domenica, dicembre 15, 2019

La storia del garage punk



Articolo pubblicato ieri nell'inserto Alias/Ultrasuoni de IL MANIFESTO.

E' sempre più curioso annotare come la senescenza della musica rock non tocchi alcuni ambiti.
Ad esempio gruppi come Ramones o Clash sono spesso ancora considerati espressione di novità e avanguardia sonora o molti nomi della scena nostrana, attivi da decenni, vengono tranquillamente derubricati a “nuovo rock italiano” o, ancora peggio, a “emergenti”.

Un ruolo simile lo riveste spesso il cosiddetto garage rock (o garage punk) che, probabilmente, in virtù di un'estetica spensierata, fresca e il più delle volte incline al divertimento, al ballo, al voluto escapismo, rimane alla stregua di “novità”.

E', al contrario, un contesto sonoro che risale ai primordi del rock 'n' roll (parliamo della metà degli anni 60) e si pone in una veste quanto più reazionaria e conservatrice si possa immaginare.
Se è vero, come vedremo, che le contaminazioni e i cambiamenti sono stati numerosi, la tendenza è il più delle volte assolutamente purista e tradizionalista, talvolta con eccessi puramente grotteschi.
Ma è in qualche modo l'aspetto che gli appassionati amano di più.
L'attaccamento a un suono, ad un'etica artistica ed estetica, il poter vivere, anche solo per lo spazio di un disco o un concerto, quella bolla che ci porta per un attimo lontani da un mondo omologato, omologante, sempre più appiattito, crudele e grigio.
Citando la frase di Paul Weller che apre l'album conclusivo dei Jam The gift: “Per tutti quelli di voi che vedono in bianco e nero, il prossimo è in technicolour”.
Ovvero lasciateci il nostro mondo colorato in mezzo alle vostre visioni in bianco e nero.

Come sempre nel rock 'n' roll non ci sono precise date di inizio ma è un continuo mischiare e incrociare stili, influenze, suggestioni, suoni, riferimenti.

Un progressivo fluire in avanti (o indietro), creando o riproponendosi.
Nel nostro caso possiamo individuare in certi brani della prima ondata beat inglese, con nomi come Kinks, Who, Pretty Things, Birds (quelli di Ron Wood quasi omonimi degli americani Byrds), i semi di quello che poi chiameremo comunemente garage rock.

Ma c'è un antefatto.
Un brano destinato a diventare un'icona del rock, ripreso da un numero imprecisato di gruppi, prototipo perfetto di quello che possiamo definire garage e successivamente punk.
Si chiama “Louie Louie”.
Un brano innocuo e tranquillo nella versione originale di Richard Berry ma che diventa, in quella dei Kingsmen da Portland, Oregon, qualcosa di epocale.
Come sempre involontariamente.
Nel 1963 la band incide il brano con pochissimo tempo a disposizione, scarsa esperienza in studio, un approccio approssimativo, selvaggio, crudo, minimale.
Addirittura commettono un plateale errore (il cantante entra prima del previsto dopo il solo di chitarra, si ferma, il batterista rimedia con una sbrigativa rullata, il brano ritorna sui binari), le parole si distinguono a malapena e sembra che ci scappi pure una parolaccia, tanto che l'FBI indagherà il brano e il gruppo per oscenità!
Ci sono tutti gli ingredienti per indicarlo come il brano garage per eccellenza, irripetibile e irripetuto.

Saranno, poco dopo, gli americani Sonics a dettarne le prime regole. Ovvero riff chitarristici semplici, duri, monolitici, distorti, voce urlata, ritmiche ossessive e percussive, nessun spazio a virtuosismi di sorta, brani brevi, attitudine selvaggia.
I due album “Here are the Sonics” del 1965 e “Boom” del 1966, riassumono al meglio il concetto di garage punk.
Ma anche la loro curiosa storia ne è un emblema.
Dopo qualche anno di attività, mai suffragata da grandi successi, il gruppo si scioglie e buona parte dei membri abbandona la musica attiva, dedicandosi ad altro.
Si stupiranno parecchio quando decenni dopo scopriranno di essere diventati un nome di culto per migliaia di giovani ragazzi e per decine di gruppi che ne riprendevano i brani e indossavano magliette con il loro nome.
Si riuniranno per alcuni anni, riportando quel suono sui palchi di mezzo mondo, acclamati come star.
Il regista Jordan Albertsen ha recentemente dedicato loro un commovente documentario intitolato “Boom” che ne ripercorre la rutilante storia.

Nel frattempo la British Invasion (dai Beatles, agli Stones, Who, Animals) ha ampiamente contaminato gli States e nuove band nascono come i funghi, spesso inasprendo quelle sonorità, rendendole più crude, sporcandole di blues.

Seeds, Standells, Blues Magoos, Count Five, Music Machine, Chocolate Watch Band, Litter sono solo alcuni delle centinaia di nomi che infiammano piccole o medie platee, spesso con oscuri 45 giri, ottenendo talvolta ottimi riscontri regionali, altre volte riuscendo ad espandersi attraverso una popolarità nazionale ma restando sostanzialmente sempre circoscritti a un numero di fan abbastanza limitato.

Nomi come 13th Elevators o Electric Prunes si apriranno a suoni e tendenze più psichedeliche ma una particolarità da annotare è come spesso i gruppi siano connotati da un sound “locale” ovvero ascrivibile con precisione al luogo di provenienza.
Vedi ad esempio il Texas Punk in cui operavano band più selvagge e dure rispetto ad altri stati dell'Unione.

Questa incredibile e prolifica scena venne presto dimenticata e sopraffatta dalla stagione Hippie e dalla generazione Woodstock.
Ci volle Lenny Kaye, chitarrista di Patti Smith e grande appassionato del genere, per rispolverarla nella mitica compilation “Nuggets”, pubblicata nel 1972 e ristampata poi nel 1976, in cui metteva mano alla sua collezione di vecchi 45 giri e ci regalava una serie di preziosissime gemme. Fu un'illuminazione essenziale e basilare per molti ragazzini imberbi che si trovarono a scoprire un mondo sconosciuto e affascinante.
“Nuggets” fu l'ispirazione per un altro paio di imprescindibili compilation che diventarono poi lunghe serie di album.
“Peebles” (il cui primo volume uscì nel 1979) e “Back from the grave” (1983) hanno raccolto negli anni brani rarissimi di gruppi oscuri, spesso dimenticati dagli stessi componenti.

Un aspetto importante da sottolineare è come il ribellismo della quasi totalità di queste band fosse pressochè esclusivamente estetico e di facciata. Si trattava di party band, gruppi fondati per allietare le feste, per divertirsi, per fare casino, confinati in una bolla adolescenziale tipicamente americana. Difficile trovare un afflato socio politico che così spesso ci si affanna a cercare nel tentativo di nobilitare certe esperienze.
Erano semplicemente giovani ragazzi che si volevano divertire. Solo pochi di questi nomi hanno proseguito artisticamente in altre direzioni, rimanendo, il più delle volte, luminose ma fugaci meteore.

Ben diversa è l'atmosfera di qualche anno dopo. Il Vietnam ha lasciato una ferita indelebile, il sogno di Woodstock è velocemente tramontato, i capelli cresciuti, le droghe pesanti hanno incominciato a fare stragi, la rivoluzione punk è ancora lontana.
Ci sono però gruppi che, partendo da quelle basi hanno inasprito il concetto sonoro e lo hanno intriso di humus ideologico.
Ci sono nomi come Flamin Groovies e i Modern Lovers di Jonathan Richman che conservano quei suoni e caparbiamente li portano avanti, in una veste che tiene conto del retaggio passato ma che si rinnova con nuovi stimoli ed energia.

Ma c'è chi, come gli Stooges di Iggy Pop, porta all'estremo quell'eredità. Se il primo omonimo album del 1969 ne conserva ancora tracce, con “Funhouse” dell'anno dopo e “Raw power” del 1973, escono dal contesto, portandolo ad eccessi sonori e lirici inimmaginabili ma che sono indiscutibilmente figli di quegli anni.

Dalle stesse parti (Detroit) arrivano gli MC5, portando in dote suoni affini, declinati in un proto hard punk che, per la prima volta assorbe connotati politici. La band è vicina a istanze rivoluzionarie, libertarie, marxiste, viene influenzata dal messaggio delle Black Panther, si avvicina a quello delle White Panthers di John Sinclair, appoggia la liberalizzazione della marijuana, contesta apertamente la guerra in Vietnam, marchia a fuoco una stagione agitatissima.

Gruppo dimenticato ma che su quei lidi e con quei riff si muoveva è quello dei Death, trio (pure loro) da Detroit di ragazzi di colore che invece di affidarsi al classico funk dell'epoca, va giù duro con chitarre distorte, tempi serrati e brani che non sfigurerebbero affatto su qualsiasi album di punk di un lustro dopo e che non risparmia sferzate di natura ideologica.

Lo spirito 60 viene nel frattempo traghettato anche in Inghilterra.
Lo chiamano pub rock.
Mischia beat, rock 'n' roll, rhythm and blues e lo propone con immediatezza e urgenza.
I paladini del genere si chiamano Dr.Feelgood e dalla prima metà dei 70, spaziano nei peggiori pub inglesi a spacciare una musica retrò, fieramente contrapposta ai lustrini glam e alla presunzione prog. A loro fianco nomi minori come Count Bishops, i 101ers di un tale, giovane, Joe Strummer, Ian Dury con i suoi Kilburn and the High Roads, Eddie and the Hot Rods che guardano ai suoni dei 60 e ne portano avanti lo spirito.
Aprendo la strada ad una generazione che, grazie al punk, si tufferà in quelle atmosfere dimenticate.

Dall'altra parte dell'oceano, in quella seconda metà degli anni 70, due antesignani del ritorno ai suoni più gracchianti e distorti stanno compiendo i primi passi. Da New York si muovono i Fleshtones, con il più classico party sound, veloce, travolgente, divertente, fresco, spensierato. Infileranno un'interminabile serie di album e un tour infinito che dura da ormai 50 anni in ogni angolo del mondo.
Dalla California invece due personaggi indefinibili scavano tra i 45 più oscuri e dimenticati degli anni 50 e 60, li rimasticano e li risputano in chiave horror.
Si chiamano Cramps e sono tra i primi a riportare sul palco brani garage punk, reinterpretati nella corretta, estrema, chiave di lettura.
Solo la morte del cantante Lux Interior, che nel 2009 lascia per sempre noi ma soprattutto la compagna e chitarrista Poison Ivy, porrà fine a una delle avventure più originali del rock 'n' roll.

Saranno a loro volta le radici per una nuova ondata garage punk.
Non più contaminazioni o riferimenti velati ma un omaggio fedele e incondizionato a suoni dell'epoca, spesso talmente maniacale da riprodurli usando gli stessi strumenti e le medesime tecniche di registrazione in mono.
Per non parlare dell'estetica, sia nell'abbigliamento dei musicisti che nella riproposizione delle copertine dei dischi.

Gruppi come Chesterfield Kings, Unclaimed, Tell Tall Hearts, Cynics, Gruesomes, gli svedesi Creeps, gli italiani Sick Rose e successivamente gli Others, sono perfetti e indistinguibili epigoni di chi agiva vent'anni prima.

Fuzztones, Lyres, Miracle Workers, gli inglesi Prisoners, tentano invece una rielaborazione più personale, pur non discostandosi più di tanto dalla tradizione. Quello che però accomuna tutti sono un'incredibile freschezza, urgenza, potenza comunicativa, che mette da parte anni di cupa immersione nella new wave e nel post punk. Si ritorna a sorridere, a ballare su ritmi e canzoni solari, nervose e crude ma mai violente o eccessive.
Una boccata d'aria fresca.

Basti pensare alla fascinazione, spesso ostentata su copertine e anche esteticamente, per i B Movies horror degli anni 50 e per l'iconografia legata ai “cavernicoli”, perfetta rappresentazione di un'immagine rude, essenziale, “ignorante”, basica, in palese contrasto con l'approccio intellettuale e culturale di tanta musica.dei tempi.
Anche questa è ribellione.

Successivamente la maggior parte delle band o si scioglierà o proseguirà cambiando drasticamente direzione, spesso inasprendo il sound e virando verso orizzonti più duri e hard, aprendo più o meno consapevolmente le porte al grunge.
Ma ormai il seme è stato piantato e le radici sono ormai profonde ovunque, in ogni parte del mondo.

Ad esempio in Australia nasce una scena che personalizza il gusto del garage revival e partorisce splendidi gruppi come Hoodoo Gurus, Lime Spiders, Celibate Rifles, Died Pretty. Parallelamente il cosiddetto Paisley Underground condisce in salsa 60 le progressioni psichedeliche e roots rock di nomi come Dream Syndicate, Rain Parade, True West, Long Ryders.
Effetti tangenti all'ondata degli anni 80.
Non dimentichiamo il ruolo decisivo di etichette come la Bomp, la Voxx o l'italiana Misty Lane, dedicate alla riscoperta di questi suoni e al ruolo come sempre di primo piano svolto dalle fanzine.

Un nome particolare, spesso dimenticato o ignorato, è quello degli International Noise Cospiracy, band svedese, uscita alla fine dei 90, con un sound spiccatamente 60's garage ma con testi esplicitamente marxisti, anti capitalisti, di propaganda comunista (vedi “Capitalism stole my virginity”).
Concerti esplosivi, happening, un tour segreto in Cina.
Dureranno una decina di anni lasciando un'eredità purtroppo mai raccolta.

Ai giorni nostri arriva uno stuolo di gruppi costantemente relegato a una nicchia sempre più angusta, per quanto ad appannaggio di veri cultori e appassionati, coloro che non mancano mai l'acquisto di ogni disco del genere (rigorosamente in vinile), né si perdono i concerti dei loro rappresentanti.

E se Mummies, Gories, Oblivians, Dirtbombs, Black Lips rimangono nell'oscurità, ci sono realtà spurie che continuano a fare ardere la fiamma, seppure con ben altre contaminazioni e decisamente lontani dalla purezza maniacale di cui si narrava.

Ma è innegabile che Jon Spencer Blues Explosion o Black Keys, ormai assurti a successo commerciale o perfino i pluricelebrati White Stripes, abbiano colto (spesso rivendicandolo esplicitamente) a piene mani da quei dischi e da quell'estetica.

In forma più ridotta Gospelbeach, Allah Las, i già sciolti giovanissimi Strypes ne hanno fatto anche loro tesoro.

Una fiamma che continua ad ardere pur facendo sempre meno proseliti e affidandosi alla tenacia dei vecchi e immarcescibili fan, che nemmeno ci pensano a lasciarla spegnere.

E' recentemente uscito un libro che riassume alla perfezione la storia di questa scena, dai suoi albori ad oggi, “Born losers” del Reverendo Lys, alias Franco Di Mauro, storico appassionato e profondo conoscitore della materia.
Come dice in una mirabile frase nel suo libro "Il rock 'n' roll non ha bisogno di prove, ma di racconti memorabili". E questa una storia memorabile indubbiamente la è.
Il Reverendo raccoglie con il suo personalissimo stile di scrittura, pieno di voluta esagerata enfasi e metafore (spesso, come è giusto che sia, senza limiti) una storia mirabile, quella del garage punk rock e di tutti quei perdenti che ancora gli sono appresso. Decine di schede dedicate, dai nomi apparsi come una meteora a quelli che hanno invece lasciato scritto un pezzo di storia.
A corredo una serie di preziose interviste esclusive a molti dei protagonisti.

E' ovviamente improbabile stilare una lista esaustiva per indirizzare l'ascoltatore ancora vergine verso un ascolto propedeutico ma è doveroso provarci.
“Boom” dei Sonics, “Psychedelic Lollipop” dei Blues Magoos e la compilation “Nuggets” sono un buon modo per approcciarsi alle radici degli anni 60.
“Kick out the jam” degli MC5 e “The songs the Lord taught us” dei Cramps traghettano bene verso il revival degli 80.
Da cui si possono estrapolare “Lysergic emanations” dei Fuzztones, “Hexbreaker“ dei Fleshtones, “Enjoy the Creeps” dei Creeps, “A taste of pink” dei Prisoners, “Here are” dei Chesterfield Kings, “Overdose” dei Miracle Workers.
Un album deliziosamente Sixties che coglie al meglio l'attualità, seppure alieno dal purismo della scena più rigorosa, estrema propaggine di quel gusto nato 50 anni fa, uscito recentemente è “Another summer of love” dei Gospelbeach.

3 commenti:

  1. Bellissimo pezzo Boss..non sapessi mi buttterei "back in the garage". Questa è scuola.
    C

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  2. ciao, complimenti per il blog. Ricordi per caso una band italiana che registrò un cover di Screamin'Skull dei Fleshtones verso la metà anni ottanta? grazie.

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