lunedì, gennaio 31, 2022

Gennaio 2022. Il meglio del mese


Parte bene l'anno con Miles Kane, Elvis Costello e Diasonics
Mentre tra gli italiani White Seed, Tin Woodman, Alternative Station, Massimo Zamboni e Path


MILES KANE - Change the show
"Per me la scena mod è uno stile di vita; la gang cui ho avuto l’esigenza di appartenere per capire chi fossi; le radici cui torno sempre, immancabilmente, perché sono parte di ciò che sono".
Miles Kane torna con un lavoro eccellente per chi ama certi suoni.
Tanto soul (e anche northern soul), pop beat chitarristico, riferimenti Beatlesiani, belle canzoni, divertenti, energiche, arrangiate con gusto, suoni perfetti.
Un gioiello che splende!

ELVIS COSTELLO - The boy named if
32° album e in mezzo mille cambiamenti, sterzate, sperimentazioni ma un filo rosso di immediata riconoscibilità compositiva che ne fa uno dei migliori musicisti contemporanei. "The boy named If" è un album ruvido, rock 'n' roll, pub rock ma con una classe comune a pochi.
"Curioso" che l'album parta con un brano che poteva stare nel primo o secondo album dei Beatles e si chiuda con uno che se fosse stato nel primo John Lennon solista sarebbe stato perfetto.

WHITE SEED - Psychomania
Un viaggio ultra psichedelico blues punk tra 60's e 70's a cura di White Seed (con ospite Manlio Tenaglia, ex Hermits). Dalla psichedelia più oscura, bizzara, weird e sperimentale allo Screamin' Jay Hawkins malefico e grottesco, il 60's garage beat abrasivo e acido, la CASSETTA è un vero e proprio gioiello di grande originalità e personalità.

POISON BOYS - Don’t You Turn On Me
La New York della metà dei 70 rivive nella verve rock 'n' roll proto punk della band di Chicago, che mette insieme New York Dolls, Dictators, Dead Boys, una bella dose di glam, gli immancabili Stooges, Johnny Thunders, i Cult di "Love" e i troppo spesso dimenticati Slaughter and the Dogs. Poco o niente di originale ma puro e semplice assalto sonoro di grande qualità e immediata riconoscibilità. E' sufficiente.

DIAMOND DOGS - Slap Bang Blue Rendez Vous
La band svedese riporta in alto i fasti del rock 'n' roll stradaiolo glam dei 70, smaccatamente Rolling Stones con ampie dosi di Humble Pie, Faces, primi Aerosmith, Slade. Un doppio con 24 brani finisce per essere però ripetitivo e alla fine troppo lungo. Ma per gli appassionati del genere c'é di che goderne.

DEEP PURPLE - Turning to crime
Si divertono e soprattutto divertono noi con questo album di cover. Soprattutto nella scelta dei brani, dai Love a Mitch Ryder, Cream, Bob Seger e addirittura spezzoni di Booker T, Jeff Beck Gropu, Allman Brothers Band. Inutile dire che il tutto è suonato a livelli stratosferici. Belle le interpretazioni, davvero gustoso da ascoltare.

POLITE SOCIETY - s/t
Originale e complesso lavoro per la band canadese che spazia tra psichedelia, primo prog, proto hard, con le più disparate influenze a cavallo tra 60s e 70's, un pizzico di Canterbury Sound e grande perizia tecnica.
Bravissimi, energici, cool.

DIASONICS - Origin of Forms
La band russa definisce il suo sound strumentale come Hussar Funk.
Un groove che attinge dai classici mood funk e cinematici, tra 60's e 70's ma inserisce elementi ipnotici, presi dalla tradizione folk dell'est europeo, con sguardi all'oriente ex sovietico. I suoni sono minimali, analogici, crudi, "antichi", particolari.
Originale e affascinante.

GERRY BRIGHT & THE STOKERS - Stand Up!
Grande groove dalla band francese che si tuffa nel garage 60's più ruvido con affinità ai primi Prisoners, super tiro rock 'n' roll, retaggio wild rhythm and blues, canzoni più che ottime.

STRANGE COLOURS - Future's almost over
Dalle ceneri dei Deadly Snakes una bordata di puro e semplice garage punk, duro, diretto, gracchiante, potente, con organo, ritmiche impetuose, voce distorta. Scontato ma funziona.

DAVID BOWIE - Toy
Una serie di incisioni del 2000 per un album "sorpresa" che non andò mai in porto. Bowie e la sua band riregistarono una serie di brani degli anni 60 dello stesso Bowie (una specie di "Pin Ups" personale) ridando vita, modernità e vigore a episodi del suo primo periodo mod/freakbeat. Band impeccabile e in gran forma, ottimi arrangiamenti, voce spaziale. "Toy" non aggiunge nulla alla grandezza di Bowie, un compendio comunque interessante.

DREAM SYNDICATE - What can I say? No regrets...
Ristampa dell'album "Out of the grey" del 1986, spesso considerato minore e anomalo, soprattutto a causa di un sound iper prodotto, poco consono al gusto garage della band di Steve Wynn. A distanza suona invece più che bene e ispirato (nonostante i recenti stravolgimenti di line up). ina ggiunta un ruvido live in cui la band si presenta al meglio e un terzo (inutile) Cd di demo e prove in studio, pertinenza esclusiva dei fan più scatenati.

CAT POWER -Covers
La cantautrice prosegue la sua usanza di affidarsi periodicamente a un album di cover, scelte sempre con cura e in qualche modo sorpendenti: da Jackson Brown a Nick Cave, Lana Del Rey, Billie Holiday, Iggy Pop, Frank Ocean, The Replacements. Intensità, personalità, originalità.

MASSIMO ZAMBONI – La mia patria attuale
Il retaggio artistico e culturale di Zamboni (CCCP, CSI, una lunga carriera solista e di apprezzato scrittore, compositore, chitarrista) è immenso, per la portata valoriale di cui è stato ed è protagonista. Il nuovo album è una lucida riflessione sulla complessa (e distopica per certi versi) situazione attuale. Aiutato sia nella produzione che nell’apporto strumentale da Alessandro “Asso” Stefana, storico chitarrista di Vinicio Capossela (e collaboratore di PJ Harvey) e una serie di altri valenti musicisti, nel nuovo album si muove agevolmente tra la migliore canzone d’autore italiana (da De Andrè a Guccini) ma non disdegna sperimentazione e richiami alle esperienze degli anni 80 e 90. Come sempre livello altissimo.

FEDERICO FIUMANI - Confidenziale 2021
Veterano della scena new wave, Fiumani torna con un live tratto dal suo abituale tour in semiacustico con la sua voce e una chitarra elettrica, il basso di Luca Cantasano e una batteria elettronica. I 22 brani raccolgono il meglio della sua produzione e un’intensa cover di See No Evil degli amati Television. Ennesima testimonianza di quello che è un vero e proprio monumento della canzone d’autore italiana.

LE LANTERNE ROSSE - Non puoi restare / Paura del buio Sembra arrivare dai Sixties italiani più profondi questo nuovo 45 giri de Le Lanterne Rosse. Ci sono i Rokes, un'abbondante dose di psichedelia e tanto groove jingle jangle. Due brani deliziosi e travolgenti.

TIN WOODMAN - Songs for eternal lovers
Il duo bresciano fa convergere nelle dodici canzoni del nuovo album psichedelia, pop rock inglese, folate prog, brit pop, indie rock, dissonanze ma soprattutto inventiva, versatilità, originalità, belle canzoni, un livello compositivo ed esecutivo di respiro internazionale. Eccellente.

ALTERNATIVE STATION - Alabaster
Nuovo lavoro per la band riminese, un ep di cinque brani, tirati e abrasivi ma che si caratterizzano per un gusto melodico di sapore brit pop. Molteplici le influenze che assimilano Arctic Monkeys, Strokes, Franz Ferdinand, primissimi Cure, Fontaines D.C. Grande maturità espressiva e compositiva, brani che rasentano l'eccellenza.

PATH - Mono/Stereo
Sesto album per il cantautore di Anguillara Sabazia, quasi alle porte di Roma. Otto brani di intensa grana rock, con un'attitudine combat folk, tra Billy Bragg e Willie Nile, lo Springsteen di "Nebraska", una pausa funk, un'anima che attinge dal Dylan blues. Anima, passione e personalità.

ASCOLTATO ANCHE:
THE DODOS (ottavo album, tra melodie di gusto 60's, Coldplay, gusto per orchestrazioni sperimentali), SECRET NIGHT GANG (jazz fusion funk di buona qualità), BORED SHORTS (australiani con un gusto chitarristico 80's e melodie 60's. Niente di che), BLACK COUNTRY, NEW ROAD (molto incensati dalla critica, lontanissimi dai miei gusti), FLORETS (buon pop psichedelico dall'Australia)

LETTO

LUCA FRAZZI - Sniffando colla
Luca Frazzi, profondo e diretto conoscitore di questo mondo sotterraneo, di cui è stato più volte protagonista con diverse sue pubblicazioni, si è preso la briga di selezionare (su un migliaio) 50 FANZINE ITALIANE (a cui ne ha aggiunte altrettante, "le altre cinquanta"), rappresentative di un mondo conosciuto solo ai cultori ma che, non raramente, raggiungevano tirature dalle 500 alle 1000 e anche più copie.
Da "Punkadelic" (sette numeri tra il 76 e il 77 che traducevano articoli dai giornali inglesi, stampati in 10 copie, da sempre irreperibili) a "Road to Ruin" che di numeri ne stampò 120 (!!), il seminale "Red's Ronnie Bazar", la più professionale "Sottoterra", la "bibbia" del primo hardcore "TVOR", la mia "Faces".
Un salto in un "piccolo mondo antico", pieno di passione, energia, cultura. Il libro è allegato al nuovo numero di "Rumore".

MARCO DENTI - Neil Young. Walk like a giant
Marco Denti, maestro del giornalismo musicale nostrano, nuota agevolmente in una materia a lui cara come la storia discografica di NEIL YOUNG.
In questo libro analizza testi e contenuti artistici di una cinquantina di album, con scrupolo, tanta poesia e capacità di sapere cogliere particolari apparentemente secondari ma decisivi alla comprensione dell'opera del Nostro.
Indispensabile per i fan ma utilissimo per chi, come il sottoscritto, non è mai stato un cultore del cantautore canadese, e che, sarà banale ma inevitabile, non resiste, leggendo queste pagine, alla voglia di andarsi a riascoltare questo o quel disco.
Cercando di cogliere ciò che dice l'ultima frase a conclusione del libro: "Neil Young non lo ascolti, lo senti". (Rick L. Snyder)
"L'uomo è irrequieto, precorre i tempi e non ha paura a guardare nel buio" (riferito ad Harvest) è una perfetta definizione per incorniciare Neil Young.
Senza dimenticare una perla come:
"Di solito la prima take è la migliore, se sei pronto.
Se non sei pronto, allora non dovresti essere lì".

PIERO VERNI - Il sorriso e la saggezza
Il Dalai Lama (Tenzin Gyatso) è una della figure più discusse degli ultimi decenni.
Guida spirituale e referente sempre più politico (a seguito della sanguinosa invasione e successiva oppressiva occupazione cinese nel 1959) del popolo Tibetano.
Da anni combatte una battaglia all'insegna del pacifismo, alla ricerca di soluzioni condivise con la dirigenza cinese (che le ha sempre respinte), che consentano al TIBET una maggiore autonomia, avendo abbandonato da tempo ogni ipotesi indipendentista.
Troppo potente (soprattutto commercialmente ed economicamente) la Cina per potere trovare validi alleati, se non con deboli appoggi formali e pavide dichiarazioni di intenti.
"Il Tibet non faceva notizia.
Inoltre nell'agone politico non c'era simpatia per quel pugno di montanari un po' ignoranti, ancorati testardamente alle loro "superstizioni medievali" che non affascinavano di certo né l'Occidente capitalista tutto preso nel decollo accelerato dei miti della società del benessere e del consumo, né tantomeno il mondo comunista ancora schierato a difesa della Cina Popolare.
Per gli uni e per gli altri, Dalai Lama e Tibetani erano un fastidioso residuo, un ingombrante peso sulla via del cambiamento.
Piero Verni (giornalista, scrittore, studioso del popolo Tibetano) evita il rischio dell'agiografia e si addentra invece in una storia precisa e accurata delle vicende storiche e politiche del Tibet durante la vita del Dalai Lama, con date, nomi, fatti, aggiungendo la storia del "Tetto del Mondo" (vittima frequente di invasioni: mongoli, cinesi, nepalesi, inglesi), gli aspetti culturali e religiosi, le dichiarazioni dello stesso Dalai Lama che ha avuto l'opportunità di seguire e intervistare più volte, la triste e tragica conta delle immolazioni di centinaia di persone che si sono date fuoco per attirare l'attenzione sulla tragedia in corso.
Un lavoro completo e onesto che riesce a dare una visione lucida sulla questione, al di fuori da posizioni ideologiche.

LUCIO MAZZI - Just like a woman
Lucio Mazzi ha una lunga carriera di scrittore in ambito musicale con decine di libri dal 1991 ad oggi.
Il nuovo lavoro affronta una tematica non facile a causa della sua ampiezza e dell'opinabilità delle scelte e dello spazio dedicato ai vari capitoli.
Il numero delle protagoniste del rock e del pop è incalcolabile.
Lo sottolinea lo stesso autore:
troppi sono i nomi realmente impossibili da incasellare in questo o quel genere musicale, quindi la preghiera è di non stare a guardare troppo per il sottile se VOI avreste messo quel tal nome in un altro capitolo rispetto a dove l‟ho sistemato IO: è tutto arbitrario e quindi legittimo, ricordiamo sempre che sono più importanti loro, la loro vita e il loro lavoro, delle etichette che vogliamo appiccicarvi.
Scorrono così le donne del blues e quelle del soul, le star dei 60's, quelle del country, del punk, della new wave, della disco e un po' di Italia sparsa.
Interessante ed encomiabile lo sforzo.

FEDERICO SCARIONI / OMAR PEDRINI - Dentro un viaggio senza vento
Viaggio senza vento dei TIMORIA, pubblicato nel 1993, disco d’oro, è diventato un classico della music pop rock italiana.
Omar Pedrini, principale compositore di quel concept e grande personaggio, ripercorre, aiutato da Federico Scarioni, gli avvenimenti che lo hanno ispirato, con molti aneddoti, pochi peli sulla lingua, linguaggio sincero, onesto, diretto.
Tra entusiasmo e antiche ferite.
Il tutto ambientato nella data milanese del tour commemorativo del 2019, corredato da foto e note accurate.
Ovviamente indispensabile per i fan della band.

VISTO

Basically, Johnny Moped di Fred Burns
La carriera d(e)i JOHNNY MOPED non è stata delle più fulgide né quella più ricordata e rimpianta in ambito punk rock.
Anche se ne sono stati tra i pionieri, attivi tra il 76 e il 78, nel giro londinese con un mix di punk, pub rock, rock 'n' roll sguaiato.
Una manciata di singoli, un discreto album, la partecipazione alla compilation Live at the Roxy WC2 (con Buzzcocks, Adverts, X Ray Spex, Wire, Eater, Slaughter and the Dogs), lo scioglimento, qualche reunion, nuovi dischi, l'oblìo.
Fred Burns (figlio di Captain Sensible dei Damned) ne ricostruisce la traballante e strampalata storia in un'oretta di doc, uscito nel 2013 e ora in onda su Netflix, in cui coinvolge il padre, Chrissie Hynde (entrambi passati nella band), Shane McGowan, Don Letts e i membri del gruppo.
Uno spezzone curioso, a tratti un po' imbarazzante, di un'epoca, uno dei migliaia di tasselli che ormai saltano fuori a ripetizione per unirsi a un mosaico ormai totalmente noto, saccheggiato, esaurito che è stato il primo punk rock.
Male non fa e alla fine può essere divertente.
Sicuramente non essenziale.

COSE VARIE
° Ogni giorno mie recensioni italiane su www.radiocoop.it (per cui curo ogni settimana un TG video musicale - vedi pagina FB https://www.facebook.com/RadiocoopTV/).
° Ogni domenica "La musica ribelle", una pagina sul quotidiano "Libertà"
° Ogni mese varie su CLASSIC ROCK.
° Ogni sabato un video con aggiornamenti musicali sul portale https://www.facebook.com/goodmorninggenova
° Nel sito www.goodmorninggenova.org curo settimanalmente una rubrica di calcio "minore".
° Periodicamente su "Il Manifesto" e "Vinile".

IN CANTIERE
E' uscito in tutte le librerie il libro "Soul. La musica dell'anima" per Diarkos.
Qui i dettagli: https://tonyface.blogspot.com/2022/01/antonio-bacciocchi-soul-la-musica.html
Tra un po' di nuovo in pista i Not Moving LTD

Il 12 febbraio alle ore 19 la presentazione del libro "Soul" al Circolo Belleri di Piacenza, Corso Vittorio Emanuele II 299.


Per DIARKOS/Rusconi il mio nuovo libro Soul. La musica dell'anima.
Dagli albori al nu soul, attraverso i nomi più importanti, le contaminazioni, le realtà meno conosciute, un viaggio attraverso la STORIA della SOUL MUSIC.
Si parla anche di soul in Italia, soul in Africa, psychedelic soul, soul punk, Go Go sound, Philly sound, Northern soul, discomusic, soul e politica e tanto altro.
Prefazione di Graziano Uliani e Carlo Babando.

«Bacciocchi ha da sempre scritto di musica utilizzando la prospettiva ampia di chi ne cerca i riflessi negli occhi degli uomini e delle donne.
Di qualsiasi colore, di qualsiasi tempo».
(Carlo Babando)

«Noi, che pensavamo solo alla musica, capimmo che il soul era un’altra cosa.
Era un modo di vivere».
(Graziano Uliani)

domenica, gennaio 30, 2022

Classic Rock
Presentazione "Soul" a Piacenza


Nel nuovo numero di Classic Rock recensisco i Voivod, la compilation I love to see you strut e il libro di Anthony Davies "La storia di Joe Strummer e i Mescaleros".
Inoltre partecipo alle classiche classifiche dei migliori album dell'anno, italiani e stramieri.

Il 12 febbraio alle ore 19 la presentazione del libro "Soul" al Circolo Belleri di Piacenza, Corso Vittorio Emanuele II 299.

sabato, gennaio 29, 2022

°Mainstream Funk – Funk, Soul, & Spiritual Jazz 1971 to 1975
°Elephant Stomp – 12 Instrumental Freaky Stomper Rock Gems From The 70s
°Jon Savage's 1977-1979 - Symbols Clashing Everywhere
° I love to see you strut

Mainstream Funk – Funk, Soul, & Spiritual Jazz 1971 to 1975
Dodici gemme funk e jazz funk con l'iniziale versione di "Inner city blues" di Sarah Vaughan che svetta ma anche la "Family affair" di Sly rifatta strumentale da Dave Hubbard è di altissimo livello.

Elephant Stomp – 12 Instrumental Freaky Stomper Rock Gems From The 70s
Musica strana dagli anni 70 (72/77) con band che mischiavano il post hard/glam con le prime smanie danzerecce disco. Ci sono gli olandesi Rockets e i conterranei Damned, "Elephant Stomp" a base di un acido freakbeat prog degli inglesi Galahad, il bizzarro (a dir poco) glam/disc/moog degli Elektrik Cokernut in "Jungle Juice".
Sound particolarissimo.

Jon Savage's 1977-1979 - Symbols Clashing Everywhere
Un pastiche dei suoni che giravano tra il 77 e il 79 selezionati dal giornalista e scrittore Jon Savage.
C'è il punk più tradizonale (da Damned a Iggy, via Adverts, 999), la new wave dei Suicide, B52s, Pere Ubu, Devo , il reggae, il pop, la disco, i Cramps.
In effetti è quello che arrivava alle nostre orecchie ma l'accostamento è un po' forzato e poco interessante (i brani sono ampiamente noti), se non come documento di un'epoca.

I love to see you strut
Ennesima raccolta di brani (settantacinque) tra nomi oscuri e altri destinati a diventare star (Who, Small faces, Kinks, Pretty Things, Animals, Yardbird, Moody Blues), ideale colonna sonora per un mod party dei 60.
Piccole gemme di un'epoca lontana ma ancora scintillante.

venerdì, gennaio 28, 2022

Get Back, Dischi da (ri)scoprire - Supergrass



Ogni mese la rubrica GET BACK ripropone alcuni dischi persi nel tempo e meritevoli di una riscoperta.
Le altre riscoperte sono qui:

http://tonyface.blogspot.it/search/label/Get%20Back

Speciale SUPERGRASS


I should coco (1995)
Ricordato soprattutto per il singolo che li lanciò, lo sbarazzino "Alright", è in realtà un album schizatissimo, amfetaminico, isterico, a tratti abrasivo e cattivo. In mezzo melodie vocali 60's, Jam, Buzzcocks, Kinks, Who, punk, pop.
Rimane ancora fresco, urgente, potente.

In It For The Money (1997)
La band diventa meno frenetica e più riflessiva, i brani arrangiati con più cura e varietà di stile, con fiati e influenze psichedeliche. Qua e là veri e propri gioielli come "Sun hits the sky", "Going out", un gusto per le ballate, un tiratissimo funk come "Cheapskate". Un ottimo lavoro.

Supergrass (1999)
Il perfetto equilibrio tra una raggiunta maturità compositiva, il consueto gusto per i 60's, l'aderenza all'attualità sonora, uno stile ormai perfettamente riconoscibile. La band raggiunge probabilmente il suo apice e piccoli capolavori come "Moving", "Mary", il glma/Stones di "Pumping on my stereo" lo confermano. Una delle migliori band inglesi dei 90.

Life on other planets (2002)
Capacità innata della band è sapere centellinare le uscite discografiche con sapienza. Anche il quarto album non delude anche se gli ingredienti sono ormai prevedibili, la qualità delle canzoni è sempre altissima.
Il sound torna più ruvido, immediato e meno elaborato ma il risultato è sempre di alta qualità.

Road To Rouen (2005)
Non è forse il migliore album della band ma quello più suggestivo, intrigante, affascinante.
E' un periodo difficile per il gruppo (in cui entra stabilmente alla tastiera il fratello di Gaz Coombes) che si riflette si una musica malinconica, magniloquente, molto arrangiata, con fiati e archi.
Una svolta quasi "prog" ma interessantissima.

Diamond Hoo Ha (2008)
Ultimo album in studio. Dignitoso ma dimenticabile.
Gli ingredienti ci sono tutti e sono i soliti ma quello che manca è l'ispirazione e alla fine suona come un lavoro stanco e poco ispirato.

Live on other planets (2020)
Pregevole doppio live tratto dalla reunion del 2020 che li ha portati tra Europa e Usa.
Band in formissima, grande groove e classe immutata.
E una sfilza di loro classici che rendono bene l'idea della grandezza del gruppo.

Sciolta la band Gaz Coombes inizia la carriera solista, al pari del batterista Danny Goffrey (anche se i due condivideranno l'esperienza The Hot Rats, chiamati anche Diamond Hoo Ha Men. Il bassista Mick Quinn è entrato dal 2015 negli Swervedriver.


SOLO PROJECTS

GAZ COOMBES

Here Come the Bombs (2012)
L'esordio solista del leader della band prosegue dove aveano smesso i Supergrass ma senza strabiliare né convincere troppo.

Matador (2015)
Matador
In questo splendido secondo album solista esplodono mille influenze, dal kraut rock (con un occhio particolare ai mai dimenticati Neu!) alla psichedelia, spesso non lontano dalle ultime esperienze di Paul Weller e Damon Albarn ma senza farsi mancare episodi più tradizionalmente vicini alle influenze di sempre (pop, Beatles, Kinks, il primo David Bowie).
Album modernissimo, interessante, completo, efficace dall'inizio alla fine.

World's Strongest Man (2018)
Il terzo album ci conferma la statura artistica del Nostro, progressivamente lanciato in avanti con un sound sempre più personale e unico in cui confluiscono retaggi del suo passato, elettronica, un gusto molto Krautrock, atmosfere sospese, oniriche, claustrofobiche.
Gaz suona praticamente tutto, compone benissimo, è immediatamente riconoscibile. Visonario e innovativo.

THE HOT RATS - Turn Ons (2010)
Gaz Coombes e il batterista Danny Goffey insieme per un album di cover ben riuscite e divertenti (dai Roxy Music ai Beastie Boys, Costello, Cure, Bowie etc). Quanto inutile.

VAN GOFFEY - Take your jacket off & get into it (2015)
L'ex batterista Danny Goffey con il nickname di VAN GOFFEY sfodera un album fresco e frizzante.
C'è un'abbondante dose di Supergrass ma anche di puro POP con rimandi a Beatles, Kinks, brit pop vario, Monkees, un po' di elettronica.

DANNY GOFFEY - Schtick (2018)
Non si discosta dal precedente passo solista anche il nuovo lavoro.
Brit pop e nostalgia per la band madre, qualche contaminazione, buona vena compositiva, disco gradevole ma di portata trascurabile.

giovedì, gennaio 27, 2022

Giornata della memoria: Oscar Klein


Come ogni anno in questo blog si celebra LA GIORNATA DELLA MEMORIA.
Riprendo un articolo che ho scritto domenica scorsa per "Libertà"


Ogni anno questa rubrica rende un dolente omaggio ai milioni di ebrei (ma non solo) scomparsi nei campi di concentramento a causa della furia nazista e fascista. Credo sia importante ed essenziale ricordare e sottolineare quanto i fascisti, ancora ai giorni nostri vivi e vegeti nella società italiana, siano stati diretti responsabili della tragedia dell'Olocausto. E come non di rado non ci sia alcun tipo di “pentimento”, di assunzione di responsabilità, ma, addirittura, una sorta di arrampicata sugli specchi per distogliere l'attenzione, attenuare, contestualizzare, sviare, il crimine perpetrato in quei anni lontani ma sempre così vicini.

Questa rubrica, fino al giorno in cui esisterà, continuerà a ricordare indefessamente episodi legati a quella tragedia, a sottolinearne le responsabilità, a scrivere chiaramente chi era dalla parte del giusto e chi del torto, chi erano i carnefici e gli aguzzini, ricordando il Giorno della Memoria, come ogni anno celebrato il 27 gennaio.

Lo fa e lo farà a suon di musica.
Perchè i milioni di morti erano, prima di tutto, bambine, bambini, donne, uomini, persone, che nutrivano sentimenti, speranze, vite comuni e vite “speciali” e tante passioni.
La musica è una di quelle.
Che ti “cancella i tuoi problemi” quando ascolti la tua canzone preferita, ti concede un attimo di respiro e sollievo in situazioni difficili, ti concede una speranza fino a quando sarà il momento per l'ultimo respiro. Le storie legate alla Shoah che hanno visto protagonisti musicisti sono numerosissime e ogni anno “Musica Ribelle” ne propone una, per farci capire il privilegio che abbiamo noi musicisti e/o appassionati di musica a poterne usufruire e parlare in una situazione, per quanto estremamente complessa, in cui ci possiamo sempre concedere una pausa con la nostra canzone preferita.

Oscar Klein era un bambino che viveva in totale tranquillità in Austria, fino al 1938, quando la Germania decise di annettersi la nazione. Di origine ebraica, la sua famiglia fu subito al centro dell'attenzione del regime nazista. I nonni materni vengono uccisi, quelli paterni, intuita la tragedia in arrivo, decidono di suicidarsi davanti a casa.
La famiglia di Oscar fugge in Italia, prima a Trieste, poi deportata a Ferramonti, in Calabria, in provincia di Cosenza.
"Erano pur sempre campi di concentramento, c’erano le malattie, ma non uccidevano come in Germania. Una volta al mese a noi bambini ci portavano persino a mangiare il gelato”.

Vengono poi trasferiti in un paese dell'Alto Vicentino, Arsiero, tra Asiago e Bassano del Grappa, dove trovano una vita quasi normale.” Grazie alla gente del posto ho comunque passato un’infanzia felice.
Tutti dividevano con noi qualcosa: la famiglia che mi ha accolto mi ha insegnato perfino a pregare. Ora conosco meglio le vostre preghiere delle mie e so perfino un po’ di dialetto.
E dire che gli abitanti all’inizio erano convinti che gli ebrei avessero tre occhi!”. Gli ebrei non potevano lavorare, non avevano diritti sociali ma trovano un aiuto insperato nel podestà locale che permette al padre di Oscar, sarto, di svolgere alcuni lavori per la popolazione locale, consentendo alla famiglia di sopravvivere dignitosamente, seppure in estrema povertà.
La storia è ricca di episodi in cui aderenti al fascismo non si riconoscevano nelle aberrazioni razziste e nelle ingiustizie palesi che si inasprivano ogni giorno e, a modo loro, portavano avanti una sorta di “resistenza” civile e civica, nei confronti di atti iniqui che piovevano dall'alto.

E' lo stesso podestà che, dopo l'otto settembre 1943, quando tutto precipita e l'Italia finisce nel caos, li mette in contatto con delle formazioni partigiane. Nella Colonia Alpina di Tonezzo del Cimone viene aperto un campo di concentramento in cui sono raccolti gli ebrei del vicentino. Ne vengono rastrellati quarantacinque, quasi tutti vecchi e bambini.

Saranno deportati ad Auschwitz, dal famigerato binario 21 della stazione di Milano e nessuno farà mai ritorno.
Il numero (realtivamente, per quanto tragicamente) esiguo, susciterà le furiose rimostranze da parte del ministero della Repubblica Sociale Italiana e comporterà la chiusura del centro ma, è doveroso sottolinearlo, è grazie alla solidarietà della popolazione locale che farà di tutto per sottrarre alla deportazione gli ebrei, nascondendoli, proteggendoli, facendoli fuggire.
Anche Oscar Klein e la sua famiglia riescono a scappare, in Svizzera, grazie alla Brigata partigiana Mazzini a Don Frigo e a Rinaldo Arnaldi, partigiano, nominato postumo Giusto tra le Nazioni, caduto in uno scontro a fuoco con i nazi fascisti nel 1944.
“Siamo riusciti a non essere portati subito a Tonezza.
Col treno e poi a piedi per tredici ore camminando attraverso le gelide montagne siamo riusciti ad arrivare in Svizzera. Siamo stati tenuti in una fabbrica dismessa, al gelo.
In tanti sono morti di polmonite e di stenti: e per restare lì dovevamo lasciare tutto quello che avevamo”
. Alla fine si salvano, riescono a ricostruirsi una vita. Oscar Klein inizia un'attività di musicista, soprattutto jazzista, come trombettista, clarinettista e suonatore di armonica.
Si unisce alla Dutch Swing College Band, suonando dixieland e swing e stringe una forte amicizia con il nostro Lino Patruno, ex membro dei Gufi.
Che lo ricorda così:
“Vidi per la prima volta Oscar Klein sul palcoscenico del teatro Nuovo di Milano nei primi anni Sessanta. Oscar suonava allora con la Dutch Swing College e il concerto mi piacque moltissimo sia per l’alta professionalità, sia per il grande senso dello spettacolo”.
Klein condivide il palco e lo studio di registrazione anche con grandi nomi come il membro dei Weather Report, Joe Zawinul e il vibrafonista Lionel Hampton.
Ma una delle collaborazioni più significative, relativamente a una sorta di trapasso storico, è quella con il pianista Romano Mussolini, figlio di quel Benito che fu primo responsabile dell'emanazione delle leggi razziali che portarono tante persone al forno crematorio.

Non ebbe invece altrettanta fortuna Mordechai Gebirtig, ebreo polacco, socialista, schierato in prima fila contro ingiustizie sociali e repressioni razziste. Le sue canzoni divennero negli anni Venti e Trenta molto popolari nel circuito folk della Mittel Europa, in particolare “S'brent”, inno contro l'oppressione, diretto e senza metafore che fu spesso cantato nei campi di concentramento e successivamente nelle commemorazioni dell'Olocausto.
Uno dei rari brani che invitava esplicitamente alla resistenza e alla rivolta contro le ingiustizie subite dal popolo ebreo.
Scrisse anche “Arbetsloze March”, inno per i lavoratori e i disoccupati. Mordechai muore ucciso dai nazisti nel 1942 nel ghetto di Cracovia, durante una rivolta degli ebrei.

Progressivamente, anche a distanza di ormai quasi un secolo, continuano a emergere storie, sempre drammatiche e terribilmente tristi, di quanti morti e massacri sia disseminato il secolo scorso.
Non sembra che alla fine si sia imparato qualcosa. Il mondo rimane un coacervo di discriminazioni, violenza, campi di concentramento, stragi, oppressioni, sangue, genocidi.
Ovviamente, non riguardandoci direttamente ma essendo pertinenza di mondi lontani, di cui possiamo sbirciare le vicende su internet, comodamente seduti da dietro un computer, i nuovi olocausti sono vicende secondarie immediatamente dimenticabili.
Rimaniamo vigili, ricordiamo, spendiamo anche un solo secondo di raccoglimento per capire quanta ingiustizia stia ancora permeando il nostro mondo.
E nel nostro piccolo, nel nostro quotidiano, proviamo a fare qualcosa.
Può sempre servire.

mercoledì, gennaio 26, 2022

Harari / Beaters


Riprendo l'articolo che ho pubblicato sabato scorso su Il Manifesto, dedicato alla band sudafricana dei Beaters / Harari.
L'articolo è anche qui
:
https://ilmanifesto.it/harari-linsolita-parabola-di-un-diamante-dimenticato/

L'universo magmatico della cosiddetta “musica africana” (un insieme infinito di stili, di variabili, di contaminazioni) lascia spesso emergere antichi gioielli dimenticati. In questo senso il lavoro di ricerca di molti appassionati ed etichette ci permettono di scoprire dischi e artisti dietro cui si nascondono storie particolarissime.

Valga la recente ristampa di un album, Harari/Beaters inciso nel 1975, che testimonia l'attività di un gruppo nero sudafricano, nato come Beaters, interprete del Soweto Soul, poi evolutosi con il nome di Harari verso un interessantissimo mix di funk e rock dalle matrice afro. Intrigante quanto la loro storia e il contesto in cui si è sviluppata, nel pieno del più feroce periodo dell'apartheid.

I Beaters nascono a scuola, alla fine degli anni Sessanta e diventano parte del cosiddetto Soweto Soul, una miriade di band che si ispiravano al soul della Motown e della Stax, alle prime forme di funk alla James Brown, con una componente rock e soprattutto numerosi riferimenti alla tradizione popolare folk sudafricana. Le maglie della repressione bianca erano parecchio strette al tempo, soprattutto in un momento storico in cui gli echi del crescente movimento dell'autoconsapevolezza socio politica degli afroamericani arrivavano anche nel lontano paese africano. Le radio “nere” erano controllate con cura affinché non trasmettessero nulla di “sovversivo”.

Ma in Sudafrica arrivavano le onde di Radio LM, dal vicino Mozambico, allora colonia portoghese, da cui si potevano ascoltare più agevolmente i nuovi suoni dal mondo.
A Johannesburg il negozio di dischi Koohinoor di Rashid Vally diventò il centro di aggregazione per molti aspiranti musicisti che lì potevano trovare le uscite più recenti e restare al passo con i tempi (anche grazie a chi poteva viaggiare e riportare nuovi stimoli sonori in patria). Il giornalista Derrick Thema ricorda:
“Erano tempi in cui chiunque volesse farsi carico di un'auto consapevolezza politica e sui diritti dei neri, doveva fare inevitabilmente riferimento al soul”.
I Beaters incominciano a suonare in giro, a raccogliere seguito e fan sempre più fedeli che inventarono anche un loro ballo sui brani della band di riferimento, il “Monkey Jive”.
Quando tornano da un tour di tre mesi nella vicina Rhodesia, l'attuale Zimbabwe, le cose cambiano radicalmente. L'incontro con musicisti locali come Thomas Mapfumo e Jonah Sithole, che stavano sviluppando sonorità in cui inserivano sempre di più le radici culturali locali, come la musica Chimurenga, presa dalla tradizione Shona, in chiave indipendentista e di affermazione della propria provenienza, indusse i Beaters a una profonda riflessione.
Via i vestiti tutti uguali e largo a un'estetica “afro” che riprendeva i costumi tradizionali.
E addio anche al nome inglese, cambiato in Harari, dal titolo di una loro canzone incisa sul primo album.

Da epigoni di modelli anglo americani a una dimensione totalmente africana.

Il 16 giugno 1976 la ribellione giovanile contro l'oppressione dell'apartheid divampò a Soweto. Scolari disarmati marciarono contro l'imposizione dell'afrikaans (definita da Desmond Tutu, come “lingua degli oppressori”) come lingua di insegnamento. La polizia sparò sulla folla facendo ufficialmente 176 morti ma che superarono probabilmente i 1000 negli scontri dei giorni successivi, durante il dilagare della protesta.
L'indignazione per il massacro portò a restrizioni economiche al paese e alla mobilitazione anche da parte di molti bianchi che si unirono alla popolazione di colore.
Sipho Mabuse, membro della band ricorda:
“Io c'ero, la città bruciava, c'erano spari, corpi a terra. Spararono anche a noi mentre riportavamo a casa un cugino”.
La situazione si inasprì anche per l'ambiente musicale, furono introdotte restrizioni e coprifuoco e divenne molto difficile continuare a suonare.
"Quando è diventato più difficile, molte delle band che avevano iniziato l'era del Soweto Soul si sono progressivamente sciolte" sottolinea Mabuse. La band riesce comunque a riprendere faticosamente l'attività musicale rendendola anche un mezzo di lotta come sottolinea ancora Mabuse:
“Portavamo lettere e nascondevamo persino giovani ribelli in fuga. Penso che ciò che ci ha sostenuto sia stato il processo interattivo tra ciò che stavamo facendo con gli studenti universitari, con il movimento politico e la capacità di adattarci a ciò che stava accadendo". Quando nel 1976 tornano in studio uniscono la nuova coscienza politica che traspare nei testi con una musica che attinge dalle radici ma che è volutamente allegra e ballabile. “Certi messaggi potevano essere trasmessi anche attraverso una "musica allegra".
Durante i tempi dell'apartheid abbiamo fatto ridere e ballare la gente quando le cose non andavano bene"
.

Nel brano di oltre undici minuti che apre il nuovo album Rufaro fondono il soul psichedelico alla Temptations, con un crudo funk, afrobeat e lo stile Marabi, sviluppatosi nei primi anni del 900 nei ghetti sudafricani, che si ispirava al jazz e al blues americano.
“Camuffavamo i messaggi anti apartheid con un gergo che non poteva essere censurato. Se fossimo stati più espliciti ci avrebbero arrestati. Il nostro scopo era emancipare i neri attraverso il canto”.

La band prosegue la sua carriera nonostante una serie di lutti ne minino la struttura e li costringa a rinunciare a un tour in Usa con Hugh Masekela, diventato loro grande fan. Un aspetto peculiare degli Harari è il continuo inserire nuovi membri, spesso molto giovani che portano nuova linfa vitale e rinnovano e aggiornano il loro sound.
Nel 1980 con il brano Party, in chiave afro disco, trovano successo e notorietà anche in America. In patria sono ormai delle star acclamate, riuscendo anche a riempire il Colosseum Theatre di Johannesburg. Le autorità sudafricane nel frattempo allentano sempre più le restrizioni anche per offrire un'immagine più accettabile all'estero.
La lotta continua e l'apartheid è ormai un'onta troppo difficile da sostenere. Il successo però crea, inevitabilmente, frizioni interne, esplosioni di ego e scontri tra i membri. Mabuse:
“In un certo senso, sono diventato un dittatore. Quando ascoltavamo i Beatles, volevo che fossimo migliori dei Beatles; quando ascoltammo cose nuove, volevo che fossimo migliori anche di quelle”.

La band si scioglie a metà degli anni Ottanta anche se sono state frequenti varie reunion mentre i vari membri si sono sparsi in mille nuove esperienze, sempre molto interessanti, talvolta di successo altre volte caratterizzate da un forte impegno politico.
L'esperienza degli Harari è stata ispiratrice di decine di nuove band e sottolinea Mabuse:
“Le influenze parallele e incrociate tra Black Panther Movement e Black Consciousness attraverso la musica soul afroamericana e il Soweto Soul hanno contribuito al modo in cui gli Harari sono diventati ispiratori di tutte le musiche che oggi chiamiamo Afrosoul, Afro-pop, Afrojazz”.

Thandi Ntuli, uno dei vari membri del gruppo è ancora più chiaro:
“Quel cosmopolitismo, quell'eclettismo, parte della nostra più grande musica è nata da quell'epoca. Non puoi mai dire che è solo una cosa. C'è una fluidità che riflette molto la vita cittadina, anche oggi. C'è un presupposto che quelle persone straordinarie che suonavano musica, dipingevano, scrivevano poesie, suonavano la chitarra rock, cantavano nei cori, tutte nella stessa vita, fossero valori anomali ma questa è la cultura di Soweto!”. Mabuse ha suggellato questa grande storia con un verso di una sua canzone, uscita nel 1989, The Chant of the Marching: “Un giorno, quando racconteranno la nostra storia/I bambini impareranno dal nostro passato".

Per un ascolto alla loro musica:
https://matsulimusic.bandcamp.com/album/harari-2

martedì, gennaio 25, 2022

Analog Africa


Riprendo l'articolo che ho pubblicato su "Il Manifesto" sabato scorso (che potete trovare anche qui:
https://ilmanifesto.it/le-rivelazioni-di-analog-africa/

Significativo e iconico il percorso che ha fatto la black music, uscita forzatamente dall'Africa con gli schiavi portati nelle Americhe e ritornata “a casa” tra gli anni Cinquanta e Sessanta grazie a quei loro discendenti che inventarono prima blues e jazz, trasformatisi in soul e rhythm and blues successivamente e più recentemente in hip hop e rap.

Il pur triste ruolo dei colonizzatori europei consentì di essere tramite di quelle musiche che inglesi e francesi facevano tornare in Africa.
Molte radio, dal'Africa dell'Ovest al Mozambico, fino al Corno d'Africa suonavano, negli anni Sessanta, i dischi di James Brown, Ray Charles, Nina Simone e delle principali star della soul music, influenzando direttamente molte nuove band locali.

Per riuscire a dare il corretto spazio a tutte le realtà emerse nell'Africa musicale (un continente immenso, dalle mille sfaccettature culturali e un numero indefinibile di linguaggi artistici), oltre a essere estremamente complesso, a causa di frequenti mancanze di informazioni, di discografie perdute e fusioni musicali complesse, servirebbe un'enciclopedia. E' quella che sta, in qualche modo, creando progressivamente l'etichetta discografica Analog Africa, grazie all'indefesso, avventuroso, spettacolare lavoro di Sam Ben Redjeb, ricercatore tedesco che, pazientemente, ha girato mezza Africa a rintracciare testimonianze perdute del patrimonio musicale del (vero) Vecchio continente.
Ritrovando nastri e 45 giri perduti, da cui escono suoni, pulsioni, ritmi, sapori, odori, unici, testimonianza di un mondo spesso rimasto sepolto.

Più che da ogni altra parte la nuova musica che arriva dall'Africa è refrattaria a riproporre riferimenti tradizionali.

Ricordiamo che la vita media è di 58 anni, nell'Africa Subsahrariana il 43% dei suoi abitanti ha meno di 15 anni.
Che ovviamente hanno tutto in mente fuorché riprendere suoni, cultura, tradizione de genitori o nonni.
La loro musica, come è giusto che sia, è il rap, la trap, l'elettronica.
A cui non di rado aggiungono elementi, lingua, dialetti, della tradizione locale ma che non sempre guardano al passato come riferimento e influenza.

Redjeb ha battuto a tappeto remote nazioni del continente africano, raggiungendo altrettanto lontane città e villaggi pur di reperire preziose testimonianze sonore che attestassero la vitalità di un mondo rimasto pressoché sconosciuto, tra gruppi afro funk, miscele di scale arabe con folk locale, ammirazione per James Brown, ritmi sincopati, testi in lingua o dialetto locale (spesso in epoche di sfruttamento coloniale al fine di determinare un'identità autoctona e messaggio subliminale ma non troppo all'autodeterninazione), inserimento di antichi strumenti locali.

Samy Ben Redjeb è nato in Tunisia da padre tunisino e madre tedesca a e ha sviluppato una passione sconfinata per la musica africana, colleziona vinili africani originali, lavora come DJ ed è il fondatore dell'etichetta tedesca Analog Africa che, in questi anni, ha stampato, per la prima volta, una serie di compilation e di album che documentano perdute scene locali del continente. "Il futuro della musica è accaduto decenni fa" è il motto di Analog Africa.

L'etichetta è stata fondata nel 2006, frutto di una serie di viaggi in Africa di Samy che lentamente ha trasformato le sue vacanze (talvolta alternate a motivi di lavoro) in una passione seria, dopo essere diventato il DJ resident di un hotel in Senegal.
A Dakar ha iniziato a organizzare feste settimanali e si è reso conto che la sua percezione della musica africana era piena di cliché. La musica che stava scoprendo era molto in anticipo sui tempi, molto più sofisticata e futuristica dei suoni africani che si potevano sentire sulle onde radio occidentali. Suoni provenienti da quello che sembrava un mondo musicale parallelo di cui nessuno conosceva l'esistenza, ignoti nel resto nel mondo ma non di rado anche in patria. Da allora sono usciti una quarantina di album e Samy ha coperto circa 28 paesi (allargandosi anche in scene sudamericane, come Colombia e Perù, ricercando quei suoni direttamente influenzati dal retaggio africano).
Le scelte artistiche sono però molto particolari. Non si tratta di folklore locale ma di gruppi e artisti che partendo da lì lo hanno contaminato, personalizzandolo, con influenze funk, soul, psichedeliche, rock, blues. Aspetto importante è che tutte le canzoni sono pubblicate con l'autorizzazione dei compositori che ricevono il giusto e adeguato compenso in diritti d'autore e che ogni disco è corredato da abbondanti e dettagliate note di copertina.

Dice Samy:
“Quando ho iniziato, il mio desiderio era solo quello di poter vivere con l'etichetta.
Volevo anche pubblicare gli album e la musica che volevo senza vincoli.
Dopo la terza o quarta compilation ho notato che funzionava.
Oggi finalmente sento quanto la musica che abbiamo pubblicato abbia influenzato tanti musicisti e giovani band. Sempre più persone guardano a quel sound perché non è qualcosa che puoi imparare a scuola e non è facilmente accessibile e disponibile. Averlo potuto rendere disponibile è qualcosa che mi rende molto orgoglioso”.


La genuinità della Analog Africa è testimoniata anche dall'approccio della ricerca di Samy:
“Non seguo alcun percorso quando si tratta delle uscite di Analog Africa.
A essere onesti, dipende tutto dai miei gusti. Riflette ciò che mi piace e dove vado. L'anno scorso ho controllato ed elencato tutti i paesi in cui sono stato e dove ho fatto ricerche sulla musica e ne ho contati 28.
La maggior parte si trova in Africa, mentre altri sono legati alla diaspora africana o influenzati da suoni africani.
Ad esempio, il progetto chiamato Siriá è legato al suono che è stato creato da enclavi di schiavi che scapparono dalla Guyana e dal Suriname. Sono andati nell'unico posto dove non potevano essere catturati, che era l'Amazzonia e hanno creato il quilombo, mescolando anche influenze indiane e portoghesi”.


E' veramente entusiasmante lasciarsi affascinare da oscure band del Camerun o Burkina Faso (ai tempi ancora Alto Volta), dal jazzato groove della Swinging Addis Abeba, dalla scena disco funk degli anni Settanta di Mogadiscio o dagli strani ritmi dell'Orchestre Poly-Rythmo dei Cotonou dal Benin (già Dahomey).
In certe circostanze l'ascolto di certi brani assume connotati ancora più drammatici constantando che sono relativi a periodi che precedevano di poco lo scoppio di lunghe e sanguinose guerre civili che cancellarono ogni traccia del fulgore artistico dell'epoca e furono causa della morte o dell'esilio degli stessi protagonisti.
Allo stesso tempo dietro a ogni situazione geografica si nascondono la storia del luogo, spesso compicatissimo intreccio di etnie, religioni, lingue, rivoluzioni, dittature, antichi regni, retaggi culturali che si perdono nel tempo.
“Non guardo alla musica che pubblichiamo usando un obiettivo politico o sociale.
Tuttavia, nelle note delle mie compilation voglio sempre spiegare la situazione dell'industria musicale locale e in quale situazione è stato registrato e stampato l'album, che è anche un riflesso dello stato delle cose di quello specifico paese o regione. Questo perché, in alcuni paesi, è piuttosto difficile registrare cose.”


Il lavoro di Analog Africa è coraggioso, soprattutto in un'epoca in cui gestire un'etichetta non è certo l'impresa più facile e redditizia, considerando anche il target a cui si rivolge, molto specifico, competente, curioso.
Ascoltare, apprezzare, innamorarsi delle proposte è facile, soprattutto grazie all'ascolto gratuito sul BandCamp dell'etichetta:
https://analogafrica.bandcamp.com/music

lunedì, gennaio 24, 2022

New York for Free



Prosegue la rubrica TALES FROM NEW YORK.

L'amico WHITE SEED è da tempo residente nella Big Apple e ci delizierà con una serie di brevi reportage su quanto accade in ambito sociale, musicale, "underground", da quelle parti, allegando sue foto.


Le precedenti puntate sono qui:

Negozi di dischi:
https://tonyface.blogspot.com/2022/01/negozi-di-dischi-new-york-rebel-rouser.html

Marijuana a New York:
https://tonyface.blogspot.com/2022/01/marijuana-new-york.html

I locali di New York:
https://tonyface.blogspot.com/2022/01/i-locali-di-new-york.html

Per le strade di New York si trova di tutto, la gente abbandona oggetti con una facilita' impressionante.

Agli occhi di un europeo puo' sembrare una cosa molto strana, si possono trovare: opere d'arte vecchie e nuove, vestiti, tonnellate di libri (veramente una quantita enorme), dischi, mobili, giochi, strumenti musicali, vestiti, cibo, impianti stereo, skateboard, lettori dvd, vhs, attrezzi ecc, insomma di tutto e di più.

L'elenco e' solo indicativo potrebbe continuare all'infinito lasciando spazio ad ogni immaginazione.
Il tutto a volte buttato li cosi altre e spesso ben riposto appena fuori casa con tanto di cartello FREE, ed il primo pensiero e' sempre lo stesso ma perché spendere dei soldi per poi abbandonarli, a volte oggetti praticamente nuovi.

Il consumismo allo stato puro questo e' vero e si sa ma un lato meno conosciuto dei newyorkesi e' il loro buon cuore, si perche' tutto questo materiale viene recuperato e riutilizzato da chi in città e' appena arrivato per rifarsi una nuova vita (la maggior parte arriva qui illegalmente con pochissimi dollari) e un tavolo con due sedie fanno sempre comodo e tutto quello che si può riutilizzare e' sempre un aiuto.

La generosita' e' tanta: lasciano metro card cariche davanti alle macchinette per il biglietto per chi ha pochi soldi per pagarsi la corsa, girano con piccoli pacchettini con all'interno un messaggio e una banconota da 5 o 10 dollari pronta per qualche musicista o senzatetto, signore cinesi che donano dollari a nastro ad artisti o vagabondi, piccoli gruppi di quartiere autogestiti in giro per le strade di tutta la città che donano acqua, cibo, mascherine, gel igenizzante ecc a chiunque ne abbia bisogno, anche i negozianti di genere alimentare tutti i giorni regalano cibo prima della chiusura.

Sono solo piccoli esempi di piccole cose che aiutano tanto in una città molto molto cara, inoltre dal Bronx fino a Brooklyn si posso incontrare piccole aree di raccolta, dove si trovano donazioni fatte dal vicinato.

Punti di raccolta gestiti da abitanti del quartiere, dove si può trovare di tutto: cibo, vestiti, libri, mobili un po' di tutto insomma.
Poi ci sono artisti che creano mini spazzi per distribure la loro arte in maniera assolutamente gratuita.

domenica, gennaio 23, 2022

Il lago d'Aral


Prosegue la rubrica I luoghi che non rivedremo più.
Qui le puntate precedenti: https://tonyface.blogspot.com/search/label/I%20luoghi%20che%20non%20rivedremo%20pi%C3%B9

Il quarto lago più esteso della Terra, profondità massima di 42 metri, situato tra Uzbekistan e Kazakistan, nel giro di 60 anni, dal 1960 ad oggi, si è ridotto del 90%, mentre la sua superficie è passata da 68.000 km² ai circa 20.000 km² attuali.

Negli anni Sessanta l'Unione Sovietica deviò i due fiumi immissari del lago d'Aral per favorire la coltivazione intensiva di cotone nelle zone circostanti, provocando il progressivo ritiro delle acque, lasciando un deserto di sabbia, sale e carcasse di navi abbandonate.
Le piantagioni furono anche inonadate di grandi quantità di diserbanti chimici, contaminando terre e le acque rimanenti.

Quando si alza il vento si creano nubi tossiche con gravi problemi respiratori alle popolazioni che vivono intorno al lago.
La mancanza di umidità ha distrutto l'equilibrio termico della zona causando temperature che vanno da un minimo di -35°C in inverno fino a un massimo di 50°C in estate.

Con la costruzione nel 2005 della diga di Korakal, in Kazakistan, il livello del lago si è così alzato di nuovo, passando da 30 a 38 metri, ripristinando la salinità naturale e la reintroduzione di specie ittiche

sabato, gennaio 22, 2022

Intervista a Francois Regis Cambuzat


Ho intervistato FRANCOIS REGIS CAMBUZAT poco tempo fa e utilizzato le sue risposte per un articolo su "Libertà".
Qui: https://tonyface.blogspot.com/2022/01/francois-regis-cambuzat.html
Ma reputo le sue risposte davvero interessanti.
Così credo sia utile leggerle nella loro completezza.


Partiamo dalla regina delle banalità: cosa entra nel calderone bollente e venefico del vostro sound? E quali sono le ispirazioni.

Tutte le musiche che non capiamo ci interpellano.
Siamo dei curiosi – e ci piace studiare.
Partiti in bassa eta e con la merda al culo con il rock e derivati punk/soul/funk/xxx, poi l’improvizzazione e l’avant-guardia, dopo abbiamo studiato il jazz come la classica contemporanea poi le musiche orientali & quarti di tono per arrivare anche fino alla techno o a certe musiche spirituale di elevazione.
A casa principalmente classica, Bach e l’impressionismo francese in primis.
Non apparteniamo a nessuna chiesa musicale ma rivendichiamo tutto da Gabriel Fauré a Keiji Haino come da Britney Spears a Sanubar Tursun.
Il Putan Club è stato ideato come una cellula di resistenza, caratterizzata da un modo di agire ispirato ai primi complotti di partigiani europei durante l'ultima guerra mondiale (azioni di forza in luoghi diversi e vari) e di partigiani odierni nel mondo intero.
La resistenza è organizzata con i mezzi più arcaici e immediati del nostro secolo: dal pianoforte alla chitarra, dal respiro al rumore elettrico/elettronico come dal verso scritto alla parola urlata, come dire dalle pitture rupestri al concettualismo più arduo o dal'avant-rock alla musica classica contemporanea alla techno/house più becera, dal bacio in bocca al calcio in culo, etc...

Una delle caratteristiche probabilmente uniche della vostra esperienza è il nomadismo che vi caratterizza. Come fate ad organizzare concerti in luoghi così lontani e non facilmente raggiungibili (vedi tra tutti il Tagikistan)?

Prima di tutto è una scelta di vita, con drastica serietà e organizzazione ferrea, pensata con anni di anticipo.
Non siamo in musica per onanismo o per desiderio di imponenti conti bancari ma per fare effetivamente quello che vogliamo, dove vogliamo, quando vogliamo e con chi vogliamo.
Bisogna essere stupidi a pensare di fare soldi con la musica, ci sono modi più facili e veloci.
Essendo la vita cortissima, volevamo viaggiare tanto, conoscere altre musiche, gente, realtà sociali e paesi.
Velocemente esauriti i sogni adolescenziali facili e spiccioli (Londra, NY, Parigi, Berlino), rimaneva il mondo.
Quanto a lavorare per esempio in Tagikistan -o altrove- da una ventina di anni è molto facile : scrivi « music festival » o « venue » nella barra Google e cominci a contattare.
Però sono cosi 12 ore quotidiane di booking (non contare mai su qualsiasi agenzia: nessuna è in grado di lavorare bene nel mondo intero) per 2 mesi ed infine si puo partire per 10 mesi di lavoro dove hai scelto tu.
Ed infine è ovviamente una questione di budget: fai un bilancio generale con le grosse entrate (stile Sziget, Roskilde o Calgary FF) che aiutano a finanziare situazioni piu povere.
Tengo a precisare che non siamo di famiglie ricche, non viviamo di aiuti o rendite, e che per me il piu grande successo musicale è stato di potere pagare l’affitto e le utenze con il nostro lavoro.
Dischi, festival, stampa o relativo « successo » sono di poca importanza, aiutano quasi solamente una certa promozione e communicazione - ma ovviamente non in modo significativo per Dushanbe o Matam.
E’ una scelta di libertà.
Dieci anni fa, quando abbiamo deciso di non pubblicare piu niente e di non lavorare piu con agenzie ma di fare tutto da soli, fu il periodo in cui abbiamo cominciato a suonare una media di 180 concerti all’anno, dove avevamo scelto di andare, in Cina, Asia Centrale, Africa, Oceania e qualche Europa.

Mi interessa sapere la gestione logistica, la quotidianità di chi un giorno suona in Romania e l'altro in Tunisia o vola in luoghi lontani in Asia. Come ci si organizza (permessi, voli, strumentazione)?

Permessi e visti sono piccole rogne bureaucratiche (un filino piu complicato per gli USA – che communque non ci interessano piu di tanto) per i privilegiati detentori di passaporti occidentali come noi.
Per la strumentazione, la regola n°1 è di viaggiare il piu leggero possibile. Consci che se chiedi un backline, spessissimo ti ritroverai a dovere suonare su dei bidoni.
Dodici anni fa siamo dunque passati al digitale con emulatori di amplificatori (in questi giorni con l’Ampero della HoTone), chitarre piegevoli (costruitte da Mattia Maglio, liutaio salentino) per non pagare piu biglietti aerei per le chitarre.
E un computer, per rimpiazzare i musicisti-turnisti (quelli che non fanno altro che suonare, che non sanno niente di booking e che si lamentano della zuppa troppo calda, del cachet basso, del letto duro e dei chilometri a fare il giorno dopo).
Con calzini e mutande, tutto si tiene in una borsa dimensioni low-cost.
Salvo ovviamente quando andiamo a registrare nel deserto: allora paghiamo per 120 chili di materiale.
Infine, il digitale ci permette per esempio di creare con suoni à la Sunn O))) accanto ad un ‘ûd (forse uno dei strumenti piu deboli del pianeta).

Come reagisce il pubblico alla vostra proposta che facile non é?
E che, suppongo, in certi luoghi sia ancora meno percettibile, rispetto alla cultura locale.


Non credo che siamo alieni, non penso che le nostre proposte siano difficili.
Abbiamo suonato allo Sziget, Womad, la Notte della Taranta o Pohoda come in pizzerie, squats o teatri nazionali, davanti alternativi, borghesi o donne islamicamente vellate.
La nostra pietra di paragone è un piccolo café/bar di pescatori sotto Gabès, Tunisia: se passiamo delle emozioni, allora abbiamo vinto, se no significa che è ancora scadente.
Perche è il duende (vedi Garcia Lorca) che conta, sempre.
Tutto il resto è solo marketing e polverone.

Puoi raccontare qualche episodio particolare accaduto durante i vostri trasferimenti?

Il bacio di Gianna a Konibodom.

Suonare quasi quotidianamente in luoghi spesso piccoli, fuori dai circuiti abituali, rende sia da un punto di vista economico che di diffusione della vostra arte?

Tutto è una questione di organizzazione e lavoro.
Suoniamo su palchi enormi in orari principali come in bettole. Ma è vero che in Italia siamo sopratutto conosciuti nel giro underground – perchè un’altro network non esiste realmente, o quasi, e credo/spero che mai faremo tendenza.
Ultimamente, per anni erano solo grandi festivali internazionali e non avevamo piu il tempo per queste tournée stradaiole e forse difficile.
Ci siamo allora organizzati meglio ed eccoci qui a gelarsi di nuovo le ovaie in Italia o Ungheria d’inverno, sinceramente con enorme piacere.
Ci riteniamo dei privilegiati: sopravivviamo (siamo parchi, ci serve pocho per vivere) con quello che adoriamo fare, concerti di vari progetti (Putan Club, Trans-Aeolian Transmission, Ifriqiyya Electrique, Machine Rouge….), tra rock, teatro, avant, flamenco, cinema, ecc…

Prosegue l'esperienza Ifriqyya Electrique?

Ovviamente.
Ora è diventato un collettivo attorno ai rituali térapeutici del Maghreb (stambeli, diwân, gnawa) con una maggioranza feminile. Il terzo album è in arrivo.
E’ soprattutto l'elemento sociale (aggregativo) che ci interessa in questo studio, il fatto che questa musica sia davvero al servizio della comunità, con una vera funzione sociale. Il lato terapeutico è il suo scopo, ma ciò che ci interpellava erano i "perché" e i "come".
Esattamente come per qualsiasi pogo o rave.
Il "ruolo sociale" della musica.
I musicisti rituali non sono intrattenitori.

Tu hai avuto l'opportunità di vedere una quarantina di anni di musica “alternativa” scorrere tra le tue mani, sulla strada, nei luoghi più disparati.
Cosa ne rimane? Cosa è andato perduto? E' un lampo che si è spento o una fiamma che può continuare ad ardere?


In Italia è sparito quasi totalmente il giro meravigliosamente militante dei centri sociali (il mio preferito era il Santa Chiara di Brindisi).
Qui ormai sembra che la resistenza sia più isolata, dunque piu difficile – ma forse anche più creativa.
Nei paesi del divertentismo è arduo promuovere concerti e cultura.
Detto questo, le eterne lamentelle dell'intera industria musicale come dei vecchi colonelli sono pietose: non c'é è bisogno dell'industria per sognare, sopravvivere o essere felici.

A che punto siete con le vostre varie creazioni?

- Sul versante della Trans-Aeolian Transmission abbiamo passato molto tempo con le Alevi del Kurdistan, nel Dersim dove abbiamo finito un terzo film/ricerca. Poi l’anno scorso siamo stati quasi tutto l’anno in Africa dell’Ovest per completare una follia con il rituale dello n’döep dei lebous senegalesi.
Il film + album è quasi pronto, senza nessuna fretta.
Le prossime destinazioni sono l’isola de La Riunione (per il kabarè) e il Pamir al confine con l'Afghanistan (per il falak). Tutto richiedendo tempo, studio, organizzazione e denaro.

- Stiamo pian-piano ultimando un detonatore-fatwa, avant-metal con orchestra d’archi palestinesi su testi di Jamila XXX (Ho il ciclo - Svilimento e disumanizzazione delle donne nel mondo moderno musulmano).Pura meraviglia, puro sangue.
- La nostra Machine Rouge con l’attore Denis Lavant continua la sua azione clandestina. (https://youtu.be/bZHPxf-WUt4)
- Infine, il Putan Club - il nostro banco di prova per tutto ciò che facciamo - non ha smesso di perlustrare il pianeta.
(https://youtu.be/MuiRtBW5bZ0)

Quali sono i vostri progetti futuri?

Vorremmo fare la rivoluzione.

venerdì, gennaio 21, 2022

Federico Scarioni / Omar Pedrini - Dentro un viaggio senza vento


Viaggio senza vento dei TIMORIA, pubblicato nel 1993, disco d’oro, è diventato un classico della music pop rock italiana.

Omar Pedrini, principale compositore di quel concept e grande personaggio, ripercorre, aiutato da Federico Scarioni, gli avvenimenti che lo hanno ispirato, con molti aneddoti, pochi peli sulla lingua, linguaggio sincero, onesto, diretto.
Tra entusiasmo e antiche ferite.

Il tutto ambientato nella data milanese del tour commemorativo del 2019, corredato da foto e note accurate.
Ovviamente indispensabile per i fan della band.

Federico Scarioni / Omar Pedrini
Dentro un viaggio senza vento
Il castello
112 pagine
20 euro

giovedì, gennaio 20, 2022

Elephant's Memory Band


Destino curioso quella della band New Yorkese, passata da sonorità psichedeliche/rock bluesy a un rock 70 più convezionale, senza mai riuscire ad emergere commercialmente, nonostante sia stata ripetutamente baciata dalla fortuna.

Agli esordi passa tra le sue fila una giovane Carly Simon, poi due brani finiscono nella colonna sonora del celeberrimo film "Un uomo da marciapiede" di John Schlesinger con Dustin Hoffman e Jon Voight per essere reclutati nel 1972 niente meno che da John & Yoko per il loro album più controverso, "Sometime in New York City", diventando la band dell'ex Beatle in apparizioni televisive e concerti.

Successivamente saranno con Yoko nel suo grande lavoro "Approximately Infinite Universe" (con John e anche Mick Jagger in un brano).
John Lennon produce e suona nell'omonimo loro album del 1972, pubblicato per la Apple.

Ma la band, che proseguirà ancora per qualche anno, rimarrà sempre in un limbo di semi anonimato.
Ottimo l'esordio omonimo tra psichedelia e bizzarrie Zappiane del 1969, discreto "Take It to the Streets" del 1970, dignitoso quanto anonimo l'apporto all'album di Lennon.

Yoko Ono - Midsummer New York
https://www.youtube.com/watch?v=L7JkwKtI6P4

Lennon, Yoko, Chuck Berry, Elephant's Memory Band
https://www.youtube.com/watch?v=c9rQvaapUzs

mercoledì, gennaio 19, 2022

The Redskins – Neither Washington Nor Moscow 4 boxset CD



I REDSKINS hanno marchiato a fuoco gli anni Ottanta militanti, soulcialisti, camminato come i Clash, cantato come le Supremes, lasciando poche tracce ma tuttora indelebili.

Questo box di 4 CD (libretto, foto etc) raccoglie tutto e di più della band di Chris Dean: l'unico album "Neither Washington Nor Moscow", i singoli, le varie versioni extended, estratti live con partecipazioni eccellenti (Billy Bragg e Jerry Dammers), grandi cover come "Skinhead moonstomp", "Tracks of my tears" o "Back in the Ussr", le Peel Sessions, i primi demo punk ancora con il nome di No Swastikas.

Punk, soul, impegno politico, passione, energia, sincera ingenuità/ingenua sincerità, un raggio di sole in mezzo al buio Tatcheriano.
Che poi vincerà e darà il via a un'epoca oscura che ancora dura, perdura e annienta diritti e speranze di giustizia sociale.
Chris Dean e Compagni ci avevano avvertito e scagliato l'ultima pietra.

A1 The Power Is Yours
A2 Kick Over the Statues!
A3 Go Get Organized!
A4 It Can Be Done!
A5 Keep On Keepin’ On!
A6 (Burn It Up) Bring It Down! (This Insane Thing)
A7 Hold On!
A8 Turnin’ Loose (This Furious Flames)
A9 Take No Heroes!
A10 The Crack
A11 Let’s Make It Work!
A12 Lean On Me!
A13 Lean On Me! (Reprise – ‘The Return Of The Modern Soul Classic’
A14 16 Tons (Coal Not Dole)
A15 Reds Strike The Blues (Take 4)
A16 99 And A Half Won’t Do (with Reprise)
A17 You Want It? They Got It!
A18 A Plateful Of Hateful
A19 Take Your Gods And Bury Them (‘Take No Heroes’ – Alternative Version)

B1 Bring It Down! (This Insane Thing) – 12” Version
B2 Keep On Keepin’ On! (Die On Your Feet 12” Mix) Produced by Ted de Bono, Mixed by Redskins
B3 The Power Is Yours (MGM Mix by Stephen Street)
B4 Keep On Keepin’ On (Original March ’84 – 12” Mix)
B5 It Can Be Done! 7” Version (Additional Recording and Mix by Stephen Street Alternate Mix)
B6 You Want It? They Got It! (Alternate Jammin’ Magazine Mix)
B7 Bring It Down! (This Insane Thing) (7” More FX Mix)
B8 Keep On Keepin’ On! (Live in ’85 from the ‘Kick Over Apartheid Tour’)
B9 Let’s Make It Work! (Live in ’85 from the ‘Kick Over Apartheid Tour’)
B10 Bring It Down! (Live in ’85 from the ‘Kick Over Apartheid Tour’)
B11 Kick Over The Statues! (Live in ’85 from the ‘Kick Over Apartheid Tour’)
B12 Tracks Of My Tears (Live in ’85 from the ‘Kick Over Apartheid Tour’) with Billy Bragg
B13 Back In The USSR (Live in ’85 from the ‘Kick Over Apartheid Tour’) w/ Billy Bragg + Jerry Dammers
B14 Skinhead Moonstomp (Live in ’85 from the ‘Kick Over Apartheid Tour’) with Jerry Dammers
B15 Keep On Keepin’ On! (Live in ’85 from the ‘Kick Over Apartheid Tour’) – Speech Version with Bruce George, South African Activist

C1 The Power is Yours (Live At The Town And Country Club, 22nd Apr, 1986)
C2 Kick Over the Statues! (Live At The Town And Country Club, 22nd April, 1986)
C3 Hold On! (Live At The Town And Country Club, 22nd April, 1986)
C4 The Crack (Live At The Town And Country Club, 22nd April, 1986)
C5 99 And A Half Won’t Do (Live At The Town And Country Club, 22nd April, 1986)
C6 Let’s Make It Work! (Live At The Town And Country Club, 22nd April, 1986)
C7 Unioinize / Pickin’ The Blues (Peel Session, 9th Oct, 1982)
C8 Reds Strike the Blues (Peel Session, 9th Oct, 1982)
C9 Kick Over the Statues! (Peel Session, 9th Oct ’82)
C10 The Peasant Army (Peel Session, 9th Oct ’82)
C11 Young And Proud (Peel Session, 8th Aug ’83)
C12 Hold On! (Peel Session, 8th Aug ’83)
C13 99 And A Half Won’t Do (Peel Session, 8th Aug ’83)
C14 Take No Heroes! (Peel Session, 8th Aug ’83)
C15 A Plateful Of Hateful (Kid Jensen Session, 16th Jan ’84)
C16 It Can Be Done! (Kid Jensen Session, 16th Jan ’84)
C17 Keep On Keepin’ On! (Kid Jensen Session, 16th Jan ’84)
v D1 Lev Bronstein (CNT 7”, 1982)
D2 The Peasant Army (CNT 7”, 1982)
D3 Lean on Me (Original CNT 7” Single)
D4 Unionize (CNT 7”, 1983)
D5 Move / Let My Words Be Bullets (Live in Munich, 1986)
D6 Don’t Talk To Me About Whether (Live In Munster, 1986)
D7 Levi Stubbs Tears (Live in Munich, 1986)
D8 The Most Obvious Sensible Thing (Unissued Session, 1986)
D9 Lean On Me (Northern Mix, CNT 12”, 1983)
D10 Unionize (Break Mix, CNT 12”, 1983)
D11 Stickies (Demo, 1981) as ‘No Swastikas’
D12 Strike (Demo, 1981) as ‘No Swastikas’
D13 Unnamed (Demo, 1981) as ‘No Swastikas’
D14 Anglo-Irish Summit Tapes: Interview with Redskins, 1986
D15 I Can’t Stand The Boss (Live Bootleg, ICA, London, 1986) w/ introduction from Martin Hewes
D16 Names Were Named (Live Bootleg, SWAPO Festival, Italy, 1986)
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