giovedì, dicembre 22, 2022

Joe Strummer


Joe Strummer manca da vent'anni.
L'ho ricordato così per "Libertà".


Joe Strummer manca da vent'anni.

Manca a tanti di noi che lo abbiamo seguito, con passione, con rabbia, fiducia, fratellanza.
Joe e compagni erano coetanei che mettevano in musica quello che noi pensavamo.
Erano i nostri riferimenti ma non riuscivamo a considerarli distanti da noi.
Ci parlavano come amici e ci dicevano cose importanti, che i politici di mestiere non riuscivano a trasmetterci.
Li ascoltavamo con fiducia perchè sapevamo che non ci avrebbero traditi.

Ho incontrato Joe Strummer a Londra, per strada e poi in un pub e suonai prima dei Clash nel 1984 a Milano.
Lui e il bassista Paul Simonon furono affabili, gentili, accoglienti, attenti a quello che dicevo loro.
Non c'era alcuna distanza, Joe era solo uno che parlava la mia lingua, aveva le mie idee, si rapportava alla pari.
Conta moltissimo quando hai vent'anni, cerchi un'identità, un futuro (come diceva Joe, “il futuro non è ancora scritto” ovvero hai la possibilità di cambiare le cose che non ti vanno) e nessuno riesce a darti risposte convincenti.
Manca/ci manca la sua visione del mondo, mai utopica, sempre concreta, lucida, non di rado considerata velleitaria o declinata per slogan.
Ma non era così.
Le sue parole , nelle canzoni, nelle interviste, nelle dichiarazioni, configuravano il mondo che stiamo vivendo oggi, ne coglievano le ingiustizie e le contraddizioni.
A volte con una dose di ingenuità quasi adolescenziale che si mischiava all'urgenza e alla spontaneità.

Joe Strummer ha sperimentato tanto, ha osato, sbagliato, riconosciuto gli errori, ripartito da capo, ha vissuto tante vite, sempre intensamente e al limite.

Se ne è andato proprio quando pareva essersi “calmato” e tranquillizzato trovando un nuovo equilibrio, godendosi ancora un moderato successo e una ritrovata vena artistica. Non era un tipo facile e nella sua biografia sono molti i momenti, i periodi, gli episodi, che lo colgono, per usare un eufemismo, “sopra le righe”, tra abusi di alcolici e sostanze, contraddizioni, periodi di lontananza e piuttosto confusi ma ha sempre saputo mantenere una unanimemente riconosciuta onestà intellettuale che lo hanno reso immortale.
Talvolta, soprattutto dopo la scomparsa, è stato acriticamente “santificato”, particolarità che odiava e avrebbe trovato insopportabile.

I Clash sono stati il suo megafono, la sua formazione artistica e culturale.

Proveniente dalla fumosa e caotica scena dei circuiti dei pub londinesi, con l'autodefinizione di “strimpellatore” (strummer in inglese), John Graham Mellor, figlio di un diplomatico, nato in Turchia, ad Ankara, nel 1952, si appassiona di rock 'n' roll e delle idee dello scrittore George Orwell.
Nel 1976 la classica iniziazione, comune a decine, forse centinaia, di artisti inglesi: un concerto dei Sex Pistols.
Joe si convince a buttarsi nel mucchio, anche se ha venticinque anni, età ritenuta già avanzata dai teeneager protagonisti della scena punk. Ma la sua nuova band, i Clash, raccoglie subito entusiasmo e grande seguito.
Sono bravissimi musicisti, potenti, le canzoni hanno l'impatto del punk ma si avvalgono di linee melodiche che guardano agli anni Sessanta, sono ricercate e, tra i primi, vanno ad attingere anche nei suoni e nella cultura reggae, conosciuta attraverso gli immigrati giamaicani.
Joe e amici bazzicano, dapprima guardati con molto sospetto e perfino ostilità, poi accettati con piacere, i club dove si suona solo reggae e dove loro sono gli unici bianchi.
L'artefice di questa passione è il bassista Paul Simonon, cresciuto a Brixton, dove il reggae era la principale colonna sonora. D'altro canto lo stesso Bob Marley benedisse i rapporti tra punk e rasta sia attraverso la canzone “Punky reggae party” del 1977 in cui citava gli stessi Clash e con la dichiarazione:
“I punk sono emarginati dalla società. Come lo sono i rasta. Quindi loro difendono ciò che difendiamo noi".

I Clash e Joe nella sua carriera solista, manterranno sempre evidente le matrici reggae e dub in ogni loro disco. La vita dei Clash è relativamente breve.
Nel 1977 il fulminante esordio con l'album omonimo, seguito dal controverso “Give 'em emough rope” dell'anno successivo, ritenuto “commerciale” a causa di una produzione troppo “rock” ma che, con il senno di poi, rimane piccolo gioiello con canzoni indimenticabili.
Nel doppio “London calling” del 1979, semplicemente un disco indimenticabile e seminale, traghettarono le loro passioni, restando legati al punk ma aprendosi a quello che le loro radici avevano loro insegnato (reggae, rock 'n' roll, blues, soul, rhythm and blues, jazz, ska, folk).
Con “Sandinista” del 1980 scrivono il loro capolavoro, uno degli album più importanti di sempre. Segna il passaggio da una musica compartimentata in generi ben precisi e identificabili a un calderone indistinto che li raggruppa tutti. Fotografa la New York del 1980 che prelude al mondo che ci ritroviamo, volenti o nolenti, quaranta anni dopo.
Sarà il canto del cigno artistico.
Il successivo “Combat Rock” diede loro la notorietà mondiale e commerciale (con relativo conto in banca finalmente gonfio e, per tutta la vita, stabile, dopo anni di ristrettezze) con due brani come “Rock the casbah” e di “Should I stay or should I go”.
A questo punto la band deraglia.
Il batterista Topper Headon viene sopraffatto dalla dipendenza da eroina, il chitarrista Mick Jones guarda ad altri orizzonti artistici, Joe Strummer e Paul Simonon sono confusi e senza particolari prospettive.
Alla fine Joe licenzia prima Topper e poi il compagno artistico di sempre, Mick.
La band non esiste più.

Joe prova a tenerla insieme reclutando altri musicisti ma il timone è in balìa delle onde. I concerti con la nuova formazione sono solo un pallido ricordo del travolgente live act dei Clash, le scelte successive discutibili e confuse.
L'ultimo atto sarà “Cut the crap”, album senza capo né coda con rari guizzi e tanti episodi inutili. Una fine grama e ingrata per uno dei nomi più sinceri e veri nella storia del rock.
Il gruppo finisce qui.

Dopo lo scioglimento Joe sperimenta, fa le cose che gli vengono in mente, si rimette in gioco, si spende per iniziative anti fasciste e anti razziste e guarda con interesse al cinema sia come attore che come compositore di colonne sonore.
Ritorna a collaborare con l'ex sodale Mick Jones e nel 1988 torna su un palco come chitarrista degli irlandesi Pogues, nel 1989 incide “Earthquake weather” con la sua nuova band, i Latino Rockabilly War.
Un lavoro energico che riporta ai Clash più ruvidi e immediati, destreggiandosi tra punk rock, funk, reggae, ballate folk.
Joe non smette di interessarsi alla politica, alla società, all'attualità.
Alla fine del decennio riprende in mano le redini della carriera musicale con i Mescaleros, progetto strutturato e finalmente ben focalizzato. I risultati non si fanno attendere e i due album del 1999, “Rock Art and the X-ray Style” e del 2001 “Global a Go Go” lo ritrovano in grande forma creativa a lavorare sulle consuete radici (dal punk al rock al funk al mai dimenticato reggae a intense ballate alla Woody Guthrie) a cui unisce un gusto musicale moderno e attuale, assorbendo, come ha sempre fatto, influenze, suoni, riferimenti culturali e sociali di ogni tipo.
La morte lo coglie con un infarto il 22 dicembre 2002 mentre sta preparando un nuovo album, “Streetcore” che uscirà postumo, un anno dopo. Significativamente un mese prima si era ritrovato su un palco con Mick Jones, per la prima volta dal 1983, spettatore a un concerto dei Mescaleros e che si unì a Joe e band per tre brani dei Clash.
Da ricordare anche le bellissime trasmissioni alla BBC che aveva condotto dal 1999 con il titolo di “London calling” in cui proponeva classici reggae e folk, oscuri brani di gruppi sconosciuti e novità di vario tipo.

Dopo la sua scomparsa si sono moltiplicati i tributi di ogni tipo, soprattutto ristampe dei vecchi dischi, con inediti e rarità. Da ricordare anche il documentario “Joe Strummer: the future is unwritten” di Julien Temple del 2007 con una lunga serie di contributi (da Bono a Martin Scorsese) e immagini semplicemente commoventi di Joe in tante delle sue incarnazioni, pubbliche e private.
Sono tributi sinceri, pur nelle loro ovvie modalità speculative, perché Joe Strummer è stato, probabilmente più di ogni altro, un simbolo che è andato molto più in là della sua storia artistica.
Per questo manca e ci manca.
Perché era uno di noi, idealmente sempre al nostro fianco.
“Non voglio guardare indietro. Voglio andare avanti, ho ancora qualcosa da dire alle persone” (Joe Strummer).

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