Riprendo l'approfondimento che ho scritto per l'inserto "Alias" de "Il Manifesto" sui DEVO, lo scorso sabato.
Difficilmente chi ha vissuto gli anni tra il 1977 e i primi Ottanta riuscì a percepire la portata enorme di quello che stava artisticamente accadendo nella musica, inizialmente tra Londra e New York, immediatamente dopo in mezzo mondo.
Il punk e la new wave diedero il via all’attività di centinaia, migliaia, di gruppi, con variabili sonore e creative diversissime, spesso geniali, sconvolgenti, travolgenti.
In molti arrivarono inaspettatamente (per i tempi) al successo e a un posto nell’Olimpo del “rock” (dai Sex Pistols, ai Ramones, Clash, Talking Heads, Blondie, per citare i più noti), altri rimasero nel dimenticatoio.
In mezzo una lunga lista di splendidi dischi e artisti, il cui spessore creativo riluce ancora oggi per innovazione e capacità compositiva.
La suddetta repentina divulgazione del “verbo” della new wave arrivò, ben presto, dalle metropoli alla profonda provincia, forse ancora più adatta ad accogliere le istanze rivoltose di una gioventù che non aveva nulla con cui sfogare le proprie aspirazioni e il proprio desiderio di qualcosa di nuovo.
Un’onda che giunse perfino in Ohio, nella grigia “capitale della gomma”, Akron.
E’ qui che, addirittura nel 1973, parte l’avventura di una delle band più personali e originali nella storia del rock, i DEVO.
La cui nascita e primigenio sviluppo (fino al successo che trovarono dal secondo album in poi) viene ripercorsa con abbondanza di dettagli e un ricchissimo compendio fotografico (con immagini uniche e inedite) nel libro “Devo. In principio era la fine. L’incredibile storia dei DEVO e della loro fondazione” di Jade Dellinger e David Giffels, tradotto in italiano da Matteo Torcinovich per Hellnation Libri.
“Aveva una patina infernale e deprimente, una specie di strato di lattice sporco che riempiva l’aria, e così era la gente di Akron. I loro figli erano pronti a cadere nel baratro in qualsiasi momento. Erano talmente abbattuti che stavano per dare di matto. Tutto ciò si adattava perfettamente ai movimenti artistici del Novecento, Espressionismo, Dada e altro. Avevamo una visione tutta nostra, una visione di gomma. Siamo cresciuti come sfigati in Ohio, circondati da negozi per forniture per la pulizia, fabbriche di pneumatici, cataloghi di attrezzature industriali, guanti di gomma. Invece di vergognarcene o di cercare di negarlo, li abbiamo utilizzati” (Jerry Casale, bassista della band).
“Akron era la seconda città più grigia d’America, dopo Seattle. Condividevamo un certo disprezzo per un luogo in cui un gran numero di giovani non aveva futuro, a parte quello di lavorare in quelle fabbriche di gomma calde e sporche” (Mark Mothersbaugh, voce e tastiere).
Prima del celebre e fondamentale esordio del 1978, “Question: Are We Not Men? Answer: We Are Devo!”, prodotto nientemeno che da Brian Eno (dopo una fortunosa vicenda di una cassetta portata a Iggy Pop a un concerto, passata a David Bowie, in tour con lui e approdata al celebre musicista e produttore.
Cose che potevano accadere “una volta”), uno degli album più rivoluzionari e sorprendenti di sempre, la band ci mise più di un lustro per affinare sonorità e soprattutto immagine.
A cui si aggiunse un concept unico, filosofia portante della vicenda del gruppo, la “Devo-luzione”, una teoria in base alla quale l'umanità, invece che continuare a evolversi, avrebbe incominciato a regredire, come dimostra(va) la mentalità gretta della società statunitense, all’opposto dell’idealismo pseudo progressista e di presunta guida culturale e sociale del mondo, americano.
Non fu mai compreso appieno quanto il loro messaggio, radicale, anti sistema, la loro critica feroce al capitalismo americano, alle sciocche nostalgie per le tradizioni ("di un mondo che non è mai esistito"), non sia mai stato recepito, se non marginalmente (come malinconicamente evidenzia il recente doc su Netflix, “Devo” di Chris Smith) ma siano sempre stati considerati solo una band bizzara se non addirittura sciocca e caricaturale.
“Non eravamo veramente musicisti pop. Eravamo scienziati, reporter musicali. Siamo stati influenzati più dagli artisti pop multimediali e concettuali dell’epoca che dalla musica che si trasmetteva alla radio. Artisti visivi, come Andy Warhol, artisti degli anni Sessanta che avevano a che fare con concetti e idee. Volevamo far parte di questo, piuttosto che sederci con una chitarra in mano per il resto della nostra vita a scrivere canzoni. Vedevamo il mondo intero, la tecnologia e tutte le cose naturali e artificiali, come un potenziale materiale attraverso cui trasmettere il nostro messaggio”. (Mark Mothersbaugh).
I DEVO seppero condensare un immaginario futurista con le movenze robotiche dei musicisti sul palco (mutuate dalla lezione dei Kraftwerk) e un vestiario che rappresentava, sarcasticamente, quello della classe operaia della loro città, con tute gialle da lavoratori dell’industria chimica e tecnologica.
I DEVO erano un collettivo.
La band intendeva presentarsi come un gruppo unito, composto da lavoratori senza volto, con chitarre e sintetizzatori nella cassetta degli attrezzi.
Colonna sonora: una musica mai sentita che prendeva e rivoltava/devolveva il rock‘n’roll in una nuova miscela, ardita, arrembante, in cui new wave, elettronica, punk e sperimentazione, si univano a creare un nuovo ibrido pop.
Il manifesto del gruppo fu la rivisitazione sincopata e stravolta di “Satisfaction” dei Rolling Stones. Mick Jagger concesse con molto piacere il permesso di pubblicare una versione così irriverente, che poco o niente conservava di quella originale.
All’epoca fu stupefacente immaginare cosa poteva prefigurare una simile base di partenza. Anche perché, nell’esordio, la band affiancò brani come “Mongoloid” (difficile, se non impossibile, che con un titolo così, al giorno d’oggi, il brano potrebbe essere pubblicato) o “Uncontrollable Urge”, dall’imprevedibile ritmo in 7/4 che evidenziava la preparazione tecnica dei musicisti della band.
L’effetto colse di sorpresa tutti.
Basti pensare che la prestigiosa rivista “Creem” lo mise al primo posto tra gli album New Wave dell’anno ma i lettori votarono i DEVO al terzo tra i “migliori” gruppi e allo stesso posto tra i “peggiori”. Il famoso critico Lester Bangs li liquidò come “musica giocattolo”.
Ebbero la benedizione del pubblico del CBGB’S New Yorkese (pare che quasi tutti i gruppi passati per di lì abbiamo avuto un qualche tipo di successo) e di quello californiano e in breve sfondarono. Non durò molto (anche a causa di un processo legale intentato da Bob Lewis, tra i fondatori e ideologi del gruppo, che tagliò economicamente le gambe alla band) ma arrivarono ben presto anche al successo commerciale, dopo l’interlocutorio “Duty Now For The Future” (1979) con “Freedom Of Choice” (1980) e “New Traditionalists” (1981) e una serie di azzeccati singoli che diluivano in pop elettronico le precedenti intuizioni.
Il resto è normale amministrazione artistica.
Come chiosa il sopracitato libro, paradossalmente, i DEVO arrivarono ad autocitarsi involontariamente:
“I DEVO si sono devoluti. La loro storia degli anni Ottanta include tutti i clichés dei documentari rock: abuso di droghe, relazione tese, compromessi commerciali e passi falsi artistici”.
Cambiano le formazioni, la band resta a lungo silente, torna periodicamente ad esibirsi, si susseguono compilation, tributi, documentari, una vodka con il loro nome, l’arrivo nella Rock And Roll Hall Of Fame nel 2018.
Scompaiono membri storici come Bob Casale e Alan Myers ma il mito resiste, grazie alla creazione di un immaginario inimitabile e unico e a una delle migliori e più intriganti idee mai concepite all’interno della storia de rock.
“Anche se fin dall’inizio abbiamo sempre detto, con grande consapevolezza, che l’inizio era la fine e che la verità sulla Devolution incarnava questa idea ovvero che la fine arriva sempre inaspettata. La fine precisa non la capisci mai, non puoi prevederla ed è proprio questo lo scherzo perverso della faccenda”. (Jerry Casale)
giovedì, ottobre 02, 2025
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