Foto: 100 Club, London, 1990s © Elaine Constantine.
Dal Northern soul alla Club Culture di Alberto Folpo Zanini chiudeva il mio libro (talvolta vituperato quanto mio bestseller in assoluto) sul "Northern Soul" pubblicato da Agenzia X nel 2022.
Uno scritto interessantissimo e illuminante.
Dal punto di vista di un europeo non è semplice provare a mettere a fuoco come uno stile di musica e di ballo nato cinquant’anni fa nelle Midlands inglesi abbia dato un contributo fondamentale alla nascita della club culture come la conosciamo oggi in tutto il mondo.
Una cultura che è sempre troppo riduttivo confinare nel recinto dell’underground affibbiandole il prefisso sub, che la fa inevitabilmente apparire come qualcosa di sfuggente, di adatto solo ed esclusivamente a un pubblico di iniziati che ne conoscono le regole non scritte e ne praticano gli arcani riti su piste da ballo precluse alla società cosiddetta normale.
A supporto del tentativo vi sono tuttavia delle certezze che rendono in qualche modo più agevole l’impresa.
Una di queste è rappresentata proprio dal northern soul, fenomeno inglese nato tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta che può essere considerato a tutti gli effetti la prima forma assoluta di clubbing, laddove per clubbing si intende il convergere
verso locali specializzati, a volte anche viaggiando per centinaia di chilometri, per ballare al ritmo dei dischi non commerciali passati da dj la cui reputazione si costruiva proprio sull’unicità dei brani che proponevano.
Del northern soul in musica si è detto tutto.
I dischi che venivano suonati nei suoi club di riferimento, un tempo sconosciuti e proprio per quello apprezzati e ricercati, sono oggi inseriti in guide che ne svelano ogni segreto. Anche l’iconografia laterale del fenomeno, fatta di abbigliamento comodo per ballare, patche da cucire su borse Adidas con cui portare alle serate la propria attrezzatura e amfetamine per tener duro tutta la notte sulla pista da ballo, è ormai irremovibile dall’immaginario che il solo pronunciare quelle due parole evoca.
Famosi brand di abbigliamento storicamente collegati a fenomeni come quello dei mod o degli skinhead hanno da tempo inserito nei loro cataloghi anche modelli ispirati ai vestiti che i giovani di Stoke on Trent, Wigan, Manchester e moltissime altre cittadine del cuore dell’Inghilterra indossavano per sentirsi comodi a ballare tutta la notte facendo acrobazie degne delle arti marziali più estreme.
L’atmosfera degli allnighter è fissata in centinaia di libri, scritti da autorevoli penne ma anche da semplici frequentatori, è ritratta in numerosi reportage fotografici che non lasciano più quasi nulla all’immaginazione e credo di non sbagliarmi se dico che anche la filmografia dedicata al northern soul supera abbondantemente la decine di pellicole.
Sebbene piuttosto recentemente, tutto questo ha contribuito a farne un fenomeno globale cui si deve, per forza di cose, riconoscere anche il ruolo genitoriale avuto nei confronti della più ampia club culture che ne è seguita.
Non tanto per la musica (anche se tutti i dischi che verranno prodotti e suonati successivamente in ambito dance trarranno ispirazione dal soul), che sempre si evolve in base alla tecnologia che diviene man mano disponibile col tempo, quanto per alcune dinamiche specifiche che sono nate con il northern soul e che ritroviamo pressoché invariate anche
nelle fasi successive in cui la dance culture si è evoluta.
Una di queste è la combinazione tra viaggio e sequenza di serate, per esempio.
Quasi tutta la decade dei settanta fu un lungo periodo di interregno in cui due tra i club più rappresentativi della scena, il Wigan Casino, in un paese qualche chilometro a nord ovest di Manchester, e il Blackpool Mecca, locale nell’omonima cittadina di mare sulla costa occidentale proprio di fronte all’Isola di Man, divennero meta di veri e propri pellegrinaggi che duravano per tutto il weekend.
La Highland Room del Blackpool Mecca, cui il comune non permetteva di stare aperto tutta la notte, apriva alle otto di sera del sabato e chiudeva alle due del mattino della domenica, mentre il Casino apriva alle due della domenica e andava avanti fino alle otto.
I molti giovani che si mettevano in strada per raggiungere il Blackpool Mecca trovavano poi naturale proseguire la serata al Wigan Casino.
A volte con bus organizzati, a volte con le auto dei genitori, molto spesso con mezzi di fortuna, ragazzi dello stesso paese facevano gruppo per stare fuori per l’intero fine settimana finendo così per creare uno dei primi modelli di flusso del popolo della notte.
Modello inconsapevolmente applicato anche dai futuri fan dell’house music di casa nostra, imperterriti nel seguire i propri dj partendo dalla serata del sabato e proseguendo poi con i cosiddetti after hour della domenica mattina facendo anche centinaia di chilometri per raggiungere location particolari in Slovenia, Veneto, Emilia, per poi terminare esausti la domenica sera a casa di qualcuno a fumare dell’erba con lo stereo ancora acceso e ritardare il più possibile il rientro in una normalità fatta di lavoro in fabbrica e adeguamento al sistema.
Un’altra dinamica che appare con il northern e si replica incessantemente per tutti i successivi cinquant’anni è l’utilizzo di droghe associate al ballo e a una musica uptempo.
Da una parte tutto il sottobosco di pusher che lo rendeva possibile e dall’altra le forze dell’ordine che tentavano di arginarlo nel nome della tranquillità degli abitanti di quelle piccole cittadine dormienti di provincia.
La condiscendenza dei proprietari dei locali, che si voltavano volentieri dall’altra parte pur di non rischiare di perdere l’importante giro d’affari che tutti quei ragazzi generavano, l’amico che si incaricava di procurare le sostanze per il weekend a nome di tutti perché conosceva uno spacciatore, la stazione di polizia locale che tentava di mettere il sale sulla coda a quei giovani drogati che sciamavano in paese ogni fine settimana, locali che finivano per essere chiusi a causa dell’abuso di sostanze (uno su tutti il Twisted Wheel di Machester, chiuso dopo un’aggressiva cam- pagna antidroga delle forze dell’ordine).
Tutto si ripete uguale a sé stesso nei decenni a seguire e si integra efficacemente con il modello di flusso di cui abbiamo parlato in precedenza.
Le droghe e la musica si evolvono, l’amfetamina viene sostituita da ecstasy e cocaina e la cassa in quattro dell’house perfeziona ritmicamente l’incalzare del soul di fine settanta, ma la cultura che ne sta alla base rimane invariata: spaccarsi insieme ai tuoi amici per due o tre giorni al ritmo della tua musica, ovunque sia necessario andarla ad ascoltare.
Deejay culture e dance culture.
Uno dei motivi che spingevano i soul boy a questi pellegrinaggi era da una parte la necessità di evasione e dall’altra il bisogno di identità. Giova ricordare che stiamo parlando di un’epoca di grande affanno economico per l’Inghilterra.
La crisi del petrolio, i prezzi in costante crescita e il tasso galoppante di disoccupazione col- pirono le Midlands inglesi come una mazzata.
Giovani della classe operaia che non riuscivano a intravedere un futuro, le cui famiglie spesso faticavano ad arrivare a fine mese, percepivano il fine settimana a base di musica e droga come l’occasione per abbandonare, seppure temporaneamente, un mondo in preda a problemi che non capivano e di cui non avevano alcuna colpa.
Anche se ai tempi il vero culto si sviluppava attorno al disco raro che questo o quel dj proponeva, l’essere un deejay o un bravo ballerino rappresentava una prospettiva luccicante molto
diversa dall’ambire a un posto di lavoro in una delle miniere di carbone della zona.
Cominciarono a crearsi piccole serate su base locale, di solito infrasettimanali, in cui a mettere i dischi erano ragazzi che emulavano i grandi dj sentiti nel weekend, formando le loro piccole crew locali e dando vita anche qui a un modello di micro società basata sulla musica dove ognuno ha il suo ruolo (il pusher, il dj, il ballerino ecc...) che si integra con i modelli precedenti e contribuisce a costruire la narrativa del fenomeno.
Successivamente, anche questo modello si replica invariato nel mondo della House e della dance in generale.
Dalla fine degli anni ottanta per tutti gli anni novanta non c’è un paesino o piccola cittadina italiana che non abbia la sua crew di House Heads con i suoi pusher, i suoi ballerini, i suoi dj, e spesso, grazie anche all’evoluzione tecnologica del fare musica, anche produttori che ne faranno una professione coronando quel sogno in cui la carriera artistica brillava molto di più di un impiego alle poste.
Lo stesso sogno delle loro controparti inglesi di trenta o quarant’anni prima.
mercoledì, maggio 07, 2025
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