L'amico FRANCESCO FICCO ci parla di un libro sul chitarrista dei PRETENDERS.
Allora, cominciamo col dire che non si tratta di pubblicazione ufficiale poiché non è una produzione di una casa editrice esistente, ma risulta come segue:
Printed by Amazon Italia Logistica srl
Torrazza Piemonte (TO)
Quindi ci troviamo di fronte ad una delle nuove frontiere del fai-tutto-da-te dove bypassando l’editore di turno, e stampando solo le copie che verranno ordinate online, si risparmia un bel po' di carta che rischierebbe di prendere polvere, come nel caso specifico dello scritto in questione, perché di scritto si tratta.
Ma ora passiamo al “libro” vero e proprio, non riportante alcun prezzo in ultima di copertina ma solo bar code e ISBN.
Premetto che anche la qualità della stampa non è granchè, inchiostro sbiadito su alcune pagine a conferma della logica del risparmio stile ebook ma almeno lì l’inchiostro non sbiadisce.
Come un po' avevo sospettato non si tratta di una biografia del compianto James Honeyman-Scott, eccelso chitarrista della prima formazione dei Pretenders di base a Londra, prematuramente e accidentalmente scomparso, ma di una retrospettiva della band stessa con aggiunta di alcuni aneddoti più o meno noti ai fans della band di Chrissie Hynde.
Gary Utterback scrive in un inglese abbastanza approssimativo e con qualche errore di sintassi e costrutto di troppo, ma chiunque mastichi un po' la lingua non avrà problemi di comprensione.
Piuttosto la seccatura, almeno nel mio caso, è che lo scritto è ridondante e ripetitivo su molti argomenti relativi ai componenti dei Pretenders, e a volte paradossalmente moralistico (a chi può fregare della lista dei musicisti morti per OD dai 60s ad oggi !?).
Ritornando a James Honeyman-Scott (il vero topic annunciato nel titolo) non è neanche riportata la corretta lista delle sue chitarre possedute o che fine abbiano fatto.
Il libro si snoda sull’attività dei Pretenders, specialmente sulla collaborazione tra Chrissie Hynde e Jimmy, e su quanto siano stati pericolosi gli anni 70 e 80 per il consumo di droghe da parte dei personaggi del mondo del rock.
È quasi un ossessivo ammonimento che viene ripetuto come un mantra (ma chi è questo Utterback, un fottuto prete?).
Vi è anche il tentativo di tracciare un profilo psicologico attraverso le canzoni dei Pretenders, con descrizioni tecniche approssimative ma godibili.
Nulla di più.
Certamente non si tratta di speculazione ma piuttosto di tributo da parte di un fan per i fans.
Quindi sta a voi decidere di perdonare le sviste contenute relative al topic del titolo, che risulta abbastanza allettante per un fan dei Pretenders del periodo UK dei primi due fondamentali album.
Ordinabile ovviamente solo su Amazon, lo scritto è corredato da alcune fotografie in formato ridotto bianco e nero, delle quali l’ultima a pag. 166 sembra mostrare un James Honeyman-Scott invecchiato ma invero non si sa chi sia, ne viene menzionato.
Insomma non voglio parlare di fregatura per rispetto al compianto chitarrista, ma approssimazione e ridondanza sono davvero troppe in questo caso.
martedì, settembre 26, 2023
lunedì, settembre 25, 2023
Russia. Febbraio 2023 #1
L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.
La prima puntata qui: https://tonyface.blogspot.com/2023/05/tashkent-novembre-2022.html
Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss
PARTE #1
L’ultima volta che sono stato in Russia, a settembre, Saša e Igor’ mi hanno proposto un paio di dj set a Mosca e a San Pietroburgo, quando sarei tornato. “Magari a novembre. Ti porti i dischi, troviamo un bel posto e facciamo il volantino. Vedrai che figata.”
Non era male come idea ma mi sentivo un po’ a disagio, meglio se non si sapeva niente in giro, Saša è sempre lì che posta su Facebook, anche se non potrebbe, vai a sapere come reagisce la gente che vede il tuo nome, una festa da qualche parte in Russia e tu che metti i dischi.
Eravamo rimasti che ci saremmo sentiti in autunno.
Qualche giorno dopo hanno dichiarato la mobilitazione, e la parvenza di normalità sospesa, a piede libero con la condizionale, la minaccia latente di una guerra vicina e lontana, la guerra degli altri, la guerra che si combatteva in tv, nei giornali e nei cartelloni lungo le strade, quella normalità originaria, stravolta dallo shock di febbraio che tanti russi avevano superato a colpi di tranquillanti, preghiere e “speriamo finisca presto”, quella normalità corroborata da un’estate calda alla riscoperta della propria terra, visto che per molti i viaggi all’estero erano diventati proibitivi, quella normalità era entrata in una nuova fase, ora a combattere ci andava anche la gente comune, non solo i militari di professione.
Un altro cambiamento nella vita del russo medio, che adesso rischiava di finire in tv, con l’elmo e la divisa.
Basta una cartolina con sopra il tuo nome e l’invito a presentarsi al distretto militare entro due giorni. Un altro passetto verso il precipizio perché un conto è parlare di Operazione Militare Speciale, un altro è se la Russia dichiara lo Stato di Guerra, la legge marziale, la chiusura dei confini e quelle cose lì, non solo per i russi arruolabili ma anche per gli stranieri, quelli come me, che magari, nel momento in cui Putin fa un annuncio a reti unificate, si trovano in territorio russo per vendere un po’ di ferramenta.
“Eh ma cosa vuoi che ti succeda?”
Non lo sa nessuno, l’ultima volta che è capitata una cosa del genere, ottant’anni fa, un tot di gente è finita nei campi di prigionia o c’ha lasciato le penne perché in tasca aveva il passaporto sbagliato.
A ottobre ho parlato con un editore che pareva interessato ai miei racconti e mi ha detto: “Mi sa che in Russia non ci andrai più per qualche anno.” Ho convenuto con lui e l’amarezza mi ha guastato il resto della giornata.
Poi col passare del tempo anche il bubbone della mobilitazione si è sgonfiato, riassorbito nella quotidianità delle brutte notizie, di quella bruttezza opaca e senza forma che dopo un po’ non sconvolge più.
Bombe su Kiev, bombe sul Donbass, civili morti, soldati morti, nuovo pacchetto di sanzioni, le minacce del Cremlino, gli aiuti militari, la difesa della democrazia e dei nostri valori, che è quasi un anno che le senti tutti i giorni, ormai c’hai fatto l’abitudine, come quando vai a fare il bagno al mare e appena metti i piedi in ammollo l’acqua ti pare freddissima e vorresti tornare a riva, poi ti immergi, due bracciate e ti sei già ambientato.
Potrebbe andare peggio, dicono i clienti.
In effetti a ottobre c’è stato un calo, chi è che si indebita per comprare una cucina se domani ti mandano a combattere, ma già a novembre la situazione si è stabilizzata, una volta chiusa la mobilitazione, il panico è rientrato, almeno in quelle famiglie, in quelle comunità che non hanno parenti o amici al fronte. La gente è tornata alla vita di prima, anche se non è chiaro di prima quando.
E così, dopo le vacanze di Natale, ho chiamato Vasja, il mio referente, che mi ha tranquillizzato:
“Qua è tutto a posto, c’è un sacco di roba da fare. Ti aspettiamo.”
Ho comprato il biglietto, cinque giorni a Mosca, quasi una settimana per trovarsi, guardarsi negli occhi, fare un po’ di analisi sulle vendite e sulle giacenze di magazzino, previsioni per i prossimi ordini.
Tutte attività che puoi gestire anche da remoto, e sarà un cliché, come dire che in Russia fa freddo, eppure, sedersi uno di fronte all’altro, parlare con i venditori, andare in giro dai clienti, ascoltare quello che hanno da dire, contare le macchine parcheggiate fuori dai capannoni, prendersi nota di quanti e quali scatoloni con il marchio della concorrenza sono accatastati in produzione, tutte queste cose non le sostituisci con una video-chiamata.
Puoi tamponare, confrontare dati e informazioni, percentuali, ma un meeting in presenza è fondamentale per superare un ostacolo, prendere una decisione condivisa, trasmettere un sentimento o un’emozione e più in generale andare avanti nelle trattative perché quando ti trovi nella stessa stanza con altre persone, senza il postino che citofona o tuo figlio che chiede il succo, sei obbligato a sentire e a osservare come tutti gli altri.
Le parole hanno un suono preciso, ti toccano in modo diverso, come l’acuto di una tromba dal vivo, pare impossibile che siano le stesse note quando le ascolti con gli auricolari del telefonino.
Non tutti lo capiscono, fan fatica certi miei colleghi, figuriamoci i miei genitori. Alla Nico invece non lo devo spiegare e questo è uno dei motivi per cui stiamo assieme da quasi vent’anni, non rompe il cazzo se vado in Russia ma non tutti ci arrivano, in ufficio mi interrogano con gli occhi spalancati:
“Ma davvero vai a Mosca? Non hai paura?”
Paura anche no, un po’ di ansia ma cerco di non pensarci, non cascherà il mondo per un viaggio di cinque giorni, speriamo non succeda niente e in queste cose mi sa che sono un po’ fatalista, o imprudente, come i russi.
All’inizio di febbraio ce ne sono un sacco, di russi, in aeroporto a Istanbul.
Li vedi per i corridoi, li senti parlare. Famiglie, donne, ragazzini, uomini obesi, sacchi a tracolla e borse piene, zaffate di aglio, il tizio con la felpa Emporio Armani che entra in aereo con lo stuzzica dente in bocca, a lato, come Vito Catozzo.
Tanti ventenni, visi puliti, riposati, lo sguardo sicuro di chi è a posto.
Soldi, posizione, viaggi all’estero.
Molti si alzano subito dopo il decollo, scattano in piedi appena si spegne la luce delle cinture di sicurezza e camminano avanti e indietro, con passo deciso, che rimbomba per la carlinga, come se avessero premura di andare da qualche parte.
Il peggio è quando hai il posto vicino al corridoio, arriva uno e inizia a chiacchierare con la coppia accanto a te e che cazzo avranno di così importante da dirsi.
Niente, parlano delle procedure per il tax-return, a Dubai sono organizzati meglio.
E tu in mezzo, col tipo che si dondola appoggiato al tuo schienale.
Atterriamo che è tardi, quasi le due di notte.
I russi non spostano le lancette in autunno per cui in inverno c’è un’ora in più di differenza, le coincidenze dei voli sono scomode.
In fila per il controllo passaporti ricomincio da dove ero rimasto.
Una signora con due figli ventenni mi passa davanti, come se non esistessi. Borbotto in maniera aggressiva che c’ero prima io e la donna alza lo sguardo con aria di sufficienza e si rivolge direttamente al ragazzo che indossa una tuta di Christian Dior, in ciniglia, verde e morbidosa che sembra la rana Kermit: “Lёša fai passare questo tizio.”
Mi chiama djadja, letteralmente significa zio ma è un modo colloquiale per indicare un uomo adulto, come guy in inglese.
Fino a qualche mese fa ero un molodoj čelovek, un giovanotto, e rispondevo con tono scherzoso, compiaciuto, quando mi apostrofavano in questo modo. Ormai sono diventato un djadja e vorrei sapere da quanto è, di preciso, che non sono più un molodoj čelovek.
Prendo un taxi per andare in albergo.
Il centro è tutto illuminato che sembra un parco giochi.
Le strade, le silhouette dei palazzoni, le finestre degli uffici coi neon ancora accesi e chissà se c’è gente che lavora o se fanno le pulizie, che poi è la stessa cosa.
Le facciate e le cupole delle chiese sono accarezzate dalle proiezioni dei fari dal basso, anche le gru e i cantieri sono puntinati in maniera armoniosa, simmetrica.
Ai lati degli stradoni, cartelloni pubblicitari dieci per venti, il concerto-tributo ai Nirvana per il compleanno di Kurt Cobain; l’orchestra sinfonica esegue le hit dei Queen in uno spettacolo intitolato The show must go on.
Le torri acciaio e vetro della city sono ricoperte di schermi led su cui sventola una bandiera russa.
Sullo sfondo, rossa che pare incandescente, brilla la stella sul tetto di una delle Sette Sorelle, i grattacieli fatti costruire da Stalin tra la fine degli anni quaranta e i primi cinquanta, per celebrare l’ottavo centenario della fondazione di Mosca.
Inizialmente erano previste otto costruzioni, uno per ogni secolo, ma i lavori per l’ultima torre non sono mai cominciati.
Il mix di casermoni, guglie e pinnacoli che caratterizza le Sette Sorelle ha dato vita a uno stile detto “gotico staliniano”, e anche se il binomio stesso non ispira allegria, in realtà nel panorama moscovita ha il suo perché, soprattutto di notte. Arrivo in albergo che sono le due passate di domenica mattina, faccio il check-in e salgo al nono piano.
Appena si spalancano le porte dell’ascensore, dal fondo del corridoio arrivano le urla di una donna che sta godendo.
Non sono gridolini sommessi, la tipa si sta sgolando, a intervalli regolari, in un crescendo e con un’intensità che ricordano più un parto che un amplesso.
Peggio ancora, i gorgheggi provengono dalla stanza accanto alla mia e in sottofondo c’è musica new age. Arpa e piano intrecciati sopra un base sintetica, i bassi che spingono, probabile che abbiano una di quelle casse portatili col bluetooth che la gente usa in spiaggia per ascoltare musica da maranza a tutto volume.
Come non bastasse, la mia camera è più piccola di quella dove dormo di solito, non c’è neanche spazio per fare ginnastica la mattina e il letto è troppo vicino alla scrivania, impossibile lavorare al pc la sera.
Chiamo la ragazza alla reception, le chiedo se c’è qualcosa di più spazioso. Si scusa con tono sincero, mi chiede di pazientare qualche istante, adesso mi porta la chiave della nuova camera.
Mi siedo sul letto, dalla parete filtrano le grida della donna, un po’ li invidio.
Ho conosciuto una ragazza che gridava così.
Tatjana.
Nel 2002 feci l’ultimo viaggio da studente a San Pietroburgo.
Il prof Aleksandr mi aveva sistemato all’ultimo piano del suo condominio, in un mini appartamento dove abitava sua madre. La vecchia l’aveva spedita in campagna con la moglie; il figliastro Denis si era dovuto sposare in primavera perché aveva messo incinta una tipa e quella che una volta era la mia camera adesso era occupata da un omone finlandese, Seppo, che studiava il russo quando non era impegnato a ubriacarsi. La madre e la moglie di Seppo erano malate di cancro, lui non ce la faceva a vederle morire e con la scusa di rinfrescare la lingua di Puškin si era preso una pausa ed era venuto a San Pietroburgo per sfondarsi di vodka.
Si faceva fuori una bottiglia al giorno di Zubrovka, da zubr, il bisonte raffigurato sull’etichetta che dà il nome al distillato di colore marroncino.
Seppo era grande e grosso, con i baffi biondi e l’anda da burbero, più che cattivo, pareva avvelenato dalle sfighe che lo circondavano. La sera che c’eravamo conosciuti, durante una sessione di vodkini e cetrioli nella cucina di Saša, mi aveva detto che ero “decadente”.
Parlava per invidia, faceva fatica a mascherare il risentimento per la leggerezza di chi è giovane, non ha rogne e non è obbligato a lavorare.
Uno che non era più giovane e lavorava poco era il prof. Debole di carattere e incline alla depressione, in quel periodo era in crisi con la moglie e con le finanze, certo un alcolizzato come coinquilino non gli era di aiuto.
Seppo non era l’unico tipo strano che girava per il trilocale di Saša, uno degli habitué era un certo Vasja, un altro sbevazzone con i baffi folti e gli occhi da donna, ma il più scroccone di tutti era Jurij, un impiegato statale, una specie di dirigente che abitava al piano di sotto. Era grosso, i capelli rasati ai lati, i baffetti curati e il portamento da sergente, di chi è abituato a comandare.
Era un acceso nazionalista, non perdeva occasione per provocarmi: “Venezia tra poco sprofonda! Il vostro Papa è messo male, vedrai che tira le cuoia.” e cose del genere a cui rispondevo alzando le spalle, del papa tremolante di Parkinson non me ne fregava niente e da Venezia prima o poi me ne sarei andato.
La prima volta che ci eravamo incontrati mi aveva guardato con disprezzo e aveva domandato a Saša, quasi non potessi sentirlo: “Otkuda etot bolgarin?”.
Da dove salta fuori questo bulgaro.
Bulgaro, a me, che indossavo una camicia a quadri con il button-down, Levi’s Sta-Prest e un paio di mocassini scamosciati.
Jurij esercitava una certa influenza sul prof, che un po’ lo temeva, forse per il suo ruolo di funzionario o semplicemente per il modo di fare, da prepotente. Entrava e usciva di casa a tutte le ore, apriva il frigo e si serviva senza tante cerimonie.
Una sera c’eravamo ritrovati nel mio appartamento, in cucina, forse perché da me si poteva fumare. Jurij aveva voglia di fare festa, sua moglie era fuori città… insomma voleva andare a troie. Io mi ero fatto questa idea che in Russia ci fossero dei bordelli eleganti, dove con pochi euro ti sceglievi una modella profumata, con l’intimo di pizzo e che poi te la portavi in una stanza con le tende damascate e le lenzuola di raso, per cui avevo detto di sì, io ci stavo.
Non avevo mai pagato per scopare ma per una volta si poteva anche fare, poi in Russia, non lo avrebbe mai saputo nessuno. E così, per curiosità, chiesi a Jurij se ci portava in un bel posto, che tipo di ragazze c’erano. Jurij mi puntò addosso i suoi occhietti furbi, lo sguardo perfido, spietato, e spiegò cosa aveva in mente: “Adesso noi andiamo giù in strada, troviamo una bella cagnetta, ce la portiamo qua in camera tua, ce la facciamo a turno e intanto che uno scopa gli altri guardano.” e sghignazzò con gusto mentre spingeva il palmo della mano destra avanti e indietro, a mo’ di stantuffo. Le palle mi si restrinsero come due noccioline e mi salirono in gola.
Montammo tutti quanti sulla Lada verde del prof e partimmo per il safari.
Appena Jurij vide una coppia di ragazzine che passeggiavano sul marciapiede, fece cenno al prof di fermarsi.
Uscì come un ossesso, disse qualche parola alle due e prese a strattonarne per il braccio una, che fu abbastanza pronta a divincolarsi e ad allontanarsi assieme alla sua amica.
Dall’abitacolo assistemmo a quella scena senza dire una parola, c’era qualcosa di comico e raccapricciante nelle movenze di Jurij, nelle espressioni del volto, solenni e sconce, chissà cosa aveva detto a quelle poverette.
Salì in macchina come se non fosse successo niente, imprecando sotto i baffi, e diede ordine a Saša di rimettersi in marcia. Vagammo per qualche strada semi-deserta finché non passammo davanti a una fermata del bus. Appoggiata al baracchino di metallo arrugginito, c’era una ragazza sulla ventina che teneva in mano un sacchetto di plastica. Anche in questo caso Jurij si mise a parlottare fitto fitto mentre stringeva il braccio della ragazza, che però non fece tante storie, si liberò dalla sua presa e salì in macchina in tutta tranquillità.
Dopo qualche istante di imbarazzo generale si presentò, disse che si chiamava Tatjana e che veniva da Novosibirsk, quattromila chilometri di distanza da San Pietroburgo.
Era in città per visitare un’amica ma qualcosa era andato storto, non avevo capito cosa di preciso. Prima di rientrare dal prof, ci fermammo in un negozietto a comprare un po’ di birre.
A casa, Tanja parlava con gli altri alla pari, senza soggezione, invece con me era restia, non mi guardava, se mi inserivo nel discorso girava la testa da una parte, il mento all’insù, la bocca piegata in una smorfia di sdegno.
Si vedeva che non ero russo e in quegli anni uno straniero coi capelli neri e la barba di tre giorni non poteva che essere un ceceno, un terrorista, il nemico numero uno.
E poco importava che i ceceni avessero la chioma rossiccia e l’iride azzurra, per quella ragazza siberiana con la pelle bianchissima e gli occhi allungati, io ero uno scurotto, un musulmano del Caucaso pronto a farsi esplodere. Quando le spiegarono che ero italiano, Tanja cambiò espressione, le pupille si allargarono, il volto si distese in un sorriso accattivante. Ora non ricordo i dettagli ma eravamo nel soggiorno del prof a chiacchierare del più e del meno, c’era un po’ di confusione, musica in sottofondo, c’era anche Denis, il figliastro del prof, chissà cosa era venuto a fare.
A un certo punto Tanja si alzò per uscire dalla stanza, prima di varcare la porta si girò verso di me e mi lanciò un’occhiata, giusto un lampo, i capelli castani le ondeggiarono sopra le spalle. Attraversò il corridoio ed entrò in una cameretta con una libreria di legno scuro alla parete. Quando la raggiunsi stava sfogliando un volume senza guardarlo, quasi mi aspettasse.
Io l’abbracciai da dietro, al primo tocco si voltò verso di me con le labbra socchiuse, un invito a infilarle la lingua in bocca, il libro che teneva in mano cadde a terra con un tonfo e io presi a palpeggiarla un po’ ovunque finché non fummo interrotti dal risolino di Denis che ci stava osservando dal corridoio.
Tatjana si ricompose e senza dire niente a nessuno ci trasferimmo nel mio appartamento. Appena entrata, chiese di farsi una doccia, ci spogliammo e restammo sotto il getto d’acqua per qualche istante. Non era una bellezza appariscente ma aveva i lineamenti regolari, armoniosi, il busto sottile e due tette incredibili.
Tanja era spiritosa e pronta a soddisfare tutte le mie voglie, si concedeva e godeva con gioia, in maniera sincera. Gridava con la bocca spalancata, mentre mi muovevo sopra di lei mi chiedevo se il tappeto appeso alla parete, accanto al letto, avrebbe attutito almeno in parte le sue urla, chissà se i vicini ci sentivano, magari li avevamo svegliati, chissà cosa pensavano.
Alla mattina scopammo di nuovo, io sarei rimasto a letto con lei tutto il giorno, era domenica e non avevo niente da fare ma Tanja era in para, era arrivata da Novosibirsk per trovare lavoro ma l’amica che l’aveva invitata era sparita. L’avevamo trovata sotto casa della tipa, era rimasta lì qualche ora senza sapere cosa fare, dove andare.
In mano un sacchetto con tutti i suoi averi. Poi era arrivato Jurij, avevamo riso di questa cosa, era talmente sfinita che non aveva neanche capito cosa volesse da lei.
Tanja doveva andare, forse c’era un’altra persona che poteva darle una mano. Mi chiese dieci dollari, non aveva un rublo con sé, aveva speso tutto per il biglietto del treno, tre giorni di viaggio.
Quando chiuse la porta presi a domandarmi, senza grossi tormenti, se avessi aiutato quella ragazza o se invece avessi pagato per farmela.
E la curiosità è sempre la stessa, in questa stanza di albergo.
La tipa qua accanto, quanto sono sincere le sue urla. La ragazza della reception bussa alla porta, mi ha evitato di scendere con le valigie per poi risalire.
Resta ben lontana dall’uscio, ferma al centro del corridoio, sarà una forma di cautela, avrà paura che la inviti ad ascoltare un po’ di new age, allunga la mano e mi porge la tessera magnetica della nuova stanza, al piano di sotto.
Apro le finestre appena entrato perché c’è un caldo fastidioso, ci saranno almeno venticinque gradi e il termostato non si regola.
Sono quasi le tre quando vado finalmente a dormire.
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Tales from Ex Urss
giovedì, settembre 21, 2023
Paul Weller live @Alcatraz - Milano 20 settembre 2023
Paul Weller è in grande forma, fisica, artistica, vocale.
Il concerto milanese (quasi due ore, 26 brani) si fonda su due solidi pilastri.
Primo: una band rodata, coesa, che lavora di fino, ritocca con eleganza e precisione ogni brano.
Una ritmica possente (batteria, percussioni, tastiere, sax ) che permette a Weller e Steve Cradock di lavorare tranquilli alla voce e ai solismi.
Il groove generale viaggia su atmosfere modern soul e funk, con numerose pennellate jazz che rendono inconfondibile e perfettamente fruibile il suo collaudato pop rock.
Secondo: una potenzialità di scelta tra centinaia di brani della lunghissima carriera che a breve toccherà il mezzo secolo.
Due omaggi ai Jam (Start in scaletta, Town called malice come secondo bis), tre Style Council ((Headstart for happiness, My ever changing moods, una spettacolare e imprevista Shout to the top), un ottimo ed energico inedito, Jumble Queen (pare scritto con Noel Gallagher) e largo spazio a cose recenti da Fat Pop vol. 1 (cinque), tre da On Sunset (bellissima la title track con la sezione fiati degli Stone Foundation), un paio da Saturns Pattern e poi ancora Peacock Suit (con cui chiude il concerto, prima dei bis), Broken Stones (nel bis, in duetto con il cantante degli Stone Foundation e la loro sezione fiati) e, sempre da Stanley Road, una grintosa versione della title track.
C'è spazio per una riuscita Wild Wood nel bis, All the pictures on the wall e Hung (tutti e tre da Wild Wood) e Above the clouds e Into tomorrow dall'album d'esordio.
In apertura l'impeccabile soul funk disco degli Stone Foundation.
Locale non sold out ma decisamente affollato, età media alta, resa sonora discreta (leggi impianto voci), palco minimale ed essenziale, nessuna concessione ad "effetti speciali", biglietto (35 euro) consono.
Il concerto milanese (quasi due ore, 26 brani) si fonda su due solidi pilastri.
Primo: una band rodata, coesa, che lavora di fino, ritocca con eleganza e precisione ogni brano.
Una ritmica possente (batteria, percussioni, tastiere, sax ) che permette a Weller e Steve Cradock di lavorare tranquilli alla voce e ai solismi.
Il groove generale viaggia su atmosfere modern soul e funk, con numerose pennellate jazz che rendono inconfondibile e perfettamente fruibile il suo collaudato pop rock.
Secondo: una potenzialità di scelta tra centinaia di brani della lunghissima carriera che a breve toccherà il mezzo secolo.
Due omaggi ai Jam (Start in scaletta, Town called malice come secondo bis), tre Style Council ((Headstart for happiness, My ever changing moods, una spettacolare e imprevista Shout to the top), un ottimo ed energico inedito, Jumble Queen (pare scritto con Noel Gallagher) e largo spazio a cose recenti da Fat Pop vol. 1 (cinque), tre da On Sunset (bellissima la title track con la sezione fiati degli Stone Foundation), un paio da Saturns Pattern e poi ancora Peacock Suit (con cui chiude il concerto, prima dei bis), Broken Stones (nel bis, in duetto con il cantante degli Stone Foundation e la loro sezione fiati) e, sempre da Stanley Road, una grintosa versione della title track.
C'è spazio per una riuscita Wild Wood nel bis, All the pictures on the wall e Hung (tutti e tre da Wild Wood) e Above the clouds e Into tomorrow dall'album d'esordio.
In apertura l'impeccabile soul funk disco degli Stone Foundation.
Locale non sold out ma decisamente affollato, età media alta, resa sonora discreta (leggi impianto voci), palco minimale ed essenziale, nessuna concessione ad "effetti speciali", biglietto (35 euro) consono.
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Concerti
mercoledì, settembre 20, 2023
Roberto Calabrò - Fugazi. Committed To Excellence
Pubblicato dalla collana "Director's Cut" di Blow Up, esce, firmato dalla competente penna di Roberto Calabrò, la biografia dei FUGAZI, una delle band più particolari, originali e influenti uscite dalla scena hardcore (quando ancore si chiamavano Teen Idles e si evolveranno nei favolosi Minor Threat) per evolversi verso un sound personalissimo che ne conservava l'attitudine, spostandosi verso un inconfondibile mix di alt rock, reggae/dub, punk, jazz e tanto altro.
"Suonare per i Fugazi ha sempre significato comunicare. Per farlo hanno pensato che fosse necessario abbattere le barriere di qualsiasi tipo: generazionali, ecoinimiche, linguistiche, culturali.
Da qui la scelta di organizzare concerti aperti a un pubblico di tutte le età e di tutte le estrazion isociali e quindi - in maniera concreta - con un prezzo del biglietto non superiore ai cinque dollari.
Da qui la scelta di rifiutare le molteplici offerte milionarie arrivate dalle major (dissero di no a Ahmet Ertegün dell'Atlantic in persona a fronte di un assegno di dieci milioni di dollari ndr) per mantenere il totale controllo non soltanto sulla propria musica, ma anche sulle modalità con cui essa doveva essere distribuita e fruita dal pubblico."
Dal 2003 la band ha interrotto l'attività senza ufficialmente sciogliersi, intraprendendo mille altri progetti solisti ma mantenendo l'amicizia e saltuariamente suonando ancora insieme in sala prove.
"Mai dire mai. Come possiamo dire qualcosa sul futuro? Ma sembra che manchi il tempo per permettere una reunion perché noi quattro dovremmo passare molto tempo insieme per capire: "Dovremmo suonare le vecchie canzoni? - "Chi siamo ora?" - Cosa c'è ora?".
Non siamo il tipo di band che si riunisce e si limita a provare due ore di vecchie canzoni per uscire, suonare, rastrellare e tornare a casa". Se tornassimo insieme dovrebbe essere per spirito di ceatività.
Non si può rimettere insieme un gruppo intrinsecamente creativo e poi non avere l'elemento creativo".
Il libro è dettagliatissimo e particolareggiato, approfondito e di agevole lettura.
Inevitabilmente si torna a riascoltare la discografia della band.
Roberto Calabrò Fugazi. Committed To Excellence
Director's Cut #31
Tuttle Edizioni
116 pagine b/n
13,00 euro
Per ordinarlo:
https://www.blowupmagazine.com/prod/fugazi.asp
"Suonare per i Fugazi ha sempre significato comunicare. Per farlo hanno pensato che fosse necessario abbattere le barriere di qualsiasi tipo: generazionali, ecoinimiche, linguistiche, culturali.
Da qui la scelta di organizzare concerti aperti a un pubblico di tutte le età e di tutte le estrazion isociali e quindi - in maniera concreta - con un prezzo del biglietto non superiore ai cinque dollari.
Da qui la scelta di rifiutare le molteplici offerte milionarie arrivate dalle major (dissero di no a Ahmet Ertegün dell'Atlantic in persona a fronte di un assegno di dieci milioni di dollari ndr) per mantenere il totale controllo non soltanto sulla propria musica, ma anche sulle modalità con cui essa doveva essere distribuita e fruita dal pubblico."
Dal 2003 la band ha interrotto l'attività senza ufficialmente sciogliersi, intraprendendo mille altri progetti solisti ma mantenendo l'amicizia e saltuariamente suonando ancora insieme in sala prove.
"Mai dire mai. Come possiamo dire qualcosa sul futuro? Ma sembra che manchi il tempo per permettere una reunion perché noi quattro dovremmo passare molto tempo insieme per capire: "Dovremmo suonare le vecchie canzoni? - "Chi siamo ora?" - Cosa c'è ora?".
Non siamo il tipo di band che si riunisce e si limita a provare due ore di vecchie canzoni per uscire, suonare, rastrellare e tornare a casa". Se tornassimo insieme dovrebbe essere per spirito di ceatività.
Non si può rimettere insieme un gruppo intrinsecamente creativo e poi non avere l'elemento creativo".
Il libro è dettagliatissimo e particolareggiato, approfondito e di agevole lettura.
Inevitabilmente si torna a riascoltare la discografia della band.
Roberto Calabrò Fugazi. Committed To Excellence
Director's Cut #31
Tuttle Edizioni
116 pagine b/n
13,00 euro
Per ordinarlo:
https://www.blowupmagazine.com/prod/fugazi.asp
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Libri
martedì, settembre 19, 2023
Beatles reunion 1979
Dopo lo scioglimento dei Beatles, nonostante le spesso aspre polemiche tra gli ex e, allo stesso tempo, varie collaborazioni incrociate, si sono spesso rincorse vaghe ipotesi di un ritorno insieme della band, mai però verificatosi.
Sancendo un ulteriore capolavoro della loro storia, un "Ritratto di Dorian Gray" in musica che ce li ha consegnati per sempre giovani e al top della popolarità, senza clamorose cadute di tono.
Il 1979 fu un anno in cui una ormai sempre più improbabile REUNION dei BEATLES fu (quasi) sul punto di realizzarsi.
Incominciarono il 14 maggio Paul, Ringo e George a fare una jam session al matrimonio di Eric Clapton con Pattie Boyd (ex moglie di George con cui si era lasciata cinque anni prima). Presenti anche sopra e sotto il palco Mick Jagger, Bill Wyman, Elton John, David Bowie, Jim Capaldi, Denny Laine e tanti altri.
Tra i brani suonati anche “Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band” e “Get Back.”
Pur invitato John Lennon non partecipò all'evento (viveva in America).
Fu però tra settembre e ottobre che il segretario dell'Onu Kurt Waldheim inoltrò una richiesta ufficiale alla band per suonare per beneficienza a favore dei profughi Vietnamiti (i "Boat people) al Palazzo di Vetro dell'Onu di New York. Il concerto avrebbe avuto un seguito con date al Cairo e a Gerusalemme, per ratificare l'accordo di pace tra Israele ed Egitto.
Il concerto fu annunciato dal New York Post e ripreso poi dai giornali italiani con la dovuta enfasi.
Ma subito dopo smentito seccamente da Paul McCartney:
"I Beatles sono finiti e per sempre. Nessuno di noi è interessato a farlo. Per un sacco di ragioni. Immaginate se facessimo una grande show e non andasse bene. Che rottura".
Ma ben presto se ne tornò a parlare in occasione del Concerto per la Cambogia del 26 dicembre all'Hammersmith Odeon a Londra a cui parteciparono Paul McCartney, Who, Queen, Robert Plant, Clash, Pretenders, Elvis Costello e altri.
Paul McCartney mise insieme la sua Rockestra (che aveva partecipato anche all'album dei suoi Wings, "Back to the egg", uscito a giugno dello stesso anno con Robert Plant, John Bonham e John Paul Jones dei Led Zeppelin, (un ubriachissimo) Pete Townshend e Kenny Jones degli Who, Ronnie Lane dei Faces; Gary Brooker dei Procol Harum; Dave Edmunds dei Rockpile; James Honeyman-Scott dei Pretenders e Bruce Thomas degli Attractions.
Poco tempo prima la giornalista Pauline McLeod del Daiy Mirror, ipotizzò che all'evento avrebbero partecipato anche gli altri tre Beatles.
Quando di fronte alle richieste di altri giornalisti a Paul McCartney di sapere i nomi degli ospiti il bassista rispose che non lo avrebbe detto, facendo aumentare la suspence e avvalorando un possibile presenza dei Fab Four.
Come sappiamo la reunion non si fece nemmeno stavolta anche se a un certo punto si sparse la (falsa) voce della presenza in sala di John Lennon.
Sancendo un ulteriore capolavoro della loro storia, un "Ritratto di Dorian Gray" in musica che ce li ha consegnati per sempre giovani e al top della popolarità, senza clamorose cadute di tono.
Il 1979 fu un anno in cui una ormai sempre più improbabile REUNION dei BEATLES fu (quasi) sul punto di realizzarsi.
Incominciarono il 14 maggio Paul, Ringo e George a fare una jam session al matrimonio di Eric Clapton con Pattie Boyd (ex moglie di George con cui si era lasciata cinque anni prima). Presenti anche sopra e sotto il palco Mick Jagger, Bill Wyman, Elton John, David Bowie, Jim Capaldi, Denny Laine e tanti altri.
Tra i brani suonati anche “Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band” e “Get Back.”
Pur invitato John Lennon non partecipò all'evento (viveva in America).
Fu però tra settembre e ottobre che il segretario dell'Onu Kurt Waldheim inoltrò una richiesta ufficiale alla band per suonare per beneficienza a favore dei profughi Vietnamiti (i "Boat people) al Palazzo di Vetro dell'Onu di New York. Il concerto avrebbe avuto un seguito con date al Cairo e a Gerusalemme, per ratificare l'accordo di pace tra Israele ed Egitto.
Il concerto fu annunciato dal New York Post e ripreso poi dai giornali italiani con la dovuta enfasi.
Ma subito dopo smentito seccamente da Paul McCartney:
"I Beatles sono finiti e per sempre. Nessuno di noi è interessato a farlo. Per un sacco di ragioni. Immaginate se facessimo una grande show e non andasse bene. Che rottura".
Ma ben presto se ne tornò a parlare in occasione del Concerto per la Cambogia del 26 dicembre all'Hammersmith Odeon a Londra a cui parteciparono Paul McCartney, Who, Queen, Robert Plant, Clash, Pretenders, Elvis Costello e altri.
Paul McCartney mise insieme la sua Rockestra (che aveva partecipato anche all'album dei suoi Wings, "Back to the egg", uscito a giugno dello stesso anno con Robert Plant, John Bonham e John Paul Jones dei Led Zeppelin, (un ubriachissimo) Pete Townshend e Kenny Jones degli Who, Ronnie Lane dei Faces; Gary Brooker dei Procol Harum; Dave Edmunds dei Rockpile; James Honeyman-Scott dei Pretenders e Bruce Thomas degli Attractions.
Poco tempo prima la giornalista Pauline McLeod del Daiy Mirror, ipotizzò che all'evento avrebbero partecipato anche gli altri tre Beatles.
Quando di fronte alle richieste di altri giornalisti a Paul McCartney di sapere i nomi degli ospiti il bassista rispose che non lo avrebbe detto, facendo aumentare la suspence e avvalorando un possibile presenza dei Fab Four.
Come sappiamo la reunion non si fece nemmeno stavolta anche se a un certo punto si sparse la (falsa) voce della presenza in sala di John Lennon.
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Rock Tales
lunedì, settembre 18, 2023
Paolo Borgognone - The Beatles. Il mito dei Fab Four
Oddio!
Un altro libro sui Beatles!!!
Che altro si può ancora dire?
Eppure...
Paolo Borgognone riesce ad aggiungere, se non cose nuove (impossibile!), un taglio interessante, competente, godibile e approfondito, pieno di nomi, dati, particolari spesso poco conosciuti, alla storia più bella del mondo, quella dei BEATLES.
Partendo da un'accurata analisi sociologica dell'ambiente in cui i quattro Fab Four sono nati e cresciuti, aggiungendo particolari sempre poco citati della loro storia, concludendo con una veloce analisi del post Beatles e delle varie opportunità di possibili, ventilate e mai realizzate reunion.
I Beatlesiani di ferro troveranno la lettura più che piacevole e potranno annotare un po' di particolari insoliti e non sempre messi in evidenza, gli "occasionali" avranno una visione completa della storia dei Beatles al di fuori del consueto taglio "Wikipedia".
Paolo Borgognone
The Beatles. Il mito dei Fab Four
Diarkos
500 pagine
22 euro
Un altro libro sui Beatles!!!
Che altro si può ancora dire?
Eppure...
Paolo Borgognone riesce ad aggiungere, se non cose nuove (impossibile!), un taglio interessante, competente, godibile e approfondito, pieno di nomi, dati, particolari spesso poco conosciuti, alla storia più bella del mondo, quella dei BEATLES.
Partendo da un'accurata analisi sociologica dell'ambiente in cui i quattro Fab Four sono nati e cresciuti, aggiungendo particolari sempre poco citati della loro storia, concludendo con una veloce analisi del post Beatles e delle varie opportunità di possibili, ventilate e mai realizzate reunion.
I Beatlesiani di ferro troveranno la lettura più che piacevole e potranno annotare un po' di particolari insoliti e non sempre messi in evidenza, gli "occasionali" avranno una visione completa della storia dei Beatles al di fuori del consueto taglio "Wikipedia".
Paolo Borgognone
The Beatles. Il mito dei Fab Four
Diarkos
500 pagine
22 euro
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Libri
mercoledì, settembre 13, 2023
The Who - Who’s Next | Life House
Esce venerdì la versione Super Deluxe di "Who's next" degli WHO, quello che doveva essere l'opera rock "Lifehouse" ma che, ridotto ad album singolo, è diventata una pietra milare della storia del rock.
Sono 155 brani di cui 89 mai pubblicati e 59 remixati.
Il box si trova tra i 250 e i 280 euro, un prezzo non facilmente affrontabile pur con un'offerta così ricca e gustosa.
Il che pone il consueto motivo di discussione su come la discografia (con la connivenza degli artisti) speculi sulla passione dei fan per realizzare prodotti a prezzi molto "importanti" che contengono semplice materiale di repertorio che non ha richiesto alcun investimento.
Per i fan e collezionisti degli Who parte del materiale è già reperibile su bootleg e sul web (vedi le b sides e i 45 usciti nel periodo o i demo già presenti sul "Lifehouse Chronicles" di Pete Townshend pubblicato nel 2000 o varie parti live).
Non di meno il contenuto è, da fan e, da cultore della musica rock, oggettivamente superlativo.
La band è al top della forma, sia compositiva che esecutiva (i brani dal vivo sono impressionanti), i suoni spettacolari, il materiale prezioso.
Baba O'Riley strumentale di 13 minuti, Pure and easy, Baby don't do it di Marvin Gaye di nove minuti, brani minori dal vivo come Too much of anything, una rara Bargain, le cover live di Roadrunner e Bonie Moronie, i quattro minuti violentissimi della cover di Going Down di Freddie King.
La band si perde spesso in jam session in cui mischiano rhythm and blues, rock, blues e un approccio improvvisativo jazz, suonando come nessuno mai.
Un pezzo di storia della musica (e cultura) degli anni Settanta, ampliato in tutta la sua completezza, che coglie gli Who (ovvero uno dei gruppi rock più importanti di sempre) all'apice delle capacità.
Vale l'esborso di una cifra così alta?
L'edizione (proposta anche in versioni ridotte) contiene 10 CD, tutti rimasterizzati dai nastri originali da Jon Astley, più un Blu-ray Audio disc con nuovi remix Atmos e 5.1 surround di Who's Next e altre 14 bonus track a cura di Steven Wilson.
Ci sono i demo di Townshend per "Life House", le session di registrazione degli Who al Record Plant di New York nel 1971, le session agli Olympic Studios di Londra del 1970 al 1972 e due concerti completi del 1971, uno al Young Vic Theatre di Londra e uno al Civic Auditorium di San Francisco.
Il cofanetto contiene un book di 100 pagine con l’introduzione di Townshend e nuove note bio-discografiche di Andy Neil e Matt Kent. Incluso anche Life House - The Graphic Novel, un libro di 170 pagine supervisionato da Townshend che racconta la storia dietro il progetto.
E poi un poster di un concerto degli Who a Sunderland (7 maggio 1970), un altro poster di un concerto al Denver Coliseum (10 dicembre 1971), le repliche del programma del concerto del Rainbow Theatre di Londra (4 novembre 1971) e del programma del tour della band in UK di ottobre/novembre 1971, un set di quattro spille da collezione e una foto a colori degli Who con autografi stampati.
Sono 155 brani di cui 89 mai pubblicati e 59 remixati.
Il box si trova tra i 250 e i 280 euro, un prezzo non facilmente affrontabile pur con un'offerta così ricca e gustosa.
Il che pone il consueto motivo di discussione su come la discografia (con la connivenza degli artisti) speculi sulla passione dei fan per realizzare prodotti a prezzi molto "importanti" che contengono semplice materiale di repertorio che non ha richiesto alcun investimento.
Per i fan e collezionisti degli Who parte del materiale è già reperibile su bootleg e sul web (vedi le b sides e i 45 usciti nel periodo o i demo già presenti sul "Lifehouse Chronicles" di Pete Townshend pubblicato nel 2000 o varie parti live).
Non di meno il contenuto è, da fan e, da cultore della musica rock, oggettivamente superlativo.
La band è al top della forma, sia compositiva che esecutiva (i brani dal vivo sono impressionanti), i suoni spettacolari, il materiale prezioso.
Baba O'Riley strumentale di 13 minuti, Pure and easy, Baby don't do it di Marvin Gaye di nove minuti, brani minori dal vivo come Too much of anything, una rara Bargain, le cover live di Roadrunner e Bonie Moronie, i quattro minuti violentissimi della cover di Going Down di Freddie King.
La band si perde spesso in jam session in cui mischiano rhythm and blues, rock, blues e un approccio improvvisativo jazz, suonando come nessuno mai.
Un pezzo di storia della musica (e cultura) degli anni Settanta, ampliato in tutta la sua completezza, che coglie gli Who (ovvero uno dei gruppi rock più importanti di sempre) all'apice delle capacità.
Vale l'esborso di una cifra così alta?
L'edizione (proposta anche in versioni ridotte) contiene 10 CD, tutti rimasterizzati dai nastri originali da Jon Astley, più un Blu-ray Audio disc con nuovi remix Atmos e 5.1 surround di Who's Next e altre 14 bonus track a cura di Steven Wilson.
Ci sono i demo di Townshend per "Life House", le session di registrazione degli Who al Record Plant di New York nel 1971, le session agli Olympic Studios di Londra del 1970 al 1972 e due concerti completi del 1971, uno al Young Vic Theatre di Londra e uno al Civic Auditorium di San Francisco.
Il cofanetto contiene un book di 100 pagine con l’introduzione di Townshend e nuove note bio-discografiche di Andy Neil e Matt Kent. Incluso anche Life House - The Graphic Novel, un libro di 170 pagine supervisionato da Townshend che racconta la storia dietro il progetto.
E poi un poster di un concerto degli Who a Sunderland (7 maggio 1970), un altro poster di un concerto al Denver Coliseum (10 dicembre 1971), le repliche del programma del concerto del Rainbow Theatre di Londra (4 novembre 1971) e del programma del tour della band in UK di ottobre/novembre 1971, un set di quattro spille da collezione e una foto a colori degli Who con autografi stampati.
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Dischi
martedì, settembre 12, 2023
The Clash - Should I stay or should I go
The CLASH - Should I stay or should I go
https://www.youtube.com/watch?v=xMaE6toi4mk
"Should I say or should I go" è un noto brano dei CLASH scritto da Mick Jones per l'album "Combat Rock" del 1982.
Fu pubblicato anche come singolo con "Straight to Hell" senza particolare successo.
Quando l'uso del brano, dopo molte reticenze, fu concesso, nel 1991, per uno spot della Levi's, fu ristampato e andò dritto al primo posto delle classifiche inglesi.
Pare che il testo fosse rivolto alla allora fidanzata di Jones, Ellen Folley, in un periodo di profonda crisi relazionale.
E' singolare come nessuno abbia mai imputato ai Clash (che sono tutti firmatari del brano) una causa di plagio, per la evidente somiglianza con il brano "Little Latin Lupe Lu", composto da Bill Medley e pubblicato nel 1963 dai Righteous Brothers.
The Righteous Brothers - Little Latin Lupe Lu (1963)
https://www.youtube.com/watch?v=TuzgO_8DJA8
L'anno successivo fu ripreso dai Kingsmen (quelli di "Louie Louie").
https://www.youtube.com/watch?v=uTPaxWdn9U8
E infine nel 1966 da Mitch Ryder and the Detroit Wheels in versione più veloce e garage.
https://www.youtube.com/watch?v=KEGS-pAEvCA
Nel 1965 la facciata B di "Keep on running" (arrivato al primo posto delle charts) dello Spencer Davis Group, "High time baby", ha un'evidente attinenza con "Little Latin Lupe Lu".
https://www.youtube.com/watch?v=ByJp-Ujv-3g
I John's Children si ispirarono parecchio all'originale per il loro "Let me know" incluso nell'album "Orgasm" nel 1967 (prima dell'arrivo di Marc Bolan) ma che fu realizzato solo nel 1970 con l'aggiunta di urla del pubblico (prese dal film "A hard's days night") per simulare un finto live.
https://www.youtube.com/watch?v=vU1kHDP3fKg
Nei primi anni 70 gli Sharks, band sullo stile di Mott The Hopple, glam, Free (ai tempi un sound molto amato dal giovane Mick Jones) incise "Sophistication" che qualche vaga similitudine nel riff ce l'ha:
https://www.youtube.com/watch?v=KF8JbsLPupY
Paradossalmente gli One Direction vennero accusati di plagio del brano dei Clash per la loro hit "Live While We're Young" che ha però accordi diversi.
https://www.youtube.com/watch?v=AbPED9bisSc
L'unico che ha maliziosamente sottolineato le similitudini è stato David Lee Roth (che ebbe ai tempi di un festival americano in cui divise il palco con Strummer e soci qualche diverbio con la band inglese):
"Adoro i Clash. Adoro "Should I Stay or Should I Go", soprattutto perché amavo "Little Latin Lupe Lu" di Mitch Ryder tanti anni fa."
Le parti in spagnolo vennero cantate da Joe Strummer e dal cantautore Joe Ely che provvide alla traduzione (aiutato anche da un amico sud americano).
https://www.youtube.com/watch?v=xMaE6toi4mk
"Should I say or should I go" è un noto brano dei CLASH scritto da Mick Jones per l'album "Combat Rock" del 1982.
Fu pubblicato anche come singolo con "Straight to Hell" senza particolare successo.
Quando l'uso del brano, dopo molte reticenze, fu concesso, nel 1991, per uno spot della Levi's, fu ristampato e andò dritto al primo posto delle classifiche inglesi.
Pare che il testo fosse rivolto alla allora fidanzata di Jones, Ellen Folley, in un periodo di profonda crisi relazionale.
E' singolare come nessuno abbia mai imputato ai Clash (che sono tutti firmatari del brano) una causa di plagio, per la evidente somiglianza con il brano "Little Latin Lupe Lu", composto da Bill Medley e pubblicato nel 1963 dai Righteous Brothers.
The Righteous Brothers - Little Latin Lupe Lu (1963)
https://www.youtube.com/watch?v=TuzgO_8DJA8
L'anno successivo fu ripreso dai Kingsmen (quelli di "Louie Louie").
https://www.youtube.com/watch?v=uTPaxWdn9U8
E infine nel 1966 da Mitch Ryder and the Detroit Wheels in versione più veloce e garage.
https://www.youtube.com/watch?v=KEGS-pAEvCA
Nel 1965 la facciata B di "Keep on running" (arrivato al primo posto delle charts) dello Spencer Davis Group, "High time baby", ha un'evidente attinenza con "Little Latin Lupe Lu".
https://www.youtube.com/watch?v=ByJp-Ujv-3g
I John's Children si ispirarono parecchio all'originale per il loro "Let me know" incluso nell'album "Orgasm" nel 1967 (prima dell'arrivo di Marc Bolan) ma che fu realizzato solo nel 1970 con l'aggiunta di urla del pubblico (prese dal film "A hard's days night") per simulare un finto live.
https://www.youtube.com/watch?v=vU1kHDP3fKg
Nei primi anni 70 gli Sharks, band sullo stile di Mott The Hopple, glam, Free (ai tempi un sound molto amato dal giovane Mick Jones) incise "Sophistication" che qualche vaga similitudine nel riff ce l'ha:
https://www.youtube.com/watch?v=KF8JbsLPupY
Paradossalmente gli One Direction vennero accusati di plagio del brano dei Clash per la loro hit "Live While We're Young" che ha però accordi diversi.
https://www.youtube.com/watch?v=AbPED9bisSc
L'unico che ha maliziosamente sottolineato le similitudini è stato David Lee Roth (che ebbe ai tempi di un festival americano in cui divise il palco con Strummer e soci qualche diverbio con la band inglese):
"Adoro i Clash. Adoro "Should I Stay or Should I Go", soprattutto perché amavo "Little Latin Lupe Lu" di Mitch Ryder tanti anni fa."
Le parti in spagnolo vennero cantate da Joe Strummer e dal cantautore Joe Ely che provvide alla traduzione (aiutato anche da un amico sud americano).
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Songs
lunedì, settembre 11, 2023
Beastie Boys
Riprendo l'articolo pubblicato sabato scorso nelle pagine di "Alias" de "Il Manifesto".
I Beastie Boys sono stati tra i gruppi più rappresentativi di un’epoca, di un concetto progressivo e progressista di fare musica, partendo dall’hardcore punk, passando al rap e hip hop, in modo naturale e armonico perché, pur in antitesi sonora, erano generi che all’origine rispecchiavano la stessa attitudine.
Poi diluita in una commercializzazione artistica, estetica e culturale che ha omologato entrambi gli ambiti portandoli a musica d’ascolto, togliendo la pressoché totalità dell’anima antagonista con cui erano nate.
Non dimenticando che parliamo di una band di ragazzini bianchi new yorkesi che entrava a gamba tesa a “impossessarsi” di un linguaggio del ghetto nero ma che nel tempo è riuscita a costruirsi credibilità e autorevolezza.
Rapper che sapevano suonare, piuttosto bene, i loro strumenti, geniali, sempre alla ricerca del nuovo, dell’esperimento, con una maturazione progressiva da sciocco gruppo di nerd, con provocatori testi omofobi e sessisti, a trio di uomini consapevoli, impegnati, politicamente e socialmente.
Michael Diamond e Adam Horowitz, qualche anno dopo la scomparsa dell’amato compagno di avventure Adam Yauch, nel 2012, trovarono la forza di riprendere in mano l’album dei ricordi e scrivere un magnifico libro che ora Rizzoli pubblica in italiano, “Beastie Boys. Il libro”.
Oltre 500 pagine con un accurato e raffinato progetto grafico degli autori in cui si alternano stupende e rare foto, ricordi, follie di ogni tipo, inserti, playlist, ricette di cucina (!) e considerazioni profonde, analisi dettagliate degli album, aneddoti, testimonianze di amici e collaboratori. Non è solo la storia della band ma un ritratto sociale e un pezzo di storia della musica recente.
L’incipit è affascinante:
“E’ il 1981 a New York City: un pianeta lontano, difficile da riconescere ora.
I Beastie Boys sono appena stati fondati in una sala prove da qualche parte. Altrove Butthole Surfers, Cro-Mags, Motley Crue, Napalm Death, Run DMC, Sonic Youth e Wahm! stanno analogamente prendendo forma.
Ronald Reagan è il quarantesimo presidente della nazione. L’apparecchio per l’ascolto individuale delle musicassette conosciuto come walkman è in vendita negli Stati Uniti dall’estate precedente ma non è a buon mercato e ce l’hanno in pochi.
Piuttosto la musica risuona ovunque in città. E’ ovunque, che ti piaccia o meno...Cammini per strada e senti una radio diversa uscire da ogni singolo apparecchio, passi all’isolato successivo e senti la charanga da una parte, il Philly Soul dall’altra, un po’ di ska sopra e di doo wop sotto. La strada stessa funziona come un banco del mixer.
E’ un mondo fondato sulla radio.
In città la radio è un elemento centrale del panorama, tanto quanto i palazzi, i camion, i cartelli stradali e la gente per strada... Quello che non passano mai è il rap. Ma l’hip hop è ormai nelle strade. Quegli stereo boombox non sparano solo la musica delle radio. I mixtape trionfano”.
E’ in questo clima che i tre ragazzini crescono.
Non solo artistico e musicale ma anche sociale.
New York è una città in bilico, allo stremo.
“Per anni dalla fine della guerra è stata sempre più lasciata in mano ai poveri.
Interi distretti sono stati abbandonati, interi isolati dati al fuoco. I servizi sociali funzionano a malapena, le strade sono luride e piene di spazzatura.
Le droghe si mangiano la città a una velocità incredibile.
Eroina e cocaina sono ovunque e costano pochissimo. Gli amici rubano agli amici. E c’é anche questa nuova malattia, sconosciuta, che inizia a diffondersi tra gli omosessuali. Ma sono proprio questi i motivi per cui la città è diventata il luogo ideale per artisti e musicisti, per i giovani che cercano di combinare qualcosa e sono disposti a rinunciare alle proprie abitudini e a ogni regola del buonsenso”.
E’ una vita dura, difficile e pericolosa ma questi giovani surfer di un’esistenza spericolata cavalcano le onde più alte e impervie e faticosamente ce la fanno. I Beastie Boys lasciano l’hardcore, incominciano a frequentare il “Negril”, nel West Village, un locale reggae che si vota all’hip hop, dove si vedono Terry Hall degli Specials, Billy Idol, il DJ Don Letts alla ricerca di nuove idee e suoni, scoprono Afrika Bambaataa, “il primo che vedemmo prendere piccole porzioni da una serie di dischi e mixarle insieme per farne una canzone completamente nuova, creata da lui. Una micidiale combinazione di ruoli: curatore, improvvisatore, musicista. Piuttosto comune oggi ma ai tempi non avevamo mai visto né sentito qualcosa del genere”.
Iniziano a lavorare sulla nuova dimensione di band hip hop, provano (e vivono) in situazioni più che disagiate e trovano il battesimo di fuoco in un tempio del rap come il “Disco Fever”, culla del genere.
“E’ questa la cosa grandiosa dell’essere adolescenti: ti senti indistruttibile. Stupidità e arroganza battono realismo e paura”.
Inutile dire che il concerto passò inosservato nell’indifferenza del poco pubblico presente. Ma il battesimo era avvenuto.
Approdano alla Def Jam di Rick Rubin e incomincia una nuova storia, ancora lunga e irta di ostacoli, sconfitte e scoramento. Ma nel 1986 con l’esordio di “Licensed to ill” e il brano “(You gotta) Fight for your right (to party)”, con tanto di video che passa a ripetizione su MTV ottengono il grande successo e la possibilità di andare in tour con nomi come Run DMC e Madonna.
I testi sono scanzonati ma anche estremi e decisamente “sopra le righe” quando fanno riferimenti pesantemente sessisti e omofobi di cui si pentiranno e per cui non esiteranno successivamente a scusarsi:
“Non ci sono scuse. Ma il tempo ha sanato la nostra stupidità. Abbiamo imparato e sinceramente cambiato dagli anni Ottanta. Speriamo vogliate accettare queste scuse tanto attese”.
La band ha il grande pregio di non adagiarsi sugli schemi che hanno dato loro il successo ma di osare immediatamente e andare oltre, riprendendo in mano gli strumenti e spostando con “Paul’s Boutique” il sound verso soul e funk e con il successivo “Check your head” spingendosi, con venti brani, a jazz, hardcore, sperimentazione, funk, rap.
Una caratteristica che sarà il filo conduttore delle opere successive, in cui non ci saranno mai limiti alla loro grande creatività.
“Hello Nasty” nel 1998 li consacrerà ulteriormente, con primi posti in vari paesi del mondo e milioni di copie vendute.
Il tutto sotto il loro totale controllo artistico, grazie all’etichetta che fondano, la Grand Royal, e con la quale portano avanti lo spirito autoproduttivo delle origini. Come dice nel libro il regista, che ha collaborato a lungo con la band, Spike Jonze:
“Non incidevano solo, creavano mondi. Hanno sempre fatto a modo loro. Non c’era nessuno di un’etichetta discografica a dirgli cosa fare. I Beastie Boys andavano per la loro strada e quando finivano un lavoro – le foto, il video, l’album – consegnavano tutto alla casa discografica”.
Interessante anche l’evoluzione e il cambiamento sistematico della loro estetica che ha spesso precorso le mode e le tendenze, che assemblavano dalla strada.
Significativa la scelta per incidere “Mix Up” del 2007 in cui abbracciano un funk soul jazz strumentale.
“Se avete intenzione di incidere un album strumentale dovete vestirvi in maniera adeguata, come dei jazzisti. Gli abiti che indossate sono importanti, cazzo”.
E così fecero, ogni giorno in studio di registrazione.
Un brutto male portò via Adam Yauch nel 2012 e il suo ricordo è malinconicamente costante nel libro.
“La band non si è sciolta. Adam ha avuto il cancro ed è morto. Se non fosse successo, probabilmente staremmo registrando un album mentre state leggendo queste righe”.
I Beastie Boys sono stati tra i gruppi più rappresentativi di un’epoca, di un concetto progressivo e progressista di fare musica, partendo dall’hardcore punk, passando al rap e hip hop, in modo naturale e armonico perché, pur in antitesi sonora, erano generi che all’origine rispecchiavano la stessa attitudine.
Poi diluita in una commercializzazione artistica, estetica e culturale che ha omologato entrambi gli ambiti portandoli a musica d’ascolto, togliendo la pressoché totalità dell’anima antagonista con cui erano nate.
Non dimenticando che parliamo di una band di ragazzini bianchi new yorkesi che entrava a gamba tesa a “impossessarsi” di un linguaggio del ghetto nero ma che nel tempo è riuscita a costruirsi credibilità e autorevolezza.
Rapper che sapevano suonare, piuttosto bene, i loro strumenti, geniali, sempre alla ricerca del nuovo, dell’esperimento, con una maturazione progressiva da sciocco gruppo di nerd, con provocatori testi omofobi e sessisti, a trio di uomini consapevoli, impegnati, politicamente e socialmente.
Michael Diamond e Adam Horowitz, qualche anno dopo la scomparsa dell’amato compagno di avventure Adam Yauch, nel 2012, trovarono la forza di riprendere in mano l’album dei ricordi e scrivere un magnifico libro che ora Rizzoli pubblica in italiano, “Beastie Boys. Il libro”.
Oltre 500 pagine con un accurato e raffinato progetto grafico degli autori in cui si alternano stupende e rare foto, ricordi, follie di ogni tipo, inserti, playlist, ricette di cucina (!) e considerazioni profonde, analisi dettagliate degli album, aneddoti, testimonianze di amici e collaboratori. Non è solo la storia della band ma un ritratto sociale e un pezzo di storia della musica recente.
L’incipit è affascinante:
“E’ il 1981 a New York City: un pianeta lontano, difficile da riconescere ora.
I Beastie Boys sono appena stati fondati in una sala prove da qualche parte. Altrove Butthole Surfers, Cro-Mags, Motley Crue, Napalm Death, Run DMC, Sonic Youth e Wahm! stanno analogamente prendendo forma.
Ronald Reagan è il quarantesimo presidente della nazione. L’apparecchio per l’ascolto individuale delle musicassette conosciuto come walkman è in vendita negli Stati Uniti dall’estate precedente ma non è a buon mercato e ce l’hanno in pochi.
Piuttosto la musica risuona ovunque in città. E’ ovunque, che ti piaccia o meno...Cammini per strada e senti una radio diversa uscire da ogni singolo apparecchio, passi all’isolato successivo e senti la charanga da una parte, il Philly Soul dall’altra, un po’ di ska sopra e di doo wop sotto. La strada stessa funziona come un banco del mixer.
E’ un mondo fondato sulla radio.
In città la radio è un elemento centrale del panorama, tanto quanto i palazzi, i camion, i cartelli stradali e la gente per strada... Quello che non passano mai è il rap. Ma l’hip hop è ormai nelle strade. Quegli stereo boombox non sparano solo la musica delle radio. I mixtape trionfano”.
E’ in questo clima che i tre ragazzini crescono.
Non solo artistico e musicale ma anche sociale.
New York è una città in bilico, allo stremo.
“Per anni dalla fine della guerra è stata sempre più lasciata in mano ai poveri.
Interi distretti sono stati abbandonati, interi isolati dati al fuoco. I servizi sociali funzionano a malapena, le strade sono luride e piene di spazzatura.
Le droghe si mangiano la città a una velocità incredibile.
Eroina e cocaina sono ovunque e costano pochissimo. Gli amici rubano agli amici. E c’é anche questa nuova malattia, sconosciuta, che inizia a diffondersi tra gli omosessuali. Ma sono proprio questi i motivi per cui la città è diventata il luogo ideale per artisti e musicisti, per i giovani che cercano di combinare qualcosa e sono disposti a rinunciare alle proprie abitudini e a ogni regola del buonsenso”.
E’ una vita dura, difficile e pericolosa ma questi giovani surfer di un’esistenza spericolata cavalcano le onde più alte e impervie e faticosamente ce la fanno. I Beastie Boys lasciano l’hardcore, incominciano a frequentare il “Negril”, nel West Village, un locale reggae che si vota all’hip hop, dove si vedono Terry Hall degli Specials, Billy Idol, il DJ Don Letts alla ricerca di nuove idee e suoni, scoprono Afrika Bambaataa, “il primo che vedemmo prendere piccole porzioni da una serie di dischi e mixarle insieme per farne una canzone completamente nuova, creata da lui. Una micidiale combinazione di ruoli: curatore, improvvisatore, musicista. Piuttosto comune oggi ma ai tempi non avevamo mai visto né sentito qualcosa del genere”.
Iniziano a lavorare sulla nuova dimensione di band hip hop, provano (e vivono) in situazioni più che disagiate e trovano il battesimo di fuoco in un tempio del rap come il “Disco Fever”, culla del genere.
“E’ questa la cosa grandiosa dell’essere adolescenti: ti senti indistruttibile. Stupidità e arroganza battono realismo e paura”.
Inutile dire che il concerto passò inosservato nell’indifferenza del poco pubblico presente. Ma il battesimo era avvenuto.
Approdano alla Def Jam di Rick Rubin e incomincia una nuova storia, ancora lunga e irta di ostacoli, sconfitte e scoramento. Ma nel 1986 con l’esordio di “Licensed to ill” e il brano “(You gotta) Fight for your right (to party)”, con tanto di video che passa a ripetizione su MTV ottengono il grande successo e la possibilità di andare in tour con nomi come Run DMC e Madonna.
I testi sono scanzonati ma anche estremi e decisamente “sopra le righe” quando fanno riferimenti pesantemente sessisti e omofobi di cui si pentiranno e per cui non esiteranno successivamente a scusarsi:
“Non ci sono scuse. Ma il tempo ha sanato la nostra stupidità. Abbiamo imparato e sinceramente cambiato dagli anni Ottanta. Speriamo vogliate accettare queste scuse tanto attese”.
La band ha il grande pregio di non adagiarsi sugli schemi che hanno dato loro il successo ma di osare immediatamente e andare oltre, riprendendo in mano gli strumenti e spostando con “Paul’s Boutique” il sound verso soul e funk e con il successivo “Check your head” spingendosi, con venti brani, a jazz, hardcore, sperimentazione, funk, rap.
Una caratteristica che sarà il filo conduttore delle opere successive, in cui non ci saranno mai limiti alla loro grande creatività.
“Hello Nasty” nel 1998 li consacrerà ulteriormente, con primi posti in vari paesi del mondo e milioni di copie vendute.
Il tutto sotto il loro totale controllo artistico, grazie all’etichetta che fondano, la Grand Royal, e con la quale portano avanti lo spirito autoproduttivo delle origini. Come dice nel libro il regista, che ha collaborato a lungo con la band, Spike Jonze:
“Non incidevano solo, creavano mondi. Hanno sempre fatto a modo loro. Non c’era nessuno di un’etichetta discografica a dirgli cosa fare. I Beastie Boys andavano per la loro strada e quando finivano un lavoro – le foto, il video, l’album – consegnavano tutto alla casa discografica”.
Interessante anche l’evoluzione e il cambiamento sistematico della loro estetica che ha spesso precorso le mode e le tendenze, che assemblavano dalla strada.
Significativa la scelta per incidere “Mix Up” del 2007 in cui abbracciano un funk soul jazz strumentale.
“Se avete intenzione di incidere un album strumentale dovete vestirvi in maniera adeguata, come dei jazzisti. Gli abiti che indossate sono importanti, cazzo”.
E così fecero, ogni giorno in studio di registrazione.
Un brutto male portò via Adam Yauch nel 2012 e il suo ricordo è malinconicamente costante nel libro.
“La band non si è sciolta. Adam ha avuto il cancro ed è morto. Se non fosse successo, probabilmente staremmo registrando un album mentre state leggendo queste righe”.
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sabato, settembre 09, 2023
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Torniamo con i NOT MOVING LTD siamo always on the road sull'Isola d'Elba (dopo Sicilia e Sardegna ci mancava un'altra isola) al Neverending Festival.
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Poi si va avanti ancora fino alla fine dell'anno (e poi stop). ROCK AROUND THE BOOK chiude quest'anno con due serate.
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