giovedì, luglio 24, 2025

Black Keys + Jet + Lemon Twigs – Live at AMA Music Festival (VI) – 15 Luglio 2025

Recensione/racconto dell'amico SOULFUL JULES, come sempre interessante e intrigante.

Quando ho visto che sul sito dell’Ama Festival i biglietti per il Pit erano esauriti, ci son rimasto male.
Perché l’anno scorso ero stato all’AMA per i Pistols con Frank Carter e se stai fuori dal Pit il palco è lontano, fai fatica a distinguere i musicisti, sembrano pedine alte due centimetri, e anche se il sound è buono manca la pacca che ti prende lo stomaco e ti solleva da terra.
Però rinunciare ai Black Keys a neanche un’ora di strada da casa pareva brutto, magari poi là si combina, ho pensato, vai a sapere.

Partenza martedì 15 luglio a metà pomeriggio, tra una cosa e l’altra arriviamo al Parco di Villa Negri che i Lemon Twigs hanno quasi terminato il loro set e ‘sta cosa mi rode perché era un pezzo che li volevo vedere e il suono che arriva mentre siamo lì in coda, nel vialetto ombreggiato, è una meraviglia di armonie e arrangiamenti.
Dolcissimo il falsetto di Brian D’Addario su Corner Of My Eye, con gli acuti che riportano al cantato malinconico di un altro Brian, da poco riunitosi con Carl e Dennis sul palco dell’eternità.

I cani per i controlli antidroga ricordano che siamo a metà strada tra Treviso e Vicenza e un cartello in cassa avvisa che c’è ancora qualche posto disponibile.
I ragazzi della biglietteria sono simpatici e gentili ma demoliscono subito le mie speranze di fare una permuta con uno dei cinque pass rimasti per il Pit.
“E allora come faccio?”
“Potresti vendere il tuo biglietto a qualcuno che non ce l’ha e acquistare un Pit qua.”
Che in effetti non è una cosa difficile, soprattutto se uno di mestiere fa il venditore da più di venti anni.
Ma un conto è vendere per lavoro, un altro conto è vendere per necessità, e poi qua non è più la questione di vedere bene il concerto, di assorbire fino all’ultimo tutti i MegaHertz che fluttuano nella notte di Romano d’Ezzelino, questa è diventata una faccenda seria, esistenziale.
Quanto bravo sei a convincere un tizio mai visto a sborsarti cinquanta sacchi per una fotocopia A4 con sopra il tuo nome e un QR code? Ti fideresti di uno come te, con la tua faccia, la tua voce?
La verità è che non lo sai e ti tocca scoprirlo stasera.
Aspetto tre minuti appoggiato al bancone della biglietteria e finalmente arriva un tipo sui quaranta, baffetto spavaldo e sandalo eco, vuole un biglietto ma non uno qualsiasi, gli serve il Pit a tutti i costi, me lo dice con la cantilena irritante di uno che gongola perché alla fine lui ce l’ha e tu no, gne gne gne.
Altri due minuti e si presenta uno coi capelli lunghi e grigi, maglia sbiadita dei Litfiba, l’aria un po’ spaesata.
È il mio uomo.

Formulo l’offerta in maniera chiara e perentoria: cinquanta sacchi invece che i sessanta che chiedono in cassa. Accetta subito. Si rigira il foglio A4 tra le mani, dà un’occhiata distratta alla riga con il nominativo e alla fine sfila il biglietto rosa dal taccuino senza esitazione.
Ok, questo era facile, potevo anche piazzargli un abbonamento a Tele+ col decoder e la presa Scart, ma il fatto che adesso posso godermi il live senza restrizioni mi fa salire una botta improvvisa di euforia, neanche mi fossi ingollato un cocktail di dopamina, ossitocina e una spruzzata di endorfine a mo’ di selz.

All’interno l’area è grande e organizzata, poca calca nonostante i 9.000 fan, un po’ di coda qua e là ma niente di che e in ogni caso col braccialetto rosso al polso mi sento invincibile, se ne accorge anche il tizio delle polpette, che si sbriga a servirmi prima che inizino i Jet.
Guardo il concerto da metà campo, vicino al tendone del mixer, il sound arriva pulito ma i volumi sono bassetti e sul palco ci vorrebbero degli schermi, per aiutare quelli fuori dal Pit a sentirsi connessi con la band.
Saranno vent’anni che non ascolto i Jet, mai stato un fan ma il primo album, Get Born, è un disco di tutto rispetto, e sono curioso di vedere come sono messi, se la voce di Nic Cester graffia ancora come nel 2003 o se nel frattempo ha perso qualcosa e devo dire che tra una polpetta di carne e una alle verdure il live scorre senza intoppi, la scaletta incentrata sui brani del disco d’esordio tra cui la ballata Look What I’ve Done con quel feeling un po’ british, tipo i Beatles rifatti dagli Oasis.
It’s a Long Way To The Top degli AC/DC è un omaggio all’Aussie Rock, il sound energico a base di riff potenti e melodie orecchiabili che definisce in buona parte il loro stile.
Durante le pause Nic scambia qualche battuta in italiano col pubblico, ostenta le sue origini trevigiane, annuncia le canzoni. Are You Gonna Be My Girl è come la vorresti sentire, la voce tirata e il giusto grado di intensità, neanche l’avessero già suonata almeno trecento volte dal vivo.
Rollover Dj mantiene alta la tensione, il pubblico che canta con la band e i Lemon Twigs a bordo palco che si godono lo show.
In chiusura una bella cover di Un’avventura di Battisti, nella versione di Wilson Pickett, una strofa in italiano e una in inglese, la gente attorno a noi saltella con il bicchiere in mano mentre sul prato si allungano le ombre del tramonto.

Mi ciuccio un’altra birretta prima di salutare gli amici ed entrare nel Pit.
Il settore è grande, pieno forse a metà ma manca ancora un po’ all’inizio del concerto, così mi siedo su una staffa delle transenne che sembra uno sgabello dal design industriale, mi metto comodo e osservo la gente che arriva.
Età media sui quaranta, tante ragazze, tatuaggi, uomini con i capelli, t-shirt nere, canotte, short larghi, berretti da baseball, ai piedi novanta percento di sneaker e qualche sandalo francescano per gli amanti della traspirazione. Non male la playlist prima del live, brani un po’ slegati ma piacevoli: 25 Miles di Edwin Starr, Satisfaction cantata da Otis, qualche pezzo recente, Bob Seeger System, classici degli Stones e dei T Rex.

Ormai il sole è calato, manca poco, è il momento di inserirsi tra la folla alla ricerca del posto perfetto, quel brandello di suolo - venti, trenta centimetri quadrati al massimo - che per 80 minuti deve garantirti una buona visibilità del palco e, soprattutto, un sound bilanciato, carico e appagante.
Mi piazzo leggermente sulla destra, a trenta metri dagli ampli di Dan Auerbach, e sono lì, assorto nelle mie riflessioni, che mi sento battere sulla spalla destra, mi giro e c’è un ragazzo sui venticinque che mi saluta con entusiasmo, e per quanto i suoi occhi limpidi, di un colore che potrebbe essere azzurro o verde marino, mi smuovono qualcosa, un ricordo, una foto un po’ sfocata, proprio non riesco a collocarlo questo giovane ed è evidente che col passare dei secondi, un velo di amarezza, forse delusione, si stende sul suo volto e un po’ mi vergogno perché il suo sorriso irradia qualcosa che oscilla tra la stima e l’affetto, mi spiace smorzare quel sentimento, e ormai sono lì lì per confessare che non mi ricordo mica, pronto a incolpare le birre, le tipe con le spalle scoperte, la boria vanagloriosa per il biglietto piazzato, ma a quel punto il campo visivo si allarga su un altro giovane, alto e smilzo, che sta al suo fianco, ed è guardandoli insieme, uno accanto all’altro, che finalmente riconosco Ricky e Lorenzo, i figli di Giorgio e Carla. Saranno almeno quindici anni che non ci vediamo di persona, l’ultima volta a Marostica, o a Bassano, ci eravamo trovati per ricordare Giorgio, ed era stata una bella festa, piena di musica e di amici, la malinconia e il dolore accantonati per una sera.
E adesso Giorgio è qui, lo rivedo negli sguardi e nei sorrisi dei suoi figli, li ho lasciati bambini, che suonavano la chitarra e la batteria e ora ce li ho accanto che sono giovani uomini, sempre innamorati della musica e di che altro vuoi parlare se non di gruppi, turnisti, etichette e studi di registrazione.

Dopo una manciata di minuti Pat Carney e Dan Auerbach salgono sul palco e attaccano con una medley di brani dai primi due album.
Thickfreakness, con la melodia lamentosa di You Don’t Love Me, sfuma in The Breaks, incentrata sul groove pesante e ripetitivo della batteria, che si fa più dinamico in I’ll Be Your Man.
Sul finale della canzone arriva il resto della band che si sistema alle spalle di Carney e Auerbach: percussioni, basso, chitarra ritmica e organo. Your Touch è una fiammata di suono che travolge il parco di Villa Negri, il fuzz della Harmony ficcante e abrasivo, le stilettate di organo aggiungono un tocco di colore e armonia, le congas e le maracas aumentano la profondità.
Pochi cellulari e tante braccia alzate, su Gold On The Ceiling Auerbach si gode il pubblico che salta e canta sulle note piegate della sua SG color panna.

Si sale ancora di intensità con Wild Child, un mix esaltante di lick possenti e ritornelli che ti ballano in testa per ore. Lorenzo alla mia destra mi dice che la chitarra è una Guild, il suono più metallico e pungente, e sarà che ho accanto i fratelli Mari, sarà che la scaletta è ben pensata, in un crescendo strutturato e curato nei dettagli, ma devo dire che la serata adesso è partita, complice il suono pulitissimo e variopinto, ogni chitarra uno stato emotivo differente, ogni brano simile e diverso dal precedente.

La disposizione dei musicisti sul palco, due davanti e quattro dietro, a mo’ di coro, l’uso dei fasci di luci che si intersecano e dividono la scena in blocchi imponenti, rendono lo spazio maestoso, massiccio, monumentale.
L’unico aspetto che non mi convince, a voler essere pignolo, è la distanza tra basso e batteria, vero che l’interplay principale è tra Carney e Auerbach ma qua secondo me perdono un po’ di groove con la sezione ritmica così dilatata, i due fondamenti a quasi tre metri di distanza l’uno dall’altro. Quando glielo dico, Lorenzo annuisce e mi fa notare che chitarra e batteria sono leggermente più alte nel mix rispetto al resto.
Ma sono dettagli, appunto, perché Everlasting Light è dolce come un sogno e marca un cambio di passo, il sound ora è più soulful, ricco di sfumature e di tocchi attenuati, il cantato in falsetto è delizioso di suo, prepara l’equipaggio al decollo emotivo e anche se mi sento pronto, con le cinture allacciate, quando parte il solo di chitarra mi ritrovo inerme, avvolto da un sentimento indescrivibile che riverbera dal cervelletto, sale e scende lungo la schiena e si propaga attraverso ogni centimetro di pelle, uno stato di grazia che solo la musica riesce a favorire e a ricreare ogni volta in un modo che è unico, inaspettato e strabiliante.
Ormai ho deciso che la posizione sulla quale ondeggio da più di mezz’ora non mi soddisfa più, vero che il cicalio delle maracas mi arriva nitido e setoso ma ho l’impressione che come acustica manchi ancora qualcosa per cui decido di spostarmi al centro e per quanto mi spiaccia perdere la compagnia, trovo un impatto incredibile, come se il suono si fosse ulteriormente arricchito e compattato di fronte a me, basta alzare una mano e ti pare di toccare ogni nota, di accarezzarla per poi stringerla, tutto perfetto, onirico, idilliaco, se non fosse per la tipa magra e nervosa che si dimena di fronte a me.
Solleva le braccia e le abbassa con un movimento ondulato, a mo’ di serpentina, scuote la testa a destra e a sinistra e si contorce come la terribile dea Kali.
Il problema è che dietro di me non ho vie di fuga, c’è un energumeno con una scopa di saggina sotto al mento che filma tutto con il cellulare e in ogni caso non ho voglia di spostarmi di nuovo, qua si sente davvero bene, forse basta portare pazienza e infatti, tempo un paio di strofe di Psychotic Girl, la tipa si sposta e si mette a slinguazzare un ragazzo alla mia destra con il cranio lucido e la barbetta folta e curata, leggermente appuntita.
E tutto è bene quel che finisce bene, l’amore vince sempre ma è un’illusione effimera perché lo scambio di fluidi salivari sembra attizzare il tipo, e non è un’eccitazione immediatamente fisica, corporea e nemmeno verbale: è il richiamo della giungla, dei segni ancestrali, l’istinto primordiale che ti spinge a ficcarti due dita in bocca e a cacciare un fischio che di colpo sembra zittire la band sul palco e causare un principio di acufene a chi ti sta accanto.
Porca puttana.
Crapa pelata è più rumoroso dei Black Keys e tu non ci puoi fare niente, sei a un concerto rock, mica in parrocchia, non puoi riprendere uno perché si diverte a fare il mandriano, tanto più che il tipo sembra averci preso gusto, ancora quel cazzo di sibilo bastardo e assordante, due, tre, cinque, otto volte finché a un certo punto dico basta. Giuro, vorrei continuare a farmi i cazzi miei ma è una cosa dolorosa e poi ho come l’impressione di non essere l’unico a soffrire gli acuti del tizio e allora faccio un respiro profondo, gli appoggio un braccio lungo le spalle e gliela butto là in tono amichevole, quasi fossimo in confidenza.
“Scusa, riesci ad abbassare un po’ l’intensità?”
Il tipo sembra riaffiorare dall’ebbrezza dei suoi squilli con un certo fastidio, si scosta dalla mia presa, inarca le sopracciglia come per mettermi a fuoco e mi domanda sarcastico: “Cioè, dovrei abbassare il volume?”
“Eh sì per piacere, se ci riesci.” gli rispondo con deferenza ma è evidente che se l’è presa, offeso nell’amor proprio per quella inaccettabile limitazione alla sua libertà di fischiare a cazzo a un volume ampiamente sopra la soglia del dolore. È una trattativa complessa questa, che richiede notevole abilità di persuasione, e la prima regola nella negoziazione è di concedere spazio alla controparte, dare l’impressione che è l’altro a condurre il gioco e l’unica cosa che mi viene in mente è provare ad allisciarlo.
“No guarda, hai un fischio incredibile. Davvero. Ma dopo un po’ è impegnativo.” gli dico ridacchiando e in quello interviene la tipa sciammannata a darmi man forte: “È per il fischio vero?”
Al mio cenno di assenso il barbetta concede: “Non è la prima volta che me lo dicono.” e prende a saltellare su una gamba sola, si mantiene in equilibrio con la mano sinistra, si ficca nuovamente in bocca la destra e si mette a fischiettare con rinnovato vigore, come se stesse suonando un’armonica per accompagnare la melodia di Tighten Up. “Ecco bravo, prova ad armonizzare.” gli suggerisco strizzando l’occhiolino e quello in tutta risposta caccia un altro paio di miagolii ma ormai è poca roba, quasi impercettibile, sommersa dal tremolo della Supro bianca di Dan Auerbach.

Altro cambio di chitarra su Man On A Mission, dal nuovo ellpì No Rain, No Flowers, questa volta è il turno di una bella Goldtop e chissà che stress per il tecnico di Dan Auerbach, la responsabilità di passargli lo strumento giusto con le corde ben tese, che ogni pennata è un riverbero massiccio che si scuote a lungo, prima di perdere intensità, e proprio l’uso dello spazio, dell’aria tra una nota e l’altra, delle pause, è una cosa che non tutti sono in grado di rendere, è una questione di feel, la sensibilità che prevale sulla tecnica, che nel caso di Auerbach è incredibile perché oltre a essere un grande musicista è anche un grandissimo cantante, con una voce calda e ruvida, carica di una sincerità emotiva che non ha bisogno di trucchetti per colpire, anche quando ritorna al falsetto, nella cover di On The Road Again dei Canned Heat.
La resa è impeccabile, la grana melliflua e carezzevole pur nell’urgenza originaria, adesso è tutto perfetto, ci siamo solo io e il suono, nessuno davanti e mi spiace per quelli che mi stanno dietro perché mi sento alto tre metri o poco più ed è una stecca fortissima, tutta mia e di qualche altro migliaio di persone che mi sono accanto, anche loro impegnate a fare all’amore con la musica.
I coretti di Howlin For You, intersecati dai guizzi acidi della Supro Martinique, echeggiano per tutta la valle del Grappa.
Prima della pausa She’s Long Gone, un minuto di stacco e la band è di nuovo sul palco per il penultimo brano: Little Black Submarines.
Chitarra acustica in apertura e tutto il pubblico, soprattutto le ragazze, a cantare ogni parola e ho come l’impressione che per una certa fascia di età, per quelli che adesso si affacciano ai quaranta, questa sia una specie di Stairway To Heaven, se non altro per come si fanno cullare dalla melodia per poi lasciarsi andare nel finale incendiario.

L’ultimo brano della serata parte con quella smarmittata in caduta libera che nel 2011 entrò nelle classifiche di mezzo mondo e per la prima volta tutti, ma proprio tutti, prendono a saltare.
Noncuranti del caldo, del sudore o della polvere, ritornano per tre minuti sul dancefloor di un indie club qualsiasi dove Lonely Boy veniva regolarmente passata prima o dopo i Jet e gli Arctic Monkeys.
E non è un caso che il singolo che ha definitivamente lanciato i Black Keys nel circuito mainstream mondiale, l’inno di una generazione che allora menava esistenze da studenti fuori sede e adesso fa i conti con la rata del mutuo o i pannolini da cambiare, l’anthem che suona potente e cazzuto ancora adesso, debba in parte la sua popolarità a un video con un nero in maniche di camicia che balla il twist, lo shake e l’hully gully, un clip uscito in un periodo in cui le immagini erano ancora importanti per definire lo stile di un brano, un corto che ad oggi, solo su YouTube, ha superato i duecento milioni di visualizzazioni.

Caro lettore, lo so che ti ho chiesto molto con questa recensione, che poi è una via di mezzo tra un racconto e una seduta di psicanalisi e infatti non ti tedierò ancora a lungo, non ti parlerò dell’attesa a fine concerto per prendere una birra, in coda dietro a un tizio che maneggia una tavoletta di token e fatica a contarli per via delle lenti fumè, alla Gianfranco Funari, e vorrei chiederglielo se lo conosce Gianfranco Funari, se per caso è a conoscenza del ruolo dirompente che il conduttore romano ha avuto nella storia della televisione italiana, il primo a chiamare la telecamera e a sfondare la quarta parete, la barriera immaginaria col pubblico che diventa punto di contatto, ma ormai non c’è più tempo, neanche per chiudere con una nota zuccherata e la dozzina di lecca-lecca richiesti in dono a non so quale fornitore di energia elettrica, ma alla fine lasciami dire che l’unica cosa che mi resta mentre ripercorro con i miei amici il tratto che dal parco ci riporta alla macchina, e non so se sia una suggestione o un effetto reale, ma la cosa che ancora mi gira nelle orecchie, dopo tre band e quasi tre ore di concerti, è il fischio del barbetta che sibila beffardo nella notte umida e silenziosa di Romano d’Ezzelino.

6 commenti:

  1. Vieni su un suburbano per Milano ogni mattina, pieno di imbeccilli di ogni genere che telefonano ad alta voce per cui ti devi subire costantemente i cazzi degli altri ed emettono rumori molesti di ogni tipo dai loro fottuti smartphones.

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    1. Vengo solo se suonano i Black Keys e i Lemon Keys :-D

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    2. Eh no, senza musica 🤣😂🤣

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  2. una piacevolissima lettura!! spero di leggerne ancora tante, e buoni concerti!

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  3. Meno male, chissa' perche' ma avevo una certa paura ad aprire il blog. Grande Giulio, sei un narratore fantastico e gia' te l'ho scritto in passato, sto aspettando con grande attesa tue pubblicazioni. Dal Ciakle imbarazzato con l'amante sul tetto.

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