martedì, ottobre 17, 2023

Russia. Febbraio 2023 #4

L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.


Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui: https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss

PARTE #4

Le nuvole sembrano di cenere e tutto il resto oscilla tra il grigio dell’asfalto e il bianco dei campi ricoperti di neve, giusto un velo, immacolato e luccicante.
Anche qua a Mosca l’inverno è mite, la temperatura attorno allo zero mentre di solito, in questo periodo, è meno venti.
Chiamata Whatsapp. Oleksandr Kiev.

Lascio squillare per qualche istante, mi sento un po’ a disagio a rispondere, proprio qua in Russia, accanto a Nikolaj, quasi quasi glielo passo.
Tra gli ucraini che conosco, Oleksandr è uno dei più invasati, ha un odio per i russi così profondo e razionale che fa impressione per la tranquillità con cui lo dichiara, per la pedanteria di tutti i dettagli che utilizza per descrivere il suo sentimento e fa tanto più paura per il fatto che non si incazza mai, non alza la voce, argomenta sempre con il tono calmo e con la stessa convinzione di un prete che legge il vangelo.
Oltretutto è inutile cercare di ragionare, guarda che non tutti i russi sono uguali, un conto è il governo e un altro il popolo, cosa puoi dire a uno che sta passando l’inverno al freddo e al buio, a uno che a dicembre chiedeva ai fornitori dei contributi per comprare lampade elettriche, calzettoni e bombole per il riscaldamento.
“Mi sembra di elemosinare, sono stanco di vivere così ma è l’unico modo che abbiamo per andare avanti, per permettere ai nostri figli di fare i compiti, ai miei colleghi di lavorare da casa senza che gli si congelino le mani.”

Ne avevo parlato con Michele, il mio titolare e gli avevamo fatto un bonifico sostanzioso, una parte ce l’avevo messa di tasca mia. Era un bel gesto, i soldi andavano direttamente a chi ne aveva bisogno, persone che conosco, senza intermediari.
E poi avevo fatto bella figura, mi ero lavato un po’ la coscienza, con una parte dei proventi delle mie vendite in Russia, chissà se ci aveva pensato Oleksandr quando aveva ricevuto il versamento.
Io sì, ci avevo riflettuto e non serviva cercare un senso in questa faccenda, l’importante era che qualche famiglia riuscisse a passare dei momenti di serenità. E poi, vai a sapere, quando un giorno la guerra sarebbe finita, forse se ne sarebbero ricordati.

E anche se la guerra continua, bombardamenti ogni giorno, obiettivi e infrastrutture militari, dicono i russi, genocidio, rispondono gli ucraini, nonostante questa pioggia micidiale di acciaio e polvere da sparo, l’azienda di Oleksandr continua a mandare ordini, pagano in anticipo, caricano la ferramenta per poi venderla a dei falegnami o la utilizzano per assemblare i semi-lavorati, che c’hanno una quindicina di stabilimenti sparsi per tutta l’Ucraina. Capannoni nuovi zecca, macchinari tedeschi e italiani, milioni di euro di investimenti, la fabbrica di antine a Kiev con i pavimenti in materiale antistatico, per evitare che la polvere si mescoli alle resine quando verniciano le porte, in quasi venti anni di ex-Urss era la prima volta che vedevo una cosa del genere. Era il dicembre del 2021, avevamo appena iniziato a lavorare assieme e c’erano un sacco di progetti in ballo per l’anno a venire, con la fine della pandemia e la possibilità di tornare a viaggiare.
Nel 2022 avremmo fatto il botto. Si dice così e così è stato, solo che non era quello che si credeva, quel botto lì non se lo aspettava nessuno.

“Oleksandr, come va? Posso richiamarti più tardi? Meglio se ci sentiamo nel fine settimana.”
“Sei in Russia?”
Che cazzo.
Mi chiede informazioni tecniche per la foratura della cerniera, le viti sono troppo vicine al bordo del pannello, c’è il rischio che si strappi il truciolare, se sollecitato.
“Mandami una mail, magari con due foto delle forature e della cerniera montata, così le giro ai miei tecnici e ti dico.”
“Ok.”
Parliamo in inglese, qualche mese fa ha smesso di scrivermi in russo, all’inizio pensavo fosse un riflesso, per come è abituato con gli altri fornitori, invece me lo ha detto chiaro e tondo a ottobre, quando ci siamo visti in Italia a una fiera:
“Non voglio più parlare in russo. La mia lingua è l’ucraino. Per anni ho creduto che il russo fosse una ricchezza, lo sai come la penso su Putin e i suoi servi ma ero convinto che conoscere più lingue fosse un bene, per la testa, per il lavoro.
Però adesso che è successo tutto questo, visto che il motivo dell’invasione, delle bombe e dei massacri è la difesa dei russi e della lingua russa, beh se è questa la ragione, allora non voglio averci niente a che fare. Mia moglie non sapeva l’ucraino, adesso lo sta imparando, anche lei vuole smettere di parlare russo.”


Quello sfogo, anche se comprensibile e giustificato, mi aveva fatto malissimo.
C’è una parte della mia personalità che è definita dalla lingua russa, ci sono parole, modi di dire, pensieri e battute che mi escono dalla corteccia cerebrale direttamente in russo. Sarà un lascito dell’esame di filologia comparata ma è un fatto assodato che certe immagini, certi sentimenti e certe espressioni sono illustrati in maniera più calzante se formulate in una lingua piuttosto che in un’altra, le traduzioni non sono sempre sovrapponibili.
Quando sei solito usare due o più lingue oltre alla tua e ti trovi a maneggiare un testo a caso come la descrizione di un quadro o i sottotitoli di un film coreano, nel momento in cui scegli di affrontarlo, chessò, in francese o in tedesco, è come se ti mettessi un paio di guanti comodi, stretti ma non troppo, che ti lasciano una certa sensibilità per tastare meglio la parola, sia nella forma che nel contenuto, quasi fosse una crocchetta incandescente, appena uscita dalla friggitrice e tu lì che la strizzi, delicatamente, per vedere se l’impanatura è croccante e la carne tenera. Quando mi infilo il russo, quando riesco a maneggiare vocaboli, frasi e ragionamenti nel modo giusto, quel tipo di aderenza, di ergonomia linguistica ti dà una soddisfazione che ti porta a un livello più alto nell’espressione e nel rapporto con la gente, il fatto di scavalcare la barriera linguistica ti mette direttamente a contatto con il modo di ragionare e di sentire degli altri, senza filtri.

Mentre ascoltavo Oleksandr, pensavo che per tanti anni avevo girato l’Ucraina in lungo e in largo, avevo visto dei posti incredibili e conosciuto persone speciali grazie a una lingua che non era nemmeno quella ufficiale, era una cosa che avevo dato per scontata e che pensavo sarebbe durata per sempre.
Adesso una parte di me si sentiva morire.
Certo non era niente rispetto alla tragedia che vivevano milioni di persone ma quel racconto mi metteva di fronte alla realtà, quando tutto questo sarebbe finito, quando avrei preso di nuovo un aereo per Kiev, probabilmente una volta atterrato avrei dovuto parlare in inglese con l’ufficiale di frontiera, non avrei più potuto chiedergli in russo di mettere il timbro sul passaporto nell’angolo in alto, a destra, nella prima pagina libera e non un po’ a cazzo come fanno di solito.
E l’idea che il prossimo seminario a Odessa o Dnipro non avrei potuto tenerlo in russo mi provocava un disagio estraniante, come se mi avessero obbligato a tingermi i capelli di viola o a presentarmi sul palco in ciabatte e tuta da ginnastica. Avrei ritrovato clienti e amici ma saremmo rimasti separati da quel prima e quel dopo, da una lingua che avevamo sempre usato per essere più vicini e che adesso era un muro con sopra il filo spinato.

Ad ogni modo, nonostante le mie fisime, ero contento di vedere Oleksandr, aveva ricevuto un permesso dal governo per uscire dal paese e venire in Italia per lavoro.
Per la prima volta dopo sei mesi si trovava lontano dalla guerra.
“La cosa più incredibile è il rumore degli aerei. Senti la turbina in distanza e l’istinto è quello di scappare e nascondersi. Poi alzi lo sguardo e li vedi passare e non succede niente.”

Non era l’unico ucraino che girava per il nostro padiglione in quei giorni di ottobre.
C’era anche Kirill, il cliente di Char’kiv. L’ultima volta che ci eravamo scritti era appena iniziata la guerra, avevamo litigato, uno scambio sgradevole.
Kirill si era affacciato allo stand, mentre ero impegnato con Ravšan, il cliente uzbeko, e per fortuna che non era un russo.
Avevo interrotto la presentazione ed ero andato incontro a Kirill, che mi guardava con gli occhi spalancati e l’espressione di chi non sa se aspettarsi un saluto o una scarica di insolenze.
Ci eravamo abbracciati, mi stava simpatico Kirill, anche se era un ragazzone viziato e l’ultima volta era andata un po’ così, cose che succedono.
“Hey! Guarda un po’… da dove arrivi?”
“Mi sono trasferito a Bratislava.”


Era stato in Germania, poi qualche settimana in Inghilterra ma alla fine aveva preferito avvicinarsi all’Ucraina.
Non era facile gestire l’azienda, con tutto quello che comportava, affitti, pagamenti, stipendi e chissà come ti vedono quelli che lavorano per te, quelli che sono rimasti al freddo, senza luce, il suono delle sirene e i boati delle esplosioni, mentre tu te ne sei andato via, perché te lo potevi permettere.
Chissà che pena stare lontano dal tuo paese, in un appartamento in affitto grande quanto il salone di casa tua a Char’kiv, la parete più stretta occupata da un impianto stereo da favola, solo le casse Burmeister costavano cinquantamila euro, pareva di averci un’orchestra in soggiorno, chissà dov’è finita adesso tutto quella roba. E poi i bambini, non parlano ucraino, solo russo, e adesso vanno in una scuola a Bratislava con i figli di altri profughi, e sai come sono stronzi a quell’età, li fanno sentire delle merde, perché parlano la lingua del nemico.
“Scusa per quello che ti ho scritto.”
Sembrava sincero, più imbarazzato di me.

Oltre a Kirill era passata anche Tanja, una signora di Odessa, con una gran testa di capelli, deve essere stata proprio bella da giovane, occhi grandi e viso affilato, quasi sessant’anni e lo sguardo meravigliato di una ragazzina.
Assieme a lei una tipa che non conoscevo, forse sua coetanea, il volto grigio e slavato, così come la pelle, gli occhi, l’espressione.
Non l’avevo mai vista e subito aveva preso a raccontarmi della sua città, Nikolaev, che i russi l’avevano quasi distrutta ma lei non voleva andarsene. Parlava con questa energia, questa luce da posseduta: “La speranza nella vittoria è l’unica cosa che ci fa andare avanti.”

Vasja, il mio referente a Mosca, era anche lui in giro per i corridoi della fiera in quei giorni.
“Ma cosa si aspettano gli ucraini? Non possono vincere questa guerra.” “Mi sembra che l’esercito russo abbia i suoi problemi.”
Era il periodo della controffensiva di Kiev, Putin aveva dichiarato la mobilitazione da qualche settimana, le truppe di Mosca non se la passavano bene.
“L’esercito russo ha le sue difficoltà, ma se gli ucraini si ritrovano senza infrastrutture e centrali elettriche cosa gli rimane poi?”

Questi i discorsi che facevamo con Vasja al buffet, mentre pregavo di non incontrare qualche cliente di Kiev o Dnipro fin tanto che ero con lui. Nel frattempo era passata una bionda, sembrava Larisa, la nipote di Konstantin, il titolare di Vasja.
“Ma quella lì non è Larisa?” avevo chiesto a Vasja.
“Chi? La nipote di Konstantin?” e si era quasi nascosto, grande e grosso com’era, dietro ai due gerani che sbucavano dal vasetto in mezzo alla tavola, pareva l’orso Yogi.
“Vai a salutarla, no?”
“No, no. Lascia stare. Ha fatto una scenata a Konstantin, dopo che è iniziata la guerra, non so cosa si siano detti ma non si parlano più.”
“Konstantin? Ma se è ucraino di Leopoli?”

“Sì ma sai com’è, vive in Russia, gestisce un’impresa russa e i soldi che guadagna vanno al governo e con quei soldi il governo fa la guerra…”

Da qualche anno Larisa lavorava per un’azienda di Pesaro grazie a suo zio, che aveva rotto le balle a tutti i fornitori perché l’assumessero, e quanto era brava, sapeva tutte le lingue, aveva vissuto in America, un affarone, davvero, finché una ditta di maniglie l’aveva presa.
Per puro caso, nel corso di quattro giorni, russi e ucraini non si erano mai incrociati nello stand, andava via uno e ne arrivava un altro quasi si fossero messi d’accordo per darsi il cambio.

Una sera a cena coi russi e gli uzbeki, il giorno dopo con Oleksandr, un po’ per ospitalità e un po’ perché volevo parlare del Donbass, mi interessava sentire quello che pensava riguardo alle origini di questa tragedia, che ormai si trascinava da più di otto anni e non sarebbe finita presto.

Invece avevamo parlato anche di altre cose, meno dolorose e, complici il cielo stellato e l’aria calda di una sera di metà ottobre, mi aveva raccontato di quando aveva accettato la nuova realtà, il paese era in guerra ma bisognava pur vivere e allo shock si era sostituita la voglia di reagire e andare avanti.

“La vera sorpresa è stata che gli uomini, quelli che lavorano per me, erano incapaci di fare qualsiasi cosa, impauriti, sotto shock. Le donne, al contrario, si sono messe sotto, senza tante storie, con tutti i problemi e le preoccupazioni, senza tanti scleri.”

Le difficoltà della convivenza con i parenti di Leopoli che lo avevano ospitato per un periodo, otto in un appartamento, uno sopra l’altro. Difficile dormire, quasi impossibile lavorare, era meglio starsene a Kiev, con tutti i rischi del caso.
Parlavamo sempre in inglese, io disinvolto, lui più legato, qualche incertezza ma si esprimeva bene, con la sua pignoleria, sempre alla ricerca della parolina giusta che gli richiedeva un tempo esagerato e un po’ mi dava sui nervi ma quando mi aveva raccontato che proveniva da una famiglia semplice, che da ragazzino abitava in campagna e aveva iniziato a studiare l’inglese da solo che aveva tredici anni, avevo subito pensato ai privilegi di cui avevo goduto da bambino.
Lezioni private a otto anni e il primo viaggio in Inghilterra che ne avevo dodici, all’epoca solo il volo costava uno sproposito, e poi l’America da studente universitario e grazie al cazzo che parli l’inglese meglio di Oleksandr che ha avuto un’infanzia da Oliver Twist.
La prima volta che era stato all’estero era già fidanzato con quella che sarebbe diventata sua moglie, avevano scelto Israele.

“Israele? Sei ebreo?”
“No, né io né mia moglie, volevamo andare al caldo, vedere un posto nuovo e i prezzi dei biglietti erano bassi.”

Avevano preso un’auto a noleggio e un giorno aveva parcheggiato per sbaglio davanti a un cancello, non proprio davanti, il muso copriva appena appena il passaggio e all’improvviso era arrivato un vecchio che aveva preso a urlargli cose strane, nella sua lingua incomprensibile, con una violenza che lo aveva spaventato e per quanto cercasse in tutti i modi di tranquillizzarlo, di scusarsi, di spiegargli che avrebbe spostato la macchina immediatamente, quel vecchio continuava a vomitargli addosso la sua rabbia e non si era limitato a quello, aveva aperto la portiera e aveva preso a tirare fuori le cose che aveva trovato sui sedili posteriori, vestiti, zaini, roba da mangiare, e si era messo a lanciarle per strada.
Poi erano arrivate tre donne, anziane anche quelle, e lui, Oleksandr, pensava che avrebbero tranquillizzato il vecchio e invece si erano messe a urlare, cattive, con una voce inquietante e Oleksandr aveva assistito alla scena impotente, non si era azzardato a fermare il vegliardo, per paura che chiamasse la polizia. In Israele con gli sbirri non c’è tanto da scherzare. Avevamo riso, di gusto, mentre ripercorreva quella situazione irreale, io volevo fargli l’intervista, prendermi nota delle sue sfighe per le mie velleità di reporter e mi ero trovato in questa storia da fratelli Cohen, il sole, le palme, il vecchio con il suo parlato nasale, aspro, le aspirate fredde, aggressive, il frinire delle cicale e le bouganville sul muro del cancello.

Sono ancora in auto con Nikolaj che arriva la mail di Oleksandr, in allegato le immagini della cerniera, le parti critiche evidenziate in rosso, con la descrizione in inglese e una serie di considerazioni, alcune corrette, altre un po’ campate in aria.
Poco dopo ricevo un messaggio Whatsapp, sempre da Oleksandr che non parla di lavoro.
“Questa mattina i russi han lanciato quaranta missili su Kiev. I nostri sistemi di difesa li hanno intercettati quasi tutti ma è difficile. Siamo stanchi, vogliamo che la guerra finisca ma dobbiamo vincere.”

Eccolo lì. Non so se sia in cerca di comprensione, se sia uno sfogo, un modo di farmi sentire in colpa, tutte e tre le cose o qualcos’altro.
“Problemi?” mi interroga Nikolaj, seduto accanto a me, incuriosito dai miei sospiri.
“No, no. Niente di che.”
Poi inizio a digitare sul tastierino: “Spero che tu e i tuoi cari, i tuoi colleghi, stiate tutti bene. Vi penso sempre.”
Doppia spunta blu, sta scrivendo qualcosa.
Plin.
“Grazie. Spero che l’Europa continui ad aiutarci, per noi è importante e bisogna che tutti sappiano cosa sta facendo la Russia al popolo ucraino.” Eh bravo, ti aiuterei volentieri ma oggi non riesco.

Dopo il secondo incontro della giornata mi faccio mollare da Nikolaj in centro e vado al Manež, un casermone con la facciata in stile impero a pochi passi dalla Piazza Rossa.
Costruito nel 1817 per celebrare l’anniversario della vittoria russa su Napoleone, l’edificio venne utilizzato per ospitare gare di cavalli e scuole di addestramento, poi dal 1831 divenne sede di rassegne d’arte. In questi giorni hanno inaugurato una mostra sulle Case della Cultura nell’Urss, Dom Kul’tury in russo.
Sin dagli anni venti del novecento, in tutto il paese iniziarono a comparire centri di aggregazione concepiti per la diffusione delle nuove forme di arte e di conoscenza.
Oltre a essere luoghi di ritrovo per i lavoratori comunisti, i Dom Kul’tury rivestivano il ruolo di vere e proprie istituzioni, fortemente volute da Lenin, per forgiare la mentalità e lo sguardo sul mondo del cittadino sovietico.
Lo spazio e gli allestimenti creano un effetto di grandiosità, all’ingresso c’è una parete bianca che misura almeno trenta metri per dieci, la sigla retroilluminata DK CCCP sulla destra e quattro colonne imponenti sulla sinistra.

L’esposizione è suddivisa a seconda delle forme d’arte.
Si incomincia con l’architettura.
Per sopperire alla mancanza di abitazioni e nell’impossibilità di costruire nuovi edifici, i primi dom kul’tury furono istituiti all’interno di palazzi requisiti ai nobili e chissà che faccia avevano fatto gli avanguardisti sovietici quando le loro opere rivoluzionarie vennero esposte nelle sale affrescate e decorate in stile neoclassico.
Si prosegue con scultura e fotografia, ci sono un sacco di belle immagini di soldati, contadini, sportivi, operai, tutti sorridenti, fiduciosi e sicuri di sé. C’è un ritratto in bianco e nero del compositore Šostakovič, il volto concentrato mentre osserva uno spartito che tiene in mano. Non era uno che serbava rancore Šostakovič, seduto accanto a un pianoforte tedesco, lui che aveva iniziato la composizione della Settima Sinfonia a Leningrado nel 1941, sotto i bombardamenti nazisti.

In buona parte delle stampe non sono indicati i luoghi nelle didascalie, in alcuni casi si possono intuire, per il resto non so se sia sciatteria o se vogliano trasmettere l’idea che l’Urss fosse un po’ l’Ubiquistan, un posto vale un altro, il socialismo topografico.

C’è poca gente in giro, è una giornata lavorativa ed è quasi ora di cena ma c’è ancora spazio per qualche caso clinico, nella sala dedicata alla pittura c’è una tela che ritrae una coppia seduta sull’erba, un uomo in canottiera osserva una ragazza coi capelli raccolti, lei pare non accorgersene. Accanto al quadro c’è un vecchietto basso e pelato che spara delle risate tintinnanti, un po’ inquietanti, e ripete divertito: “To be or not to be?” Nella stessa sala, a pochi metri di distanza, un’anziana coi capelli grigi e gli occhiali con la montatura spessa parla da sola, sottovoce, in maniera concitata davanti a un quadro di Malevič, due contadini senza volto. Alza e abbassa le mani, seguendo il ritmo delle parole che bisbiglia, sembra una preghiera o un incantesimo.

La sezione dedicata alla musica è interessante ma non trovo niente che mi piaccia. C’è un video clip di un gruppo degli anni ’70 che suona electro tango, tutti assorti, seri, coi baffoni. Sempre con quel gusto per il kitsch e quell’amore dei russi per certe melodie malinconiche, gli acuti nel cantato femminile e il vibrato nel basso maschile. Del resto i vari Pupo, Toto Cutugno, Albano, Matia Bazar e Ricchi e Poveri si sono assicurati una discreta pensione con i concerti da queste parti.

Su uno schermo viene proiettato un video fragment, un insieme di lineette e puntini bianchi e neri che si inseguono, in sottofondo una musica che sembra quella dei video games anni ’80. Nella didascalia c’è scritto “Anno di composizione 1934”.

C’è un gruppetto di cinesi, qua a Mosca non ne vedevo dal gennaio del 2020, questi sono giovani, vestiti come cosplay, personaggi di fumetti manga. Le ragazze portano il baschetto inclinato, il bolerino in velluto, la gonna corta e gli stivali che arrivano sotto al ginocchio. Passano tutto il tempo a fotografarsi accanto ai quadri, ai poster, alle sculture, si sparano le pose, i due ragazzi che le accompagnano si trascinano assonnati da una stanza all’altra, in cerca di un posto dove sedersi per guardare il cellulare e godersi la prima vacanza dopo tre anni di lock-down. Esco dal Manež che è sera ed è tutto illuminato.

Il Cremlino, bellissimo, sembra un castello di Lego, la cattedrale di San Basilio un dolce di marzapane, alcune cupole ricordano una cassata, tempestata di canditi, altre assomigliano a certi gelati bi-gusto, con le creme, di colori diversi, attorcigliate fino alla punta.

Sarà per via dell’aria tersa e delle luci ma è tutto nitido, acceso, quasi fosse stato ritoccato con un filtro. Davanti a me c’è il muro di cinta, alla mia destra una delle torri, detta Troickaja, in cima la stella rossa che pare incandescente, alla sinistra l’hotel Four Seasons, settecento euro a notte. L’albergo di Bill Gates si affaccia su quella che al tempo di Ivan il Terribile era una prigione, adesso entrambi gli edifici accolgono turisti con la grana.

Mosca è una meraviglia, le luminarie delle feste di fine anno sono ancora accese e c’è un’atmosfera da favola, si vede che il sindaco ha messo mano al portafoglio, per far dimenticare quello che succede a poche centinaia di chilometri da qua.
In realtà non so un cazzo, era bella anche prima, solo che non ci venivo mai, se non di passaggio, se per caso avevo un appuntamento in centro.
Altrimenti me ne stavo in albergo e pensa quante cose, quante opportunità mancate in questi anni, sempre a frequentare gli stessi posti deprimenti, a mezz’ora di strada da qua, capannoni fatiscenti di epoca sovietica, i pavimenti devastati, sporco e puzza di piscio ovunque.
Un’altra galassia.

Faccio due foto mentre aspetto il taxi, che ci impiega qualche minuto di troppo. Salgo in auto con il pollice, la lingua e la mascella induriti dal gelo.
L’autista ha il cranio lucido e i tratti asiatici, l’aria sveglia, ha voglia di chiacchierare, io faccio fatica ad articolare le parole, come quando esci dal dentista.
Dice che è della Repubblica di Calmucchia, Kalmykija in russo. Una regione a sud, con un lembo di terra che si affaccia sul mar Caspio. Ventitre anni che vengo qua e non ne ho mai sentito parlare, mai nominata, zero. Mergen, l’autista, è di origine calmucca, mi spiega che è il principale gruppo etnico della sua regione, deriva dai mongoli.
In Calmucchia sono quasi tutti buddisti.
“Ah quindi sei buddista?”
“Io no, sono ortodosso.” risponde risentito.
Ha lavorato per diversi anni nell’esercito, adesso è in pensione e arrotonda con il taxi.
“Ti è andata bene che non sei più nell’esercito.”

“Al fronte ci sono tanti buriati, anche loro vengono dalla Mongolia.”
“Ma è vero che li hanno mandati apposta? Perché sono buriati?”
“No, sono volontari. Ma sono volontari perché non trovano lavoro. In Russia tutto il sud è senza lavoro.”
“Non solo in Russia.”


Scendo dall’auto dopo venti minuti che ho il pollice ancora intorpidito.
In camera accendo la tv. A casa non funziona neanche, sono tre anni che non vedo un tg o un talk-show, giusto qualche partita della nazionale in streaming. Qua invece guardo sempre programmi, notiziari o dibattiti politici, mi tengono compagnia e poi ascolto la lingua, quella dei giornalisti, degli speaker, è pulita, articolata, usano termini comuni.

Ho iniziato più di venti anni fa a guardare i telegiornali russi, ci capivo poco ma c’era una moretta bella ed elegante, Ekaterina Andreeva, che leggeva le notizie della sera e aveva una pronuncia comprensibile.
Facevo fatica a seguire i film locali perché l’audio era scadente, come il mio russo. Era il 2000, dopo un decennio di far west economico e sociale la Russia era in pieno orgasmo capitalista e in tv c’erano solo reclame di roba da pochi soldi che tutti, più o meno, si potevano permettere: birre, gomme da masticare Orbit, rasoi e schiuma da barba Gillette, il modello con il mento liscio circondato da bonazze con i capelli lucidi e voluminosi grazie allo shampoo De L’Oreal Paris. A tavola scorrevano fiumi di maionese e guai a servire zuppe o carne senza il dado Galina Blanca. Nei detersivi c’era ancora lo spot comparativo tipo “Il mio fustino Omo non lo scambio.”

Era metà agosto che i telegiornali avevano dato la notizia di un incidente grave, parlavano di un sottomarino nucleare.
Il Kursk si era inabissato sul fondale del Mar Glaciale Artico, c’era stata un’esplosione durante un’esercitazione militare. A bordo si trovavano oltre cento persone, i commentatori in tv sostenevano che la maggior parte fosse morta al momento dello scoppio ma c’era la possibilità che ci fossero dei superstiti. Nei giorni successivi guardammo tutti i notiziari, i filmati mostravano i tentativi di salvataggio. Militari e giornalisti avvolti in giacche pesanti che parlavano con il mare sullo sfondo, ufficiali con la divisa scura e il cappello bianco, i volti smarriti. Scene di repertorio con marinai che armeggiavano nella sala comandi di un sottomarino, le mani che giravano levette e cursori su una consolle grigia. Aleksandr, il prof, era turbato, quasi fosse coinvolto direttamente. Era una corsa contro il tempo perché le scorte di ossigeno a bordo erano limitate, se c’erano dei sopravvissuti rischiavano di fare la fine del topo in trappola.

Dopo qualche giorno annunciarono che il comandante era morto, nel servizio si vedeva il presidente Putin, vestito di nero e col viso stanco, che incontrava la moglie dell’ufficiale, una signora sulla quarantina coi capelli corti, pallida e col volto inespressivo. Sedevano fianco a fianco nel soggiorno della vittima, alle loro spalle un tappeto intrecciato appeso alla parete.
La telecamera seguiva la vedova e il presidente mentre scendevano le scale poco illuminate del condominio, le pareti giallognole scrostate e piene di scritte.
Quasi non ci avevo fatto caso, me lo aveva fatto notare Saša, con amarezza:
“Vedi, tutto il paese vive nelle stesse condizioni. Anche il comandante del sottomarino atomico abita in un palazzone malridotto.”

Dopo venti e passa anni, le pubblicità sono diventate ultra tecnologiche, laser, info-grafiche, riferimenti all’Intelligenza Artificiale alternati a scenette di idillio familiare. Per lo più contratti telefonici e prestiti bancari, non mancano le salse barbecue e gli jogurt magri, mi pare che ultimamente siano spariti i marchi tipo Nestlè.

Sul primo canale c’è uno speciale sul summit tra Russia e Repubblica del Congo, che si è appena concluso nel paese africano. Interviene l’ambasciatore russo, dice che Mosca offre servizi di IT, aziende come Yandex, l’equivalente di Google in Russia, stanno aprendo nuove sedi a Brazzaville e Kinshasa.
Stacco di camera sul ministro degli esteri, Sergej Lavrov, l’espressione provata sul viso serio, impassibile, il tono profondo e metallico da tabagista indefesso. Fa un intervento su Patrice Lumumba, eroe congolese assassinato dagli americani.
Al termine, due uomini che indossano una tunica bianca, immacolata, gli porgono una bella scimitarra, la lama supera il metro di lunghezza. Difficile che gliela facciano portare a bordo sul volo di ritorno.
Seguono le immagini di congolesi festanti che sventolano le bandiere russe, il cielo azzurrissimo e le palme sullo sfondo.
Qualcuno indossa un caftano beige e un cappello di carta coi colori bianco, blu e rosso. La commentatrice fa notare che l’Africa è un mercato interessante, un potenziale sbocco per il petrolio e il gas di Mosca. Un giornalista la interrompe: “Ricordiamoci che per secoli l’Africa è stata fonte di ricchezza per l’Occidente.”

Il notiziario prosegue con il terremoto in Turchia.
Macerie color beige, il cielo blu impolverato e migliaia di uomini e donne in preda alla disperazione, sono arrivati i soccorritori russi, intervistano dei giovani, carichi di provviste, sono qui per offrire supporto medico. Poi di nuovo guerra, i russi bombardano un villaggio dove si nascondono i “nazionalisti ucraini”, spesso chiamati anche “ucronazi”. L’artiglieria spara su un gruppo di edifici a sei o sette piani, nel Donbass.
Li tirano giù uno dopo l’altro. Intervistano un soldato russo, al fronte: “I Leopard li centriamo con facilità, siamo bene equipaggiati e con il morale alto.
Gli ucraini sono in difficoltà, mandano al fronte ragazzini appena mobilitati, carne da cannone. Non possono vincere.” conclude sorridendo, sicuro di sé.

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