Capita anche altrove ma qua è tutto di proporzioni imponenti, estreme, pervaso di imperialismo, comunismo e iper liberismo in uno sviluppo così accelerato da togliere il fiato.

Lasciamo il centro alle nostre spalle, entriamo in uno scenario urbano di stampo sovietico popolato da palazzoni tassellati e un po’ sgarrupati, casermoni che erano già vecchi e deprimenti appena inaugurati, quarant’anni fa.
Più avanti compaiono nuovi cantieri, costruzioni enormi che ospiteranno migliaia di nuovi abitanti che giungeranno in città dalla campagna o da altre regioni in cerca di fortuna, di lavoro o di uno stipendio più alto.

Ai lati delle strade, cartelloni con i volti di militari e la scritta “Slava Gerojam Rossij”, gloria agli eroi della Russia.
Visi giovani, espressioni severe, i capelli corti e una maglietta a righe bianche e celesti o una giacca grigia con i bottoni d’oro. Non si tratta di soldati morti ma di militari che hanno compiuto qualche gesto particolare, di solito hanno salvato la vita ai commilitoni sul campo di battaglia. È un utilizzo speculare e opposto del concetto di eroismo rispetto a quello che ne fanno gli ucraini.
Durante le proteste di Piazza Maidan, nel febbraio 2014, sono morte oltre cento persone. Quei morti sono tutt’ora considerati eroi e nello slogan nazionalista viene resa “Gloria Agli Eroi”, cioè ai morti. In Russia hanno ribaltato la narrativa, nel tentativo di creare una figura virtuosa, un paladino da emulare ancora in vita.

Dai clienti si parla di mercato, con l’inizio dell’estate il settore del mobile subisce sempre un calo ma nel complesso continuano a ricevere ordini, nessuno si lamenta.
“Quando tutto questo è incominciato…” mi dice la ragazza degli acquisti stropicciandosi le dita ossute. Febbraio è lontanissimo, si fa riferimento alla guerra solo per la difficoltà nel reperire alcuni componenti.

Per cena ho appuntamento con Igor’, un amico di San Pietroburgo che ho conosciuto grazie alla passione comune per la black music.
Prima della pandemia ci siamo incontrati diverse volte a soul weekender e allnighter in Germania, in Italia e in Russia.
Appena scoppiata la guerra, Igor’ mi ha scritto, quasi per giustificarsi.

“È una tragedia e il peggio è che non possiamo fare niente, se ti beccano a protestare c’è il rischio che ti spediscano al fronte.”

Igor’ ha trentacinque anni, vive coi suoi genitori ed è single.
È un ragazzo simpatico, ci troviamo spesso a ridere insieme. Ha invitato una sua amica, Anastasja, che è originaria di Ekaterinburg, negli Urali. Hanno entrambi lavori ben pagati che fino a poco tempo fa permettevano loro di viaggiare in Europa regolarmente. Ci troviamo in una zona particolare del centro, un’isola artificiale e di forma triangolare di inizio 1700, si chiama Novaja Gollandja.

Entriamo in una struttura circolare di mattoni rossi, soprannominata butylka, bottiglia.
Nel diciannovesimo secolo era una prigione per marinai, da qui l’espressione “Ne lez’ v butylku”, “Stai fuori dalla bottiglia”.
Al centro, un palco a cielo aperto su cui fanno le prove dei gruppi locali. All’interno della struttura negozi e ristornati etnici. Dopo mezz’ora di passeggiata ci accordiamo per la cucina indiana, i nostri curry dai sapori bilanciati vengono serviti da un ragazzone russo. Anastasja è simpatica, abbiamo diversi amici in comune che abitano in Inghilterra, chiacchieriamo di tutto ma ogni volta che faccio riferimento alla “situazione” fa una smorfia con la bocca e si ferma. Non dice una parola.
Igor’ mi guarda, sorride ma non commenta.
Nel cortile centrale le band hanno preso a suonare, c’è una jam session di ragazzi sotto la trentina che fanno jazz con gusto ed eleganza, il chitarrista perso nei fraseggi della Gibson ES 355 cui fa da contrappunto il suono ipnotico della tastiera Fender Rhodes. Una ragazza coi cappelli a caschetto tinti di rosa, la frangetta che esce da un basco della Kangool, canta con una voce dolcissima, segue il ritmo con la mano sinistra, come per bilanciarsi tra i cambi di tempo mentre con la destra regge un Iphone per leggere le parole. Jazz, strumenti musicali d’importazione, cantato in inglese, accessori e vestiti occidentali al centro di una vecchia prigione gentrificata, piena di famigliole e di fighetti che bevono birre artigianali. Nessuno sembra cercare una via di fuga.

Camminiamo lungo i canali, gli altoparlanti di una barca informano i turisti che sono nell’unico punto da cui si possono vedere sette ponti.
La città è piena di visitatori, ad ogni angolo ti offrono una ekskursja, un tour guidato a piedi, in barca o in autobus.
Volendo, sui muri sono incollati volantini per visite sui tetti di San Pietroburgo, che sono illegali. Ci fermiamo davanti al Palazzo di Inverno e chiamiamo un taxi.
Sono quasi le dieci e ancora il sole è alto, caldo.
La gente cammina rilassata, ogni tanto qualche sgasata di una marmitta modificata, l’acqua della Neva frastagliata di giallo e arancio.
Accanto a noi un signore con l’addome pronunciato soffia le sue emozioni dentro un sax di ottone ossidato, la melodia di I Will Survive di Gloria Gaynor lucida e allusiva sopra la base registrata che esce da una cassa nera. Igor’ esplode nella risata di una cantante lirica o di una zia affettuosa. “Cancella la prenotazione del taxi. Restiamo qua tutta la sera.”

Arrivato in albergo, mi arriva un sms mentre sistemo i vestiti in valigia. Turkish Airlines.
Il mio volo di rientro da Mosca per Istanbul, previsto tra quattro giorni, è stato posticipato di quasi un’ora. Difficile prendere la coincidenza per Venezia. Chiamo il call center della compagnia, mi risponde una signorina che parla un inglese metallico, spezzettato con la scimitarra. Non ce la farò mai a prendere l’aereo per Venezia, il primo posto disponibile è alla fine della settimana seguente.
Dovevo rientrare venerdì e mi tocca stare in Russia fino al giovedì successivo. Mai successa una cosa del genere in venti anni di viaggi all’estero.

2022, un biglietto costa come due stipendi medi e tocca muoversi con le incertezze di tre secoli fa.

Anticiperò gli incontri coi clienti programmati per fine luglio e ne approfitterò per visitare qualche museo a Mosca nel weekend.
Rientrato nella capitale, prendo un taxi per andare a un appuntamento.
L’autista Ivan ha la fisionomia da russo: mascella squadrata, labbra carnose e occhi incassati sotto la fronte ampia. Capelli a caschetto un po’ unticci, pettinati in avanti.
“Come va il lavoro?”
“Benissimo, d’estate c’è sempre un sacco di gente in giro.”
“Anche senza stranieri?”
“Non abbiamo bisogno degli stranieri. Guarda quante macchine per la strada. Prendi Mosca, quanta gente si muove.”
“Per il resto da febbraio non è cambiato niente?”
Ci pensa un po’, si gratta la nuca. “Se parli dell’economia, no. Dicevano che saremmo finiti in bancarotta ma non è successo niente.”
“I prezzi non sono più alti?”
“No.”
“Automobili? Pezzi di ricambio?”
“Beh sì” ammette un po’ scazzato “le auto sono l’unica cosa che adesso costa di più. Anche la benzina, appena appena. Ma per il resto niente di che.”

La radio trasmette Felicità.
“Comunque per radio e in tv non lo dicono ma ormai la guerra è arrivata anche qua.”
Annuisco, sorpreso, penso che si riferisca ai soldati morti al fronte, a eventuali malumori. Ivan continua.
“Anche ieri gli ucraini hanno bombardato nella regione di Belgorod, al confine con il Donbass. In tv non lo dicono ma io ho degli amici che abitano là. Quasi ogni giorno ci sono esplosioni lungo il confine.”
“Eh sì, è una situazione pericolosa.”
Ivan stira la bocca in una smorfia di sufficienza.
“Adesso son tutti zitti. Non parla nessuno.”
“Vero, neanche una parola. Tu sei uno dei pochi.”
“Perché siamo fatti così.
Ma se domani tocca, se domani Putin dice che dobbiamo andare, ci andiamo tutti, di buona volontà.”

È una telefonata non aspettata, la felicità.

Il giorno dopo prendo un aereo di prima mattina per visitare un cliente a Saratov, città da un milione di abitanti sul Volga.
In volo ci metti poco più di un’ora. In treno una giornata. L’ho fatto una volta, nel 2009. Sedici ore per il viaggio di andata, meeting, pranzo veloce e altre sedici ore al ritorno.
Arrivato in albergo, a Mosca, avevo la sensazione di oscillare come sulle rotaie, mi stavo facendo la barba e mi vedevo ondeggiare allo specchio.

L’aeroporto, terminato prima della pandemia, è intitolato a Jurij Gagarin.
Una targa affissa nella zona degli arrivi spiega che il primo uomo a volare nel cosmo è nato nella regione di Smolensk e che Saratov è la città dove ha studiato, in cui ha pilotato il suo primo aereo e dove è atterrato al termine del primo viaggio nello spazio.
Una voce registrata ripete a intervalli regolari che qui sono stati costruiti un terzo degli aerei utilizzati dall’Unione Sovietica nel corso della Grande Guerra Patriottica, circa 13500 velivoli.

Per arrivare in città ci vuole un’ora di auto, attraversiamo distese di erba puntinata da tulipani rossi e gialli.

La steppa.
Prati incolti, selvaggi, a perdita d’occhio, qualche arbusto. Alla periferia ci accolgono i soliti palazzoni di edilizia sovietica che sono uguali dappertutto e negli anni settanta c’hanno fatto un film su questa cosa.
Si intitola Ironija Sud’by, Ironia della Sorte e parla di un tipo, Ženja, che dopo una sbronza con gli amici a Mosca, prende per sbaglio un volo per Leningrado dove si ritrova in un appartamento uguale al suo, in un condominio identico e allo stesso indirizzo della sua residenza nella capitale.

Vicino al centro ci sono diverse casette in legno, di fine ‘800 o inizi ‘900, due piani al massimo, le facciate e il tetto decorati con intarsi in legno, come fossero dei merletti di pizzo appesi alle grondaie. Un lavoro manuale, lungo e costoso. Le pareti verdi, arancioni o azzurre, sbiadite e scrostate, in alcuni casi uno o più lati inclinati dal peso degli anni.
Alcune villette sono collassate, altre bruciate da poco ma per la maggior parte resistono. Chissà chi ci vive e cosa vuol dire passare un inverno in un posto del genere.
Sempre meglio della prigione di mattoni rossi, costruita nel diciottesimo secolo e tutt’ora attiva, che si specchia nel centro commerciale Triumf Mall, dall’altra parte della strada. Cosa ci sia di trionfale si perde nella traduzione.
Sul parcheggio c’è una voragine, un ometto scava dentro il buco e attorno altri sei che guardano, come nel meme che gira su internet.
Faccio visita a uno dei più grandi produttori di cucine del paese, una struttura moderna, con una bella scala in vetro all’interno.
Vasilij e Lara mi raccontano dei problemi con la logistica, i trasporti dall’Europa sono molto più cari adesso che i camion russi non possono più girare da noi.
Vasija è uno di quei russi col pizzetto e gli occhi spiritati, fisionomia da romanzo, perennemente in agitazione. Già a fine gennaio si lamentava.
“Ma perché devi tenere tutte quelle truppe al confine?!?” imprecava con le mani giunte in mezzo alle gambe, dondolandosi avanti e indietro. “È pericoloso tenere lì tutta quella gente! E intanto il rublo si è svalutato e sale l’inflazione.”
“Beh ha le sue ragioni…” cercavo di bilanciare io, convinto si trattasse di una dimostrazione di forza.
Vasilij ha un ruolo di responsabilità, prima della guerra girava per tutte le fiere e ancora adesso è un referente molto ambito per i fornitori. Mentre parliamo della situazione attuale, della disponibilità di componenti, si sfoga.

“Speriamo che non chiudano tutto. Di non tornare indietro di cinquant’anni.”

“Beh è difficile chiudere un territorio come quello russo. Cento cinquanta milioni di abitanti.”
“In produzione che ne sono tanti che sostengono la guerra.
Se invece che comprare le armi avessero dato alla gente la possibilità di viaggiare, di vedere cosa c’è in giro…” ha preso ad agitarsi con le dita intrecciate, gli occhi sbarrati da invasato, come uno scemo di Dio di Dostoevskij.
“Prendi i nostri operai, i ragazzi del magazzino.
Stanno qua, non sono mai usciti dalla Russia. Non sono mai usciti da Saratov!”

Nonostante le facoltà universitarie, il tessuto industriale e i centri di ricerca, Saratov è una realtà provinciale, basta farsi un giro in centro per accorgersene. Case di mattoni a due o tre piani, vecchie, spente. Nella piazza principale c’è una statua di Lenin, altro cliché di tutte le città che si sono sviluppate ai tempi dell’Unione Sovietica. Lo dice anche lo scrittore Sergej Dovlatov, gli scultori specializzati nella fisionomia di Vladimir Il’i guadagnavano bene, avevano sempre lavoro, erano più ricchi anche di quelli capaci di cesellare i riccioli della barba di Marx.
Accanto alla piazza c’è un museo di arti figurative, ho il volo per ora di cena, l’alternativa è il Triumf Mall. L’ingresso è gratuito, la signora me lo spiega due volte:
“Oggi è il compleanno del museo.” Dice proprio compleanno, den’ roždenija, come fosse un ragazzino.

L’esposizione è poco curata, le sale sanno di vecchio
. Dal secondo piano arrivano dei suoni, le note di un piano, una voce femminile. Nella stanza centrale, dove sono appesi alcuni dei quadri più interessanti, è raccolta una piccola folla, una trentina di persone sedute in maniera composta davanti a un pianoforte a coda che accompagna una cantante lirica.
È una ragazza sulla trentina, indossa un vestito verde di nylon, le braccia scoperte che seguono i fianchi e le mani che si ricongiungono sul ventre. Ha i capelli neri e lucidi, arricciati in boccoli ancora caldi di piastra. Canta con quell’aria da posseduta che hanno certi soprani, gli occhi sbarrati e la bocca spalancata come una marionetta mentre fa i gorgheggi del Flauto Magico di Mozart. Osservo i dipinti avvicinandomi alle pareti, qualche vecchietta tra il pubblico mi guarda con aria di rimprovero perché il pavimento di legno scricchiola sotto le mie scarpe.
Per la cantante è il momento di gloria davanti a tutta la città e il tipo con gli occhiali gira per la sala disturbando, il gnik gnik dei passi contrapposto agli acuti staccati della Regina della Notte.

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