L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.
Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss
PARTE #5
La mattina seguente sono dal nostro grossista fino a ora di pranzo.
Diamo un’occhiata ai dati, anche se si parla del primo mese dell’anno le vendite sono in crescita.
Ci raggiunge anche la signora che segue la logistica, Tatjana, una moretta che ha passato da un po’ la cinquantina, capelli corti e occhiali con la montatura tonda e sottile come Harry Potter.
Non abbiamo molto da discutere, da diversi mesi abbiamo alzato le scorte di magazzino perché i tempi di consegna si sono allungati.
Per la sola produzione, dal momento in cui riceviamo l’ordine a che la merce è pronta, serve circa un mese e fin qua tutto ok.
Il problema è che poi il cliente deve trovare un camion che attraversi l’Europa e una volta arrivato nei paesi baltici o al confine della Bielorussia faccia il trasbordo dei pallet perché ai veicoli russi non è permesso circolare nell’Unione Europea e viceversa.
Col trasporto ci balla un mese circa e una volta arrivata a Mosca, la merce viene scaricata nella sede centrale del cliente e poi spedita alle varie filiali o direttamente ai produttori di mobili in giro per tutta la Russia, per cui ci vuole un’altra settimana.
Sempre che non ci siano file esagerate ai confini o che i funzionari delle dogane russe, polacche o estoni non si fissino su una descrizione poco chiara, un puntino o una lettera fuori posto nei documenti.
In più, ultimamente, c’è il problema dei pagamenti, sempre meno banche gestiscono bonifici in arrivo dalla Russia e in alcuni casi i soldi impiegano fino a tre settimane per essere depositati nel conto del fornitore.
Per non correre rischi abbiamo aumentato le giacenze in Russia e questo tipo di gestione sta dando i suoi frutti.
Eppure Tatjana vuole parlare con me di persona, dice che non si fida a discutere di certe cose al telefono.
“Cosa sta succedendo da voi?”
Dice voi come se fossimo la Corea del Nord, un paese chiuso, difficile da decifrare, in mano a forze oscure.
“Cosa dicono delle sanzioni?”
“Boh, se sapessi cosa stanno decidendo a Bruxelles ci starei già speculando.”
“Sì ma alla tv cosa dicono? Magari avete informazioni che noi non abbiamo.”
“Mmhh, no, devono mettersi d’accordo in venti e passa stati, finché non hanno deciso di solito non danno notizie.”
“Ha! Quindi non vi dicono di cosa discutono?” insiste compiaciuta, un’altra conferma che siamo tenuti all’oscuro di tutto. Poi elabora un po’:
“Da noi se stanno parlando di un disegno di legge ce lo dicono alla tv, così siamo preparati. Da voi no invece?”
“Senta ma lei, quando il 23 febbraio dell’anno scorso è andata a dormire, sapeva esattamente cosa sarebbe successo il giorno dopo? Glielo avevano detto alla tv? Era preparata?”
Tatjana sorride, con un’aria di sufficienza, come la nonna che spiega certe ovvietà al nipotino:
“Guardi, nella mia vita, l’unica cosa a cui non ero preparata, l’unica cosa che mi ha veramente sconvolta è stato il crollo dell’Unione Sovietica.
Dopo di quello ho capito che sono pronta a qualsiasi cosa.”
chiude soddisfatta, si rigira le maniche lunghe del maglione nero, i pollici escono da uno strappo laterale, fatto apposta, in stile punk, come i pantaloni che indossa, in pelle o finta pelle color rosso, che pare vestita come Steve Jones, il chitarrista dei Sex Pistols, nel 1976 o giù di lì.
Negli anni ’80 i punk erano schifati dall’establishment sovietico, erano visti come una forma di degenerazione del sistema capitalistico, adesso una signora di mezza età può andare in ufficio con una mise in stile bondage e non se la caga nessuno.
A pranzo esco con Vasja che mi porta in un ristorante italiano.
Riprendiamo il discorso di Tatjana, quando è caduto l’Urss lei aveva una ventina d’anni, si rendeva conto conto di quello che stava succedendo.
Vasilij invece era un bambino, andava in prima elementare, che qua incomincia a sette anni. Si ricorda bene di quel periodo.
“Non c’erano soldi. Volevo giocare a hockey e i miei non potevano comprarmi la mazza e i pattini. È per quello che mia mamma mi ha mandato a fare boxe. I guantoni costavano meno.”
Parla di un tempo per lui lontano, dalla prospettiva di un bambino che vedeva un mondo senza colori sgretolarsi, la miseria, il caos, le bande armate che facevano il bello e cattivo tempo nelle grandi città come nelle provincie, un brutto ricordo ormai sbiadito.
Fruga un po’ tra i pensieri, lo sguardo velato dalle memorie di trent’anni fa, poi, quasi sorpreso dalla possibilità di dimenticarsi una cosa importante, aggiunge:
“I miei erano militari e avevano diritto a un vaso di caviale a testa, quello rosso, con le palline grandi. Non so quanto gliene davano ma mi pareva che a casa ci fosse solo quello da mangiare. Non ne potevo più e mia madre che insisteva, perché c’erano le proteine. Per anni non ho più toccato il caviale rosso.”
Forse è anche per le ristrettezze patite durante l’infanzia che Vasilij mangia quasi esclusivamente carne, se potesse si farebbe anche il dessert a base di manzo.
La trattoria che ha scelto è all’interno di un centro commerciale, moderno, luminoso e pulito.
Trasmettono musica funky in filodiffusione, al piano terra ci sono banchi con insaccati di qualità, frutta secca dalla Turchia e dall’Asia Centrale.
Diversi negozi hanno chiuso, quelli dei marchi che se ne sono andati, tipo H&M, Zara e Hugo Boss, le vetrine unte, le insegne impolverate.
Di contro sono comparsi brand russi con nomi italianeggianti, tipo Eleganza, Eterna Camicie, Marella, Gloria Jeans e le scarpe di Carlo Pazolini.
Per i corridoi cammina gente ben vestita, piumini leggeri, pellicce.
Tanti giovani, qualcuno in maniche corte.
Niente vecchi col montone, il colbacco o la pelliccia di Astrakhan.
Prima di andare a mangiare chiedo a Vasilij se mi cambia degli euro in rubli, in contanti. Ci fermiamo davanti a un bancomat per prelevare.
“Quanto prendo?”
“Non so, magari ne ho bisogno anche per il prossimo viaggio o per qualche emergenza. Ma poi non sono mai sicuro che ci sia una prossima volta.”
Vasilij fa una smorfia, come chi sta per perdere la pazienza: “Dici sempre la stessa cosa.”
“Vero ma ogni volta che ci vediamo la situazione peggiora.”
Vasilij ha scelto un posto fighetto, in stile loft, cemento, alluminio nero e legno scuro.
Alle pareti disegni di tizi con facce da mafiosi, stereotipi che vedi nei film. La cameriera che ci accoglie all’ingresso indossa un vestito lungo con uno spacco profondo sul davanti.
“Un paio di settimane fa ho visto Evgenij.” dice Vasilij.
“Chi, quello che curava il nostro assortimento?” Evgenij è un ragazzo in gamba, sulla trentina, che si occupava dei nostri prodotti.
Quando hanno annunciato la mobilitazione era in Turchia, in ferie, e ha deciso di non tornare più a Mosca. Adesso vive a Dubai.
Vasilij annuisce: “È venuto a Mosca a prendersi un po’ di roba. Ha detto che non ha intenzione di tornare in Russia.”
“Cosa fa a Dubai?”
“Lavora per un intermediario, un’azienda che importa in Russia componenti di aeroplani e carri armati, roba che è stata sanzionata.”
Mi viene da ridere.
“È scappato perché non voleva andare in guerra e adesso importa roba per fare la guerra.”
Giriamo tutti due lo sguardo verso la vetrata che dà sul Leningradskoe Šosse, asfalto e acciaio, centinaia di automobili, furgoni e camion.
“Quando vieni la prossima volta?”
“Non lo so, te lo dicevo prima. Bisogna vedere.”
“Di cosa hai paura?” mi incalza.
“Non so qua, ma da noi la menano con la controffensiva di Kiev. Chi lo sa cosa succede.”
Alza le spalle, come dire “cosa cambia?”
“Sono settimane che parlano di sistemi antimissilistici sui tetti, di attacchi coi droni su Mosca. Io non ho paura che mi cada un drone in testa ma è capace che chiudano lo spazio aereo, sospendono i voli e rimango bloccato qua.”
Inarca le sopracciglia, con l’aria di chi ha appena sentito una sciocchezza:
“Non credo. Comunque puoi sempre volare verso oriente.”
“Ho capito ma non è la stessa cosa.”
“Bah tanto non succederà.” chiude la questione.
“Senti ma voi come lo vedete qua Prigožin?”
“Quello della Wagner? Bene, è un tipo in gamba, capace.
Combatte, ottiene risultati.
Molti lo ammirano.
Dice le cose come stanno, un sacco di battaglie le ha vinte lui.”
L’elogio dell’uomo solo al comando, in un ristorante costoso, gli impiegati in pausa pranzo stravaccati sui divanetti, la forchetta in una mano e il telefono nell’altra.
“Ma tu, onestamente, come credi che finirà?”
Stira un po’ la faccia, forse per cancellare qualche pensiero che gli passava per la testa.
“Secondo me la Russia terrà tutti i nuovi territori. Non può lasciarli andare. Sono zone cuscinetto e poi la regione di Zaporožija è strategica per garantire l’acqua alla Crimea. Ci vorrà del tempo, guarda la Cecenia. Ci hanno messo trent’anni ma adesso la questione è risolta, tutto tranquillo.”
Per raggiungere l’uscita del mall attraversiamo una galleria con gli store dei marchi italiani, sono rimasti tutti: Trussardi, Guess, Calzedonia, Falconeri, Geox, Piquadro, Benetton.
Incrociamo una ragazza con un cappotto rosa, occhiali con le lenti rosa e cappello rosa con la scritta Anything Is Possible. Armeggia con un Iphone con la cover rosa.
Rientrati in ufficio, carico i campioni nell’auto di Rafael, il tassista di origine armena che mi porta in giro per Mosca.
Assieme a noi c’è una venditrice del nostro distributore, Elena, una biondina che sul profilo di Whatsapp mette sempre foto in posizioni allusive, quest’estate era la scollatura in evidenza, adesso un’inquadratura da dietro, i pantaloni aderenti sul sedere e lei appoggiata a una ringhiera che pare stia facendo squat da quando spinge le chiappe.
Poi la vedi di persona e ha il modo di fare di una catechista, la pelle del viso lucida e bucherellata, la silhouette meno armoniosa che sui social e ti verrebbe voglia di fare un esposto al Codacons, pubblicità ingannevole.
Ha una sorta di timore nei miei confronti, mi dà sempre del voi, io ricambio, cerco di metterla a suo agio, le faccio qualche domanda, giusto per non restare in silenzio. Piano piano prende coraggio, mi parla della guerra, anzi, della situacija.
“È difficile, le cose sono cambiate. Non possiamo neanche vedere Avatar 2.”
Il suo ex marito è originario di Luhansk, vive a Mosca da trenta anni ma la suocera è rimasta in Ucraina.
Dice che è stata buttata fuori dall’autobus perché chiacchierava in russo.
La cugina, di Odessa, non le parla più, si erano viste nel dicembre del 2021, avevano passato una settimana insieme, erano state bene.
Adesso non ne vuole più sapere.
“È uno schifo quando sei definito in base al tuo passaporto.” dico, penso alla moglie di mio fratello, una ragazza iraniana, a tutte le rogne che ha avuto per ottenere il visto e poi per aprire un conto corrente in Inghilterra, solo per il paese in cui è nata.
“Guarda la Germania nazista, come hanno iniziato, con gli ebrei. Sembra che adesso stiano facendo lo stesso con i russi.” commenta sopraffatta dal suo stesso stupore.
Evito di risponderle.
L’orizzonte è diviso in due, la metà inferiore chiara, brillante, il cielo color perla.
Usciti da Mosca la neve è ammassata ai bordi delle strade.
Siamo a Lobnja, una trentina di chilometri dalla capitale, i grattacieli colorati, tinte vivaci, arancio, indaco, lime.
Poi ci passi vicino e sono mezzi scrostati, una mano di pittura tanto per ravvivare il panorama, il marciapiedi una distesa di ghiaccio luccicante, un trampolino tra la strada bagnata e le aiuole imbiancate di neve. Gianna Nannini canta dei maschi disegnati sul metrò.
L’azienda che dobbiamo visitare è all’interno di un recinto tutto sgangherato, il cancello arrugginito che l’ultima volta che l’hanno chiuso era ancora presidente Gorbacёv.
Uffici e produzione sono in un capannone di mattoni rossi, roba di sessanta, settant’anni fa.
Quando Elena mi aveva detto il nome del cliente non avevo ben capito che azienda fosse, adesso invece ho riconosciuto la sala riunioni, ci sono già stato qua, prima della pandemia.
A ottobre, in fiera, ho litigato con il tecnico con cui abbiamo appuntamento.
Aleskandr girava per lo stand e metteva le mani dappertutto, come fosse il padrone di casa, pensava di poterselo permettere perché compra un po’ di reggiripiani e invece s’è beccato un cazziatone quando l’ho beccato che tirava un meccanismo a filo, per l’apertura delle ante verso il basso.
“Cosa sta facendo?” l’avevo interrogato a muso duro.
“Faccio i miei test.” aveva risposto tranquillo.
“Ma scusi, se voglio testare la vernice delle vostre cucine non vengo mica in negozio con un coltello?”
La cosa sarebbe finita lì se Aleksandr non si fosse messo a fare il gradasso, erano pieni di ordini, in Russia le cose andavano molto meglio di quanto dicessero da noi.
“E cosa dicono da noi? Visto che qua è pericoloso? Visto che sono tutti russofobi?”
Era stato zitto, aveva toccato ancora un po’ ma in maniera più accorta, con fare sdegnoso, un po’ offeso, poi se ne era andato.
E adesso me lo ritrovo davanti, dall’altro lato della scrivania, a dire il vero è tranquillo, parliamo come niente fosse, gli presento le novità.
Discutiamo per un’ora abbondante, senza tanta convinzione, io evito di spingere troppo, lui non si sbilancia.
Adesso vede, si farà mandare qualche campione da Elena, poi se ha tempo li testa.
Mi chiede se voglio ancora del tè ma è un po’ che sono distratto da un prurito all’occhio sinistro, una sensazione un po’ fastidiosa, come se avessi una ciglia incastrata che gratta quando sbatto le palpebre.
Rifiuto il tè e chiedo di usare il bagno.
Attraversiamo tutto il capannone, perché non ci sono toilette vicino alla sala riunioni e se a uno scappa forte peggio per lui.
Mi guardo allo specchio, ho un segno rosso sulla sclera, un taglietto.
Provo a toccarlo con la carta igienica ma niente, non è una cosa superficiale.
A questo punto vorrei davvero andarmene via ma Aleksandr insiste per mostrarci la produzione, si capisce che ci tiene e non si può rifiutare per quel meccanismo del tipo “Io vengo sempre a vedere il tuo stand alle fiere, adesso tocca a te.”
Non c’è niente di particolare, la struttura vecchia come il cucco, qualche macchinario italiano o tedesco e cumuli di trucioli ovunque.
Non hanno neanche un aspiratore.
Il tipo parla a mezza voce, non si sente niente per i rumori delle bordatrici in sottofondo e i miei pensieri in superficie.
“Che cazzo è ‘sta cosa dell’occhio? Mai successo prima. Mi sono sfregato?”
Alla fine Aleksandr ci molla, appena saliamo in macchina chiedo a Elena se avevo gli occhi rossi prima dell’incontro ma dice di no, non aveva notato niente.
“Rafael, può fermarsi in una farmacia che compro un collirio?”
Rafael fa cenno di sì col capo, nessun problema.
La biondina ha l’aria preoccupata e mi chiede se ho mal di testa.
“No” rispondo dopo averci pensato un po’, “giusto un po’ di stanchezza.”
“Senta, vicino al suo albergo c’è una clinica privata. Che ne dice se provo a prenotarle una visita oculistica?”
“Ok.”
Elena fa un paio di telefonate e dopo neanche cinque minuti mi conferma che mi ha fissato un appuntamento tra un’ora, il tempo di rientrare a Mosca.
Provo a riposarmi un attimo ma la biondina attacca di nuovo, con la voce lamentosa.
“Scusi se glielo chiedo ancora… ma è sicuro di non avere mal di testa?”
“Mhh, no. Perché?”
“Perché potrebbe avere la pressione alta.”
Cazzo, anche la pressione alta adesso.
La clinica è in un complesso recente, all’ingresso, intenta a sistemarsi dei sacchettini blu sopra le scarpe, c’è una ragazza con le labbra gonfie e gli zigomi sporgenti, mi guarda con insistenza, forse abbozza un sorriso da sotto la maschera di botox o chissà quali preparati.
Credo sia una trans.
È raro vedere dei trans in Russia, qualche effeminato, qualche ragazza coi tratti e i modi mascolini li trovi in giro, anche nelle aziende, ma in tanti anni questa è la seconda persona trans che mi capita di incrociare, già non è una fase semplice quella del cambiamento, del passaggio da un sesso all’altro e qua, in un paese che a larga maggioranza crede che l’omosessualità sia una devianza o una malattia, la vita per queste persone dev’essere ancora più difficoltosa.
La ragazza si sistema le protezioni sopra le sneaker Balenciaga, roba da mille euro al paio, Elena e Rafael evitano di guardarla, quasi non fosse di fronte a noi.
La zona accettazione è luminosa e ordinata, i mobili in noce chiaro e panna dovrebbero trasmettere serenità e invece inizia a salirmi la paranoia. Al banco mi chiedono i documenti, l’impiegata è gentile e meticolosa, sorride, dopo qualche minuto mi dice di salire al terzo piano. Elena e Rafael mi seguono preoccupati. Li invito ad andare a casa, prenderò un taxi, è inutile che stiano qua con me, è tardi, che vadano pure.
Niente, non ne vogliono sapere: “Non se ne parla.” protesta Elena, non pare neanche lei dal tono perentorio.
“Noi restiamo qua finché lei non esce.”
Al terzo piano mi fanno accomodare in un ambulatorio spazioso, alla scrivania c’è una ragazza bionda che indossa casacca e pantaloni neri, si alza e mi viene incontro, è più alta di me.
Le racconto quello che è successo, osserva l’occhio e mi fa sedere davanti a un macchinario.
Misura tutto quello che c’è da misurare.
“Per quello che vedo io, è tutto a posto. Può essere che sia un graffio.”
Non faccio in tempo a tirare un sospiro di sollievo che aggiunge:
“Adesso misuriamo la pressione.”
Mi fa distendere il braccio su di un piano, avvolge la fascia di pelle sopra il gomito con un manicotto che poi gonfia con la pompetta.
Seduta dall’altra parte del tavolo, tira la mia mano verso di sé e l’appoggia contro il seno, la trattiene lì qualche istante.
Sorpreso, alzo lo sguardo e vedo che ha gli occhi fissi sulla lancetta che oscilla.
“È alta.” sentenzia con una certa gravità.
Si ammosciano le speranze di un flirt in clinica e inizia a salirmi l’ansia.
“E adesso?”
“Adesso le faccio fare degli esami al cuore.”
Passo le due ore successive tra ambulatori, laboratori e sale di attesa.
Elena e Rafael seduti su un divanetto in silenzio, gli occhi bassi e l’espressione mesta, sono preoccupati per me e questa cosa mi fa sentire in difetto.
Dovrebbero essere a casa a preparare la cena, rilassarsi con un po’ di musica o una serie tv e invece sono qua con me.
Rafael abita fuori città, una volta finite le analisi e le visite mi deve riaccompagnare in albergo, poi un’altra ora di strada per tornare da sua moglie.
Elena non so dove stia di preciso, so solo che ha una figlia che l’aspetta, mi assicura che è tutto a posto e mi mette ancor di più in imbarazzo
. Soltanto un paio di ore fa ero impegnato a registrare le sue preoccupazioni.
Ti sentivi superiore mentre annotavi sul telefonino, per via di quel tuo sguardo illuminato, l’imparzialità di chi non ha niente da perdere, basta poco per fare bella figura con questi poveri cristi.
E se ti volti e te li trovi accanto, è perché ci tengono, senza tanti calcoli, non stanno lì a pensare se questa gentilezza aumenta il loro fatturato.
Certo, non è colpa di nessuno, sono cose che succedono ma se ripenso alle ultime settimane è chiaro che ho tirato troppo la corda.
È iniziato tutto con Bristol, dopo le vacanze di Natale.
Mi avevano invitato a mettere i dischi.
Volo, albergo pagato e un buon cachet.
Non era per i soldi che avevo accettato ma per l’opportunità di suonare davanti a più di trecento persone, tre sere di fila.
Ragazzi e ragazze, tutti sotto i trent’anni, una botta di energia e quella sensazione di onnipotenza che si prova ogni volta che riesci a far muovere una stanza piena di gente secondo il flusso dei tuoi dischi.
Soul, funk, jazz, r&b.
L’ordine lo stabilisci tu, un po’ ti prepari e un po’ segui il dancefloor, l’insieme, la moltitudine che diviene una sola entità, pulsante e piena di vita mentre segue la corrente dei tuoi sette pollici, il ritmo che corre e poi rallenta, qualche canzone strana che il pubblico raccoglie con entusiasmo e poi uno o due classici che fanno esplodere la pista.
E tutti che ti guardano e ti sorridono, sei il cuore della festa, per un paio di ore ti trattano come un divo e ti senti nel tuo elemento.
Non era per i soldi ma per quell’esplosione di vitalità che ero andato e l’avevo pagata tutta la settimana dopo, a casa come al lavoro.
La spossatezza, le distrazioni, i pensieri a ritroso, i flash delle serate, le mosse di un gruppetto di ragazze sul riff di chitarra che lanciava il break di percussioni, e anche se per un paio di giorni avevo faticato a gestire la vita lavorativa e familiare, anche se avrei avuto bisogno di una settimana di riposo per riprendermi del tutto, continuavo a ripetermi che ne era valsa la pena.
Neanche il tempo di tirarmi in qua che poi ero andato in Armenia, a Yerevan, questa volta senza la borsa dei dischi ma con il campionario.
Il volo notturno, l’ennesimo taxi, la periferia con le case mezze diroccate e gli edifici più curati man mano che ci si avvicinava al centro, le facciate di tufo, color malva.
Sullo sfondo, imponente, il monte Ararat che copre la parte superiore del paesaggio con i sui cinquemila e rotti metri di altezza, la cima innevata.
Le insegne dei negozi in russo e armeno, quasi illeggibile come lingua. La loro e simile alla nostra t, la a uguale alla u mentre la l pressoché invariata. L’incontro con il distributore, le analisi di mercato, i progetti per l’anno a venire.
“Che progetti vuoi fare con una guerra in corso?”
Aveva quasi perso la pazienza Garry a quella domanda di routine.
Ah sì la guerra, un altro conflitto.
Roba mia, no roba mia.
martedì, ottobre 24, 2023
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