lunedì, novembre 11, 2019

Davide Sapienza - Attraverso le terre del suono + intervista



Riporto l'articolo per "Libertà" di ieri dedicato a DAVIDE SAPIENZA e al suo nuovo libro "Attraverso le terre del suono".
A margine l'intervista integrale (da cui sono stati estrapolati stralci per l'articolo).

Capita nella vita di chi ha accumulato un certo numero di primavere (pure estati, autunni e inverni) in abbondanza, di guardarsi indietro, fare bilanci, pensieri, tirare le somme (che, vi assicuro, sono conteggi che alla fine non tornano mai). Quando ti soffermi sulle amicizie, vere, presunte o da Facebook, in genere ne restano poche.
Forse è meglio così o forse no.
Nel caso di Davide Sapienza posso dire che ci siamo visti poche volte, frequentati ancora meno ma è una vita (di quelle lunghe) che ci incrociamo, sfioriamo, osserviamo da lontano. Con lo stesso battito del cuore, lo stesso passo che accompagna le reciprocamente amate camminate solitarie tra montagne piacentine (io), lande in “ogni dove” (lui).
Alla ricerca di qualcosa, per poi ritrovare (quando siamo fortunati) noi stessi, avventurandoci nelle terre della percezione.

Per presentare Davide Sapienza occorrerebbe almeno una pagina del giornale.
E' un giornalista, scrittore, traduttore, “geopoeta”, manager discografico, da tempo immemorabile cultore di musica, redattore per un'interminabile serie di riviste, quotidiani e tanto altro. Ha scritto una montagna di libri (tanti di musica), (ri)tradotto in italiano l'opera di Jack London, pochi giorni fa mi ha telefonato dal Circolo Polare Artico (è la prima volta che ricevo una chiamata da lì).

Abbandonato temporaneamente l'ambito strettamente musicale, vi ritorna con un nuovo libro, “Attraverso le terre del suono” (Edizioni Underground?), in cui traccia un percorso immaginario, raccogliendo articoli, preziose interviste, approfondimenti e altri scritti dal suo passato.
Mettendo in fila una serie di calibri di enorme portata, dal concerto a Zurigo di Bruce Springsteen del 1980 (del quale non leggiamo una banale recensione ma un romantico quanto divertente e appassionante resoconto del viaggio di due 17enni a uno dei loro primi grandi concerti), a Pete Townshend, Syd Barrett, i Beatles di “Abbey Road”, le parole di Daniel Lanois e ancora Brian Eno, Robert Wyatt, gli U2.

Gli ho voluto chiedere un po' di cose al proposito e le sue risposte sono di per sé un nuovo capitolo del libro.
Ad esempio su quanto i Beatles ricorrano in queste pagine e nella sua vita:
“I Beatles sono per me, come per molti milioni di ragazzi, l’inizio, l’anno zero, di qualcosa di nuovo. Certo, non sapevo, a undici anni, che si erano già sciolti.
Non erano cose che si pensavano, allora: esistevano loro, esisteva la geografia del loro mondo. Perciò per me è stato come andare sulla Luna, il che vale in generale per la fruizione della grande arte.
Ti porta sempre verso pianeti sconosciuti, universi impensabili.
E i Beatles, in questo, sono tra quegli artisti che lo fanno sempre, anche quando magari non li ascolti da anni, con intenzione, e improvvisamente ti accorgi che ci sono pianeti e universi che ancora non avevi “percepito”.
E’ il potere della musica. Non vive nel tempo. E’ uno spazio, un orizzonte. Sono le terre del suono.”


Difficile fare capire ai giovani dei nostri tempi l'importanza che hanno avuto certi gruppi, certe estetiche, etiche, modi di pensare in epoche ormai lontane, di quanto siano state decisive certe canzoni, certi gruppi, semplicemente certe foto, frasi, titoli.
E' dunque impossibile spiegare ai nostri figli quanto noi vecchi abbiamo vissuto alcune fasi artistiche, non come mera espressione culturale ma come qualcosa che ha letteralmente cambiato le nostre vite?
Credo sia impossibile spiegare a un ventenne come era possibile che un album rock potesse creare discussione per settimane, confronto, diventare aggregazione.
Ma quelle generazioni, quelle del secondo dopoguerra, sono quelle che avevano ricevuto un impulso potentissimo di vita per reagire appunto all’orrore dell’Olocausto e delle dittature.
Non bisogna guardare “cosa è andato storto” e farlo diventare il paradigma sbagliato, quello è un incidente di percorso.
Occorre semplicemente risintonizzarsi, basta farlo attraversando, come suggerisce il titolo del libro, le terre del suono. Sono terre interiori: sono il richiamo della foresta che abbiamo dentro.
E che dobbiamo seguire. Senza sosta.


Probabilmente, diciamo pure evidentemente, un'epoca si è conclusa, ci piaccia o meno.
Come dice una protagonista di un racconto nel libro “Mi sono battuta per una giusta battaglia, ora il mio tempo è concluso”. Molti di noi questa battaglia l'hanno pure persa ma l'importante, alla fine, è essere scesi in campo, impugnato le nostre “armi” e fronteggiato il nemico.
Almeno ce ne andremo senza rimpianti.

Davide chiarisce bene il concetto:
Credo che ogni generazione debba accettare di fare i conti con se stessa. La vita, dunque anche quella umana, si fonda sul principio che tra miliardi di semi, uno sopravviva e si sviluppi, cresca, diventi ciò che deve essere. Lo stesso è accaduto con quella generazione e le seguenti, negli ultimi decenni.
Se però ci pensi bene, nonostante i tanti scomparsi in anni recenti alla soglia della vecchiaia anagrafica, chi è ancora vivo, è ancora quel seme, porta in giro quel messaggio e ha ispirato chi ha colto il senso diverso e rivoluzionario.
Oggi giustamente si parla molto di diversità e inclusione: la cultura rock, fa parte di questo tema a mio avviso. Perciò, chi della generazione precedente la nostra, oltre alla nostra, è rimasto vivo – non è invecchiato dentro, ha continuato a credere che qui&ora la musica possa fare la differenza in quanto (anche) cultura, è comunque un esploratore di possibilità mai esplorate prima.


Un po' come quando parla del fatidico 1968, anno cruciale, dove “ci si ritrovò a percorrere un punto dal quale stava per fuoriuscire un’eruzione vulcanica di immaginazione, desiderio di libertà, pace, bellezza e condivisione”.

Il 1968, fu una rivoluzione della coscienza.
Pacifica. La violenza ce la misero le parti più o meno deviate degli Stati “democratici”. Ma non si può fermare l’evoluzione. Oggi questa rivoluzione può essere artistica e partire dalle coscienze: quella, partì dalla presa di coscienza della crisi ecologica. Oggi abbiamo i ragazzi che sono stati in qualche modo risvegliati da Greta Thunberg, figlia a sua volta di una lunga linea di persone arrivate nel posto giusto al momento giusto.
Come la controcultura rock. Perché di controcultura, dobbiamo parlare. Oggi la cultura dominante è anche peggiore di quella contro la quale si rivoltavano i giovani del ‘68. Basta vedere la situazione dell’informazione e dell’editoria cartacea, radiotelevisiva, per capirlo.
Nel libro affronta anche una delle tematiche più discusse da lungo tempo ovvero sulla caducità della musica rock, se non la sua ormai spesso decretata morte rimarcando come "Oggi il rock non fa più male, è accettabile”.

Ho scritto questo per stimolare chi suona a pensare che rock non è vestirsi, atteggiarsi, acquistare certi strumenti.
Rock è cultura, una cultura potente, distintiva: da giovani, te lo ricorderai, senza dircelo, sapevamo di fare parte di un popolo trasversale, turbolento sì, ma pacifico, che cercava solo gioia e condivisione.
Direi questo: è morto chi ha fatto rock come contenitore senza contenuti, ma questo ha permesso a chi è venuto dopo, nelle ultime due generazioni, di capirlo e di ridare vita, sotto altre forme, a questa cultura.
Che esiste, è viva e vegeta. E non ha un numero di catalogo. Non si scarica da Internet. Si vive. Si respira. Ispira.


Come specificato Davide è uno dei giornalisti musicali più brillanti del panorama italiano, ha intervistato e incontrato fior di artisti.
Tom Verlaine, mitico leader dei Television rispose quasi infastidito a una sua domanda su un suo disco, dicendo che la musica parlava da sè, senza bisogno di ulteriori spiegazioni, declassando di fatto, in una breve frase il ruolo del giornalista musicale.
Quell’intervista fu tra le più intense che feci da ventenne, è infatti l’unica del passato “remoto”, dei miei inizi.
Mi fa piacere tu l’abbia notata, perché è inclusa proprio per questa ragione: ho sempre avuto dei problemi a sentirmi giornalista. Quando parlavo e quando parlo coi musicisti, mi sento semplicemente uno di loro, solo che invece di suonare, io scrivo. Questo, in trentacinque anni di lavoro nell’editoria, in decine e decine di incontri con nomi di qualsiasi magnitudine, mi è stato anche spesso riconosciuto. Non trovavi e non troverai mai aneddoti o trivialità nelle mie interviste. A me piaceva ascoltare cosa dicevano loro, circa quel sentire comunque.


Davide Sapienza è uno che cammina e pure tanto. Ora ci ospita in questo suo viaggio, pieno di sorprese, di passione, di anima, di cuore.

L'intervista integrale.

1) Nel libro parli spesso dei Beatles. Cosa si può ancora dire di loro nel 2019? “Ringiovaniscono invece di invecchiare” come dici nel capitolo su “Abbey Road”?
I Beatles hanno per me, come per molti milioni di ragazzi, l’inizio, l’anno zero, di qualcosa di nuovo. Certo, non sapevo, a undici anni, che si erano già sciolti.
Non erano cose che si pensavano, allora: esistevano loro, esisteva la geografia del loro mondo. Perciò per me è stato come andare sulla Luna, il che vale in generale per la fruizione della grande arte.
Ti porta sempre verso pianeti sconosciuti, universi impensabili.
E i Beatles, in questo, sono tra quegli artisti che lo fanno sempre, anche quando magari non li ascolti da anni, con intenzione, e improvvisamente ti accorgi che ci sono pianeti e universi che ancora non avevi “percepito”.
E’ il potere della musica. Non vive nel tempo. E’ uno spazio, un orizzonte. Sono le terre del suono.

2) Scrivi a proposito del 1968: “Ci si ritrovò a percorrere un punto dal quale stava per fuoriuscire un’eruzione vulcanica di immaginazione, desiderio di libertà, pace, bellezza e condivisione”.
Credi ci sia ancora la possibilità che accada qualcosa di simile nella società o solo semplicemente nell’ambito “pop” ?

Beh, poiché parliamo di attività umane che, nel caso dell’arte musicale dimostrano questa connessione cosmica e interstellare con qualcosa di veramente immenso – un infinito territorio di possibilità – potrei dire che spetta solo a noi.
Evidentemente, nell’evoluzione umana, il 1968 e in generale tutto quello che è stata la rivoluzione culturale del rock nell’ambito popolare, se ci pensi veniva da stimoli profondi raccolti dai poeti della Beat Generation, la controcultura che accolse il messaggio più antico dell’umanità, ovvero quello delle filosofie orientali come il Tao.
Non serve teorizzarle, assorbire è sufficiente, anche senza sapere cosa stai assorbendo: l’artista assorbe e connette agli impulsi provenienti da quelle “terre del suono” per poi donarci qualcosa di molto più grande della persona che la crea. Le vie affinché questo accada, proprio come i sentieri tra i boschi o in alta montagna, piuttosto che le rotte nell’oceano, sono praticamente infiniti.
Abbiamo tanto da esplorare: serve solo prenderne coscienza. Il 1968, fu una rivoluzione della coscienza.
Pacifica.
La violenza ce la misero le parti più o meno deviate degli Stati “democratici”.
Ma non si può fermare l’evoluzione.
Oggi questa rivoluzione può essere artistica e partire dalle coscienze: quella, partì dalla presa di coscienza della crisi ecologica. Oggi abbiamo i ragazzi che sono stati in qualche modo risvegliati da Greta Thunberg, figlia a sua volta di una lunga linea di persone arrivate nel posto giusto al momento giusto. Come la controcultura rock. Perché di controcultura, dobbiamo parlare.
Oggi la cultura dominante è anche peggiore di quella contro la quale si rivoltavano i giovani del ‘68. Basta vedere la situazione dell’informazione e dell’editoria cartacea, radiotelevisiva, per capirlo.

3) Syd Barrett può essere la perfetta rappresentazione di chi, inconsapevolmente e involontariamente, è “morto prima di diventare vecchio” per dirla alla Pete Townshend?
Barrett rappresenta il potenziale.
Ci ha lasciato una manciata di “possibilità”. Capolavori incredibili, che non hanno trovato continuità: il Syd-lenzio, come lo chiamo io, catatonico, nel quale cadde, non impedì alle sue intuizioni interstellari di penetrare il tessuto connettivo della cultura popolare.
Dunque lui se ne andò vivendo da “vegetable man” (e la vita vegetale, ricordiamolo, ha una sensibilità e percepisce, non significa che non abbia impulsi: ha solo un linguaggio diverso da quello animale), però è comunque una presenza.
L’esistenza umana passa, la vita è sempre perché nasce dal ciclo vita e morte.
C’è più morte che vita nell’universo, il che non è negativo: è semplicemente l’equilibrio necessario affinché la vita riconosca se stessa.

4) "Oggi il rock non fa più male, è accettabile” dici a pagina 47. Confermi dunque quello che da tempo si dice e cioè che il rock è morto ?
Ho scritto questo per stimolare chi suona a pensare che rock non è vestirsi, atteggiarsi, acquistare certi strumenti. Rock è cultura, una cultura potente, distintiva: da giovani, te lo ricorderai, senza dircelo, sapevamo di fare parte di un popolo trasversale, turbolento sì, ma pacifico, che cercava solo gioia e condivisione.
Direi questo: è morto chi ha fatto rock come contenitore senza contenuti, ma questo ha permesso a chi è venuto dopo, nelle ultime due generazioni, di capirlo e di ridare vita, sotto altre forme, a questa cultura.
Che esiste, è viva e vegeta.
E non ha un numero di catalogo. Non si scarica da Internet.
Si vive. Si respira. Ispira.

5) "Il racconto di Siapoe” si chiude con la frase “Mi sono battuta per una giusta battaglia, ora il mio tempo è concluso”.
E’ una metafora generazionale ?

Si. Credo che ogni generazione debba accettare di fare i conti con se stessa.
La vita, dunque anche quella umana, si fonda sul principio che tra miliardi di semi, uno sopravviva e si sviluppi, cresca, diventi ciò che deve essere. Lo stesso è accaduto con quella generazione e le seguenti, negli ultimi decenni.
Se però ci pensi bene, nonostante i tanti scomparsi in anni recenti alla soglia della vecchiaia anagrafica, chi è ancora vivo, è ancora quel seme, porta in giro quel messaggio e ha ispirato chi ha colto il senso diverso e rivoluzionario.
Oggi giustamente si parla molto di diversità e inclusione: la cultura rock, fa parte di questo tema a mio avviso.
Perciò, chi della generazione precedente la nostra, oltre alla nostra, è rimasto vivo – non è invecchiato dentro, ha continuato a credere che qui&ora la musica possa fare la differenza in quanto (anche) cultura, è comunque un esploratore di possibilità mai esplorate prima.

6) Nel libro parli di artisti, epoche, episodi spesso lontani. E in un passo sottolinei quanto possa essere difficile (impossibile?) poter spiegare certe cose a un ventenne di oggi.
Si è vero.
Credo sia impossibile spiegare a un ventenne come era possibile che un album rock potesse creare discussione per settimane, confronto, diventare aggregazione.
Ma quelle generazioni, quelle del secondo dopoguerra, sono quelle che avevano ricevuto un impulso potentissimo di vita per reagire appunto all’orrore dell’olocausto e delle dittature.
Non bisogna guardare “cosa è andato storto” e farlo diventare il paradigma sbagliato, quello è un incidente di percorso. Occorre semplicemente risintonizzarsi, basta farlo attraversando, come suggerisce il titolo del libro, le terre del suono. Sono terre interiori: sono il richiamo della foresta che abbiamo dentro.
E che dobbiamo seguire.
Senza sosta.

7) Interessante l’opinione di Tom Verlaine, restio a parlare della propria opera, “come se già non parlasse da sola a sufficienza”. Ovvero il ruolo del giornalista in qualche modo declassato.
Quell’intervista fu tra le più intense che feci da ventenne, è infatti l’unica del passato “remoto”, dei miei inizi.
Mi fa piacere tu l’abbia notata, perché è inclusa proprio per questa ragione: ho sempre avuto dei problemi a sentirmi giornalista.
Quando parlavo e quando parlo coi musicisti, mi sento semplicemente uno di loro, solo che invece di suonare, io scrivo. Questo, in trentacinque anni di lavoro nell’editoria, in decine e decine di incontri con nomi di qualsiasi magnitudine, mi è stato anche spesso riconosciuto. Non trovavi e non troverai mai aneddoti o trivialità nelle mie interviste.
A me piaceva ascoltare cosa dicevano loro, circa quel sentire comunque.

8) Torni alla musica dopo una lunga assenza. Come mai? E per restarci?
Questo libro l’ho voluto pubblicare per raccontare a chi mi segue che dalla musica non mi sono mai allontanato realmente.
Poiché siamo bombardati da impulsi, paradossalmente è stato più facile nascondersi in pubblico, scrivendo, mentre sviluppavo il mio cammino editoriale geopoetico, non tanto “di” ma “con” la musica – anche incontrando giganti della cultura pop come George Martin, Scott Walker, Robert Wyatt o Jonathan Demme, per citare alcuni dei nomi presenti nel mio libro. Mi serviva allontanarmi dal meccanismo discografico, dopo averlo vissuto intensamente per venti lunghi anni, (anche come discografico, da label manager italiano per la Rykodisc). Con la musica, dunque, sono sempre rimasto, lasciandomi guidare dalla sua infallibile capacità di donarmi emozioni e visioni.
L’ho fatto anche attraverso i vari storytelling musicali portati in tour, spesso tratti dai miei libri, ma anche quelli di Jack London (del quale ho tradotto e curato molti classici), con musicisti diversi per formazione ed estrazione come Francesco Garolfi (una mia scoperta, chitarrista e vocalist che pubblicò anche un cd per una piccola label, ormai chiusa, che fondai anni fa, 1968.
Odissea Nel Rock oltre ad avere scritto le canzoni strumentali di Wild, cd colonna sonora dello storytelling del 2014, dedicato a Jack London), Giuseppe Olivini, Gabriele Mitelli e naturalmente, per alcune apparizioni sparse nel tempo, con Cristina Donà.
E inoltre, il testo di uno dei capitoli di Attraverso Le Terre Del Suono era un inedito scritto appositamente per una performance fatta anni fa in Sardegna, al Capodanno dei Poeti di Seneghe. Ma c’è un’altra particolarità: nel mio ultimo libro Il Geopoeta.
Avventure Nelle Terre Della Percezione, uscito il marzo scorso, un capitolo è quello che dato l’annuncio di questo nuovo libro, il ritorno all’editoria musicale, testo che è anche quello dell’omonima performance che stiamo portando in giro io e Marco Grompi. Tutta dedicata alla musica, questa volta.

1 commento:

  1. Sempre interessanti gli incontri con Davide, persona intensa e disponibile.Grazie Tony per il sentito articolo.

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