Riprendo l'articolo che ho scritto per "Alias" de "Il Manifesto" sabato scorso.
La carriera compositiva di Pete Townshend è perlomeno curiosa.
Da una parte ha firmato capolavori senza tempo, attestandosi senza dubbio tra i più significativi autori del Novecento, sia in ambito strettamente rock che in un'accezione più ampia del concetto di musica pop(olare).
Valgano su tutto opere rock come “Tommy” e “Quadrophenia”, canzoni come “My Generation” o “Won't Get Fooled again” (dall'opera mancata “LifeHouse” trasformatasi nel capolavoro “Who's Next”, uno dei primi lavori in assoluto in cui l'elettronica fu usata coscientemente in ambito pop rock e non solo in chiave puramente sperimentale).
Dall'altra, la constatazione che il picco della sua creatività (e di quella degli Who) sia durato una manciata di anni, dal 1966 al 1973 per poi sfumare in album dignitosi e raramente di scarso livello ma sostanzialmente trascurabili.
Anche la disordinata carriera solista ha subìto modalità simili: un piccolo gioiello come “Empty Glass” nel 1980 e una lunga serie di album talvolta incompiuti, altre volte dispersivi e scarsamente a fuoco.
Eppure il recente monumentale boxset “Live In Concert 1985-2001”, che raccoglie 14 CD live della sua attività solista, ci mostrano un musicista in grande forma, avido di nuove soluzioni artistiche, cultore della ricerca di brani sconosciuti o molto particolari nell'ambito della black music.
E' raro che ci si occupi del suo percorso al di fuori degli Who, tanto magnificenti, quanto ingombranti e che facilmente oscurano qualunque uscita extra band. Eppure merita un approfondimento. La partenza non è delle più entusiasmanti.
“Who Came First” del 1972 raccoglie brani in acustico, poco più che demo, precedentemente usciti, in poche copie e pressoché irreperibili, su album dedicati al suo guru Meher Baba, dove aveva contribuito musicalmente, a cui aggiunse i provini di tre brani destinati all'opera “Lifehouse”. Artisticamente trascurabile se non per i fan accaniti.
Molto meglio il lavoro condiviso con l'amico Ronnie Lane, già con Small Faces e Faces che inizialmente aveva previsto Pete come produttore ma con cui alla fine divise l'onere e onore di co firmare l'album.
“Rough Mix” è del 1977 e vede l'aiuto di un po' di prestigiosi amici, da Eric Clapton a John Entwistle, Charlie Watts, Ian Stewart, Boz Burrell. Nell'anno del punk i due rimangono ancorati al più classico rock anni Settanta, con sguardi a country e blues, un po' sfasati temporalmente ma con un disco dignitoso e con qualche ottimo brano. Avrà un discreto riscontro arrivando nei top 50, sia in Inghilterra che Stati Uniti.
Finalmente nel 1980 Pete pubblica il primo vero album solista, pensato e strutturato come tale. Un periodo per lui difficilissimo, distrutto dalla morte di Keith Moon, minato dall'abuso di alcool (e non solo), in preda ad una crisi esistenziale (nonostante sia, con i canoni odierni, ancora giovane, 35 anni, è considerato dalla critica e dalle nuove punk band come un "dinosauro" di un' epoca finita), coinvolto in tristi problemi in famiglia e dalla consapevolezza che gli Who siano ormai artisticamente finiti.
I 10 brani di "Empty glass" sono un'incredibile prova di energia e forza, in cui recupera la freschezza e l'urgenza degli esordi, lancia arroganti ventate di robustissimo rock, conserva la raffinatezza della scrittura e degli arrangiamenti (bellissimi quelli vocali, originali e curatissimi). La chitarra torna a ruggire, la base ritmica (alla batteria è prevalentemente presente il "mostro" Simon Philipps ma troviamo anche Kenney Jones, Mark Brzezicki e James Asher) con Bill Butler dei Big Country al basso che fa faville, Rabbit Brundick (storico tastierista degli Who) è impeccabile, la voce di Townshend sa essere rabbiosa, vellutata, avvolgente, cattiva, sempre convincente.
"Empty Glass non era un album particolarmente all'avanguardia ma è stato interessante per me perché mi sono trovato a fare il tipo di materiale vario che non erano soliti usare gli Who.” Splendido disco, probabilmente il migliore scritto da Pete Townshend dal 1973 in poi (Who inclusi), fu oggetto di polemica all'interno della band, privata di grandissimi brani e che invece per il pur buono "Face Dances" e il mediocre "It's Hard" si dovette accontentare di materiale molto meno interessante. Ebbe un buon successo sia di pubblico che di critica.
Il successivo “All The Best Cowboys Have Chinese Eyes” risente del recente periodo speso a rimettersi in sesto dagli eccessi e abusi e della sempre più traballante vita degli Who (costretti a incidere “It's hard”, uscito qualche mese dopo, per motivi contrattuali), scioltisi un anno dopo.
Il sound si fa più sintetico, le tematiche sono sempre più personali e introspettive, la qualità compositiva non è eccelsa, nonostante buoni episodi.
Ritorna al format concept con “White City: A Novel” nel 1985. Anche in questo caso l'opera è confusionaria e la qualità compositiva altalenante, anche se chitarre e grinta tornano in primo piano con ottimi momenti in “Give Blood” e “Face The Face” e una band con i fiocchi alle spalle (tra cui David Gilmour in un paio di brani). Il riscontro sarà però tiepido.
Nel 1989 è la volta invece di un musical.
“The Iron Man” è basato su un libro per bambini di Ted Hughes e annovera tra gli ospiti grandi nomi come Nina Simone e John Lee Hooker ma soprattutto gli ex compagni degli Who nella trascurabile “Dig” e nella cover (dalla resa molto discutibile) di “Fire” di Arthur Brown. Purtroppo il contenuto è ancora una volta discordante, tra momenti ottimi e canzoni inutili e deludenti.
La produzione è pomposa e ridondante, la critica stronca il tutto in modo impietoso. Gli Who tornano a suonare dal vivo per celebrare i 25 anni di “Tommy” e l'opera cade nel dimenticatoio.
Nel 1993 esce quello che è l'ultimo album in studio di Townshend, "Psychoderelict".
Un'altra opera rock basata sul suo racconto “The Boy Who Heard Music”.
La prima versione è caratterizzata dalla narrazione parlata dei protagonisti che si sovrappone (in maniera irritante) talvolta alle canzoni. Ne verrà realizzata una versione senza i parlati, fortunatamente, ma non risolleverà le sorti dell'album.
Peccato, perché, a parte qualche esagerazione a livello produttivo e nelle sonorità e ad alcuni intermezzi abbastanza superflui, il contenuto compositivo è di buonissimo livello (“English Boy”, “Outlive The Dinosaur”, “Don't Try To Make Me Real” avrebbero potuto tranquillamente trovare un posto nella discografia degli Who).
Da questo momento Townshend si è dedicato a innumerevoli tour con la band madre, sempre in eccellente forma e forte di un repertorio inimitabile, con cui ha inciso due discreti album di inediti, “Endless Wire” nel 2006 e “Who” nel 2019 e sporadicamente è apparso qualche brano solista, vedi il country acustico “Outrun The truth”nel 2023.
Interessante la serie delle compilation “Scoop”, di cui sono usciti tre volumi, nel 1983, nel 1987 e nel 2001, con decine di demo tape, inediti, rarità, outtake, prese dal suo infinito archivio.
Nel 2000 ha visto la luce un lussuoso e raro box set di sei CD con tutto il materiale relativo all'abortita opera rock “Lifehouse” e un ambizioso progetto di interazione sonora con i fan musicisti poi naufragato.
Pete Townshend rimane un genio indiscusso e indiscutibile ma che forse ha gestito non sempre bene la sua immensa creatività, dando sfogo e spazio a progetti che con una cura maggiore e una più attenta tempestività, avrebbero potuto avere tutt'altri spessore e importanza.
Ci lascia una carriera solista piena di aspetti interessanti, canzoni eccellenti e ottimi spunti, sicuramente da (ri)scoprire.
lunedì, febbraio 10, 2025
La carriera solista di Pete Townshend
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