mercoledì, dicembre 29, 2021

Film 2021


Una serie di eccellenti film musicali visti nel 2021.

Summer of soul (...or when the revolution could be not televised) di Ahmir "Questlove" Thompson
"We are black, we are beautiful, we are proud" (Rev. Jesse Jackson).
Semplicemente il film musicale più bello di sempre.
Che paradossalmente musicale non è o almeno non del tutto. Protagonista il The Harlem Cultural Festival a Mount Morris Park (ora Marcus Garvey Park), a Harlem, New York, una serie di concerti che andarono in scena dal 29 giugno al 24 agosto del 1969.
In totale parteciparono circa 300.000 persone al cospetto di nomi come Stevie Wonder, Nina Simone, B.B. King, Sly and the Family Stone, Chuck Jackson, Abbey Lincoln & Max Roach, The 5th Dimension, Gladys Knight & the Pips, Mahalia Jackson, Chambers Brothers e tanti altri.
Presentati da Tony Lawrence.
Il materiale è stato a lungo "dimenticato", abbandonato, ogni tentativo di farne un film rifiutato. Ahmir "Questlove" Thompson (membro dei The Roots) è riuscito alla fine a mettervi mano e a ricavarne un documento SPETTACOLARE
In cui a esibizioni mozzafiato (Stevie Wonder, Nina Simone, Sly and the Family Stone o come Gladys Knight & the Pips con una versione unica di "I heard it through the grapevine" e che salutano ballando con il pugno chiuso, Mavis Staple duetta con Mahalia Jackson in un gospel da brividi, David Ruffin incanta con "My girl", Ray Barreto porta il latin sound sul palco) si uniscono interventi di spessore socio politico, interviste alle persone, immagini della New York dell'epoca. Il reverendo Jesse Jackson parla alla folla, usa parole chiare, dure, incisive, sui diritti degli afroamericani. Gli artisti sono tutti ELEGANTISSIMI con look ricercati e raffinati.
Il dato saliente è il PUBBLICO, quasi totalmente nero.
Elegante, composto, sorridente, partecipe, consapevole.
Ci sono esponenti dei Black Panthers e anziane famiglie, bambini che giocano, giovani, estetiche esuberanti e raffinatissime.
La gente è coinvolta ma rispettosa, non si accalca, applaude, pensa, riflette, si diverte. Immagini antitetiche al carnaio fangoso e tossico di Woodstock.
Forse il motivo per cui tutto ciò non è mai stato trasmesso c'é.
Vedere quanto gli afroamericani fossero molto più "civili" e socialmente avanti rispetto a chi, nello stesso momento, mandava a morire migliaia dei suoi giovani in Vietnam, poteva fare la differenza.

Beatles - Get Back di Peter Jackson
Uno degli eventi più attesi degli ultimi anni, di cui si erano avute alcune interessanti anticipazioni ma che, contro ogni aspettativa, è riuscito ancora una volta, in modo tipicamente beatlesiano, a sorprendere e a cambiare la narrazione e la sostanza della “vera” storia dei Beatles.
Il regista Peter Jackson (al suo attivo pellicole come “Il Signore degli anelli”, “King Kong”, “Lo Hobbit”) ha selezionato tra 60 ore, girate da Michael Lindsay Hogg nel 1969, “riducendole” a sole otto (!), per confezionare uno dei docu film più particolari, nella sua unicità, della storia del rock.
Il film di Lindasy-Hogg, “Let it be”, era già uscito nel maggio 1970 (vincendo un Oscar per la colonna sonora), poco dopo lo scioglimento della band, mostrata in drammatica decadenza.
“Get Back” di Jackson cambia le carte in tavola e ci propone tutt'altra storia, con un gruppo in preda a cambiamenti e scontri personali ma ancora terribilmente vivo e creativo ma che, soprattutto, continua a volersi un sacco di bene.
Due puntualizzazioni sono necessarie: il film è pertinenza (quasi) esclusiva dei fan più sfegatati e profondi conoscitori dei Beatles. Solo loro sono in grado di apprezzare, sopportare, comprendere in pieno la lunghezza del film.
Per il resto del mondo le prove, gli scherzi, i dialoghi, i litigi, le improvvisazioni caotiche, le cover raffazzonate risulteranno insignificanti, noiose e inutili.
In seconda battuta, come si è sempre erroneamente creduto, non è rappresentata “la fine dei Beatles”, che, dopo queste riprese, resteranno insieme ancora per un altro anno, sfornando quello che è presumibilmente il loro capolavoro, “Abbey Road”. “Get back” è invece la ricostruzione del mese di lavoro della band che porterà, il 30 gennaio 1969, al famoso e breve concerto sul tetto della Apple Records, qui interamente documentato.
Si parte dal 2 gennaio 1969, quando Paul, John, George e Ringo si ritrovano in un enorme studio di Twickenham per preparare uno spettacolo, un rientro sulle scene, un ritorno alle origini (“Get back”) della band, dopo anni di voluta assenza dai palchi, una serie di capolavori discografici, l'ascesa nell'Olimpo della musica, arte, cultura, assurti a opera d'arte vivente.
Paul McCartney vuole che la band, dopo i sempre più numerosi contrasti degli ultimi tempi, si ricomponga per sfuggire alla forza centrifuga che sta proiettando ognuno versi altri progetti. Pensa ai Beatles che riprendano in mano gli strumenti e suonino come facevano agli esordi (sette anni prima, solo sette anni, durante i quali hanno cambiato il mondo della musica e non solo), per ritrovare spontaneità, freschezza, genuinità.
E che tutto ciò venga dettagliatamente filmato, dalle prove fino allo show finale. Che, anticipa il preveggente Paul, “tanto sarà il nostro ultimo concerto”.
Il progetto iniziale prevede di esibirsi a Sabrata, in Libia, nei resti del teatro romano. In poco tempo l'idea, pur suggestiva, viene cassata.
Si passerà a un concerto londinese a Regent's Park, a Londra. Ma l'unico a volerlo è lui, agli altri non interessa più risalire su un palco.
Passano i giorni, le tensioni salgono, John sembra assente (con Yoko costantemente a fianco), George infastidito e incattivito, Ringo annoiato. Paul cerca di stimolarli “Non siamo pensionati del rock”), prende le redini delle prove ma finisce sempre malamente, tra nervosismo (George gli si rivolge, durante un'accesa discussione, in modo sprezzante, “Non mi infastidisci Paul, ormai non mi infastidisci più”), tempo perso, musicisti annoiati.
Alla fine George si alza e lascia il gruppo. “Ci si vede in giro in qualche locale” dice.
La scena è incredibile, i tre sembrano non prendersela, pensano a sostituirlo con Eric Clapton, poi si lasciano andare all'isteria e alla depressione, con occhi lucidi e sconforto palpabile.
Lo convinceranno a ritornare e da lì la faccenda cambia radicalmente. Sono tutti più distesi, propositivi, emerge l'imponente figura artistica e creativa di Paul che compone, arrangia, crea in diretta capolavori immortali, rende geniali le bozze degli altri. In mezzo gli scherzi, le battute, il caustico humor dei quattro che ritrovano unità e voglia di fare e stare insieme.
Soprattutto quando si aggiunge Billy Preston, geniale tastierista (suonerà con Stones, Aretha Franklin, Ray Charles, Bob Dylan, Miles Davis, Elton John e mille altri) che passa a salutare i ragazzi (conosciuti ad Amburgo anni prima) e si ritrova di punto in bianco nella band. Osservare la sua faccia quando glielo propongono, così, sui due piedi, e quella dei quattro Beatles, subito entusiasti ad ascoltare quello che suona, è imperdibile.
La sublimazione dell'innocenza.
Ricordiamoci che Billy aveva 23 anni, i “quattro” andavano dai 25 ai 28. Anche se nel nostro immaginario ci appaiono adulti, immortali, saggi e onniscienti erano ancora ragazzi giovanissimi.
La sua presenza rivitalizza la band, nascono nuove canzoni.
Nel film ne vediamo la prima scintilla, le progressive modifiche, i reciproci suggerimenti, i cambiamenti, in un lavoro corale, condiviso, in cui ognuno apporta il proprio contributo. Fino ad avere sotto gli occhi “Let it be”, “The long and winding road”, “Two of us”, “Don't let me down”, “Get Back” e le radici di successivi capolavori come “Something”, “All things must pass”, “Jealous guy”.
La band stringe i tempi, lo show, non ancora definito, si avvicina e alla fine decidono (ennesimo colpo di genio) di farlo sul tetto della Apple, nei cui studi si sono spostati.
Gli dei della musica assurgono al cielo, si avvicinano al divino.
Lasciando a terra l'incredibile fauna che li circonda anche durante le registrazioni (mogli, compagne, fonici, produttori, discografici, fotografi, cameramen, amici in visita, manager, personaggi di vario tipo).
E da lì, il 30 gennaio 1969, in un breve concerto di una manciata di brani, lanciano l'ultimo messaggio al mondo. E' il momento clou del film (e degli anni Sessanta).
La gente in strada non capisce, sono i Beatles, si sentono ma non si vedono, si crea affollamento, in tanti salgono sui tetti circostanti per avvicinarsi e guardarli insieme (inconsapevolmente) per l'ultima volta, la maggior parte apprezza, in pochi protestano perché la confusione creata “danneggia il commercio”.
I Beatles, a dispetto dei detrattori ignoranti, suonano benissimo, cantano divinamente, diventano un unicum di suono, immagine, creatività.
L'icona Beatles risplende in tutta la sua luminosità, solamente perché sono loro e perché nessun altro è mai stato e mai sarà più come Paul, John, George e Ringo insieme.
Gli anni Sessanta si chiudono e un'epoca irripetibile lascia spazio ad altro (meglio o peggio è pertinenza esclusiva del giudizio personale).
Il capolavoro dei Beatles è stato nello sciogliersi alla fine del decennio di cui sono stati simbolo.
Anche se, emerge chiaro dal film, non ne avevano alcuna intenzione all'epoca.
George confida a John e Yoko di voler fare un album solista con lo scopo di poter aver finalmente lo spazio che ormai meritava ma che nei Beatles non poteva avere, sottolineando che sarà anche un modo per rafforzare l'unità del gruppo.
Alcuni brani, che ritroveremo negli album solisti dei componenti, sono in predicato di entrare nel prossimo album della band.
Il motivo scatenante dello scioglimento emerge, inconsapevolmente, verso la fine del film, quando il manager Allen Klein si offre di gestire gli affari della band.
Paul vorrà il padre della moglie Linda, gli altri tre rifiuteranno e i Beatles finiranno (anche per questo).
E finalmente da queste immagini Yoko Ono, da sempre vituperata e considerata la causa della rottura, viene “scagionata”. E' sempre appiccicata a John ma non interferisce mai, se ne sta in silenzio, legge, prende appunti, fa persino l'uncinetto.
Sostiene la fragilità di John, ne smussa le asperità del carattere. E' costantemente presente ma con dolcezza, mai ingombrante o invasiva.
Uno dei momenti più esplosivi del film è quando arriva la polizia a sospendere il concerto sul tetto.
Sono due giovani ragazzi che sotto gli elmetti e il piglio autoritario nascondono un caschetto alla Beatles.
Ma devono mantenere fede al loro ruolo.
Imbarazzati, impacciati, probabilmente devastati dall'ingrato compito. Le telecamere li spiano nel loro straziante dilemma. Un altro elogio all'innocenza.
Tutto intorno esplodono i colori, la naiveté e la freschezza dei protagonisti, l'abbigliamento del pubblico del concerto sul tetto, le pettinature, le minigonne, le giacche a tre bottoni, la sensazione di un mondo nuovo che stava per esplodere.
“Get Back” è un inimitabile ritratto di un'epoca tanto esaltante quanto finita.
E che i Beatles hanno rappresentato, tanto più in queste immagini, in cui li vediamo veri, presenti, “umani” in maniera imbarazzante. E per questo ancora più vicini e immortali.

ZEROCALCARE - Strappare lungo i bordi
E' molto bello avere un autore, fumettista, intellettuale (esatto, INTELLETTUALE) come ZEROCALCARE che scrive e propone piccoli capolavori come "Strappare lungo i bordi", con la capacità di gestire il difficilissimo equilibrio tra risata (anche grassa) e pura commozione, aprire ferite nuove e antiche, scrivere e rappresentare realtà e attualità in modo, allo stesso tempo, leggero e profondo.
Le sei puntate della serie su Netflix sono irresistibili e da vedere e il tanto criticato romanesco parlato è un'ulteriore aggiunta qualitativa.
Senza dimenticare i costanti riferimenti a quel sottobosco antagonista che continua a vivere, pulsare e (r)esistere in un mondo così difficile e rivoltante
Per me, stupendo.

MCCARTNEY 3,2,1
Paul McCartney racconta le canzoni dei Beatles, affiancato da un adorante Rick Rubin, in sei episodi di mezzora l'uno in onda su Disney+.
In rigoroso bianco e nero.
Ascoltano i brani davanti a un mixer, alzano e abbassano i canali, evidenziano parti, ne tolgono altre, in un affascinante gioco arricchito ovviamente da mille aneddoti.
I Beatlesiani li hanno sentiti ripetutamente ma fa sempre piacere sentirseli raccontare da Paul in persona.
Rick Rubin fa qualche domanda e poi si limita a dire "Wow" e "Fantastico" ma è il suo ruolo ed è quello che faremmo tutti
Paul "svela" che la parte di basso di "Maxwell's Silver hammer" è la sua (a quanto fare tolse quella suonata da George), che in molte canzoni lasciavano deliberatamente gli errori ("se non se ne accorgeva George Martin non se ne sarebbe accorto nessun altro"), di come il loro obiettivo fosse di andare costantemente avanti e come fossero spinti dall'entusiasmo e dalla voglia di sperimentare qualsiasi cosa gli capitasse a tiro in studio, della basilare influenza di James Jamerson dei Funk Brothers sul suo modo di suonare.
Dimostra quanto le sue linee di basso fossero basilari allo sviluppo dei brani dei Beatles, spesso quasi uno strumento solista.
E che finalmente è diventato un fan dei Beatles:
"Col tempo sono diventato un fan dei Beatles.
All’epoca ero solo un Beatle. Ora che l’intera opera del gruppo è alle spalle, la riascolto e penso: aspetta un attimo, com’è quella linea di basso?".
Niente di indispensabile ma per chi continua a credere che i Beatles siano la più importante opera d'arte, cultura e spettacolo del '900, la visione è ovviamente imprescindibile.

SIDNEY POLLACK / ALAN ELLIOTT - Amazing Grace
Raramente un doc musicale ha raggiunto una simile intensità, pathos, vetta di trasporto emotivo. Ci sono sequenze in cui é difficile non lasciare scorrere le lacrime, non farsi travolgere, venire i brividi.
Un film semplicemente SPETTACOLARE che documenta le due serate del 13 e del 14 gennaio 1972 in cui ARETHA FRANKLIN, artista di ormai enorme successo, tornò a cantare nella chiesa battista the New Temple Missionary di Los Angeles, dove aveva esordito con le sorelle sotto la guida del padre, C.L. Franklin.
Ad accompagnarla il reverendo James Cleveland con il Southern California Community Choir e la sua band con eccellenze come Bernard Purdie alla batteria, Chuck Raney al basso, Cornell Dupree alla chitarra, tra gli altri.
L'album ricavato dal concerto, "Amazing Grace", venderà 2 milioni di copie diventando il disco gospel di maggior successo di sempre.
Insoddisfatta dalla resa delle riprese e da problemi tecnici (solo recentemente sistemati con le nuove tecnologie) Aretha impedì l'uscita del film.
Solo dopo la sua morte gli eredi concessero il permesso. Le telecamere riprendono il concerto, diviso in due serate, ma soprattutto il pubblico, i musicisti, restituendo un'atmosfera incredibile.
A partire dall'estetica dell'epoca, proseguendo con sporadiche riprese a Mick Jagger e Charlie Watts, presenti nella seconda serata, riprendendo momenti di PURA ESTASI MISTICA in cui cadono coristi, James Cleveland, la stessa Aretha, componenti del pubblico, posseduti, in trance, mentre il sudore solca il volto dei protagonisti.
L'esecuzione di "Amazing Grace" é qualcosa che ci porta nell'irrazionale, nel divino, nel sopranaturale, "Old Landmark" travolge, "You'll never walk alone" toglie il fiato. I colori, il montaggio (diretto, grezzo, immediato), il contenuto artistico e culturale fanno il resto.
Uno dei migliori doc musicali di sempre.

Lydia Lunch - The war is never over di Beth B.
Nel migliore dei mondi possibili Lydia Lunch non avrebbe bisogno di presentazioni.
Siamo in un mondo imperfetto, di conseguenza due parole vanno dette.
Artista a 360 gradi, performer, cantante, musicista, compositrice, personaggio di prima grandezza nella scena “alternativa”, icona, disturbatrice, terrorista sonora e verbale. Potremmo aggiungere una lunga serie di accrescitivi e definizioni.
Possiamo riassumere il tutto in un concetto basilare ed elementare: personaggio unico.
La regista Beth B, da tempo immemorabile sodale di Lydia, ha realizzato un documentario sulla sua attivià artistica intitolato “The war is never over” (La guerra non è mai finita), un grido di battaglia inequivocabile.
Che ribadisce in un'intervista esclusiva in cui di certo non si risparmia:
“Andiamo amico mio... citerò Kafka "C'è speranza... ma non per noi". Il mondo come lo conosciamo raramente è stato senza conflitti, espropri di terre per le risorse naturali, schiavitù, un complesso di Dio, profughi creati da guerre inutili (molti dei quali negli ultimi settantacinque anni esportati dall'incredibile Complesso Militare Industriale degli Stati Uniti...ottocento installazioni militari in tutto il mondo, per non parlare del sistema di ingiustizia criminale americano, più prigionieri di qualsiasi altro paese del pianeta), la disuguaglianza dei sessi, il razzismo e, in generale, il disprezzo per la vita di questo pianeta e tutto ciò che contiene.
Possiamo fingere che questi problemi non esistano mentre conduciamo una vita comoda da classe media, ma questi problemi non vengono risolti ed è incredibilmente frustrante che come civiltà che ha tali incredibili progressi tecnologici, non abbiamo ancora progredito abbastanza per imparare come trattare il pianeta e le persone che ci vivono con più rispetto.
NO.
La guerra non è mai finita.”
Il documentario di Beth B non ci risparmia nulla. Crudo, essenziale, diretto, senza filtri, ci mostra lo spirito e l'anima iconoclasta di Lydia Lunch, approdata a New York agli albori del punk, a fine anni Settanta, da cui ha attinto il gusto per la provocazione, mai fine a sé stessa ma indirizzata a un concetto di abrasione delle certezze morali, dell'omologazione, la classica spina nel fianco alla cosiddetta “moralità” o comune senso del pudore.
Non solo da un punto di vista civico ma anche musicale. Peraltro, a quanto mi dice Lydia, è solo l'inizio.
“Che ne dici della parte due, ti chiedo? C'è solo una parte della mia carriera di quarantre anni che puoi spremere in settanta minuti. Ho portato a termine molti progetti da quando il documentario è stato terminato. Due album, una commedia, una sceneggiatura, più tour sia musicali che parlati.
Il mio podcast “The Lydian Spin” ora ha 117 episodi e continua a pubblicare un nuovo episodio ogni settimana.
Ho completato un documentario che ho prodotto con Jasmine Hirst chiamato “Artists- Depression/Anxiety & Rage” dove ho intervistato trentacinque persone di diverse discipline creative che uscirà il prossimo anno.
Il film è un'istantanea di ciò che ho fatto e continuerò a fare.”
Una vita, artistica e non, vissuta radicalmente, resistente a ogni contaminazione con il mainstream, posizione rara da trovare nel mondo accondiscente di oggi.
“Perché avrei dovuto cercare strade più facili? Non credo che nulla di ciò che faccio sia così "radicale". Documento le mie esperienze personali sullo sfondo degli eventi mondiali e parlo, scrivo, recito monologhi che descrivono sia la storia presente che la mia isteria riguardo a questi eventi.
Ho pubblicato troppi diversi tipi di musica, testi e persino fotografie per dipingere tutto come radicale, a meno che per radicale non intendi seguire il mio percorso e non essere dettato dalle tendenze, dai social media, dalla popolarità o dalle stronzate.”
La sua carriera è complessa, ricchissima e difficilmente riassumibile in poche parole.
Inizia con i Teenage Jesus and the Jerks, una delle band protagoniste della cosiddetta scena “No New York”, in cui nomi come quelli di Lydia, dei Contortions di James Chance, dei DNA di Arto Lindsay, riscrivevano la musica alternativa contemporanea, irridendo il clangore del punk rock (che a quel punto e al loro confronto diventava semplice epigone del pub rock e rock 'n' roll) inserendo nella loro proposta noise, jazz, sperimentazione, violenza, abrasione, il punk e l'avanguardia più estrema.
A produrre un signore che di suoni sperimentali se ne ne intende da sempre, Brian Eno.
E' il 1978 e da quel momento Lydia incomincia un lungo percorso che la porta tra musica e arte, sempre ai limiti.
Queen Of Siam del 1980 è il suo primo album solista e già preconizza alla perfezione il percorso futuro che la porterà a fianco di icone della musica più estrema, dai Sonic Youth (il piccolo monumento all'abrasione che è Death Valley 69) a Exene degli X (con cui condivide un conturbante libro di poesie), Nick Cave, Einsturzende Neubaten fino alla recente e devastante collabotrazione con Marco Bertoni dei Confusional Quartet, Franco Bifo Berardi e Bobby Gillesie dei Primal Scream nell'apocalittico progetto Wrong Ninna Nanna. Inoltre libri, film, video, collaborazioni di ogni tipo e concerti dal vivo di un'intensità rara, in cui riesce sempre a esprimere quel senso di “pericolo” e incertezza che ormai non troviamo più in nessun palco.
Lydia Lunch rimane ancorata al suo guscio che non significa auto ghettizzazione ma semplicemente consapevolezza di un ruolo che intende continuare ad affermare anche in un contesto culturale che concede sempre meno spazio alle diversità antagoniste e scomode. Quando le chiedo chi vorrebbe che vedesse il film a lei dedicato risponde sicura e spavalda:
“Chiunque sia stufo del pop pulp, chiunque non sia soddisfatto dello status quo. E che crede nel potere dell'individuo di superare il trauma e risorgere dalle ceneri per poter parlare. Qualsiasi individuo che sia stato trascurato, chiunque non abbia potuto ascoltare la voce di queste persone,o che non sia stato in grado di lanciare il grido di giustizia che è stato così spesso soffocato. Questa è la mia gente. Chiunque altro potrebbe farlo meglio o evitarlo del tutto. Comunque grazie.”
Lydia Lunch è un personaggio e un'artista unica, preziosa, da preservare, sostenere e seguire, perchè parla un linguaggio che sta scomparendo.
Quello che non conosce compromessi, che percorre cocciutamente strade sconnesse, ne apre di nuove, ritorna su quelle meno frequentate, incurante di successo, notorietà, guadagni facili, sempre in bilico, sempre in discussione, senza un futuro scritto, alla faccia di certi sloganistici “no future”.
Continua a chiedersi come le donne possano essere passate “da Medusa a Madonna”.
“The war is never over” non usa mezzi termini e ci mostra Lydia affrontare le tematiche femministe in modalità totalmente diverse dalla retorica “buonista” e a favore di telecamera del MeToo o mediaticamente spendibile. Anche in questo caso il linguaggio è scabroso, crudo, efficace e diretto come un pugno in faccia.
Il tutto declinato con ironia, umorismo, onestà, approccio esplicito e dissacrante.

A SOUL JOURNEY di Marco Della Fonte
“A Soul Journey” di Marco Della Fonte, è un gradevolissimo film che racconta il Festival Soul di Porretta Terme (che quest'anno raggiunge la 33° edizione e si svolgerà dal 27 al 29 dicembre: https://www.porrettasoulfestival.it/) attraverso le interviste a molti dei protagonisti.
Un film che trasuda passione e anche commozione.
Graziano Uliani in tutti questi anni ha portato star di prima grandezza (da Solomon Burke a Rufus Thomas) ma anche tanti nomi dimenticati, che hanno avuto successo e popolarità negli anni 60 e 70 e poi sono finiti nell'oblio.
E che ora non si capacitano della calorosa accoglienza ed entusiasmo che trovano in questa piccola cittadina emiliana, quando invece in patria nessuno se ne ricorda più. Da vedere, un documento importante.
Che ha, tra l'altro, vinto recentemente il premio come miglior documentario al London Independent Film Festival.

Todd Haynes - Velvet Underground
E' prassi ormai consolidata, una sorta di inevitabile necessità, indicare i Velvet Underground tra i gruppi più influenti e il loro primo album, uscito nel marzo 1967, come uno dei migliori dischi rock di sempre.
C'è ovviamente molto di vero, il gruppo di Lou Reed e John Cale, supportati dalla spinta visiva e artistica di Andy Warhol, creò uno stile unico, che mischiava gli scampoli del beat, con folk, sperimentazione, influenze di musica classica contemporanea, proto punk.
A cui si univano la spettrale voce di Nico, la chitarra di Sterling Morrison e la batteria primitiva di Maureen Tucker che in un momento in cui incominciava a emergere una generazione di musicisti sempre più raffinati e tecnici, percuoteva i suoi tamburi in maniera ossessiva, minimale, senza nessuna concessione alla tecnica.
Che peraltro, John Cale a parte, che veniva da studi classici, non era prerogativa nemmeno degli altri componenti della band.
In un'epoca in cui l'estetica si faceva sempre più colorata ed estrosa i Velvet si presentavano in nero e con giubbotti di pelle.
E mentre i testi delle canzoni in classifica svoltavano verso paradisi artificiali e sognanti, con afflati di pacifismo, anelanti amore ed escapismo dalla realtà, Lou Reed scriveva e cantava di eroina, sadomasochismo, prostituzione, devianze sessuali.
Il primo disco, ora assurto all'olimpo della storia del rock, famoso soprattutto per l'iconica banana in copertina disegnata da Warhol, passò praticamente inosservato. Vendette poche copie, non più di 30.000 (per l'epoca briciole) ma come ipotizzò Brian Eno “ognuna di quelle 30.000 persone dopo averlo ascoltato formò una band”.
I Velvet Underground sono votati alla distruzione ma soprattutto all'autodistruzione, sia artistica che fisica. E perdono pezzi, prima Warhol e Nico, poi John Cale.
Nel secondo album “White light/White Heat” ricorda Cale che “facevamo a gara a chi teneva il volume più alto, nessuno parlava più agli altri. Peggio dei bambini”.
v Infine lo stesso Lou Reed si stanca e lascia, dopo “Loaded” (che contiene due suoi capolavori, “Sweet Jane” e “Rock 'n' Roll”, che si porterà appresso nella carriera solista), il tutto in mano al solo Doug Yule, entrato a sostituire John Cale che porterà avanti, impropriamente, il nome del gruppo ancora per un po'.
Disintegrato il gruppo, Lou Reed troverà il successo grazie a una carriera solista tra le più fulgide dell'intera storia del rock, macinando momenti di eccellenza a provocazioni e sperimentazioni, qualche caduta di stile ma rimanendo sempre a livelli di assoluta eccellenza. John Cale prosegue un'oscura strada solista pur distinguendosi come produttore (gli Stooges di Iggy Pop, Nico, i Modern Lovers, Brian Eno, Happy Mondays, Siouxsie, Patti Smith) e come compositore di colonne sonore. Nico diventa un'icona dark, con dischi oscurissimi e ostici, persa negli abissi più bui dell'eroina, Sterling Morrison e Moe Tucker rientrano nell'ombra.
Il punk e la new wave tributeranno immediato omaggio ai Velvet Underground, riconoscendone l'importanza primaria come influenza sonora ma soprattutto attitudinale.
E il progressivo successo di Lou Reed li sublimerà come band seminale ed essenziale nella storia della musica rock.
John Cale e Lou Reed si ritroveranno in concerto a Parigi con Nico, nel 1972 e poi nel favoloso album tributo a Andy Warhol, morto da poco, nel 1990, “Songs fo Drella”, quindici canzoni composte insieme per ricordare il loro scopritore. Nel 1993 la formazione originale si riunì per un tour che, purtroppo, risultò parecchio deludente, come mi confermò amaramente la data milanese.
Come ogni gruppo di culto che si rispetti, dei Velvet Underground sono rimaste poche testimonianze video e anche quelle fotografiche non sono così frequenti. Non deve essere stato facile per il regista Todd Haynes riuscire a costruire un documentario di due ore dedicato alla band. “The Velvet Underground” risente infatti della scarsità di materiale, affidandosi, come è spesso frequente nei contesti visivi, a una lunga serie di testimonianze di protagonisti più o meno diretti della vicenda.
Ma è proprio in questa limitata possibilità di scelta che riesce a destreggiarsi, centellinando filmati e foto rare o inedite, riuscendo a tenere in magico e sapiente equilibrio la visione di un lavoro destinato a diventare un classico.
La partenza è un po' lenta ma necessaria ed efficace, con la contestualizzazione del periodo in cui la band nasce, il John Cale che arriva a New York dal remoto Galles, il Lou Reed che frequenta i locali gay della città, in una situazione in cui l'omosessualità è ancora vista come un male da estirpare anche con la forza e passibile di arresto. Spettacolari poi le immagini in bianco e nero alla Factory di Warhol, il laboratorio in cui l'artista creava e raccoglieva idee, persone, immagini e dove “la gente andava perché c'erano sempre le telecamere accese e questo faceva pensare loro che avrebbero potuto diventare delle star del cinema”.
La band é seduta in circolo con altri ragazzi e ragazze, a farsi leggere i tarocchi.
Sguardi febbrili, un'estetica che andava già oltre il concetto del beat o della psichedelia, non si curava delle mode e delle tendenze. L'arrivo di Nico, voluta nel gruppo da Warhol che, come spiega Cale, immaginava questo “iceberg biondo in mezzo a una band invece tutta vestita di nero” non fu bene accetto dal resto dei componenti che lo subirono come un'imposizione. Ma nella testa del loro mentore il gruppo era una sua opera d'arte e ci voleva una ragazza bella, attraente, misteriosa (e pure relativamente nota, avendo fatto una piccola parte nella Dolce Vita” di Fellini ed essendo stata una modella discretamente famosa). Fu lo stesso Cale a doversi occupare su come impiegarla vocalmente (nonostante avesse già inciso un 45 giri in Inghilterra prodotto dal giro Rolling Stones e suonato dal futuro Led Zeppelin, Jimmy Page) e a confezionarle un ruolo all'interno della band.
I Velvet Underground erano una specie di “quadro” di Warhol che lui portava nei musei o in situazioni artistiche.
La gente, i collezionisti, i radical chic, gli intenditori d'arte andavano per Warhol, la band si esibiva come compendio alla sua presenza ma come ricorda Moe Tucker, non erano interessati alla loro musica:
“Scherzavamo spesso su questo. Quanta gente se ne è andata stasera quando suonavamo? La metà? Ah allora è andata bene”.
“Sono stanco di dipingere e ho pensato ai Velvet Underground come a una combinazione di musica, arte e cinema, tutto insieme” (Andy Warhol).
Nel documentario si sentono le voci di Lou Reed, Sterling Morrison mentre John Cale e Maureen Tucker appaiono in immagini recenti, commentando con tranquillità e profondità le vicende. Ci sono anche David Bowie, vari esponenti della Factory, artisti, registi e un emozionato Jonathan Richman (leader dei Modern Lovers) che li vide in concerto una quarantina di volte e descrive alla perfezione cosa significava assistere a un loro concerto.
“Andy è stato fantastico e non sarebbe accaduto niente senza di lui. Non credo avremmo mai ottenuto un contratto senza la sua copertina o se Nico non fosse stata così bella. Abbiamo potuto fare quell'album così come ci piaceva solo perché Andy ci ha dato la massima libertà e nessuno avrebbe mai osato contraddirlo”(Lou Reed).
Il documentario ci mostra anche le convulse fasi finali, il tentativo di uscire dal giro New Yorkese ma invano.
“Nella West Coast erano hippies e non odiavamo gli hippies e il loro “pace e amore”, quella merda “pace e amore” la odiavamo. Sii realistico. Aiuta qualche homeless, fai qualcosa, invece di andartene in giro con i fiori nei capelli” (Moe Tucker).
Nel frattempo Lou Reed licenzia prima Warhol e poi John Cale, Nico preferisce una strada tutta sua, la band perde verve e viene superata dalle nuove tendenze musicali, fino al definitivo epilogo. Il film è un lavoro interessante, esaustivo, necessario, che scrive l'epitaffio definitivo su una band determinante e assolutamente unica e inimitabile.
Lou Reed ci lascia un'indicazione essenziale per ogni musicista:
“Noi concepivamo le canzoni come uno spazio aperto in cui non mettere cose in più ma toglierle che è l'esatto opposto di come lavorano gli altri. Non abbiamo mai aggiunto strumenti o chiamato session men a suonare. Non abbiamo mai inciso niente che non fosse possibile riprodurre dal vivo”.

Respect di Liesl Tommy
Quando guardiamo un film su qualche famoso artista dobbiamo, prima di iniziare, scrivere cento volte sulla lavagna "non è un documentario, è un film".
Di conseguenza, noi saccenti conoscitori di ogni virgola della storia del protagonista, dobbiamo metterci un cerotto sulla bocca ed evitare di puntare il ditino inquisitore sulla mancanza di questo o di quello.
E' UN FILM.
Teatrale, superficiale, "cinematografico", melodrammatico, enfatico, appunto.
Americano, soprattutto.
Detto questo, Jennifer Hudson è una credibile e superba Aretha (anche vocalmente, esteticamente e fisicamente regge il confronto), interpreta bene le sue instabilità e up and downs, le contestualizzazioni storico/scenografiche sono fedeli e (quasi) perfette, i particolari curati. Il film si ferma al ritorno al gospel di Aretha nel 1972 con "Amazing Grace".
"Respect" si colloca bene a fianco di "Ray" di Taylor Hackford su ray Charles e "Get on up" di Tate Taylor su James Brown.
Un dignitoso (per quanto eccessivamente lungo, quasi due ore e mezzo) omaggio.
Non entrerà nella storia ma gli appassionati apprezzeranno.

Gregory Fusaro - Se il cielo é tradito / Claudio Galuzzi
Claudio Galuzzi é stato uno dei personaggi più importanti in ambito culturale degli anni 90.
Era un intellettuale, un pensatore, un visionario, una figura ormai così desueta ai nostri giorni.
Una persona che conosceva in maniera approfondita musica, cinema, letteratura, arte. Ne conosceva gli aspetti più particolari, “alternativi” (quando ancora questa definizione aveva un senso e significava appartenenza, personalità, distinzione da quella massa che segue le mode, che non approfondisce, non ricerca, non ama la curiosità).
E metteva a frutto questo aspetto scrivendo, organizzando, parlando.
Per il sottoscritto é stato anche un caro amico, fino alla sua tragica scomparsa, nel 1998.
Un'amicizia tutta “padana”, riservata, senza tanti baci e abbracci.
Poche parole, tanta comunanza di intenti, di prospettive, speranze, progetti. E tanta ironia, perché era, come ogni intellettuale, persona molto divertente, che sapeva prendere e prendersi in giro.
Negli anni 90 ero spesso a Milano per lavoro e quando tornavo dalla caotica metropoli percorrevo la statale per potermi fermare nel suo negozio di dischi (e centro culturale, di fatto), “Muzak”, a Casalpusterlengo.
Non solo per comprare qualcosa ma per parlare.
Sapendo di poter spaziare su ogni argomento, di imparare un sacco di cose nuove, di potermi confrontare, di restare spesso stupito davanti alla sua capacità di collegare e mettere insieme mille riferimenti che attingevano in ogni ambito artistico di “un certo tipo”.
Aprì un locale, diventato mitico, il “Lenz”, a Terranova, in una ex chiesetta, dove non si sentiva granché bene ma in cui trovavi un'atmosfera unica (sempre che, in certe serate nebbiose, come ancora c'erano ai tempi, si riuscisse ad arrivare al club), fuori dal tempo.
Suonammo spessissimo con Lilith e altrettanto frequentemente andammo a vedere concerti della scena milanese che stava nascendo (Afterhours, La Crus, Cristina Donà).
Ma c'erano anche eventi letterari, culturali e cinematografici.
Claudio non era nuovo a questo tipo di esperienze perché già negli anni 70 era stato uno dei principali agitatori culturali della zona, aprendo la prima radio privata di Casale, Radio Scimmia e partecipando a tante altre iniziative che contribuirono a smuovere le acque.
Scrisse per “Pulp” (rivista letteraria che fondò, allegandola al mensile “Rumore”) e “Rendiconti” (curata da Roberto Roversi, poeta, artista, scrittore, a lungo collaboratore di Lucio Dalla) ma anche per “Il Mucchio”, “Rockerilla” e tanto altro. E fu proprio grazie a Claudio che Roberto Roversi scrisse le note di copertina dell'ultimo album di Lilith, “Stracci”, nel 1997. Disco nel quale é anche autore di una serie di testi (come fece anche per i La Crus). Testi affilati, crudi, pregni di significati, unici. Come quelli che ritroviamo nel suo libro di poesie dal titolo iconico, “La pianura dentro”.
Il regista Gregory Fusaro ha pazientemente ripercorso le tracce della sua vita artistica.
Faticosamente perché non erano tempi in cui ci si preoccupava troppo di lasciare tracce evidenti. L'importante era scavare cicatrici nell'anima degli astanti, lasciando un segno.
Fusaro ha riassunto il tutto in un'ora di documentario, “Se il cielo é tradito” (presentato alcuni giorni fa al Cinema Mexico di Milano e che sarà in autunno in tour in varie città e stampato in DVD).
Vari collaboratori di Claudio testimoniano i giorni trascorsi con lui (dai musicisti Cristina Donà, Lilith, Mauro Ermanno Giovanardi, allo scrittore Davide Sapienza, il giornalista Massimo Pirotta e tanti altri).
Lo stesso Fusaro testimonia, senza averlo mai incontrato, la sua ammirazione artistica e umana per Claudio:
“Una cosa che mi ha sorpreso é, a distanza di così tanti anni, il ricordo molto nitido che hanno le persone che lo hanno conosciuto. Le persone che ho incontrato facevano parte di un collettivo immaginario, che faceva tante cose insieme, seppure a distanza, pur non incontrandosi tutti i giorni, con delle dinamiche che oggi ci risultano estranee.
La condivisione di allora é decisamente diversa dal concetto di condivisione che abbiamo noi oggi.
E questo rende quel mondo molto più solido e con radici molto più profonde delle nostre, dal punto di vista artistico.
Scoprire Claudio é stato un po' come identificare l'epicentro di quel terremoto culturale che ha dato vita al movimento artistico degli anni 90.”

Bande giovanili - Nuovi sentieri nella giungla metropolitana
https://www.youtube.com/watch?v=CjzpuxYs8_A
Un documentario del 1983 sulle "bande giovanili" a Milano.
Si vedono i mod milanesi prima e durante un concerto dei Four By Art del gennaio 1983 all'Odissea di Milano e anche immagini di un concerto di Chelsea Hotel, Raw Power, Indigesti, Crash Box, Anti, Tiratura Limitata al "Pluto/Osteria di Sacc" a Piacenza il 27 novembre 1982.
Il filmato (che si vede nei minuti finali) fu lo spunto per l'articolo delirante del Corriere della Sera che riporto qui sotto.
In realtà il nostro cantante (dei Chelsea Hotel), Black Demon, non si ferì con un coltello (???) ma con un colpo di chitarra durante un salto...
Si chiamano Mods, rockabilly, metallari, rockers, punks-punx: alcuni rifiutano qualsivoglia impegno civile, altri si dichiarano politicizzati e antagonisti al sistema. Si tratta di aggregazioni spontanee sorte nelle grandi città tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta, sulle quali spesso la stampa si è espressa in modo duro, e in taluni casi arrivando alla criminalizzazione di questi giovani. Il film inchiesta vuole essere un viaggio senza pregiudizi attraverso i gusti, le idee, il modo di essere e di rappresentarsi di questi ragazzi, i quali affidano il proprio messaggio critico ai simboli estetici e a una rabbiosa protesta musicale. L'occhio della telecamera, cercando di evitare commenti esterni al pensiero dei giovani intervistati, mette a fuoco convinzioni e debolezze, fragilità ed entusiasmi, che insieme definiscono linguaggi nuovi e mutazioni antropologiche in atto nella società postindustriale. Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico.

E' stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino
Il nuovo lavoro di Sorrentino è un (lentissimo) film autobiografico, onirico, volutamente Felliniano, sulla perdita dell'innocenza e il passaggio al mondo adulto delle responsabilità (o perlomeno quelle che uno si dovrebbe prendere).
Non sono un fan del regista (di cui ho visto un po' di cose, sempre ottime) ma ho abbastanza apprezzato.
La maggiore fascinazione è nella minuziosa ricostruzione degli interni che a tratti sembra di risentire l'odore di quei mobili e quelle stanze.
PS: il mobiletto con le audiocassette è un tuffo al cuore per chi fu così tanto giovane negli anni 80.

Don't look up di Adam McKay
Perfetta, amara e desolante rappresentazione della società odierna.
La reazione credibilissima alla notizia dell'arrivo di un meteorite che ucciderà la vita sulla terra.
Un film da vedere.

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