lunedì, dicembre 16, 2019

Don Letts a Piacenza 1 dicembre 2019



Articolo pubblicato ieri sul quotidiano "LIBERTA'"

Incontrare un personaggio come Don Letts, parlare un po' con lui, significa essere sommersi da una valanga di parole, ricordi, opinioni, spesso (finalmente!) nette, non negoziabili, crude e dirette. Don è arrivato a Piacenza in una piovosa e uggiosa domenica, per fare conoscere una parte della sua storia nei locali di “Alphaville” di Piacenza, all'interno di una celebrazione dei quaranta anni dalla pubblicazione dello storico album dei Clash “London calling” (corredata dall'applaudita esibizione di otto gruppi che ripreso i brani dell'album), perfettamente organizzata da Marco Botti con la collaborazione di Fred Perry e che ha raccolto un grande numero di partecipanti entusiasti.
Hanno reso omaggio alla storica band, con rielaborazioni fedeli o reinterpretate in maniera più che personale Nagual, Betty Blue, Blugrana, John Belpaese, Kubri, Mr.Pizza, Operation Octopus, Teepee e The Legendary Kid Combo.

Personaggio istrionico, Don Letts ama raccontare e raccontarsi, interpretare quasi teatralmente una serie di episodi di cui è stato testimone e protagonista. Ha i tempi giusti, le pause ben studiate, infila qualche espressione colorita a “quattro lettere” (le famose Four Letter Words) qua e là, riesce ad alternare momenti profondi e seri (soprattutto quando, ovviamente, si tocca il tasto del razzismo e del populismo dilaganti in ogni parte del mondo) a battute sferzanti, simpatiche e salaci da tipico rappresentante della working class inglese.

Figlio di immigrati giamaicani, Don Letts è nato e cresciuto a Londra, è stato a fianco dei Clash in tutta la loro breve esistenza.
Ha realizzato alcuni dei loro migliori e più iconici video (da “London calling” a “Rock the Casbah”), ha collaborato sempre con la band, legato da una stretta e intensa amicizia, è stato uno dei responsabili dell'introduzione del reggae all'interno della scena punk.
Chiamato infatti a fare il DJ al “Roxy”, il primo locale punk londinese, e, non avendo dischi del genere sufficienti, incominciò a far suonare quelli della sua collezione reggae, influenzando direttamente gruppi come Clash, Police, Slits, Ruts, Members, che incominciarono a comporre brani di sapore giamaicano.

“La comunità reggae ne fu contenta perchè in questo modo, grazie al successo di gruppi come i Clash, il reggae incominciò ad avere ampia diffusione in Inghilterra, lanciando molti nuovi gruppi”.

Anche i PIL di John Lydon, l'ex Johnny Rotten dei Sex Pistols, abbracciarono in modo del tutto personale (e particolarmente ostico) il verbo reggae e dub.
Don lavora a 360 gradi, facendo il DJ, scrivendo, girando film e video, aprendo un negozio di vestiti a Londra, entrando poi a far parte della successiva incarnazione dei Clash, dopo lo scioglimento, i Big Audio Dynamite del chitarrista Mick Jones.

“In realtà non sapevo suonare niente. Nei nostri dischi c'erano spesso spezzoni parlati tratti da film più o meno famosi.
Ecco, quelli li sceglievo io. Dal vivo suonavo un po' le tastiere. Mi mettevano degli adesivi colorati sui tasti, così sapevo quelli che dovevo schiacciare senza sbagliare”.


Ascoltare Don è un piacere e un intenso flusso di emozioni per chi ha sempre ritenuto i Clash “l'unica band che conta”.
Ad esempio quando racconta come li ha conosciuti. “Joe Strummer e Paul Simonon vennero in un locale in cui facevo il DJ. C'erano solo neri e loro due in un angolo, vestiti da punk, con tutti che li guardavano non molto bene.
Li apprezzai subito per il loro spirito di ricerca, il mettersi in gioco, il coraggio di scoprire cose nuove.
D'altra parte loro erano cresciuti a fianco di immigrati giamaicani e di altre etnie, avevano assorbito quei suoni, quei sapori, quei colori. Non ricercavano cose esotiche o strane. Per loro era normale.
Diventammo subito amici”.


Racconta anche quando poco tempo dopo Mick Jones e Joe decisero di andare a visitare la Giamaica (che paradossalmente Don Letts vedrà per la prima volta solo qualche anno dopo) trovandosi in un periodo piuttosto turbolento, tra scontri e violenza diffusa.
E soprattutto girando le strade di Kingston, vestiti in rigoroso look punk, giovani bianchi allo sbaraglio, rischiarono veramente qualcosa di molto brutto. Al ritorno Strummer compose la canzone “Safe european home” (Sicura casa europea) dove canta “Sono andato in un posto in cui ogni faccia bianca è un invito al furto. E ora seduto nella mia sicura casa europea non ci voglio sicuramente tornare”.

E' un fiume in piena Don. Ricordi, aneddoti, curiosità che per noi adepti sono manna dal cielo.
A bocca aperta immaginiamo luoghi, situazioni, vediamo la faccia di Joe Strummer con il suo classico ironico ghigno, l'impeccabile Paul Simonon, il creativo chitarrista Mick Jones, il metronomico batterista Topper Headon.
“Joe era la mente del gruppo, Mick quello che scriveva le canzoni, Paul era lo stile, Topper teneva insieme il tutto con le sue incredibili capacità strumentali, lui veniva dal jazz. Un album come “London calling” non ci sarebbe mai stato senza Topper.”

Don arriva da una serata come DJ allo storico centro sociale Cox 18/Conchetta a Milano dove pare non si sia “risparmiato”, in nessun senso, e abbia sostanzialmente fatto l'alba.
Eppure, a pranzo, poche ore dopo, è brillante, fresco, lucido, tranquillo e ci sciorina storie di inimitabile bellezza.

Il suo DJ set è spesso richiesto da chi ama il reggae più tradizionale ma Don non è della stessa opinione: “Certo, suono anche un po' di cose storiche e conosciute ma a me piace continuare a guardare avanti, sperimentare, osare. Amo ciò che è la musica ora e quello che può diventare, senza rimanere per forza legato al passato”.

Molto interessanti, soprattutto per chi vive in un ovattato provincialismo, presumendo di conoscere il mondo solo perché attraverso internet può spaziare da un social a qualche fake new, le sue osservazioni, da diretto protagonista sulla scena reggae inglese.

“Alle serate reggae e di black music i neri non ci vanno. Il pubblico è prevalentemente bianco.
Anche l'hip hop è poco seguito.
I neri li vedi soprattutto ai concerti jazz e blues”.
Allo stesso modo, in modo come sempre schietto e diretto, sfata il mito che furono i suoi amici Clash a diffondere il reggae in Inghilterra.

“Lo so che in molti non li apprezzano perchè li considerano troppo pop e commerciali ma i primi a fondere musica bianca e reggae sono stati i Police.
I loro primi due album sono ancora due lavori di altissimo livello.”


Con molta (auto) ironia ricorda poi un gustoso episodio:
“La prima volta che la musica reggae arrivò davvero a Londra fu nel 1976 quando suonò Patti Smith.
Lei era una grande fan del mio amico Tappa Zukie, produttore e DJ reggae e lo invitò, insieme a me, al suo concerto. Ad un certo punto ci chiamò inaspettatamente sul palco, mise una chitarra a tracolla di Tappa e un microfono in mano a me, mentre il gruppo partì con un pezzo reggae.
Tappa non sapeva suonare e così finse di farlo, io non sapevo cosa fare e incominciai a urlare qualcosa con l'accento giamaicano, davanti a 3000 persone.
Ero terrorizzato. Dopo un po' mollai tutto e fuggii dal palco. Quella è stata la prima volta che il reggae è arrivato a Londra!”.


La sua Londra, che ora scopre progressivamente gentrificata, i quartieri storici lentamente divorati dalla speculazione, “Una città che si sta trasformando in un centro economico e finanziario mondiale, dove per la gente comune c'è sempre meno posto, perchè è troppo cara per viverci”. Di cui si può apprezzare l'intatta multiculturalità, dove razzismo e fascismo faticano a inserirsi e a infettare un substrato solidamente meticcio, incurante del fetido fango dell'ignoranza cosiddetta “sovranista” e nazionalista.

“A Londra in questo senso si sta bene, non ci sono particolari problemi. Il razzismo è diffuso nelle campagne e nelle piccole città. E molto spesso nelle curve degli stadi. E' per questo che non sopporto il calcio e tutto quello che gli sta intorno”.

Un ultimo aneddoto che ne rivela l'ampia visuale artistica e un modus vivendi che ha toccato mille ambiti e contesti.
“A metà degli anni 70 ero uno dei più grandi collezionisti di memorabilia dei Beatles d'Inghilterra. Avevo montagne di poster, cappelli, spillette, lettere, riviste sui Fab Four. Un giorno mi resi conto di quanto fosse inutile tutta questa roba e decisi di venderla, tenendomi solo i dischi.
Con i soldi mi comprai un'auto americana tipo quelle di Starsky and Hutch. Con il risultato che ad ogni 100 metri la polizia mi fermava e chiedeva i documenti. Un giovane rasta nero con un macchinone americano! Dopo un mese vendetti anche l'auto”.


Che cosa bella amare la musica e i suoi dintorni in modo così viscerale.
Avrai sempre pochi soldi e tanti problemi ma alla fine scoprirai di essere stata la persona più felice del mondo.

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