giovedì, aprile 09, 2015

Cosa vuol dire “musica colta”?



Per non metterla giù troppo dura, preferisco iniziare con un calembour:
Colta dove, in quale orticello della Cultura con la C majestatis?
Nel mio “Dizionario Italiano Ragionato” questa definizione semplicemente non c’è. Ho trovato solo la voce «MUSICA CLASSICA O SERIA». Proprio così «… O SERIA». Beh, questa cosa seria vi è circoscritta con queste parole: «Musica dei maggiori compositori di cultura europea, antichi e moderni, che non si propone scopi di puro intrattenimento ma la produzione di un’opera d’arte».

Così, per coerenza, anche Fabrizio De André, John Lennon e Kurt Weill sarebbero autori di musica classica. Dico “sarebbero” perché tutti e tre erano «di cultura europea» e non mi pare che si fossero proposti solo «scopi di puro intrattenimento».
Forse conviene affrontare la questione in altro modo: se il mio gommista va in estasi quando dall'autoradio di un cliente gli arrivano i singhiozzi del Bocelli, possiamo parlare di intrattenimento o abbiamo a che fare con un transfert di plusvalori mistici? Come si vede, le cose cominciano a complicarsi.

Tentiamo un altro approccio. Proviamo a interrogarci che cosa questa benedetta musica colta/seria/classica invece NON è.
Non è musica popolare o addirittura nazional-popolare? Neanche per sogno: la sigla dell’Eurovisione, il tatatataaaaaa della Quinta di Beethoven o il Figaroquafigarolà sono conosciutissimi anche nei bar di Pontida e nelle curve sud di mezza Italia.
Non piace ai giovani, non fa parte di uno star system, non se ne parla nei quiz, nei cruciverba o nei salotti delle Martemarzotte in vena di seriosità? Assolutamente no. Il perché è presto detto: a) ai concerti di musica classica non ci va solo la Viagra generation, b) nella Champions League dei grandi interpreti classici ci sono spesso ingaggi di livello calcistico, c) ormai, nei telequiz dei vari Banalis, Sorriso Scotti o Amadeus (sic), si discetta non solo sugli Abba, ma anche su Abbado.
Certo, la musica colta difficilmente raggiunge la popolarità dei trilli “aifon” o di Justin Bieber e nelle varie classifiche difficilmente la troviamo tra i brani più scaricati con lo sciacquone web. Ma si tratta pur sempre di un mercatino di quartiere affascinante (parlare di mercato mi sembrerebbe un overstatement un tantino forzato).
Gli enti lirici, i conservatori, tutte le orchestre disseminate nei vari centri e centrini del paese, non sono ancora stati inghiottiti dall’appiattimento degli MP3 o dell’iPod. Vuol dire che la musica colta continua ad avere un suo seguito di fedelissimi - sia pubblico, sia privato… se non addirittura clandestino.

Ma io non mi arrendo.
Voglio proprio capire ma che mu’, ma che mu’, ma che musica è questa musica colta in perenne flagranza di solennità. Forse le difficoltà nascono dall’organico dove, al posto delle Stratocaster o delle tastiere MIDI, sentiamo più facilmente il pizzicato di un’eterea arpista o il silente pedale di un austero piano a coda dark?

A giudicare da quelle temperature cool, non dipende nemmeno dalla lunga Marcia dei pinguini - la divisa d’ordinanza indossata dagli orchestrali: i suonatori della buona notte in abito lungo e in frac, li trovi anche a Sanremo - dove i vari Ludwigvan o Van Halen, non sono certo assediati dalle groupie del melodismo fatto in casa (discografica e non).

Proviamo un’altra opzione: non sarà che questa musica seria è chiamata così perché i suoi habitué non ridono mai? In effetti, fare un’immersione speleologica nelle tonsille dei coristi o assistere a un attacco di tosse del tuo vicino durante l’Ode alla Gioia, non è una gioia particolarmente contagiosa. In quei posti e anfratti, la claque dei guru musicali è tanto allegrotta e ridanciana quanto lo sono i seguaci della Weltanschauung steineriana o i corrucciati seguaci di Lacan.

Non credo nemmeno che questa musica la chiamino colta perché i suoi rituali sono talmente prevedibili che è come scoprire un Breil sopra il polsino di un tifoso juventino.
Quando penso al suo corredo rituale e spirituale, ai loggisti che si stringono le loro gelide manine nei foyer, agli estasiati ultrà dei Tres Tenores & friends, all'ambaradan della filologia originale che più convenzionale non si può… insomma, se penso a tutto quel Barnum della musica con la M maiuscola (come si usa per Maestro, Maxicono, Miss Padania e Mammà), non posso dimenticarmi che, in quanto a riti inamidati e sempre uguali, non scherzano neppure i nostri cantautori Kukident, i severissimi kultori del folk o i metallari over fifty con il piercing sempre saldamente infilato nella pellaccia dei loro portafogli. Vai a capire per quali motivi e motivetti, in questa banda dello strapaese alternativo sono tutti bolliti e bollati come i grandi solisti del déjà entendu.
Magari un’opzione per spiegare come mai la musica ciccì (aka colta/classica) è sempre abbinata ad aggettivi in tonalità minore, che consiste e resiste nei posti dove si svolgono le Partite del Cuore infranto (che cocciutamente fa rima con fragore e torpore): gli auditori, i teatri lirici, le sale dei conservatori, le cattedrali, sono quasi sempre dei monumenti al limite ignoto, stadi d’animo, centrini di raccolta… insomma, contenitori di rituali talmente spirituali e poco spiritosi che forse solo l’aggettivo “classico” ne può appunto descrivere la loro spiazzante inattualità.

Forse, finalmente, ci sono arrivato: nonostante tutto, quelle musiche (preferisco il plurale) che il loro giro si ostina a chiamare classiche, in fondo sono solo note ataviche, atipiche, atonali (nel senso che non toccano i tasti del bon ton che non fa mai bene o male a nessuno).
Miles Davis ce le ha suonate con parole semplici e dure: “Non esistono note sbagliate”.
Esattamente come continuano a colpirmi tutte le note sbagliate di quell’angelo nero del flicorno, così mi alimentano in modo appunto classico, i vari Gesualdo, John Cage, Jimi Hendrix, JSB, Morricone, Ravi Shankar, Demetrio Stratos, Tori Amos, Fatboy Slim - perché dentro la cappoccia mi fanno succedere qualcosa, mi annullano la routine con nuovi modi e modalità, mi prendono con note e suoni inconsueti. Niente di più, niente di meno. Se il più grande genio che ha mai appoggiato i suoi polpastrelli su una tastiera ha finito per odiare tutto quel circo del buonismo cerimonioso, non era certo per un capriccio da solista-idealista-individualista. Quanto Glenn Gould amasse in modo quasi insano la musica scritta per essere eseguita anche pubblicamente, tanto egli ne disprezzava tutto il suo ostinato revival démodé, il sempiterno loop di rituali iperbenisti, tutti quei compitini eseguiti in una classe che lui da tempo non riusciva più ad accettare. Forse per un sensibilissimo ribelle come lui, classismo culturale e musica classica eseguita coram publico, erano diventati ormai la stessa cosa.
Sebbene sopra i miei tasti non ci sia la scritta “Steinway & Sons” ma solo il marchio di una melina morsicata, almeno sul tema dei riti triti sempre più applauditi, ho la sfacciata fortuna di suonarle all’unisono con un gigante come lui.

Till Neuburg

4 commenti:

  1. come dice il sir, non è che vada a finire da qualche parte. non c'è una tesi, non c'è una dimostrazione.

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  2. Non mi ricordo al momento chi l'ha detto, ma la musica si divide in due tipologie: quella bella e quella brutta.

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