domenica, febbraio 23, 2014

Paul Buchanan, "Mid Air"



A cura di ANDREA FORNASARI

Lo scozzese Paul Buchanan non è certo un tipo frettoloso: due ottimi dischi con i Blue Nile negli anni ottanta ed uno a fine novanta altrettanto meritevole.
Poi nel 2004 il quarto album in vent'anni: fine della storia Blue Nile.

"Mid Air" è quindi il primo lavoro solista di Buchanan, arriva dopo otto anni di silenzio ed è uno dei dischi più belli e intensi che mi sia capitato di ascoltare da molto tempo: il ritorno dell'ex Blue Nile sulla scena musicale non poteva essere più consono alla figura sfuggente che gli fornisce quel profilo così appartato nella vita.
Peculiarità che, insieme al fatto di essere stato uno dei protagonisti "minori" del synth pop anni ottanta - quello colto e raffinato, lo rende molto vicino, umanamente e artisticamente, ad un altro anti-divo pop per eccellenza: Mark Hollis.
Non solo.
La stessa idea di minimalismo all'interno della canzone pop, la volontà di ricorrere a poche note suonate e a molte solo "immaginate", la capacità di dilatare gli spazi e i tempi pur dentro la forma canzone classica (soprattutto Buchanan), l'utilizzo di pause e silenzi, nonchè il concetto di suonare il "meno possibile" sono tutte caratteristiche che accomunano Hollis e Buchanan.

"Mid Air" è un gioiello per raffinatezza a capacità evocativa di un immaginario malinconico e avvolgente, dolce e in parte notturno: la voce, il piano e pochissimo altro.
Qualche lamento di synth al posto giusto, qualche arco e due note due appena soffiate, ed ecco apparire rarefatte atmosfere ondeggianti, vibranti nell'aria, che incantano e subito spariscono: una musica talmente diafana che la si potrebbe attraversare.
Romanticismo decadente su rintocchi pianistici, movimenti appena sfiorati come se Arvo Part scrivesse canzoni pop plasmandole nella luce.
Qualcuno lo chiama classicismo pop: non saprei, per me è poesia.

Delizie melodiche sospese che fanno trattenere il fiato: "Wedding party" sogna ad occhi aperti e osserva la vita da una finestra con i vetri appannati, la luce fioca alle nostre spalle, il freddo là fuori e un'alba gelida che nasce nel petto.
"Summer's on it's way" è composta da frammenti di tempo e spazio come improvvisi ricordi di amori perduti o mai nati, il senso del poteva essere e non è stato.
"Fin de siecle" uno strumentale (piano e archi) meraviglioso e inatteso.

Sono brividi sottopelle per epidermidi ipersensibili, per chi in qualche misura riesce ad apprezzare il concetto che sottrarre possa essere meglio che sommare.
Non c'è nulla di celestiale o di neoplatonico, qui l'idea stessa è già forma compiuta in terra, nel gesto quotidiano, senza ascetiche convulsioni metafisiche: è lì, cristallina e lucente, è pensiero compresso in tre minuti o anche meno.
Sono quattordici brevi sospiri che durano in tutto poco più di mezz'ora ma qui, davvero, il tempo non conta più: è un intervallo, una pausa dal mondo, un piccolo abbandono.
In mezzo a tanta mediocrità succede che ogni tanto qualcosa ti ricorda che cos'è un lavoro artistico, che cos'è l'ispirazione, e spazza via tutto il resto.

Ora siamo pronti per tornare a noi stessi?

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