venerdì, marzo 28, 2025

The Standells

La recente scomparsa di Larry Tamblyn, voce, tastiere e leader degli STANDELLS ha ispirato questo speciale dedicato alla band californiana.

Già attivi dal 1962, passati attraverso una lunga serie di cambi di nome e line up, si stabilizzano nel 1965, trovando un contratto discografico e la produzione di Ed Cobb (che firmerà diversi loro brani).
La discografia è limitata a quattro album tra il 1966 e il 1967, uno del 2013, durante una delle varie reunion e alcuni live del 1966.


In Person at PJ's - 1964
Live On Tour 1966 - 2015
Quando ancora erano una party band da piccoli club registrarono (benissimo) lo splendido live "In Person at PJ's" in un locale di Los Angeles in cui dimostrano tutta la loro tecnica strumenbtale e vocale. Tutte cover tra cui una rocciosa "You can't do that" dei Beatles, un'arrembante "I'll go crazy" di James Brown e più canoniche esecuzioni di "Money (that's What I Want)" o "Louie louie". Un ottimo documento.

Live On Tour 1966 documenta la band alla vigilia del "successo" con cover ben riuscite di "Midnight hour", "Gloria" e "Sunny afternoon" e le due loro hit "Sometimnes good guys don't wear white" e "Dirty water". Discreto.

Dirty Water - 1966
Un capolavoro del garage beat, ruvido e diretto ma anche melodico e Beatlesiano a tratti ("Pride And Devotion" di Tamblyn) registrato in due giorni.
La title track è tra i brani più noti e influenti del garage punk, vera e propria pietra miliare, e poi la stupenda e souleggiante "Sometimes Good Guys Don't Wear White" (come la precedente scritta dal produttore Ed Cobb) dall'incedere in levare, una sparata "Hey Joe" (ai tempi già in repertorio Leaves, Byrds, Love, Music Machine), la psichedelia/fuzz ante litteram di "Medication" (ripresa poi dai Vipers in "Outta the nest" nel 1984).
Tutti i semi del garage punk beat sono qua.

Why Pick on Me — Sometimes Good Guys Don't Wear White - 1966
The Hot Ones - 1967
Uscito cinque mesi dopo il precedente, cercando di sfruttare il piccolo successo del precedente è una raccolta un po' raffazzonata e disomogenea di materiale vario. Una calligrafica cover di "Paint It Black", una terribile "Mi hai fatto innamorare" (in italiano con accento americano, a firma del chitarrista Tony Valentino), la ripresa della title track, "My Little red Book" di Burt Bacharach, già portata al successo da Manfred Mann e Love (successivamente, in una riuscita versione, dai Litter).Il resto è piuttosto anonimo.
"The Hot Ones" viene pubblicato addirittura due mesi dopo il precedente. Tutte cover, ben fatte e ottimamente scelte (ma calligrafiche) di brani contemporanei, usciti da poco (Monkees, Donovan, Kinks, Stones etc). Fa eccezione una "Eleanor Rigby" elettrica, arrangiata molto bene.
Album decisamente superfluo.

Try It - 1967
Nell'ottobre del 1967 esce l'ultimo album della band, un mix di stili che denota una fase transitoria e confusa, tra ottimi brani soul, con tanto di fiati, un classico del garage psych come "Riot on Sunset Strip", blues, psichedelia, beat.
La title track fu bannata da alcune radio statunitensi a cuasa di un testo ritenuto "lascivo". E' comunque un ottimo lavoro, ben suonato e che rivela che con maggiore calma e una migliore messa a fuoco degl iobbiettivi, la band avrebbe potuto avere un futuro di qualità.

Bump - 2013
Agli inizi degli anni Ottanta incominciano varie reunion, con questo o senza quell'altro membro, tra concerti e un album nel 2013 con il solo Tamblyn della line up originale.
Un lavoro tranquillamente dimenticabile, con sonorità hard rock e cover discutibili di "Pushin too hard", "7&7 Is" dei Love e soprattutto di "Help you Ann" dei Lyres.
Anche i brani autografi non brillano in creatività.

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