Riprendo l'articolo che ho scritto sabato per "Alias" de "Il Manifesto" e dedicato alle problematiche sorte pèer molti gruppi per suonare negli Stati uniti dopo l'avvento di Trumpo.
Si sono recentemente verificati alcuni casi, di varia natura, in cui alcuni gruppi musicali e artisti hanno dovuto annullare tour e concerti negli Stati Uniti per problematiche legate alla concessione dei visti.
Non è del tutto chiaro se l'avvento della sciagurata amministrazione Trump sia la causa principale.
Probabilmente il cambiamento di procedure e il taglio di posti nelle istituzioni incomincia a creare qualche disagio.
Un membro di una band italiana, a cui il tour è stato annullato, riferisce:
“Di base ci ha detto un avvocato di Brooklyn che ci sono molti ritardi e che sono nel caos. Ci hanno sconsigliato di rischedulare un tour a breve perché pare che i visti vengano gestiti da un unico ufficio (motivo dei ritardi)."
Qualcosa di simile è accaduto alla band inglese degli Uk Subs, tra le più rappresentative della scena punk della prima ora.
Il cantante Charlie Harper è riuscito a entrare senza troppi problemi, al contrario del resto della band che è stata rispedita al mittente, in modo piuttosto rozzo ed energico, dopo undici ore di viaggio in aereo. Il batterista Alvin Gibbs denuncia di essere stato lasciato seduto in una stanza di detenzione "per 25 ore senza dormire e con solo un piatto di noodle e un paio di tazze di tè a sostenermi".
Si è chiesto in un post pubblico se non fosse che le sue recenti dichiarazioni poco lusinghiere su Trump potessero essere una ragione, visto che nessuno gli ha dato spiegazioni.
Concludendo che il cantante è invece passato forse perché “ha sorpreso un agente dell'immigrazione alla fine del turno desideroso di tornare a casa alla svelta”.
Nel frattempo Neil Young ha rincarato la dose "Quando vado a suonare in Europa, se parlo male di Donald Trump, potrei essere uno di quelli che tornano in America e vengono banditi o messi in prigione a dormire su un pavimento di cemento con una coperta di alluminio. E se torno dall'Europa e vengo bandito, non posso fare il mio tour negli Stati Uniti e tutti quelli che hanno comprato i biglietti non potranno venire a un mio concerto."
Si stanno nel frattempo intensificando le voci di turisti o lavoratori europei a cui viene rifiutato l'ingresso o che addirittura subiscano periodi di detenzione.
Ma soprattutto aumentano i casi di artisti che preferiscono non rischiare di investire soldi e tempo in tour americani con il rischio che tutto vada in fumo, in questo clima di incertezza.
La band indie canadese Shred Kelly ha recentemente annullato il previsto tour negli States nonostante avesse ottenuto tutta la documentazione necessaria, inclusi i visti per le esibizioni e l'iscrizione al sindacato.
"Non eravamo sicuri di attraversare il confine", ha dichiarato il tastierista Sage McBride. "Non potevamo correre il rischio". Il gruppo aveva già investito oltre 5.000 dollari canadesi nell'elaborazione e nella documentazione dei visti.
L'organizzazione no profit Tamizdat, che supporta artisti internazionali, segnala che ordini esecutivi e cambiamenti nell'applicazione delle leggi potrebbero portare a esclusioni per vaghi e imprecisati motivi di sicurezza. Negli ultimi mesi, oltre trecento visti sarebbero stati revocati, alcuni dei quali legati all'espressione politica. Una band messicana è stata respinta al confine dopo aver fatto un riferimento politico durante un concerto. "È difficile dire che vada tutto bene, perché non è così", ha dichiarato al Los Angeles Times Matthew Covey, direttore esecutivo di Tamizdat.
"Hanno ragione di preoccuparsi. Si aggiunge a un clima di tournée già difficile, un ulteriore strato di paura politica. C'è il rischio che gli artisti guardino ad altri mercati invece che agli Stati Uniti."
In realtà il problema viene da più lontano.
Già nella primavera del 2024, l'amministrazione Biden aveva aumentato del 250% il costo del visto necessario ai musicisti, non solo europei, per tenere concerti e tour negli Stati Uniti, passando da 460 a oltre 1.615 dollari per ogni domanda.
La procedura di richiesta è inoltre macchinosa e coinvolge diverse agenzie e passaggi, dalla consultazione con i sindacati, ai colloqui di persona presso i consolati. Le decisioni definitive sull'ingresso spettano ai funzionari della Dogana e della Protezione delle Frontiere, rendendo i risultati imprevedibili. Come ha dichiarato un responsabile delle prenotazioni al Los Angeles Times: "È come lanciare una moneta".
I visti richiesti sono essenzialmente due:
il primo consente di rimanere per motivi professionali fino ad un anno mentre il secondo è riservato agli artisti che dimostrino di avere “capacità straordinarie” nel campo delle arti e ha una durata fino a tre anni.
Come riferiva un articolo di JazzItalia.it:
alla richiesta bisogna allegare un questionario di venti pagine con domande che passano dallo stato di salute, alle convinzioni politiche ed eventuali soggiorni in paesi ostili (pratica in uso da lungo tempo).
In più è necessario aggiungere una documentazione di articoli di giornale, elenco di concerti tenuti, video musicali, album pubblicati, indicando itinerari e concerti da tenere negli USA con copia dei relativi contratti stipulati, attestazione di discografici e produttori per dimostrare di essere “musicisti in carriera”.
Decine di pagine di materiale per il quale bisogna attendere fino a sei mesi per una risposta. A cui, è noto, bisogna unire la stipula di un'assicurazione sanitaria (dal costo variabile da 200 a 1000 dollari al mese) che paghi eventuali spese ospedaliere che in America non vengono minimamente coperte (un ricovero al Pronto Soccorso costa 1000 dollari, una degenza ospedaliera dai 2000 ai 3000 dollari al giorno). Non dimenticando poi le tasse sui proventi maturati nel tour, costi di trasferimento, alloggio, vitto, noleggi vari, imprevisti.
La reciprocità non è invece assolutamente equa, visto che per gli americani che vengono a suonare in Italia i costi sono infinitamente più abbordabili, se non trascurabili.
Personalmente ricordo due tour che feci come batterista dei Link Quartet nei primi anni Duemila in una decina di stati americani.
L'organizzatore ci esortò a non rivelare il nostro status di musicisti (nonostante un basso e una chitarra potessero indurre a qualche sospetto) per non incorrere in problematiche con le regole sindacali, molto restrittive.
Ci andò bene entrambe le volte e non trovammo nessun problema nella quindicina di date dal Wisconsin, al Colorado, California, Oregon.
Probabilmente perché eravamo un gruppo totalmente sconosciuto.
Ma invece qualche tempo dopo un gruppo di amici partì per una serie di date in California.
Arrivati a Los Angeles furono fatti accomodare in un ufficio, venne mostrata loro una serie di volantini e ritagli di giornali e addirittura fanzines con le date previste e fatti “confessare” di essere loro i protagonisti del tour.
A risposta affermativa vennero trasferiti in un'altra ala dell'aeroporto e imbarcati (a loro spese naturalmente) e rispediti immediatamente in Italia. Il problema dunque sussiste, a monte della Trumpizzazione americana.
Che sta però portando a un ulteriore aspetto ovvero la rinuncia da parte di molti gruppi di medio/basso calibro (ovviamente i grandi nomi non hanno nessuna necessità né economica né di permessi di entrata) oltre a qualche “militante”, alle esibizioni americane.
Soprattutto quelli impegnati nelle lotte Lgbtq+ che temono discriminazioni o vessazioni, oltre a esercitare una forma di protesta nei confronti delle politiche della nuova amministrazione.
Grande è il disordine sotto il cielo ma la situazione non è né eccellente né interessante.
Semplicemente desolante.
mercoledì, luglio 02, 2025
Suonare in USA in epoca Trump
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