“Io sono uno che parla troppo poco, questo è vero. Ma nel mondo c'è già tanta gente
che parla, parla, parla sempre. Che pretende di farsi sentire e non ha niente da dire. Io sono uno che sorride di rado, questo è vero. Ma in giro ce ne sono già tanti che ridono e sorridono sempre. Però poi non ti dicono mai cosa pensano dentro. Io sono uno che non dice chi è la sua donna, questo è vero. Perché non ammiro la gente che prima implora un po' d'amore e poi non appena l'ha avuto lo va a raccontare. Io sono uno che non nasconde le sue idee, questo è vero. Perché non mi piacciono quelli che vogliono andar d'accordo con tutti e che cambiano ogni volta bandiera per tirare a campare”.
E’ un brano di Luigi Tenco, del 1966.
Pare che Gigi Riva lo ascoltasse sempre, talvolta in maniera compulsiva.
Perché Gigi Riva amava la musica dei cantautori, lui con poca cultura alle spalle ma con una sensibilità che lo portava a capire chi, con le sue musiche e soprattutto parole, lo rappresentava.
Aveva vissuto un’infanzia difficile, il padre operaio morto quando aveva nove anni per un incidente sul lavoro, la madre poco tempo dopo, le tre sorelle con vari problemi fisici anche loro.
In casa giravano pochissimi soldi, la famiglia sfiorava la povertà.
Ma era una povertà dignitosa, condivisa con tanti altri nel paese natale, a Leggiuno, in provincia di Varese.
La madre è costretta a mandarlo a fare le medie in vari istituti religiosi, la cui disciplina ferrea e persecutoria lo forgia negativamente, lo rende ancora più chiuso e astioso nei confronti della società.
“Al paese non sapevo di essere povero, si tirava avanti, in collegio me lo fecero subito capire. Ci facevano sentire che eravamo lì per beneficenza, ci obbligavano a pregare per chi regalava il pane, ci imponevano l’obbedienza perché non potevamo permetterci, essendo poveri, nemmeno la vivacità”.
Incomincia a lavorare presto, montando ascensori, dividendosi con i campi da calcio, dove, da subito, eccelle.
Nel 1962 con l’ingaggio al Legnano, in serie C, arrivano i primi gol e qualche soldo, a rendere migliore la vita in casa.
In quel periodo il Cagliari militava in serie B ed essendo molto costosi i viaggi dalla Sardegna, per limitare le spese, giocava, alternativamente, due partite in casa e due in trasferta, facendo base, durante la permanenza in “Continente”, proprio a Legnano, dove i dirigenti rossoblu notarono il nuovo giovane talento, all’epoca diciottenne, e decisero di acquistarlo.
Riva, di fede interista e legatissimo ai suoi luoghi natali, non ne fu particolarmente soddisfatto.
La Sardegna era lontana, una terra ancora poco conosciuta e non sfruttata turisticamente, aspra, socialmente e a livello di infrastrutture ancora in una fase “arretrata”, dove venivano spediti per punizione i militari riottosi e dove la delinquenza costituiva un grave problema. Probabilmente non a caso Gigi finisce in un luogo così affine al suo carattere, pieno di rabbia e malinconia, vittima delle ingiustizie della vita e del potere, anticonformista, chiuso e refrattario alle imposizioni.
“Se non avessi fatto il calciatore sarei un contrabbandiere. Finivano tutti così al mio paese”.
Contribuisce con i suoi gol, la sua potenza, il suo ardimento, alla promozione in Serie A del Cagliari e alla salvezza l’anno successivo e nella stagione 1966/67 diventa capocannoniere con 18 gol.
Approda intanto in Nazionale, subisce il primo grave infortunio da cui si riprende presto e nel 1968 vince l’Europeo, nel 1970 arriva in finale, persa con il Brasile, ai Mondiali del Messico ma soprattutto porta lo scudetto, unica volta nella storia, a Cagliari nel 1970, a fianco di una squadra “operaia”, con pochi campioni e un allenatore unico, quel Manlio Scopigno, detto “il filosofo”, persona colta, bibliofila, perfettamente in linea con lo spirito dei suoi ragazzi. Gli arrivano offerte miliardarie per passare alla Juventus ma rifiuta sempre.
La Sardegna lo ha adottato e lui si è fatto adottare.
Tutti lo amano, lo proteggono, ne condividono carattere e modi. “Quando vedevo la gente che partiva alla 8 da Sassari e alle 11 lo stadio era già pieno, capivo che per i sardi il calcio era tutto.
Ci chiamavano pecorai e banditi in tutta Italia e io mi arrabbiavo. I banditi facevano i banditi per fame, perché allora c’era tanta fame, come oggi purtroppo.
Il Cagliari era tutto per tutti e io capii che non potevo togliere le uniche gioie ai pastori. Sarebbe stata una vigliaccata andare via, malgrado tutti i soldi della Juve.
Ma io non ho mai avuto il minimo dubbio e non mi sono mai pentito.”
Anche il regista Franco Zeffirelli gli offre una cifra enorme, pare 400 milioni di lire dei tempi (l’equivalente di 3 milioni e mezzo di euro attuali), per essere il protagonista nel ruolo di San Francesco nel suo film “Fratello sole, sorella luna”. “Non mi vedevo proprio a fare l’attore, non ero fatto per recitare”.
Un altro grave infortunio ne compromette la carriera e impedisce al Cagliari, lanciato verso un’altra vittoria, di conquistare il secondo scudetto. Gioca due partite anche al Mondiale del 1974, chiudendo la carriera prima in Nazionale (rimanendo tuttora il capocannoniere con 35 gol in 42 partite) e poi definitivamente con il calcio giocato, restando però nello staff dell’amato Cagliari (successivamente della Nazionale).
“Andare via significava tradire questa gente che mi ha dato tanto, per non dire tutto. E che nei momenti in cui le voci di cessione si infittivano scendeva in piazza per impedire alla società di cedermi e sembrava disposta a buttarsi nel fuoco per me. O meglio, a buttarsi nel fuoco con il Cagliari per me”.
Gigi Riva ha avuto un amore incondizionato per un altro sardo acquisito, Fabrizio De Andrè, di cui adorava i dischi, la poetica, le parole, soprattutto “Preghiera in gennaio”, dedicata, non a caso, alla morte di Luigi Tenco.
Si incontrarono una sola volta, nel settembre del 1969, a Genova (dopo una partita contro contro il Genoa di cui De Andrè era tifosissimo).
Due taciturni che ci mettono un po’ ad aprire bocca, complici qualche whisky e un bel po’ di sigarette (entrambi accaniti fumatori). Alla fine De Andrè gli regalerà una sua chitarra, Riva una sua maglia numero 11.
Si riprometteranno di incontrarsi, soprattutto quando il cantautore prenderà casa in Sardegna. Ma Riva confesserà di essere passato ripetutamente davanti a casa sua ma di non aver mai suonato al campanello per paura di disturbare. A Gigi Riva sono stati dedicati libri, articoli, un film, alcune canzoni e due soprannomi stupendi come “Rombo di tuono” (Gianni Brera) e “Hombre vertical (Gianni Mura).
Per me Gigi Riva è stato un “padre mitologico”, una divinità, intoccabile, assisa sul trono della leggenda. Lo è stato da quel lontano 1969 (quando avevo ancora otto anni) e ancora adesso lo è, in qualche Olimpo o Paradiso a vegliare, sardonico, sulle miserie del mondo con quel suo sguardo distaccato, malinconico, ieratico, severo.
Quando in quell’anno arrivai a Piacenza dalla campagna piacentina, abbandonando campi, canali, fienili, vita selvatica, per quello che mi sembrava un inferno di cemento, discriminato in quanto “campagnolo”, timidamente solitario su una panchina di Piazza Duomo, trovai conforto in un occasionale amico, Massimo, che mi invitò a “giocare a pallone” con lui.
Sfoggiava una maglia della Fiorentina e mi chiese “per chi tenessi”.
Famiglia totalmente juventina in ogni ordine di grado non osai dire niente, per timore di perdere il mio unico, potenziale, amico.
“Va bene, tu sei il Cagliari” (ai tempi rivale per lo scudetto dei “viola”). Diventai “il Cagliari”, mi informai dettagliatamente su chi giocava in questa squadra esotica, lontana, oscura.
Le figurine Panini mi aiutarono, un poster di Gigi Riva troneggiò presto su un muro della mia cameretta.
Ancora più discriminato in quanto campagnolo e tifoso di una squadra del Sud, divenni Campione d’Italia nell’aprile del 1970.
A quel punto fui accettato e mi fecero giocare tutti, io con le calze alle caviglie come Domenghini, provavo a tirare di sinistro come Papà Gigi Riva ma con scarsi risultati, con il destro mi riusciva molto meglio.
Il tempo è passato, tanto tempo, ma quella maglia rossoblu con il numero undici, cucitami da mia mamma ai tempi, è ancora gelosamente custodita, come il gagliardetto commemorativo di quel 1970 “scudettato”.
La fede per il Cagliari immutata, nonostante tutti i tracolli e le tristi vicende sportive.
Sempre malinconici, scontrosi, ai margini, anticonformisti, noi tifosi del Cagliari, abbiamo il nostro personale santo protettore, Gigi Riva.
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Bel ricordo
RispondiEliminaBellissimo. ❤
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