lunedì, ottobre 27, 2025

Hazel Scott



Riprendo un articolo che ho scritto per IL MANIFESTO sabato 9 maggio 2020, dedicato all'artista e pianista HAZEL SCOTT.



Il razzismo e il segregazionismo che infettarono ufficialmente gli Stati Uniti fino agli anni 70 (e successivamente in modo più subdolo e sotterraneo si sono ben conservati fino ai nostri giorni, con tanto di massiccia e gradita esportazione in Europa e resto del mondo) fecero un numero enorme e imprecisato di vittime.

Da quelle linciate e appese a una corda a quelle (tutt'ora) assassinate per “legittima difesa” da polizia e bravi cittadini timorati di Dio, fino a coloro che non poterono mai sviluppare il proprio talento e le proprie capacità, artistiche e lavorative, a causa del colore della pelle.

Alla faccia del “paese delle opportunità”.
In ambito artistico non si contano le carriere spezzate, boicottate, mai iniziate, di chi non si piegò ai brutali divieti, alla separazione, coercizione, prevaricazione.
Se in aggiunta eri pure donna e tenevi testa alle “regole”, la tua vita (artistica e non) era il più delle volte segnata.

Nina Simone fu sostanzialmente costretta a lasciare gli States (che gliela fecero pagare pesantemente, sospendendo distribuzione e pubblicazione dei nuovi album) a causa delle sue posizioni che non contemplavano alcun compromesso su certe tematiche, altre si adattarono ad aggiustamenti più o meno onorevoli, cercando di fare passare il “messaggio” in modo meno diretto ed esplicito.

Hazel Scott, eccelsa pianista, voce potente, caldissima e suadente, genio del jazz e della musica, spesso reputata di essere degna di apparire, nella storia, al fianco di nomi tutelari come Duke Ellington o Count Basie (nella cui orchestra suonò all'età di 15 anni, in radio e nei club!), stretta amica di Billie Holiday che la aiutò ad entrare nello star system, è stato un esempio perfetto, nella sua perversa negatività, in tal senso.

Negli anni 50 fu severamente punita per il suo impegno per i diritti civili e per quelli della comunità nera, inserita dal Comitato per attività anti americana nel famigerato “Red Channels” che indicava gli artisti vicini al Partito Comunista Americano, che di fatto la privò della possibilità di svolgere un'attività artistica negli Stati Uniti.

“C'è solo un tipo di persona libera in questa società ed è bianco e maschio” (Hazel Scott).

Se ne andò a Parigi, esibendosi per anni in Europa, tornando in patria solo a metà degli anni Sessanta, quando però ormai reinserirsi nel circuito era impresa ardua (anche a causa dei cambiamenti stilistici e del gusto del pubblico). Nata a Trinidad, di origine nigeriana Yoruba, cresciuta a New York, bambina prodigio (definita già all'età di otto anni “un genio”), stella predestinata del jazz, incominciò prestissimo, in virtù di una tecnica smisurata e di una capacità esecutiva pressoché unica, a farsi strada nel mondo dello spettacolo.

“Ho sempre saputo di essere dotata, che non è la cosa più semplice da far conoscere al prossimo perché non sei consapevole del dono ricevuto ma solo per quello che ci fai”.

Arrivò a Hollywood negli anni 40, entrando nel cast di diversi film e diventando protagonista di numerosi musical teatrali di grande successo da “I dood it” diretto da Vincent Minelli a “Raphsody in blue”, sulla vita di Gershwin.
Divenne famosa per sapere arrangiare pezzi classici (da Liszt a Bach e Chopin) in chiave jazz e blues, il cosiddetto “Swinging Classic”, entusiasmando anche la first lady Eleanor Roosvelt, presente a un suo concerto. Ma il ruolo perennemente assegnatole, come era prassi ai tempi, di macchietta (la donna di servizio nera che suona allegra e sorridente per i padroni bianchi, in un cast in cui non ci sono altri personaggi di colore) che non volle sapere di accettare (clausola che poneva sempre come essenziale prima di firmare un contratto) la indusse a lasciare il cinema e a tornarsene a New York.
Dove ottenne, prima donna nera in assoluto, un proprio show televisivo, l'“Hazel Scott Show”, dove, per tre giorni la settimana, suonava la musica che preferiva (jazz, boogie, blues), anticipando di parecchi anni, quello che divenne il primo importante show musicale condotto da un nero, di Nat King Cole, personaggio molto più accomodante e sicuramente meno impegnato politicamente. Intransigente, pose sempre regole ferree sulle modalità dei suoi concerti, come ad esempio il rifiuto di esibirsi in luoghi in cui vigeva la separazione razziale (cosa che ovviamente le tagliò un gran numero di possibilità di live).

Negli anni 50 una corda divideva il pubblico bianco da quello nero nei club e nei teatri (talvolta sistemata in fretta e furia quando gli organizzatori si rendevano conto di avere chiamato a esibirsi un artista nero, del cui colore della pelle era ignari in precedenza).
Ray Charles fu condannato, ancora nel 1961, per avere annullato un concerto in Georgia, una volta saputo che gli spettatori sarebbero stati separati.
Alla fine degli anni 50 al gruppo di colore dei Flamingos, prima di un concerto in Alabama , fu intimato dalla polizia locale di cantare guardando solo in alto, verso il loggione, dove erano confinati i neri e di non azzardarsi a volgerlo verso la platea dove avrebbero potuto vedere o incrociare lo sguardo con qualche donna bianca.

Certo, si tratta di casi limite dai tratti, drammaticamente, quasi folkloristici, ma il clima generale, soprattutto al Sud, era questo.
E se quanto descritto era l'aspetto più visibile ed eclatante, nella vita quotidiana, nei rapporti sociali, nelle situazioni più banali, le differenze erano marcate e il solco profondo.

“Perché qualcuno dovrebbe venire ad ascoltare una “negra” e poi rifiutare di sedersi vicino a una persona come me?”, dichiaro' la Scott.

La sua vita le poteva bastare, era famosa, ben pagata e il futuro le avrebbe riservato ancora di meglio. Ma la sua caparbietà e onestà la spinsero a presentarsi al Comitato di cui sopra con una dichiarazione chiara, pulita e precisa:
“Gli attori, i musicisti, gli artisti, i compositori e tutti gli uomini e le donne delle arti sono desiderosi e ansiosi di aiutare e servire il nostro paese. Il nostro paese ha bisogno di noi oggi più che mai.
Non dovremmo essere cancellati dalle feroci calunnie di uomini piccoli e meschini."
Parole che le costarono la carriera e la cancellarono di fatto dalla scena artistica. Lo show fu sospeso, le date divennero sempre più rare. Partì per Parigi (dove frequentò altri artisti fuggiti dall'America sempre più Maccartista, da Dizzie Gillespie a James Baldwyn), si esibì in Africa, Medio Oriente, si separò dal marito Adam Clayton Powell, attivista e politico, primo afroamericano a essere eletto membro del Congresso nello stato di New York. Tornò in America solo nel 1967 dove ritrovò solo una piccola parte della considerazione artistica precedente, continuando a suonare in tutto il paese, fino al 1981 quando un cancro la portò via definitivamente all'età di 61 anni.

Il suo nome scomparve velocemente dalla storia e finì a lungo nel dimenticatoio.
Nel 2019 Alicia Keys, durante la consegna dei Grammy Awards ha voluto onorare il talento di Hazel, suonando in contemporanea due pianoforte, pratica che rese famosa la Scott in una ripresa cinematografica. I giornali hanno ripreso l'immagine, il video e la notizia riportando agli onori della cronaca il ricordo dell'immensa pianista jazz.

Per apprezzare il talento smisurato di Hazel Scott ci sono antologie in abbondanza ma un disco in particolare svetta per importanza, classe e soprattutto tecnica, che unisce la genialità di tre mostri sacri della musica jazz.
Hazel al piano è superlativa ma ad accompagnarla, seppure in modalità rispettosa e mai prevaricante niente meno che Charlie Mingus al contrabbasso e Max Roach alla batteria.
“Relaxed piano moods”, del 1955, è un disco superbo (valga, da solo, “The jeep is jumping”, sublimazione dello swing e della tecnica jazzistica).

venerdì, ottobre 24, 2025

Klaus Romilar - Scala Richards vol.1

Un libro tanto visionario quanto accattivante per noi onnivori musicali.
Quattordici racconti firmati da Klaus Romilar, personaggio leggendario, frutto di un lavoro collettivo di vari scrittori appassionati di musica e letteratura.

Si viaggia in mille direzioni, tra episodi di vita vissuta e altri di situazioni immaginate.
La musica (a 360 gradi, dai Liquid Liquid a Jorma Kaukonen, da Bob Dylan a John Lee Hooker ai Dead Kennedys, ai "mali" del Prog Rock, con tanto di dritte finali in ogni capitolo per avvicinarsi ai nomi citati) è il filo conduttore di ogni episodio.

Ci si diverte molto e, non di rado, è facile immedesimarsi nelle vicende narrate.

Molto gradevole, scritto bene e con tanto gusto.
La prefezione di Marino Severini dei Gang vale da sola l'acquisto.

Klaus Romilar Scala Richards vol.1
Società Editrice Apuana
164 pagine
15 euro


Per acquistarlo qui:
https://www.labottegadiaronte.it/labottegadiaronte/

giovedì, ottobre 23, 2025

Dreamies – Auralgraphic Entertainment

Accogliamo con piacere il contributo di un nuovo collaboratore, l'amico PINCOPANCO di cui l'interessantissima pagina Facebook:
https://www.facebook.com/pincopancoeccentrico

Nel 1973 a Philadelphia, la misteriosa etichetta Stone Theatre Productions pubblica, a nome Dreamies, “Auralgraphic Entertainment”.

Forse, però, l'album esce l'anno successivo e la parola “Dreamies” fa parte del titolo.
Chi si nasconde, allora, dietro questo progetto?
In realtà, si tratta di un’autoproduzione di Bill Holt, un musicista di Claymont, in Delaware.
In quel periodo, Holt lascia il suo lavoro alla 3M per dedicarsi a tempo pieno alla musica.
E così, per più di un anno, passa gran parte del tempo nel seminterrato di casa a registrare il suo materiale.

Diviso in due parti, “Program Ten” e “Program Eleven”, “Dreamies-Auralgraphic Entertainment” sembra una sorta di felice prosecuzione di “Revolution 9”.
Rispetto all’ostico pezzo dei Beatles, infatti, i due brani di Holt uniscono allo slancio sperimentale la vocazione pop. All’epoca, il disco viene venduto nei negozi della zona e per corrispondenza tramite annunci ma non ottiene grandi riscontri.

E così Holt, dopo aver sperperato tutti i suoi risparmi, si ritira dal mondo musicale.
Nel 2025, l'etichetta spagnola Guerssen riporta alla luce questa perla del passato con una splendida ristampa: un'occasione imperdibile per scoprire o riscoprire una pagina dimenticata della musica alternativa.

martedì, ottobre 21, 2025

La storia degli impianti voce

Riprendo l'articolo che scrissi sabato per Il Manifesto nell'inserto Alias, di un paio di anni fa, dedicato a una breve storia degli IMPIANTI VOCI.

Quando i Beatles salirono per l'ultima volta su un palco insieme, il 29 agosto 1966 al Candlestick Park di San Francisco, si ritrovarono in mezzo a uno stadio di baseball, circondati, lontanissimi, sulle tribune, da 25.000 ragazzi e ragazze costantemente urlanti. Per i Fab Four c'erano due monitor agli angoli anteriori del palco, gli amplificatori con un microfono ciascuno e la batteria con la sola cassa microfonata.
Il tutto confluiva negli altoparlanti dello stadio utilizzati per i comunicati durante le partite.
Il rock era diventato grande, non più di pertinenza di piccoli locali o teatri ma una faccenda da stadi, pur trattandosi, in questo caso, ancora di un'eccezione.
Il garbo con cui veniva proposta fino ad allora la musica dal vivo dovette fare i conti con sonorità sempre più dure, chitarre elettriche, organi Hammond, batterie pulsanti e travolgenti, vocalità prorompenti, a beneficio di un pubblico sempre più ampio che non stava più nei piccoli spazi.

Fu l'ultimo concerto dei Beatles, sfiniti da una situazione che non gli permetteva più di suonare adeguatamente, tanto meno di sentirsi. Ringo Starr ha più volte dichiarato che negli ultimi tempi per sapere a che punto fosse il pezzo doveva basarsi sui movimenti dei compagni.

Paul, John e George spesso erano costretti a osservare su quali note stavano andando le mani degli altri per capire in che tonalità fosse la canzone.
Probabilmente con a disposizione gli impianti voce che qualche anno dopo sarebbero diventati la normalità, avrebbero considerato con più benevolenza l'ipotesi di riprendere a suonare dal vivo.
Ci volle un anno ma già dal Monterey Pop Festival del giugno 1967 le cose cambiarono radicalmente con l'arrivo di quello che é l'antesignano dei moderni PA.

LA STORIA
Gli albori del concetto di amplificazione risale agli Antichi Greci e all’Impero Romano, grazie ai principi dell’architetto Vitruvio che concepiva gli anfiteatri in maniera semicircolare con le sedute progressive verso l’alto a più livelli, sia per una veduta ideale dello spettacolo ma anche per catalizzare meglio il suono e consentire un ascolto ottimale. Anche in anni più recenti, la musica classica veniva composta in base al luogo in cui sarebbe stata suonata e proposta. La musica corale era solitamente lenta e solenne perché doveva essere ascoltata in chiese enormi e riverberanti. La musica sinfonica era grandiosa e maestosa perché il luogo d’ascolto erano grandi sale e teatri.

Allo stesso modo la musica da camera, che, come dice il nome, si suonava in stanze dalle misure contenute, era scritta in modo che si potessero distinguere archi e sfumature più veloci.
I compositori partivano da un concetto di musica già “mixata” scrivendo le parti specifiche di ogni strumento per ottenere l'equilibrio desiderato di ogni brano musicale.

Il termine PA è la contrazione di "Public Address", inteso come mezzo di comunicazione per raggiungere più persone possibili all'interno di stazioni ferroviarie, stadi, negozi, ospedali, aeroporti o hotel. Fino alla fine del XIX secolo, tutte le forme di comunicazione al pubblico venivano eseguite utilizzando l'acustica architettonica: non esistevano alternative praticabili per migliorare l'amplificazione del parlato.

Nel 1875 l'inventore e professore di musica britannico-americano David Edward Hughes creò il microfono a carbone.
Lo chiamò "microfono" per assonanza con il microscopio.
Nacque così il primo componente di un sistema PA moderno.
Poco prima della fine del secolo il fisico britannico Oliver Lodge inventò il primo altoparlante sperimentale a bobina al mondo, conosciuto come il "telefono urlante", alla base del principio che regola gli altoparlanti moderni: un diaframma fatto vibrare da una bobina mobile, il cui suono veniva poi amplificato da un corno svasato.
Nel 1906 l'inventore americano Lee DeForest crea l'Audion, primo dispositivo in grado di amplificare un segnale elettrico.
Edwin Jensen e Peter Pridham, ingegneri della società di elettronica americana Magnavox, durante una serie di test in laboratorio dal 1911 al 1915, collegarono un microfono e un altoparlante a una batteria da 12 volt, determinando il primo verificarsi di feedback acustico.

Il "Magnavox" diventa così il primo sistema PA elettrico al mondo, presentato a San Francisco il 24 dicembre 1915, con 100.000 persone che si affollarono per ascoltare la trasmissione di musica e discorsi natalizi.
L'impianto fu utilizzato dal presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson per parlare a una folla di 75.000 persone a San Diego. Anche la società britannica di telecomunicazioni Marconi per tutti gli anni Venti ha prodotto parecchi sistemi PA per fare fronte a un mercato sempre più in espansione ed esigente. Durante la seconda guerra mondiale vennero progressivamente perfezionati anche in funzione militare ma fino agli anni Cinquanta rimasero impianti di bassissima potenza, non superiori ai 25 watt.

Fu l'avvento del rock 'n' roll che impose la necessità di un'amplificazione che permettesse alle voci (e ad altri strumenti come fiati o pianoforte) di sentirsi sopra la potenza degli ampli da chitarra che arrivarono in breve tempo dai 50 ai 100 watt.

Negli anni Sessanta il problema divenne impellente perché molti locali non avevano impianti adeguati.
Proprio per questo molti gruppi incominciarono a portarsi un impianto voci, insieme agli strumenti, che fosse consono al loro sound. Molto spesso erano i gruppi a sistemare i volumi, non di rado regolandoli loro stessi durante il concerto, senza avere tecnici del suono in sala.
Quando i Beatles suonarono allo Shea Stadium di New York, nell'agosto del 1965, provarono ad ovviare al consueto problema che li attanagliava, distribuendo quattro casse da 175 watt ciascuna nello stadio per rendere intellegibile il suono.
Ma 42.000 persone urlanti produssero qualcosa come 140 decibel di rumore (pari a quello del decollo di un aereo a reazione), esattamente il doppio di quello dell'amplificazione.

Il fonico britannico Charlie Watkins è considerato come il "padre britannico dell'amplificazione".
Creò di fatto la disposizione mixer-amplificatore-altoparlante che figura ancora nella maggior parte dei sistemi PA contemporanei. Al Windsor Jazz & Blues Festival del 1967, Watkins presentò il suo sistema Slave PA, in grado di generare 1.000 W di potenza. Da questo momento le modalità inventate da Watkins divennero la norma nei festival musicali britannici.

Sempre nel 1967 John Meyer, successivamente fondatore della Meyer Sound Laboratories, fu il protagonista del leggendario Monterey Pop Festival per il quale elaborò un impianto di amplificazione a beneficio iniziale della Steve Miller Band.
"A quel tempo era tutto nuovo, con questo stile musicale completamente nuovo appena nato. Mi sono reso conto che avremmo dovuto iniziare a costruire un'intera nuova generazione di apparecchiature in grado di far fronte a questo livello di festival all'aperto. Monterey ha davvero aperto le cose. È stato un evento importante e sapevo che non sarebbe finita lì”.
Dal 16 al 18 giugno 1967 36.000 persone videro così all'opera Who, Hendrix, Janis Joplin, Canned Heat con un ascolto adeguato.

Nonostante nessuno si aspettasse il mezzo milione di persone, al Festival di Woodstock di sicuro era prevista una vasta affluenza di folla. Gli organizzatori si premurarono in anticipo per dare un ascolto adeguato al pubblico.
Michael Lang: “Saltò fuori questo pazzo di Boston che avrebbe voluto provarci. Bill Hanley aveva acquisito una certa fama sulla costa orientale, al Newport Folk Festival, al Newport Jazz Festival e ai concerti di Bill Graham al Fillmore East. Il suo obiettivo era semplice: dare a chi è seduto nell'ultimo posto la stessa esperienza di chi è in prima fila.”
Con la sua troupe pianificarono di piazzare le casse su una piattaforma sopraelevata costruita con compensato e impalcature a 22 metri di altezza a sinistra del palco. Il sistema era progettato per fornire l'audio a 200.000 persone (secondo quanto riferito il più grande fino a quel momento) ma alla fine ha raggiunto le orecchie di 500.000 con una buona qualità.

Ai tempi Hanley non si rendeva conto che stava facendo la storia dell'audio.
Interessante, osservando foto e filmati dell'evento, di come siano stati utilizzati, rispetto alle abitudini odierne, pochissimi microfoni.
La batteria di Michael Shrive dei Santana o quella di Keith Moon degli Who ne hanno, ad esempio, non più di quattro (rullante, cassa, timpano e un panoramico).

Gli anni Settanta consacrano e perfezionano, stabilendo degli standard, il concetto di impianto voci. Nel febbraio del 1970 Bob Heil costruì un impianto appositamente per i Grateful Dead, apportando innovazioni mai sperimentate in precedenza, riuscendo, grazie a un sistema di microfonaggio particolare ad evitare che l’aumento del volume provocasse dei feedback durante il concerto.
L’impianto fu portato fino a 20.000 watt e accompagnò tutto il tour della band americana, diventando un riferimento per i futuri impianti di amplificazione, soprattutto per gli Who che lo ingaggiarono per il giro americano ed europeo di “Who’s next”.
Pete Townshend gli commissionò un’ulteriore evoluzione, riuscendo ad arrivare a una potenza sonora di 115 decibel, posizionando quattro altoparlanti nei quattro angoli dei palasport in cui suonava la band.
I Deep Purple provarono a rubare agli Who lo scettro di band più rumorosa del mondo ma senza successo. Nel 1976 Townshend e compagni al “The Valley” di Londra arrivarono a 126 Decibel. Bob Heil fondò la Heil Sound e lavorò con numerose altre band.

Nel 1973 Owsley Stanley, fonico e progettista ma soprattutto produttore e spacciatore di LSD creò sempre per i Grateful Dead l’impianto Wall Of Sound, un muro di casse dalla potenza di oltre 25.000 watt che permetteva alla band di suonare senza spie sul palco perché i musicisti suonavano davanti alle casse, ascoltando lo stesso suono di cui usufruiva il pubblico.
La band lo utilizzò fino agli inizi degli anni Ottanta quando una struttura del genere diventò obsoleta a fronte della possibilità di ottenere performance simili senza dovere spostare un’incredibile massa di materiale tecnico.
Nel 1974, la casa produttrice britannica Soundcraft rivoluzionò il settore con la Series 1, la prima console di missaggio integrata in un flight case, a 12 e 16 canali, diventato universale tra i mixer analogici.
Fu in questo periodo e grazie alla Soundcraft che il mixer incominciò ad essere posizionato di fronte al palco per ascoltare ciò che effettivamente arrivava al pubblico, modalità che al giorno d’oggi pare ovvia e scontata ma che ai tempi fu una vera e propria innovazione per una corretta fruizione del suono. Contemporaneamente con il potenziamento degli impianti si rese necessario fornire i musicisti di stage monitor o spie.
Bill Hanley progettò così delle casse inclinate a 45 gradi da posizionare a terra in direzione dei musicisti, collegate a un mixer indipendente da gestire direttamente dal palco in base alle esigenze di ogni singolo componente della band che poteva e può utilizzare il volume adatto. Un sistema ancora più che attuale.
Nel 1987, la Garwood Communications ha prodotto Radio Station, il primo sistema IEM wireless in commercio. Oltre a risolvere i problemi di volume del palco, il sistema ha anche dato ai musicisti la libertà di muoversi su palchi di grandi dimensioni e continuare a sentire il loro mix del monitor senza essere legati a un'unica posizione.

Anche se i Pink Floyd iniziarono a utilizzare cuffie sul palco già negli anni Settanta.
Sempre nel 1987 arriva il mixer audio digitale creato dalla Yamaha, il DMP7: un mixer automatizzato per consentire ai tastieristi di gestire la loro gamma sempre più complessa di tastiere e di modificare automaticamente le impostazioni durante gli spettacoli.
E che poi è stato fruito progressivamente da ogni strumentista.
Con il digitale la qualità del suono è sensibilmente migliorata, anche in virtù della possibilità di configurare i volumi dei canali e poterli “richiamare” automaticamente senza doverli fissare in modo potenzialmente non preciso.
Potendo inoltre perfezionare la qualità del mix sera dopo sera.

I mixer digitali possono gestire un'elaborazione maggiore, accogliere un numero infinito di effetti ed essere logisticamente più contenuti in grandezza, maneggevoli e precisi.
La conseguenza è stato il progressivo abbandono delle console analogiche. Un ulteriore miglioramento arrivò nel 1993 grazie a Christian Heil della Heil Sound che introdusse il V-DOSC un sistema di casse che rivoluzionò l’ascolto.
Precedentemente, la potenza che usciva dell’impianto si disperdeva sulla distanza ovvero chi era più vicino sentiva più alto, chi si trovava lontano riceveva volumi più bassi e meno fedeli.
Il nuovo sistema lavora con casse adiacenti che si rinforzano nel suono l’una con l’altra favorendo una dispersione del suono orizzontale ottimale che consente una qualità di ascolto (soprattutto nei locali) uguale per tutti gli spettatori.

La tecnologia ormai fornisce costanti margini di miglioramento e sofisticazione, continuando però a basarsi su quelle fondamenta descritte più sopra, risalenti all’era pionieristica del contesto. Spesso scontrandosi però con l’inadeguatezza dei locali o delle location che ospitano i concerti, a potere consentire il massimo dello sfruttamento delle capacità dei nuovi impianti per farci ascoltare la musica nel migliore dei modi. A un’evoluzione tecnologica non corrispondono, se non in rari casi, luoghi in cui i frutti del progresso possano essere assaporati nel giusto modo.

BOX 1
Gli Iron Maiden detengono il record di grandezza di un impianto voci, quando nel 1988 al Monsters of Rock Festival di Castle Donnington schierarono 360 casse Turbosound sviluppando mezzo milione di watt e raggiungendo un picco di 140 decibel durante il loro concerto (a cui parteciparono, davanti a oltre 100.000 persone, anche Van Halen, Kiss, Metallica, Guns n Roses).

BOX2
Dave Clegg, protagonista a lungo della scena soul inglese ha sottolineato quanto fosse importante la potenza e la qualità degli impianti all’interno dei locali che suonavano Northern Soul a metà degli anni Settanta nel nord dell’Inghilterra:
La musica funzionava al Wigan Casino (mitico locale, “patria” della scena Northern Soul nda) soprattutto per la sua acustica. C'era questa grandissima hall e se prendevi ad esempio un brano come Heaven Is In Your Arms degli Admirations e lo sentivi dal balcone suonava splendidamente. Poi ne compravi una copia, la portavi a casa e sembrava una canzoncina per bambini. Se la canzone aveva il ritmo giusto funzionava, con la gente che ballava come pazza facendo acrobazie.

BOX3 Dal libro di Fabio Fantazzini”Dread Inna Inglan” un passaggio che sintetizza l’importanza dei Soundsystem nella cultura anglo caraibica negli anni 70.
"I sound system, come altri esempi all'interno della diaspora nera, assumono la funzione di rappresentazione di un blocco sociale sistematicamente escluso dai vari organi del sistema. Si configurano come spazi di resistenza culturale rispetto all'esclusione e alla marginalizzazione della comunità nera da parte delle istituzioni.
In secondo luogo acquisiscono maggiore rilevanza politica in quanto vettori comunicativi di messaggi (siano essi la cronaca di un evento o inviti alla ribellione) durante il picco del conflitto da istituzioni inglesi e controcultura nera...i sound system oltre ad essere un luogo di divertimento, sono uno spazio pubblico di scambio di informazioni e di discussione. Il sound system britannico che, in particolare negli anni Settanta, diventa uno spazio politico e un potente vessillo identitario.
Rispetto al reggae registrato su disco e ai club del centro che suonano soul, il sound system è un luogo dove si celebra e si difende l'identità nera senza compromessi, dove si sperimentano nuove forme musicali che influenzeranno tutta la musica britannica (e non solo) nei decenni avvenire e dove si raccontano e condividono le vicende di una comunità al tempo letteralmente presa d'assalto da istituzioni, polizia ed estremisti di destra."

lunedì, ottobre 20, 2025

Garageland #5

E' sempre un piacere, con l'aggiunta, ogni volta, di scoperte sulle sottoculture o realtà affini, leggere riviste come GARAGELAND.
Preziosi scrigni di piccole gemme che altrimenti si perderebbero nell'oblìo e che invece vengono conservate e diffuse ai più curiosi dell'ambito.

E così si passa da Rocky Roberts ai Dexy's Midnight Runners, alla scena skinhead polacca durante la fase socialista, un'interessantissima intervista a Maurizio Gamba degli Ulster 77 nella Roma punk del 77/78, un pezzo intrigante sul calcio e gli ultras in Libano.
Il tutto corredato da foto inedite o comunque rare e una grafica, come sempre curatissima e accattivante.

Per chi ama il contesto, una rivista imperdibile!

Articoli e interviste a cura di Alexandra Czmil (che è anche autrice della foto di copertina), Flavio Frezza, Alessandro Aloe, Letizia Lucangeli, Simone Lucciola, Antonio Bacciocchi, Giuseppe Ranieri e Matt Zurowski.
Contributi artistici di Mattia Dossi, Alo e Alberto Cianfrone AKA Raudo.

Garageland #5
82 pagine
15 euro


https://www.facebook.com/garagelandrivista
https://www.facebook.com/crombiemedia
https://www.facebook.com/roberto.gagliardi.9828

domenica, ottobre 19, 2025

Something about Maggie - 25 ottobre - Poggibonsi (Siena)

Sabato 25 ottobre Sala SET Teatro Politeama di Poggibonsi (Siena) ore 21.30
SOMETHING ABOUT MAGGIE.

A cento anni dalla sua nascita una controcelebrazione: canzoni, parole e immagini da una stagione di lotte disperate.
Suonano i Ratoblanco, racconta Antonio Bacciocchi.

venerdì, ottobre 17, 2025

Not Moving - That's All Folks

Esce oggi, venerdì 17 ottobre, in vinile (azzurro "blues") e CD “That’s all Folks!”, l’ultimo album dei Not Moving.

Dai primi concerti nel 1981 e dell’esordio discografico del 1982, Rita Lilith Oberti, Dome La Muerte e Antonio Bacciocchi hanno portato sempre avanti lo spirito della band. Anche nei lunghi periodi di pausa e allontanamento, i Not Moving hanno continuato a vivere nei reciproci progetti solisti, nella cura di ristampe (spesso con inediti), documentari, un live dagli anni Ottanta, una breve reunion tra il 2005 e il 2006. Nel 2017 il ritorno insieme con un nuovo album e un centinaio di concerti lungo la Penisola.
La storia ora si conclude.
Il rock ‘n’roll salva la vita (come cantava Lou Reed con i Velvet Underground) ma in cambio ti chiede l’anima, il cuore, la carne. Ti divora e distrugge.
Un prezzo concordato già nell’adolescenza e consegnato al Demone. Che ha restituito la vita che i Not Moving hanno sempre voluto e desiderato, nella sua sadica precarietà, anche quando il fisico perde i previsti colpi.
“That’s All Folks” era stato concepito come un omaggio alle radici da cui la band è partita: il blues. L’album si sviluppa su quelle coordinate, guardando però anche al punk, Gun Club, Cramps, The X, psichedelia, Rolling Stones, Bo Diddley e si chiude con il testo di “Not Moving” dei DNA di Arto Lindsay, brano tratto da “No New York” da cui la band prese il nome.

That’s All Folks!

TRACKLIST
1. Soul of a Man
2. But It’s Not
3. Wyoming Girl
4. Saphran Road
5. The Devil with the Blue Dress On
6. On My Side
7. Bo Diddley Doing Something
8. Once Again
9. Ray Of Sun
10. Not Moving

Per l'acquisto: https://lnk.to/thatsallfolks

CREDITS

All songs by Oberti/Petrosino except for “Once Again” (Petrosino), “Soul of a man” (Blind Willie Johnson), “The devil with the blue dress on” (Frederick Long/William Stevenson), “Not Moving” (lyrics by Arto Lindsay)

Rita Lilith Oberti: vox
Dome La Muerte: guitars, sitar
Antonio Bacciocchi: drums, percussions, tablas
Iride Volpi: guitars, backing vocals

Guests: Paolo Apollo Negri: piano, Hammond, keyboards.
Lorenzo De Benedetti e Martin Ignacio Isolabella: backing vocals.

Recorded at Elfo Studio by Alberto Calegari e Matteo Gagliano + Ale Sportelli Recording Studio.
Mixed by Matteo Bordin

Artwork by Luca Galvani
Inner photos: Andrea Amadasi (Lilith, Iride), Enrico Auxilia (Dome La Muerte), Martina Ridondelli (Antonio Bacciocchi)
Band photo: Velvet (Luciano Guazzoni)

TRACK BY TRACK

Soul Of a Man – Brano di Blind Willie Johnson del 1930, il primo provato e arrangiato per l’album, una reinterpretazione aspra di un piccolo classico blues (ripreso anche da Tom Waits e Eric Burdon).

But It’s Not – Rock ‘n’roll, punk, una spolverata di glam e tutta l’essenza della vita. “Credi sia una vacanza ma non è vero (But it’s not!). “L’inizio di batteria è un personale omaggio al batterista dei Jam, Rick Buckler, recentemente scomparso, di cui riprendo la stessa figura ritmica nella partenza della loro “All Around the World”, del 1977 (un anno di riferimento per tutti noi Not Moving)” (Antonio)

Wyoming Girl – Un pizzico dei Doors più blues, un tempo swingante, un piano honky tonk. “E’ la storia di tutte le donne che si trovano a un confine. Le donne sanno bene di cosa parlo”. (Lilith)

Saphran Road – In ogni album c’è sempre stato qualche riferimento più o meno esplicito ai Gun Club, quelli più romantici e disperati di “Las Vegas Story”, per noi maestri e capostipiti della nostra scena. “Il testo è un tentativo “gastronomico” per spiegare che le cose vanno come devono andare.” (Lilith)

The Devil with the Blue Dress On – Un brano conosciuto attraverso la versione proto punk di Mitch Ryder and the Detroit Wheels. Irraggiungibile per efficacia, di conseguenza riadattata a quella dell’autore Shorty Long ma con un taglio Cramps in odore di gospel. “Mi sono molto immedesimata in questo abito, un vestito blue(s).” (Lilith)

On My Side – Una canzone d’amore. “Tu sei sempre stato dalla mia parte” (Lilith)

Bo Diddley Doing Something – Non poteva mancare un omaggio ritmico al grande Bo Diddley, pensando però a come avevano usato il suo groove gli Stooges in “1969”.

Once Again – “E’ un brano con un arrangiamento dark-punk, molto anni 80, è un storia d’amore travagliata, un continuo su e giù, che è anche una metafora della vita che abbiamo vissuto come artisti, picchi di felicità e cadute disastrose, aspettando una risposta che non arriva mai, sogni infranti, senso di inadeguatezza, una guerra quotidiana con sé stessi e le proprie contrastanti emozioni, ma sempre alla ricerca di un riscatto.” (Dome)

Ray Of Sun – “New York nella notte più buia con i lividi di “Black and Blue” dei Rolling Stones. La solitudine. Il raggio di sole. Ma anche quello non scalda” (Lilith).
“Un riff con un andamento celtico, come una danza pagana al rallentatore, con inserti psichedelici, sitar e percussioni.” (Dome)

Not Moving – Lilith declama il testo di “Not Moving” dei DNA di Arto Lindsay, il brano da “No New York” da cui la band prese il nome. La chiusura del cerchio.

Dicono di "That's All Folks!"

"Un disco rock, scarno, diretto... onesto. Rita, Antonio e Dome non potevano scegliere modo migliore per uscire di scena" (Rumore)

"I Not Moving si congedano dallo loro nutrita schiera di ammiratori con un disco che condensa tutte le sfaccettature e gli amori di una vita vissuta all'insegna del rock'n'roll senza compromessi" (Blowup)

"I Not Moving tornano in scena sfoggiando quella speciale magia che la maturità affila a suon di sintesi e naturalezza" (Raro)

"That’s All Folks! è il testamento di una band irriducibile: non un nostalgico sguardo al passato, ma un ultimo urlo pieno di dignità, passione e memoria. I Not Moving se ne vanno come sono arrivati: indipendenti, selvaggi e necessari" (Tuttorock)

"Un disco intenso, che dimostra come in Italia ci siano ancora band rock con la stoffa dei grandi" (Long Live Rcok'n'Roll)

NOT MOVING "That'All Folks!" Tour

Prime date.

Domenica 9 novembre: Lucca "Festival Underground" ore 17
Sabato 22 novembre: Savona "Raindogs"
Venerdì 5 dicembre: Pisa "Caracol"
Sabato 13 dicembre: Poviglio (Reggio Emilia) "Caseificio La Rosa"
Venerdì 19 dicembre: Cagliari "Fabrik"
Sabato 20 dicembre: Sassari "Teatro"
Venerdì 23 gennaio: Firenze "Progresso"
Sabato 24 gennaio: Piacenza “Coop Infrangibile”
Sabato 31 gennaio: Bologna “Circolo della pace”
Sabato 7 febbraio: Varese "Black Inside"
Domenica 8 febbraio: Torino “Blah Blah” ore 18
Sabato 21 marzo : Como "Joshua"

mercoledì, ottobre 15, 2025

Cristiano Colaizzi / Corrado Rizza - Disco Playlist Italia 1975-1995

Esce a, distanza di due anni, il seguito di "Roma Disco Playlist -1965-1995" (sempre per VoloLibero).
"Disco Playlist Italia 1975-2025" è un maniacale elenco di 246 playlist (con relativo QR Code per ascoltarle), con 4.500 brani che documentano il lavoro di 196 DJ in 180 discoteche di tutte le regioni italiane, dal 1977 al 1995.

Scorrendole troviamo grandi sorprese, brani oscuri, hit dimenticate e una cultura della discoteca che esula dal consunto concetto di "musica commerciale da ballo", tra soul, Philly Sound, elettronica, new wave e altro.

La lista dei protagonisti è spesso nota e prestigiosa (da Cecchetto a Fiorello, Jovanotti, Roberto D'Agostino, Mozart, Ringo etc).
Il tutto contestualizzato all'epoca, gli anni di riferimento, con tanto di interviste, foto, note.

Tanto specifico quanto interessante.

Cristiano Colaizzi / Corrado Rizza
Disco Playlist Italia 1975-1995
VoloLibero Edizioni
318 pagine
35 euro

martedì, ottobre 14, 2025

Kneecap: breve cronaca di una risata

Continua la saga dei KNEECAPP, una della relatà più interesaanti, attive(iste), sia musicalmente che a livello sociale e culturale in circolazione.
Quando la musica torna a contare non solo sulle piattaforme o nelle recensioni.
Ce ne rendiconta, come sempre, l'amico MICHELE SAVINI.


Le precedenti puntate di "The Auld Triangle: narrazioni dalla repubblica d'Irlanda" qui: https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda

Oggi torniamo a parlare dei Kneecap, con l’auspicio di mettere finalmente la parola fine ad un capitolo giudiziario che ha poco a che fare con la musica. Una band che ha fatto parlare così tanto di sé negli ultimi mesi, che ormai perfino il silenzio su di loro suona come una dichiarazione, perché fingere di ignorarli è praticamente impossibile.
Stavolta sarò celere, tutti i dettagli dell’intera vicenda li trovate qui nelle precedenti puntate:
Kneecap: il peso delle parole: https://tonyface.blogspot.com/2025/05/kneecapp-il-peso-delle-parole.html

Kneecap : More Blacks, More Dogs, More Irish, Mo Chara: https://tonyface.blogspot.com/2025/07/kneecapp-more-blacks-more-dogs-more.html

Qualche settimana fa si è tenuto l’atto conclusivo del processo a Liam Óg Ó Annaidh, in arte Mo Chara, membro del trio nordirlandese dei Kneecap, accusato di terrorismo per aver esposto, durante un concerto londinese nel novembre 2024, una bandiera di Hezbollah, organizzazione considerata illegale nel Regno Unito.
Da parte sua, la band sostiene che le accuse siano motivate politicamente e non giuridicamente, mirate a silenziare chi, come loro, denuncia le ingiustizie, in particolare la situazione che da mesi colpisce Gaza.

Già nella precedente udienza la difesa aveva contestato la legittimità dell’accusa, rilevando che il procedimento non era stato avviato entro i sei mesi stabiliti dalla legge. La controversia legale su cui verteva il processo riguardava soprattutto interpretazioni giuridiche e questioni procedurali, piuttosto che sulla natura politica dell’accusa.

L’appuntamento perciò era per venerdì 26 settembre alla Woolwich Crown Court di Londra, per l’ultimo round di una partita a scacchi tra il governo britannico e il controverso trio hip hop di Belfast. Già il giorno precedente all’udienza, la Metropolitan Police di Londra, aveva invocato la sezione 14 della legge sull’ordine pubblico, che vietava l’assembramento fuori dalla Woolwich Crown Court per ragioni di sicurezza. I fan dei Kneecap, accompagnati da moltissimi attivisti pro Palestina, avevano infatti organizzato un vero e proprio show di solidarietà nei confronti della band nella precedente udienza, giocando un ruolo importante nel mostrare da che parte stava l’opinione pubblica.
Perciò la mossa di vietare i sostenitori pacifici della band rappresentava l’ennesimo tentativo da parte dell’establishment di ridurre al minimo il clamore e di far apparire come “problematici” i sostenitori del trio di Belfast.

Ma più di ogni altra cosa, nascondeva una verità innegabile: tra le file dell’accusa serpeggiava paura.
Paura di non essere in grado di vincere la partita né sui punti né sul piano morale, mentre i Kneecap, come un branco di squali che percepisce il sangue della preda, avanzavano decisi, mostrando tutta la loro forza e determinazione.

Arrivo davanti alla Woolwich Crown Court con il solito inconfondibile stile, quello che, se accompagnato dal groove implacabile di “Little Green Bag” dei George Baker Selection, trasformerebbe il piazzale in un set tarantiniano.
Tutta la crew dei Kneecap si presenta infatti incappucciata, con l’ormai iconico passamontagna tricolore, come a dire: “Ecco che arrivano i terroristi…” e sfoggiando un silenzioso ma palpabile ottimismo.

All’interno del tribunale, mentre il magistrato Paul Goldspring si prepara a leggere la sentenza, l’aria è densa di tensione. Il giudice conferma quanto già sostenuto dalla difesa: l’accusa è proceduralmente errata, poiché i permessi necessari non sono stati ottenuti entro il termine legale previsto dalla legge sul terrorismo del Regno Unito.
Secondo il Terrorism Act 2000 infatti, il Crown Prosecution Service (CPS) aveva sei mesi di tempo per ottenere i consensi necessari dal Procuratore Generale, con scadenza fissata per il 21 maggio 2025. Peccato che i consensi siano arrivati solamente il giorno dopo, il 22 maggio.
Traduzione: per sole 24 ore di ritardo, l’intero procedimento è crollato come un castello di carte e l’accusa completamente archiviata. Decisione accolta dagli applausi dell’aula e uscita trionfale dalla porta principale, dove qualche sostenitore e numerosi giornalisti attendevano le prime parole di Mo Chara, che arrivano intrise della solita sobrietà che contraddistingue il clan Kneecap.

«Un enorme grazie al mio team legale.
Darragh, Jude, Blinne, Brenda, Gareth e a tutto lo staff della Phoenix Law.
Un ringraziamento speciale anche alla mia interprete Susan.
Tutto questo procedimento non ha mai riguardato me, né la minaccia alla sicurezza pubblica, né il “terrorismo”, una parola usata dal vostro governo per screditare le persone che opprimete. Ha sempre riguardato Gaza.
Su cosa succede se osi parlare.
Noi, essendo irlandesi, conosciamo l’oppressione, il colonialismo, la carestia e il genocidio.
L’abbiamo sofferto e ancora lo soffriamo sotto “il vostro impero”.
I vostri tentativi di metterci a tacere sono falliti, perché noi abbiamo ragione e voi avete torto.
Non staremo zitti.
Abbiamo detto che vi avremmo combattuti nei vostri tribunali e che avremmo vinto.
E così è stato.
Se qualcuno su questo pianeta è colpevole di terrorismo, è lo Stato britannico.
Free Palestine!
Tiocfaidh ár lá»


Il capitolo conclusivo di questa vicenda lascia dietro di sé pesanti strascichi da entrambe le parti della barricata.
La parziale “vittoria” per la band di Belfast non cancella il peso del circo mediatico orchestrato dal governo inglese che ha inciso pesantemente sulle attività del gruppo, tra spese giudiziarie e ingenti perdite economiche derivanti dalla cancellazione di molte date del tour, con il Canada ultimo dei paesi a rendere noto che là non sono i benvenuti. Ma, a conti fatti, è pur sempre preferibile a una condanna per terrorismo firmata Londra …

Per il governo britannico, l’ennesima figuraccia istituzionale, aggravata dall’imbarazzo di aver invocato l’arsenale antiterrorismo per poi inciampare su sé stesso, cadendo rovinosamente sul dettaglio più banale: un termine scaduto e autorizzazioni mancanti.
Un passo falso che non solo evidenzia la goffaggine burocratica del Regno Unito, ma finisce per alimentare la narrativa voluta dai Kneecap: quella di artisti perseguitati per le loro posizioni politiche.

“Non ci prenderete mai …” sembrano gridare.

Nell’aula ormai vuota della Woolwich Crown Court resta solo l’eco delle loro risate.
«La nostra vendetta sarà la risata dei nostri figli», diceva Bobby Sands, il militante repubblicano nordirlandese morto durante lo sciopero della fame del 1981.
Oggi il suono di quelle risate rimbalza tagliente, beffardo e liberatorio.
Proprio come Bobby e i suoi compagni sognavano 40 anni fa.

lunedì, ottobre 13, 2025

Ed Sullivan Show

Riprendo l'articolo che ho dedicato nelle pagine del "Manifetso2 nella sezione "Alias", a Ed Sullivan.

La figura di Ed Sullivan appartiene all’infinito passato (morì nel 1974) e raramente esce (perlomeno in Europa) dal cliché di colui che portò per la prima volta i Beatles sugli schermi televisivi americani nel febbraio 1964.
L’esibizione di John, Paul, George e Ringo fu vista da oltre 70 milioni di spettatori, creando una sorta di rivoluzione culturale e artistica, in una nazione socialmente ancora molto chiusa e refrattaria a tutto ciò che non apparteneva alla “tradizione”. Elvis e il giro rock ‘n’ roll erano stati in breve tempo assorbiti dal mainstream e le fiamme di rivolta velocemente spente.

L’esibizione dei Beatles indusse migliaia di giovani ragazzi e ragazze ad adottare uno stile estetico diverso, un approccio più libertario e antitetico alle tipiche regole del “bravo americano”, in tantissimi (da Bruce Springsteen a Tom Petty, Billy Joel, Gene Simmons dei Kiss, Joe Perry degli Aerosmith, Nancy Wilson, Mark Mothersbaugh dei Devo, tra i tanti) decisero di imparare a suonare uno strumento e diventare come i Beatles.
Se questo evento è stato probabilmente il picco mediatico della sua carriera, in realtà Ed Sullivan fu, ben da prima, un importante innovatore, soprattutto da un punto di vista sociale.
Lo descrive alla perfezione un recente documentario a lui dedicato, “Sunday Best” (disponibile nella piattaforma Netflix).

Il suo “Ed Sullivan Show” andò in onda dal 1948 al 1971 nei canali della CBS, dalle 20 alle 21 di ogni domenica.
Fu il primo show televisivo a introdurre ospiti di colore mischiati a quelli bianchi, operazione ardita, inedita e inaudita per i tempi, in cui ai neri erano riservati pochissimi e ben delimitati spazi (il primo show condotto da un afroamericano fu il “Nat King Cole Show” in onda tra il 1956 e 1957 con spettacoli di 15 minuti o mezzora).

Nel suo programma incominciarono ad apparire talenti immensi come Sammy Davis Jr, Harry Belafonte, Louis Armstrong, Count Basie, Duke Ellington, Ella Fitzgerald, Cab Calloway.
Successivamente diede particolare spazio agli artisti della Motown Records ma anche a personaggi meno orecchiabili come Bo Diddley (con cui ebbe un epico scontro a causa della decisione del musicista di suonare un altro brano rispetto a quanto concordato, allungando il tempo a lui riservato).
Come testimonia la presentatrice Oprah Winfrey nel documentario: “Immagina di avere dieci anni e vivere in una famiglia povera, guardare lo show di Ed Sullivan, in una cultura in cui in televisione non esistevano persone nere, vedere per la prima volta qualcuno che ti somigliava e rappresentava, letteralmente, una possibilità e una speranza”.

Nel programma era ospitata la più ampia gamma di esibizioni artistiche, da musicisti jazz, rock ‘n’roll, blues, soul, classici, ad attori, comici, balletti, spettacoli vaudeville, monologhi, celebri atleti (Sullivan aveva alle spalle una lunga e prestigiosa carriera come giornalista sportivo). Gli artisti, con qualche rara eccezione, si esibivano sempre dal vivo.

Non faceva distinzioni sul colore della pelle o appartenenza etnica, guardava esclusivamente al talento e allo spessore degli ospiti.
Il tutto nella lucida consapevolezza che le cose andavano cambiate ma soprattutto che stavano cambiando.
"Nella conduzione del mio spettacolo, non ho mai chiesto a un artista la sua religione, la sua razza o le sue idee politiche. Gli artisti vengono coinvolti in base alle loro capacità. Credo che questa sia un'altra qualità del nostro spettacolo, che ha contribuito a conquistare un pubblico vasto e fedele."

Pur ricevendo numerose pressioni da parte degli sponsor del Sud degli States, ancora apertamente segregazionisti, proseguì nella sua linea (peraltro rifiutando rapporti con le ditte dichiaratamente razziste), che, alla fine, risultò vincente. Anche in quella parte, ancora socialmente retrograda dell’America, gli ascolti erano più che buoni.
“Rispetto a un teatro tutti quelli che guardano il mio show hanno un posto in prima fila”.
Nel corso degli anni il suo fiuto per le novità non venne mai meno.
I Beatles tornarono altre volte, arrivarono i Rolling Stones, Animals, Doors, Aretha Franklin, James Brown e tanti altri esponenti della nuova scena musicale degli anni Sessanta.
L’apertura mentale di Sullivan non era però politicamente accoppiata a una visione così aperta.

Esplicitamente anticomunista, fu sempre “vigile” nell’evitare che artisti troppo schierati potessero in qualche modo “turbare” il clima dello spettacolo.
Nonostante ciò invitò Harry Belafonte (che non faceva mistero delle sue simpatie di sinistra) e perfino Bob Dylan, la cui esibizione era prevista per il maggio del 1963, in concomitanza con l’uscita del secondo album The Freewheelin' Bob Dylan da cui decise di suonare Talkin' John Birch Paranoid Blues, brano incluso solo nelle prime copie del disco e poi depennato per decisione dell’etichetta. Una canzone (poi recuperata in The Bootleg Series Volumes 1-3 (Rare & Unreleased) 1961-1991) in cui si prendeva gioco dell’organizzazione di ultradestra “John Birch Society”.
Il giorno della trasmissione, la CBS mise il veto all'esecuzione del pezzo, ritenuto troppo polemico, nonostante lo staff non avesse sollevato alcuna obiezione.
A Dylan fu chiesto di scegliere un'altra canzone, ma decise di non partecipare al programma, in segno di protesta contro la censura. Sullivan prese la parte del cantautore in numerose interviste, successive al clamore sollevato dalla vicenda.
Non di meno era attentissimo a monitorare i testi delle canzoni per impedire che il suo pubblico potesse ascoltare versi con riferimenti a carattere sessuale o attinente alla droga.

I Rolling Stones accettarono di buon grado di cambiare “Let’s Spend the Night Together” in Let’s Spend Some Time Together”, molto meno peccaminoso. Anche i Doors furono bacchettati sulla parola “higher” (sotto inteso di “andare in alto”, grazie all’uso di droghe) in “Light My Fire”.
Jim Morrison accettò di sostituirla ma durante l’esibizione la cantò ugualmente. Alla fine un collaboratore di Sullivan disse alla band:
“Al signor Sullivan piacete veramente tanto e pensava di farvi venire almeno altre sei volte. Ma non farete mai piùparte dello show”.
Anche con i Byrds si scontrò sempre per lo stesso motivo, per il brano “Eight Miles High”.
Probabilmente con il tempo si rese conto di quanto fosse puerile la sua presa di posizione e lasciò, successivamente, che Sly and the Family Stone portassero sul sul suo palco la ben più esplicita “I Want to Take You Higher”. Nonostante il grande successo ottenuto per un ventennio, alla fine degli anni Sessanta, la società era cambiata notevolmente, i gusti dei giovani si erano spostati verso nuove forme di comunicazione, la stessa televisione aveva preso altre modalità di intrattenimento.

L’ingessato conduttore settantenne, algido e rigido, costantemente in giacca e cravatta perse progressivamente il suo appeal. Gli spettatori calarono e con essi gli sponsor, lo show era ormai sinonimo di vecchio e di passato (per quanto così recente) e nel marzo del 1971 la CBS decise di cancellare il programma. Ed Sullivan produsse qualche ulteriore speciale ma con scarso successo.
Morì nel 1974.
“Mi sembra giusto che quando vai in una Tv nazionale, che il minimo che tu possa fare con questo grande privilegio, sia cercare di fare qualcosa per avvicinare le persone”.
Raramente qualcuno/a, con questa potenzialità a disposizione è riuscito/a a fare tanto.

venerdì, ottobre 10, 2025

I 500 grandi dischi del rock

Anche CLASSIC ROCK ha pensato bene di fare la classifica dei 500 MIGLIORI ALBUM ROCK di sempre.

Attraverso una scelta preventiva dei redattori si è arrivati alla lista finale.
Da parte mia ho scritto una cinquantina di schede (da Paul Weller ai Beatles, dai Bad Brains ai Black Flag, dai Sonic Youth a Patti Smith, da "Quadrophenia" a "Sandinista").

Il GIOCO è già stato fatto decine di volte e ovviamente tale rimane, altrettanto ovviamente è tutto opinabile, discutibile e grande sarà lo scandalo perché c'è questo e non quello e che, per me, vedere "Stanley Road" di Paul Weller al 452° posto dietro a "Hair of the dog" dei Nazareth fa friggere il sangue. Ma è appunto un gioco.

Un modo per fare conoscere ai più giovani quello che è (stato) il rock e per i più attempati ricordarsi di tanti titoli dimenticati.

L'aspetto più scontato ed evidente è la presenza in stragrande maggioranza di album dagli anni Sessanta alla fine degli Ottanta.

In TUTTE le edicole.

giovedì, ottobre 09, 2025

Not Moving - But It's Not VIDEO

Il nuovo video dei NOT MOVING dall'album "That's All Folks!" (LaPop / La Tempesta Dischi) disponibile in CD e vinile dal 17 ottobre.

https://www.youtube.com/watch?v=Foxxqa8ouR0

Credits
Rita Lilith Oberti – vocals
Dome La Muerte – guitars
Antonio Bacciocchi – drums
Iride Volpi – guitars, backing vocals

Recorded and video released at Elfo Studio, Tavernago (Piacenza)
Mixed by Matt Bordin
Archive footage courtesy of the Not Moving Archive

Directed and edited by Silvia Biagioni — https://silbia.it

Director of Photography: Andrea Vaccari
Color Grading: Diego Diaz

🎧 Stream here: https://lnk.to/butitsnot

Lyrics – “But It’s Not” (Oberti/Petrosino)

And (is) the day
Same old day
Becoming light blue
And the world
Is over my dreams
Becoming strong blue
Oh, it’s a Holy Day
Wild Time
It’s like a vacation
But it’s not
Rainy days
Wet old days
Dreams all becoming blue
And sweet hearts
Went all wrong
Becoming violent blue
Oh, it’s a Holy Day
Wild mind
It’s like a vacation
But it’s not

mercoledì, ottobre 08, 2025

Ronnie Wood - Fearless Anthology 1965-2025

Uno dei più grandi chitarristi rock in assoluto.

Che ovviamente non significa virtuoso solista o funambolico esecutore di pirotecnie strumentali.
Basta vederlo sul palco con gli Stones, rifinire tutto, tessere trame, unire tasselli ritmici, vero pilastro della band.

E' appena uscita una compilation che raccoglie SESSANTA ANNI di carriera, con brani scelti nell'immenso repertorio in cui ha suonato, dai Birds ai Creation, dal Jeff Beck Group al primo Rod Stewart solista, i Faces, i Rolling Stones, i suoi innumerevoli (sempre di alta qualità) sforzi solisti (tra cui il divertentissimo twist "A certain girl" con la voce di Chrissie Hynde).

Rock 'n' roll, rhythm and blues, reggae, rocksteady ("Take It Easy"), funk.

Ascoltarla di seguito è un piacere e ci conferma l'incredibile percorso di un grandissimo musicista.

lunedì, ottobre 06, 2025

Van Morrison - Jackie Wilson Said (I'm in Heaven When You Smile)

"Jackie Wilson Said (I'm in Heaven When You Smile)" è un omaggio sincero e devoto a uno dei suoi ispiratori, il soul man Jackie Wilson, da parte di VAN MORRISON, dall'album del luglio 1972 "Saint Dominic's Preview", poi ripresa dai Dexy's Midnight Runners in Too Rye Ay" nel 1982 (in modo non troppo lontano dall'originale).

Il primo demo è del gennaio 1972. Quando a fine mese la band entrò in studio registrò la canzone in diretta alla prima take.
Il chitarrista Doug Messenger ricordò: "Alla fine rimanemmo tutti in silenzio: ce l'avevamo fatta in una sola volta? Van ne volle fare un'altra, ma si fermò dopo qualche battuta perché sentiva che non funzionava. 'Penso che ce l'abbiamo già".
Le sovraincisioni di fiati furono aggiunte in seguito.
Lo stesso Van Morrison ammise che anche il cantato era ispirato da quello, molto distintivo di Jackie Wilson (che a sua volta fu palesemente imitato da Kevin Rowland in gran parte della carriera con i Dexy's Midnight Runners.

Il brano è diventato una costante nel repertorio live di Van Morrison.

Van Morrison - Jackie Wilson Said (I'm in Heaven When You Smile)
https://www.youtube.com/watch?v=TY0_1VN7h8c

La versione dei Dexy's Midnight Runners fu pubblicata come singolo nell'agosto 1982 e arrivò al quinto posto delle classifiche inglesi (dopo il successo di "Come On Eileen", scelta all'ultimo momento come primo 45 giri al posto della cover di Van Morrison).
Van avrebbe dovuto partecipare al brano ma alla fine si limitò a un parlato finale che venne però tagliato nel mixaggio.

Kevin Rowland & Dexys Midnight Runners - Jackie Wilson Said (I'm In Heaven When You Smile)
https://www.youtube.com/watch?v=A1vAQM4W02E

Altre versioni:
Syl Johnson: https://www.youtube.com/watch?v=ycrr6v9XLJA
David Campbell: https://www.youtube.com/watch?v=ozxEHY280Z0
Head Automatica: https://www.youtube.com/watch?v=5tcZijeZeaA

Nel testo compare il diretto riferimento a Jackie Wilson e alla sua hit "Reet Petite"

Da, da, da, da, da,
Jackie Wilson said
It was "Reet-Petite"
Kinda love you got
Knock me off my feet
Let it all hang out
Oh, let it all hang out.
And you know
I'm so wired-up
Don't need no coffee in my cup
Let it all hang out
Let it all hang out.
Watch this:
Ding-a-ling-a-ling
Ding-a-ling-a-ling-ding
I'm in heaven, I'm in heaven
I'm in heaven, when you smile
When you smile, when you smile
When you smile.
And when you walk
Across the road
You make my heart go
Boom-boom-boom
Let it all hang out
Baby, let it all hang out
And ev'ry time
You look that way
Honey chile, you make my day
Let it all hang out
Like the man said: let it all hang out.

venerdì, ottobre 03, 2025

Not Moving - But It's Not

I Not Moving tornano con l’album conclusivo della loro storia iniziata nel 1981: “That’s All Folks!”, in uscita il 17 ottobre per La Tempesta Dischi / LaPop.

Il primo singolo “But It’s Not” è un manifesto del loro sound, tra punk, Rolling Stones, rock’n’roll, glam e blues.

Un riflesso di un lungo cammino fatto di palchi, dischi, illusioni e delusioni, alti e bassi, “wild time” con una “wild mind”, in quella che è sempre sembrata una vacanza: “But It’s Not”.

👉 Link pre-save https://lnk.to/butitsnot (su Spotify, Apple Music, Deezer, Tidal, Amazon Music).

#NotMoving #ThatsAllFolks #LaTempesta

BUT IT'S NOT

And (is) the day
Same old day
Becoming light blue
And the world
Is over my dreams
Becoming strong blue

Oh is an Holy Day
Wild Time
It's like a vacation
But It's not

Rainy days
Wet old days
Dreams (all) becoming blue
And sweet hearts
Went all wrong
Becoming violent blue

Oh (is) an Holy Day
Wild mind
It's like a vacation
But It's Not

Clic per un like:
https://www.facebook.com/profile.php?id=100051397366697

giovedì, ottobre 02, 2025

Devo

Riprendo l'approfondimento che ho scritto per l'inserto "Alias" de "Il Manifesto" sui DEVO, lo scorso sabato.

Difficilmente chi ha vissuto gli anni tra il 1977 e i primi Ottanta riuscì a percepire la portata enorme di quello che stava artisticamente accadendo nella musica, inizialmente tra Londra e New York, immediatamente dopo in mezzo mondo.
Il punk e la new wave diedero il via all’attività di centinaia, migliaia, di gruppi, con variabili sonore e creative diversissime, spesso geniali, sconvolgenti, travolgenti.
In molti arrivarono inaspettatamente (per i tempi) al successo e a un posto nell’Olimpo del “rock” (dai Sex Pistols, ai Ramones, Clash, Talking Heads, Blondie, per citare i più noti), altri rimasero nel dimenticatoio.
In mezzo una lunga lista di splendidi dischi e artisti, il cui spessore creativo riluce ancora oggi per innovazione e capacità compositiva.
La suddetta repentina divulgazione del “verbo” della new wave arrivò, ben presto, dalle metropoli alla profonda provincia, forse ancora più adatta ad accogliere le istanze rivoltose di una gioventù che non aveva nulla con cui sfogare le proprie aspirazioni e il proprio desiderio di qualcosa di nuovo.

Un’onda che giunse perfino in Ohio, nella grigia “capitale della gomma”, Akron.
E’ qui che, addirittura nel 1973, parte l’avventura di una delle band più personali e originali nella storia del rock, i DEVO.

La cui nascita e primigenio sviluppo (fino al successo che trovarono dal secondo album in poi) viene ripercorsa con abbondanza di dettagli e un ricchissimo compendio fotografico (con immagini uniche e inedite) nel libro “Devo. In principio era la fine. L’incredibile storia dei DEVO e della loro fondazione” di Jade Dellinger e David Giffels, tradotto in italiano da Matteo Torcinovich per Hellnation Libri.

“Aveva una patina infernale e deprimente, una specie di strato di lattice sporco che riempiva l’aria, e così era la gente di Akron. I loro figli erano pronti a cadere nel baratro in qualsiasi momento. Erano talmente abbattuti che stavano per dare di matto. Tutto ciò si adattava perfettamente ai movimenti artistici del Novecento, Espressionismo, Dada e altro. Avevamo una visione tutta nostra, una visione di gomma. Siamo cresciuti come sfigati in Ohio, circondati da negozi per forniture per la pulizia, fabbriche di pneumatici, cataloghi di attrezzature industriali, guanti di gomma. Invece di vergognarcene o di cercare di negarlo, li abbiamo utilizzati” (Jerry Casale, bassista della band).

“Akron era la seconda città più grigia d’America, dopo Seattle. Condividevamo un certo disprezzo per un luogo in cui un gran numero di giovani non aveva futuro, a parte quello di lavorare in quelle fabbriche di gomma calde e sporche” (Mark Mothersbaugh, voce e tastiere).

Prima del celebre e fondamentale esordio del 1978, “Question: Are We Not Men? Answer: We Are Devo!”, prodotto nientemeno che da Brian Eno (dopo una fortunosa vicenda di una cassetta portata a Iggy Pop a un concerto, passata a David Bowie, in tour con lui e approdata al celebre musicista e produttore.
Cose che potevano accadere “una volta”), uno degli album più rivoluzionari e sorprendenti di sempre, la band ci mise più di un lustro per affinare sonorità e soprattutto immagine.
A cui si aggiunse un concept unico, filosofia portante della vicenda del gruppo, la “Devo-luzione”, una teoria in base alla quale l'umanità, invece che continuare a evolversi, avrebbe incominciato a regredire, come dimostra(va) la mentalità gretta della società statunitense, all’opposto dell’idealismo pseudo progressista e di presunta guida culturale e sociale del mondo, americano.

Non fu mai compreso appieno quanto il loro messaggio, radicale, anti sistema, la loro critica feroce al capitalismo americano, alle sciocche nostalgie per le tradizioni ("di un mondo che non è mai esistito"), non sia mai stato recepito, se non marginalmente (come malinconicamente evidenzia il recente doc su Netflix, “Devo” di Chris Smith) ma siano sempre stati considerati solo una band bizzara se non addirittura sciocca e caricaturale.

“Non eravamo veramente musicisti pop. Eravamo scienziati, reporter musicali. Siamo stati influenzati più dagli artisti pop multimediali e concettuali dell’epoca che dalla musica che si trasmetteva alla radio. Artisti visivi, come Andy Warhol, artisti degli anni Sessanta che avevano a che fare con concetti e idee. Volevamo far parte di questo, piuttosto che sederci con una chitarra in mano per il resto della nostra vita a scrivere canzoni. Vedevamo il mondo intero, la tecnologia e tutte le cose naturali e artificiali, come un potenziale materiale attraverso cui trasmettere il nostro messaggio”. (Mark Mothersbaugh).

I DEVO seppero condensare un immaginario futurista con le movenze robotiche dei musicisti sul palco (mutuate dalla lezione dei Kraftwerk) e un vestiario che rappresentava, sarcasticamente, quello della classe operaia della loro città, con tute gialle da lavoratori dell’industria chimica e tecnologica.

I DEVO erano un collettivo.

La band intendeva presentarsi come un gruppo unito, composto da lavoratori senza volto, con chitarre e sintetizzatori nella cassetta degli attrezzi.
Colonna sonora: una musica mai sentita che prendeva e rivoltava/devolveva il rock‘n’roll in una nuova miscela, ardita, arrembante, in cui new wave, elettronica, punk e sperimentazione, si univano a creare un nuovo ibrido pop.
Il manifesto del gruppo fu la rivisitazione sincopata e stravolta di “Satisfaction” dei Rolling Stones. Mick Jagger concesse con molto piacere il permesso di pubblicare una versione così irriverente, che poco o niente conservava di quella originale.
All’epoca fu stupefacente immaginare cosa poteva prefigurare una simile base di partenza. Anche perché, nell’esordio, la band affiancò brani come “Mongoloid” (difficile, se non impossibile, che con un titolo così, al giorno d’oggi, il brano potrebbe essere pubblicato) o “Uncontrollable Urge”, dall’imprevedibile ritmo in 7/4 che evidenziava la preparazione tecnica dei musicisti della band.
L’effetto colse di sorpresa tutti.

Basti pensare che la prestigiosa rivista “Creem” lo mise al primo posto tra gli album New Wave dell’anno ma i lettori votarono i DEVO al terzo tra i “migliori” gruppi e allo stesso posto tra i “peggiori”. Il famoso critico Lester Bangs li liquidò come “musica giocattolo”.

Ebbero la benedizione del pubblico del CBGB’S New Yorkese (pare che quasi tutti i gruppi passati per di lì abbiamo avuto un qualche tipo di successo) e di quello californiano e in breve sfondarono. Non durò molto (anche a causa di un processo legale intentato da Bob Lewis, tra i fondatori e ideologi del gruppo, che tagliò economicamente le gambe alla band) ma arrivarono ben presto anche al successo commerciale, dopo l’interlocutorio “Duty Now For The Future” (1979) con “Freedom Of Choice” (1980) e “New Traditionalists” (1981) e una serie di azzeccati singoli che diluivano in pop elettronico le precedenti intuizioni.
Il resto è normale amministrazione artistica.
Come chiosa il sopracitato libro, paradossalmente, i DEVO arrivarono ad autocitarsi involontariamente:
“I DEVO si sono devoluti. La loro storia degli anni Ottanta include tutti i clichés dei documentari rock: abuso di droghe, relazione tese, compromessi commerciali e passi falsi artistici”.

Cambiano le formazioni, la band resta a lungo silente, torna periodicamente ad esibirsi, si susseguono compilation, tributi, documentari, una vodka con il loro nome, l’arrivo nella Rock And Roll Hall Of Fame nel 2018.
Scompaiono membri storici come Bob Casale e Alan Myers ma il mito resiste, grazie alla creazione di un immaginario inimitabile e unico e a una delle migliori e più intriganti idee mai concepite all’interno della storia de rock.

“Anche se fin dall’inizio abbiamo sempre detto, con grande consapevolezza, che l’inizio era la fine e che la verità sulla Devolution incarnava questa idea ovvero che la fine arriva sempre inaspettata. La fine precisa non la capisci mai, non puoi prevederla ed è proprio questo lo scherzo perverso della faccenda”. (Jerry Casale)
Related Posts with Thumbnails