lunedì, aprile 07, 2025

Beat = Punk ?



Un interessante articolo uscito in tempo reale (aprile 1978) sulle similitudini tra punk e beat. Lungimirante, preciso e competente coglie, pur con qualche ingenuità, molti aspetti di cui si parlò diffusamente solo in seguito e che dimostra come comunque anche da noi l'attenzione al "nuova ondata" fosse comunque piuttosto presente.

Negli ultimi tempi abbiamo avuto diverse occasioni di parlare con giovanissimi punkies che, a causa della loro età, ammettevano candidamente di non conoscere altri tipi di musica all’infuori di quella che i mass media ci propinano al giorno d’oggi (rockin tutte le salse, punk, cantautori, un po’ di west coast e di rock jazz).
In particolare il sottoscritto si è sentito porre più volte una domanda diventata ormai tradizionale: “Tutti parlano di certi rapporti esistenti tra il punk e il vecchio beat: secondo te queste “somiglianze” esistono veramente o sono frutto della fertile mente di qualche “addetto ai lavori”particolarmente ricco di fantasia”? Ovviamente il quesito era posto in termini un tantino meno eleganti ma il senso era questo.

Dovendo realizzare un intero inserto sul beat inglese, abbiamo perciò ritenuto opportuno cogliere l’occasione per cercare di chiarire sia pure a grandi linee, il rapporto beat-punk, sottolineando le similitudini più clamorose esistenti tra i due generi musicali (ma sia l’uno che l’altro devono essere considerati soprattutto espressioni di un “movimento” molto più vasto e fondamentalmente extramusicale).
Cominciamo con la musica vera e propria: chiunque conosca, sia pure superficialmente, i maggiori successi dell’era beat (63/67) avrà senz’altro notato che molti brani di gruppi punk come Ramones, Talking Heads, Jam etc non possono essere considerati del tutto originali.

I Jam in particolare devono molto agli Who: basta ascoltare i loro due LP (“In the city” e “This is a modern world”) per rendersene conto.
Eddie & the Hot Rods (che non sono punk ma che comunque fanno parte della new wave) sono andati addirittura oltre, inserendo nel loro repertorio brani dei sopraccitati Who (“Kids are alright”).
Stesso discorso vale per gli americani Flamin Groovies (altra band assolutamente non punkma sempre facente parte della nuova ondata) che , soprattutto con il loro LP più recente “Shake some action”, dimostrano di dovere moltissimo al “caro vecchio beat”, alternando vecchi hit dell’epoca (“Misery” ad esempio) a composizioni originali ma chiaramente legate ai classici dei Beatles e degli altri gruppi di Manchester, Liverpool etc.
Tralasciando ora l’aspetto strettamente musicale, non si può fare a meno di notare come, a distanza di oltre dieci anni, ricomincino a spuntare un po’ ovunque nuovi gruppi formati da giovani di belle speranze (anche se non preparatissimi dal punto di vista tecnico); il punk rock , così come a suo tempo il beat, raccoglie numerosi proseliti tra le migliaia di “strumentisti in erba” che , chiusi nella propria cameretta, alternano lo studio delle materie scolastiche a lunghe “strimpellate” generalmente poco gradite ai vicini di casa. In ogni città, addirittura in ogni quartiere, agiscono ormai almeno due o tre gruppi formati da adolescenti forniti di chitarre elettriche e batterie da pochi soldi ma, nel contempo, dotati di entusiasmo autentico, ragazzini che vogliono suonare la propria musica, sfogarsi, scaricare la tensione che, in una società come la nostra, si può accumulare anche all’età di 14/15anni, pur non avendo “sulle spalle” il peso di una famiglia da mantenere o il pensiero del’affitto da pagare.
Né più né meno come succedeva 10/12 anni fa, solo che allora i giovani BEAT portavano, come segno distintivo, capelli lunghi e stivaletti mentre oggi i “punkies” ostentano capigliature”normali” (?) e scarpe da tennis.

Ma torniamo al profilo tecnico del…problema: gran parte dei gruppi punk presenta la tipica formazione beat: chitarra, basso e batteria. La chitarra ritmica è stata finalmente rivalutata (molte bands infatti sono tornate alle due chitarre, una solista e una d’accompagnamento), sono persino tornate di moda le Rickenbacker (marca di chitarre e bassi particolarmente cara ai primi Beatles e ai Byrds) e l’elenco potrebbe continuare.
Si dirà che, in fondo, si tratta di sfumature ma secondo noi non è così ricordiamoci che per costruire un grande palazzo occorrono tanti piccoli mattoni.

Mauro Eusebi
BEST aprile 1978

venerdì, aprile 04, 2025

Statuto - Balla/Io Dio/Tu continuerai



Nel 1985, all'indomani della chiusura, dopo 17 numeri, della fanzine "Faces", fondai con Davide Olla, Francesco Nucci e l'appoggio di Filippo D'Andria la Delta Tau Kay (DTK), "associazione Mod", nata con l'intento di organizzare eventi, raduni, serate, per sostenere in modo più professionale la scena mod italiana.

Il primo passo fu la stampa di un bollettino mensile, "Sweetest feeling", che fungesse da organo informativo su tutto quanto accadeva nella scena italiana (e non solo), in considerazione di un aumento esponenziale degli eventi in tutta la penisola, tra concerti, serate, raduni etc.

Per sostenerci economicamente incominciammo a stampare cassette compilation in cui, grazie, soprattutto, alla collezione di dischi di Francesco Nucci, riuscimmo a fare conoscere a moltissimi ragazzi e ragazze una lunga serie di rarità Northern Soul e Soul.

Gli utili (come accadeva nella stragrande maggioranza dei casi nell'ambito delle sottoculture) venivano immediatamente dirottati su nuove iniziative, visto che il concetto di profitto ci era totalmente alieno.

Con due Lire messe da parte decidemmo così di investire in ambito discografico, producendo un DISCO MOD.
La scelta cadde sugli STATUTO, reduci da una feroce, ingiustificata ed esagerata stroncatura su "Faces" da parte di uno dei redattori.
La band era ancora acerba ma ci affascinarono la loro urgenza, passione, onestà e combattività stradaiola.

Per risparmiare, le copertine furono stampate da Francesco nella tipografia in cui lavorava e poi incollate a mano a una ad una (talvolta con risultati discutibili).
I dischi furono venduti praticamente a mano agli eventi o spediti ai richiedenti.
Non abbiamo mai tenuto una precisa contabilità (figuriamoci...) ma le 500 copie alla fine sono andate praticamente tutte esaurite.

Iniziava la carriera degli STATUTO.

giovedì, aprile 03, 2025

Kae Tempest - Statue In The Square

Il nuovo brano di KAE TEMPEST a tre anni dall'ultima uscita discografica è importante, perché (ri)porta il concetto di MESSAGGIO al centro di una (genericamente) musica che sembra sempre meno presente nella società.

"I remember to live is to change / Ricordo che vivere significa cambiare" è un verso di "Statue in the square" e una perfetta metafora che parla della sua trasformazione di genere e allo stesso modo un proposito politico e ideologico che ben si presta a commento sociale in questo momento in cui le redini del mondo e del nostro vivere sono nelle mani di folli (o coglioni, che dir si voglia).

“It's not a disorder or a dysfunction/Disgusting the way they discuss us / Non è un disturbo o una disfunzione / È disgustoso il modo in cui parlano di noi" può diventare un inno per la comunità LGBTQ+.

Il ritornello è potentissimo, il brano efficace, il video allo stesso tempo minaccioso, affettuoso, comunitario.

https://www.youtube.com/watch?v=aTDOFaAcEyc

Kae Tempest - Statue In The Square

Well, either I'm nice on the eye
Or this person that's passing me by has never seen one
Like me before, we endure it
Keep reaching for it, knee deep, we keep pouring
Life force in a formless void, we're too gorgeous
Dwarf the whole street when we walk, are you transported?
I cherish the ones who support us
Fear takes from us but love restores us
You are not the sum of the things you do wrong
In the eyes of someone who does not understand you
It's not a disorder or a dysfunction
Disgusting the way they discuss us
But just 'cause a person's not decent to me
Don't mean they're not decent to someone
The norm is not normal: it's a construction
Designed to stifle the inner life and increase production

They never wanted people like me round here
But when I'm dead, they'll put my statue in the square
They used to tell their children not to stare
But when I'm dead, they'll put my statue in the square
Yeah, they're ten a penny, we're rare
And when we're dead, they'll put our statues in the square
They can shake their heads in despair
But we been here from the start and we ain't going nowhere

Spent my life trying to do things your way, normal didn't feel right
Trapped in a shrinking hallway till it got too tight
Deep breath, fresh air when I broke the surface
Yes, we've all lost lovers, what's sad is a lost purpose
Reclaim it, reframe it, rename it, something more fitting
Contain it, champagne it, complaining never did nothing
But hitting the ground running's a start; hold your position
Tape it up, tuck it, and love it beyond condition
Watching the city surrender to rain, I remember to live is to change
I don't pray for the end of my pain, I pray for the strength to weather it
Paused on the brink of a gaping precipice, hesitant, derelict, slow from the sedative
Terrified people never stop asking where the treasure is, I'm like: everything's relative
So don't be surprised when they shield their eyes
What they fear's a reflection of their own minds
They reveal themselves in their dead headlines
It's fine, we don't need permission to shine

They never wanted people like me round here
But when I'm dead, they'll put my statue in the square
They used to tell their children not to stare
But when I'm dead, they'll put my statue in the square
Yeah, they're ten a penny, we're rare
And when we're dead, they'll put our statues in the square
They can shake their heads in despair
But we been here from the start and we ain't going nowhere

mercoledì, aprile 02, 2025

Carnascialia

La musica italiana degli anni Settanta ha sperimentato tantissimo, incrociato esperienze, scavato nella tradizione, ammodernandola con nuove influenze, contaminazioni, creando stupendi ibridi di bellezza irripetuta.
Erano tempi in cui quell'autarchia imposta dall'abbandono dei gruppi stranieri del suolo italico, favorì lo sviluppo di esperienze autoctone, lasciandoci capolavori troppo spesso dimenticati.

Pasquale Minieri (chitarra, basso, voce) e Giorgio Vivaldi (percussioni, flauto), ex componenti del Canzoniere del Lazio, nel 1979 incisero questo unico album della breve esistenza del progetto Carnascialia, circondandosi di eccellenze del tempo, da Demetrio Stratos a Mauro Pagani, Danilo Rea, Carlo Siliotto (oltre a Carlo Siliotto (violino), Clara Murtas, Nunzia Tambara, Piero Brega, Luciano Francisci, Tommaso Vittorini, Maurizio Giammarco, Marcello Vento, Pablo Romero.

Un lavoro che parte da basi di folk tradizionale ma che si sviluppa in momenti jazz, fusion, nelle sperimentazioni vocali di Demetrio Stratos (in "Fiocchi di neve e bruscolini" e nell'ipnotico "Kaitain"), nel proto ambient di "Almeisan", in una serie di ibridazioni musicali, figlie di quegli anni ma ancora di grande attualità sonora e creativa.

martedì, aprile 01, 2025

Sly Lives! (aka The Burden of Black Genius) di Ahmir "Questlove" Thompson

Riprendo l'articolo scritto sabato per "Alias" de "Il Manifesto", dedicato al doc su Sly Stone.
Grazie a Pier Tosi.<
BR>
Il trailer:
https://www.youtube.com/watch?v=PeKg69eOsAk&t=1s

La figura di Sly Stone, tra i più grandi (e non sempre appieno compreso e adeguatamente valutato) innovatori della musica pop rock moderna, ha ultimamente avuto un progressivo riconoscimento.
Dalla discreta “storia orale” di Joel Selvin “Sly & the Family Stone: An Oral History” in cui raccoglie le testimonianze di una lunga serie di collaboratori più o meno stretti ma senza la voce del protagonista principale, a “Thank you (Falettinme be mice elf agin)” biografia (recentemente tradotta in Italia da Jimenez Edizioni), created in collaboration con Sly, dello scrittore Ben Greeman (e l'ex fidanzata di Sly, Arlene Hirschkowitz) in cui il musicista si descrive con dovizia di particolari.

Giunge ora sugli schermi “Sly Lives! (aka The Burden of Black Genius)” di Ahmir "Questlove" Thompson, musicista, produttore, regista, autore di quel capolavoro che è stato “Summer of Soul”, affascinante documentario che sintetizza il “The Harlem Cultural Festival, a New York, una serie di concerti che andarono in scena dal 29 giugno al 24 agosto del 1969.

Il documentario ripercorre in maniera dettagliata ed esaustiva la sua ricca (quanto artisticamente breve) carriera, con dovizia di particolari e filmati inediti (spesso rarissimi e favolosi), estratti di interviste e il consueto elenco di testimoni dell'epoca, tra cui vari membri della band oltre a pareri interessanti di Andre 3000, D'Angelo, Chaka Khan, Q-Tip, Nile Rodgers, Jimmy Jam and Terry Lewis, George Clinton, Ruth Copeland e Clive Davis.

Un doc esaustivo, sgargiante come i vestiti di Sly e della band, che rimarca una volta in più, quanto fosse geniale la sua musica e quanto sia ancora attuale e moderna. Sly Stone, già in epoca infantile/adolescenziale, è una sorta di bambino prodigio.
A undici anni suona tastiere, chitarra, basso, batteria e usa la voce in modo perfetto. Poco dopo forma i Viscaynes, che si fanno notare per la scelta, ai tempi inusuale, fino ad essere provocatoria, di essere composti da due uomini, due donne, un uomo di colore, Sly, e un filippino, in un'epoca in cui l'idea di integrazione, razziale e di genere, era ancora un concetto astruso e improbabile, in gran parte degli States.
Si segnala come ottimo e innovativo DJ radiofonico alla KSOL per poi intraprendere l'attività di compositore e produttore, arrivando fino a nomi altisonanti come i Beau Brummels e i Great Society della futura leader dei Jefferson Airplane, Grace Slick.
Nel frattempo compone e sperimenta e quando è giunto il momento nasce la nuova creatura, Sly and the Family Stone.
"Facevamo tutte le cose sempre insieme, eravamo come un "Chiesa".

La selezione dei musicisti non è casuale.
Sono tutti eccellenti strumentisti ma Sly sceglie in base a un concetto socio/politico ben preciso: uomini e donne, bianchi e neri, insieme, suonando una musica il più possibile contaminata e libera da preconcetti. Le radici sono nel blues e rhythm and blues ma c'è spazio anche per rock, latin sound, jazz e tanto altro. I filmati ci mostrano uno Sly puntiglioso, insistente nel trovare il suono o il ritmo giusti, provando e riprovando.
Siamo a cavallo tra il 1966 e il 1967, vedere su un palco bianchi e neri insieme è prerogativa rara anche nel jazz, ancora meno nel rock e più in generale nella black music.
Non a caso l'album d'esordio, nello stesso anno, si intitola “A whole new thing” (“una cosa completamente nuova”).
Il seme è stato piantato, si intuisce che qualcosa di effettivamente nuovo sta arrivando, pur essendo ancora ancorato solidamente ai classici schemi rhythm and blues.
Con il successivo “Dance to the music” si passa a un sound sempre più tribale, con il basso, quasi distorto, di Larry Graham che introduce un ritmo pulsante che diventerà un marchio di fabbrica della band. Il resto è un mix di gospel, rock e psichedelia, spesso suonato a ritmi forsennati, con tastiere acide e intrecci strumentali originali e imprevedibili. Altrettanto innovativo e sorprendente è il gioco delle voci che si alternano, dialogano, sovrappongono, uscendo dai canoni del solista ma diventando uno strumento aggiuntivo.
I testi sono un altro aspetto di importanza primaria, un costante inno al pacifismo, alla convivenza senza barriere di razza o genere, l'invito a stare insieme.

I successivi “Life” e “Stand!” quest'ultimo pubblicato poco prima della mitica apparizione al Festival di Woodstock dell'agosto 1969 e all'Harlem Cultural Festival nello stesso periodo, ne sublimeranno popolarità e personalità.
“I Want To Take You Higher” diventa un inno, vende centinaia di migliaia di copie, “Stand!” è la summa della loro carriera, tra proto funk, soul, rock, psichedelia.
Sly non teme di affrontare temi caldi come il razzismo ma lo fa in modo sempre colloquiale, con costanti inviti alla reciprocità, in funzione della tolleranza e amicizia.

E' in questo periodo che rigetta l'invito delle Black Panthers a un sostegno alla loro causa, liquidata in modo sprezzante.
In questi lavori ci sono le radici sonore che ritroveremo presto nei Funkadelic e Parliament di George Clinton e nella breve carriera di Betty Davis. Sarà lei, moglie di Miles Davis, a spingere il marito verso altre sonorità e cultura musicale. Ne farà tesoro soprattutto in “On The Corner” del 1972. Ma è da qui che, inequivocabilmente (attingendo a piene mani anche dalle modalità di esibizioni live), Prince che assorbirà tantissimo dalla loro esperienza, aspetto evidenziato spesso nel doc di Questlove.

Il successo devasta Sly che sprofonda in un abisso di abusi di ogni tipo, cocaina, alcol, sesso. Le sue finanze si assottigliano, i concerti che saltano sono più di quelli portati a termine, si chiude nella sua casa di Los Angeles in una nebbia di eccessi, circondato da spacciatori, consumatori, gente di malaffare.

Ne riemergerà a stento nel 1971 con un capolavoro assoluto della black music, “There’s a riot goin’ on”, una visione pessimista, cruda e decadente del presente (suo e della società), registrato suonando quasi tutto da solo e utilizzando, tra i primissimi, una batteria elettronica, su cui ne reincide una acustica, mischiando i due suoni, creandone uno unico e all’avanguardia.
I brani sono spesso lunghi e ipnotici, intrisi di funk ma ricoperti da una patina paranoica e malata. Gli anni successivi sono un declino costante con ancora qualche discreto album solista (in cui sono intuibili il genio e lo spessore artistico ma male utilizzati) e il congedo definitivo nel 1982, sopraffatto da scelte di vita inconciliabili con una normale carriera musicale.

Scompare dalla scena, a parte sporadiche apparizioni come nel 1993 quando Sly and the Family Stone entrano nella Rock n Roll Hall of Fame. Rimane sul palco un minuto, saluta e se ne va. Tornerà a farsi vedere nel 2007 con una serie di apparizioni (in stato di salute evidentemente molto precario) con la Family Stone. Si ritira dalla vita pubblica, soggiorna a lungo in una roulotte, sopravvivendo a stento, intenta cause per diritti non pagati, spesso perse o rigettate.

Il documentario ce lo mostra ora in foto, ultra ottantenne, sorridente, apparentemente sereno, abbracciato ai figli. Un talento artistico incredibile, auto distruttosi per l'incapacità di gestire il successo e la notorietà e la conseguente disponibilità economica spropositata.
Un visionario innovatore che avrebbe potuto dare ancora tantissimo alla musica ma, come peraltro accaduto a molti altri artisti dell'epoca, che è riuscito ad esprimere la propria creatività solo per un contesto temporale limitato.
Sufficiente però a consegnarlo alla storia tra i musicisti più influenti di sempre.
Related Posts with Thumbnails