venerdì, luglio 13, 2018
Bournemouth 1968: rivoluzione nel tennis
Attraverso una cinquantina di post, riviviamo una serie di episodi in chiave artistica, culturale, sociale del 1968.
I precedenti post qui:
http://tonyface.blogspot.it/search/label/50%20anni%20dal%201968
A cura di ALBERTO GALLETTI
Cinquant’anni dal 1968 e cinquant’anni dal cambiamento più epocale che abbia mai riguardato la storia del tennis:
l’inizio dell’era ‘open’ ovvero la legalizzazione del professionismo nei più importanti tornei mondiali.
Lo sport, attività molto importante nella Gran Bretagna degli anni 60, così come in quella di oggi, era impostato secondo canoni assai rigidi e tradizionalisti che ne facevano, nonostante il chiaro scopo di divertimento e svago, una delle attività più conformiste della società britannica.
Il gioco praticato era altresì specchio della classe di appartenenza, secondo la rigida impostazione dell’epoca.
Si andava dal calcio che già da fine ottocento aveva approvato il professionismo sotto la spinta delle squadre del nord-ovest industrializzato dove aveva attecchito rapidamente tra le masse working-class che vedevano in esso, oltre all’ovvio divertimento, una via di fuga dalla vita in miniera o in fabbrica, al rugby dove il ferreo dilettantismo imperava ma che subì, più o meno allo stesso tempo, una scissione che produsse due giochi differenti: il rugby league (o rugby a XII), professionista, sempre nel nord operaio in cui i giocatori, e i sostenitori, erano esclusivamente appartenenti alla working class di Lancashire e Yorkshire e il Rugby Union, quello tradizionale a XV giocatori, che rimase appannaggio delle classi alte i cui rampolli lo praticavano dalle public schools, ai reggimenti militari, da Oxford a Cambridge via via fino agli austeri clubs del sud dell’Inghilterra , feudi incrollabili del dilettantismo.
Situazione anomala invece per l’anomalo cricket, troppo importante per l’identità nazionale e per l’alta società inglese, in cui le due anime, professionistiche e non, convissero per ben più di un secolo in un singolare regime di apartheid in cui i professionisti, chiamati ‘the players’, venivano discriminati dai non professionisti, i ‘gentlemen’, incarnazione giocante delle upper-classes che non avevano bisogno di sporcarsi le mani e infangarsi l’onore lavorando ne tantomeno giocando a cricket.
Persino il modo di scrivere il nome dei giocatori era discriminato: per i gentlemen prima le iniziali dei nomi quindi il cognome, viceversa per i professionisti.
Curioso e divertente, leggendo le formazioni delle squadre si riusciva a capire chi era professionista e chi no.
Tutte queste discriminazioni sociali non impedivano comunque ad entrambe le categorie di giocare insieme per le rispettive Contee o per l’Inghilterra.
La questione veniva poi regolata annualmente fin dal 1806 presso il prestigioso ed onnipotente Marylebone Cricket Club, sul cui campo si giocava almeno una delle due partite annuali Gentlemen v. The Players, tradizione tristemente abolita insieme alla discriminazione nel 1962.
Rimaneva il tennis che, come e più del cricket, era ad uso e consumo esclusivo delle upper-classes, vuoi per l’eleganza intrinseca del gioco, vuoi per l’esclusività dei club che ne custodivano e mantenevano i campi da gioco, vuoi forse perché le classi inferiori non erano più di tanto attirate da un gioco simile, troppo perbenino.
Ad ogni modo i tennisti partecipanti ai principali tornei dovevano essere categoricamente dilettanti, nessuno di loro poteva percepire premi in denaro quale ricompensa per la vittoria o piazzamento dei tornei, essere pagati dalle rispettive federtennis alle quali dovevano essere obbligatoriamente affiliati o percepire ad alcun titolo somme di denaro per le rispettive attività tennistiche, unica eccezione ammessa i rimborsi per le spese di viaggio documentate e certificate da organizzatori e federazioni.
Chiaro che con questi requisiti il tennis, già molto poco popolare tra la classe lavoratrice, divenne per quest’ultima quasi impossibile da praticare.
Il circuito tennistico si sviluppò principalmente nell’Impero Britannico, negli Stati Uniti e, in misura minore, in Francia.
Gestito da esclusivi e signorili club quali The All England Lawn Tennis Club e similari, dotati di curatissimi campi in erba e organizzatori di tornei fin dal principio.
Nacquero così il Torneo di Wimbledon, per gli affezionati semplicemente The Championship, nel 1877, il US National Championship, oggi noto come US Open nel 1881 sull’erba del Casino di Newport nel Rhode Island, dove rimarrà fino al 1915, il Championnat de France nel 1891 e l’Australasian Championship a Melbourne nel 1905, che sostituiva un torneo risalente al 1880 noto come The Championship of the Colony of Victoria, insieme a questi fiorirono altri tornei un po ovunque, tipo il Carlton Club d Cannes o il Queen’s Club di Londra, ma furono i primi quattro, a partire dagli anni 20, a venir raggruppati in un insieme chiamato Grand Slam.
I migliori giocatori cominciarono a parteciparvi assiduamente, lo status di dilettanti assolutamente basilare. Già da quel decennio comunque, il professionismo si stava diffondendo sempre più tra i tennisti, clamoroso il caso di Suzanne Lenglen, che accettò un contratto da 75.000 dollari nel 1926 per giocare una serie di incontri negli Stati Uniti, che le costò l’automatica estromissione dai quattro tornei del Grand Slam , da parecchi altri tornei.
La giocatrice francese fu senz’altro pioniere del professionismo e ben presto fu imitata da parecchi altri tennisti, spesso i migliori che, infischiandosene del Grand Slam e della Coppa Davis, sottoscrissero contratti professionistici assai remunerativi. Continuavano con il dilettantismo i figli delle upper classes.
Questo portò anche al non secondario aspetto che ai tornei del Grand Slam i migliori non partecipassero quasi mai, se non agli esordi, prima di sottoscrivere contratti professionistici.
Nel dopoguerra cominciarono a diffondersi pagamenti sottobanco o camuffati in vario modo da rimborsi spese, assai generosi, accordati ai dilettanti dagli organizzatori.
La cosa ben nota esplose fragorosamente nel 1960 quando la Federazione Internazionale del Tennis fu posta sotto pressione e costretta a votare per la legalizzazione del professionismo, votazione che comunque non ottenne la maggioranza dei voti. L’attività proseguì tra accuse, ripicche, squalifiche, pagamenti illeciti e campioni che abbandonavano la scena principale attratti dal professionismo quali Rod Laver il grande australiano che, dopo aver vinto a Wimbledon nel 1961 e 1962, anno in cui si aggiudicò tutti i quattro titoli del Grand Slam, passò al professionismo.
Laver aveva abbandonato la scuola da ragazzino per inseguire il suo sogno di diventare un grande tennista e si vedeva ora, all’età di 22 anni e miglior giocatore al mondo, impossibilitato a guadagnare esercitando lo sport che amava e nel quale eccelleva.
E’ pur vero che era ben conscio di come funzionavano le cose fin dal principio ma la sua estromissione, insieme a quella di altri grandi quali Rosenwall, Gonzales, Hoad e altri si inserì in uno scenario di turbolenze, malcontento e ribellioni che cominciavano a serpeggiare al di sotto dell’estabilishment in quei primi anni 60, anni che avrebbero visto cambiamenti e stravolgimenti un po ovunque. Per il momento comunque i professionisti venivano buttati fuori e la porta chiusa dall’interno a doppia mandata.
La situazione non era comunque destinata a durare e la causa scatenante non fu da ricercare tra i ‘traditori’ professionisti ma tra i ben più subdoli dilettanti che pur non essendo ‘tecnicamente’ professionisti percepivano stipendi, ma spesso molto di più, in nero o apertamente dagli organizzatori di tornei o dalle loro stesse federazioni, cifre rilevanti, ascritte al capitolo ‘spese’.
La pratica non era però seguita dalla Federazione Britannica che tramite Derek Penman, prese posizione pubblicamente dichiarando: “ Gli inglesi sono stanchi di questa piaga che affligge il tennis di alto livello.
Questi dilettanti nient’altro sono se non ‘shamateurs’ (solito azzeccatissimo gioco di parole all’inglese che combina insieme shame: vergogna, con amateurs: dilettanti, per una sintesi lessicale al solito efficacissima nonchè dall’alto potenziale sarcastico-dispregiativo) . Tutti sappiamo che costoro contrattano, e ottengono, ingaggi esorbitanti fatti passare sotto forma di rimborsi spese dagli importi scandalosi. Dobbiamo agire di nostra iniziativa (Federtennis Britannica) al fine di rendere il nostro gioco onesto e trasparente. Da troppo tempo ormai siamo governati da leggi dilettantesche anacronistiche e inapplicabili.”
Così fu.
La proposta, già respinta di poco nel 1960, fu votata a fine marzo e, con gli organizzatori di Wimbledon e US Championship già decisi all’apertura, Wimbledon addirittura ospitò un torneo solo per professionisti nel 1967 col chiaro intento di ‘spingere’ definitivamente la causa del professionismo, l’ International Lawn Tennis Federation sancì, per quell’anno l’apertura ai professionisti di dodici tornei, inclusi i quattro del Grande Slam, e la Coppa Davis cui potevano di nuovo partecipare.
Sebbene Wimbledon, Parigi e gli altri due tornei del Grande Slam rientrassero nel novero dei tornei ‘aperti’ (ai professionisti) ,da qui infatti si comincerà a parlare di US Open, French Open, Australian Open etc etc, toccò alla ben più modesta Bournemouth, sede del Campionato Britannico su Terra Battuta, l’onore di ospitare il primo torneo di tennis della storia aperto a giocatori professionsti. Il 22 aprile 1968, quasi novantun’anni dopo l’inizio del primo torneo a Wimbledon, si chiudeva l’era pioneristica del tennis e si apriva ufficialmente quella professionistica.
La rivoluzione, discussa, proposta, disprezzata, osteggiata ed infine agognata era durata poco meno di un mese.
Tornando al tennis giocato, il torneo di Bournemouth del 1968 fu un evento storico.
Presso la sede del West Hants Club, le due anime del tennis, separate per quasi un secolo, si fusero insieme, i professionisti e i dilettanti condivisero finalmente gli spogliatoi, i campi, la clubhouse, e ovviamente giocarono tutti lo stesso torneo.
Tra i professionisti iscritti ci furono Ken Rosenwall, Rod Laver, Pancho Gonzales, Roy Emerson, Fred Stolle e Andrés Gimeno.
Il torneo ebbe inizio lunedì 22 aprile 1968, alle ore 13:43 quando il dilettante John Clifton divenne il primo tennista a servire nell’era open e anche il primo ad aggiudicarsi un punto; il primo ad aggiudicarsi un incontro fu il suo avversario, il professionista australiano Owen Davidson, ironicamente suo allenatore/istruttore.
Lo sport, si sa, spesso è un copione non scritto e la prima grossa sorpresa non tardò ad arrivare quando, al secondo turno, l’inglese Mark Cox divenne il primo dilettante a sconfiggere un professionista battendo l’ex n.1 al mondo, l’ormai quasi quarantenne Pancho Gonzales, per 0-6, 6-2, 2-6, 6-3, 6-3 dopo un inizio disastroso. Cox, al tempo neolaureato a Cambridge e buon giocatore per diletto, ricorda come a quel tempo i dilettanti avessero solo da guadagnare e i professionisti tutto da perdere in situazioni del genere, cosa che puntualmente capitò a Gonzales che al culmine di uno dei giorni più neri della sua carriera, al rientro negli spogliatoi non riuscì neppure a far funzionare le docce a gettone e tornò furente a lavarsi in albergo, maledicendo l’Inghilterra e gli inglesi, episodio divertente nonché sintomatico di un epoca lontanissima dai lussi dei tornei attuali.
Cox continuò il suo ottimo torneo battendo Emerson prima di arrendersi in semifinale a Laver: alla lunga i professionisti uscirono fuori.
Per il suo cammino nel torneo, Cox si aggiudicò 50 sterline più un gettone di 4 sterline a vittoria, ufficialmente approvato dalla Federazione, mentre Ken Rosewall che vinse la finale su Laver se ne aggiudicò mille, probabilmente lo stesso Laver ne ebbe di più.
Ma per Cox era tutto normale: “ il bed & breakfast li vicino costava 10 scellini e 6 pence a notte, compresa una colazione completa, non male. Alla fine mi rimasero anche i soldi per tornare a casa”.
Laver e Rosewall riconobbero l’importanza del torneo, specialmente Laver che volle partecipare ad ogni costo anche in ottica Wimbledon, che poi puntualmente si aggiudicò.
Nonostante la sproporzione tra il rimborso spese di Cox e il primo premio per Rosewall, quest’ultimo si è sempre dichiarato sorpreso di quanto siano arrivati a guadagnare i tennisti di oggi in confronto a quelli di cinquant’anni fa, grazie proprio all’apertura del 1968, un anno che rimane rivoluzionario anche per il tennis.
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Grande Albe, come al solito..
RispondiEliminaHasta
Clodoaldo
Enciclopedico e torrenziale Gallo as usual
RispondiEliminaChapeau
C
beh, interessante come storia, no?
RispondiEliminaMolto Albe hav nice we
EliminaC
and you.
RispondiEliminaun saluto a Miss B.
E' un articolo interessantissimo. Grazie ancora.
RispondiEliminaGrande Tony, sempre un piacere
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