martedì, dicembre 29, 2020
Il calcio in India - Seconda parte
Ho chiesto a ALBERTO GALLETTI una ricerca sul CALCIO in INDIA.
In parole povere: perché una nazione di un miliardo di persone, di estrazione (forzatamente) anglofona non ha mai espresso anche solo a livello continentale un calcio accettabile?
Sabato 12 dicembre IL MANIFESTO ha pubblicato una riduzione di questo articolo.
PARTE SECONDA
Rise & rise
La prima vittoria della nazionale indiana di cricket in un Test Match contro l’Inghilterra nel 1952, aumentò di parecchio la popolarità di questo gioco, fino a li recluso nella torre d’avorio delle cerchie di altolocati veri e propri.
I buoni risultati del decennio successivo, culminati con un doppio successo nelle serie su Inghilterra e West Indies rispettivamente nel ’70 e nel ’71, insieme alla comparsa sulla scena del grande Sunil Gavaskar, consacrarono il cricket nuovo sport nazionale consegnando il calcio alla seconda fila.
L’ inaspettata vittoria dell’India al mondiale di cricket del 1983 poi, capovolse in un sol colpo gli equilibri di preferenze interni al cricket e tra cricket, calcio e hockey.
Da li in avanti l’ascesa del One Day Cricket in India divenne inarrestabile, fino a raggiungere gli assurdi di oggi ben espressi dall’ancor più assurdo ed insensato successo del T20 (non solo in India).
…and fall
Dopo i picchi del ’60 e del ’64 invece, la nazionale di calcio non era più riuscita a ripetersi, anzi le sue fortune declinarono abbastanza rapidamente; trend che è continuato, trascinando con se l’intero movimento, per quattro decenni .
Il calcio rimaneva uno sport gestito come il cricket, dominato da Calcutta, con qualche favoritismo regionale duro a spegnersi che si ripercuoteva sull’attività dei club, tutto sommato campanilistica.
In se sportivamente un bene, ma troppo frammentata e discontinua.
Non esisteva un campionato nazionale ma solo la Durand Cup, affiancata prima dal IFA Shield e poi dalla Santosh Cup.
Questi tre tornei rimanevano gli unici in ambito nazionale ma la loro formula, torneo ad eliminazione diretta, nonché struttura: alla Durand Cup partecipavano club militari o dipendenti da altri enti governativi, lo Shield era disputato dai club mentre la Santosh Cup da rappresentative statali, non era in grado di garantire una crescita costante ne tantomeno uniforme, nè considerevole al movimento.
Se uscivi al primo o al secondo turno , le partite competitive erano finite.
I club continuavano con i loro calendari pieni di tornei locali o amichevoli ma è chiaro che in questo modo le possibilità di migliorare non erano molte. Troppa frammentazione, troppa dispersione.
Bob Houghton, CT inglese dell’ India tra il 2006 e il 2011 definì ad esempio la Santosh Cup un inutile spreco di tempo e talento.
Questo in un’epoca in cui c’era già il campionato, figuriamoci prima.
Infatti nel 1996 la Federazione cercò di invertire la tendenza con la creazione della National Football League, il primo campionato indiano della storia.
Dopo oltre cento anni di attività sparsa e talvolta isolata e discontinua, il calcio in India si dotava di un sistema organizzato in categorie nazionali.
La NFL fu dotata di carattere semiprofessionistico, al posto del dilettantismo di prima, con il chiaro intento di incrementarne il livello.
Otto furono le partecipanti alla prima edizione. Un contratto con Sky fruttò alla federazione un milione di sterline l’anno.
L’anno successivo le squadre salirono a dieci e fu creata una Seconda Divisione con sistema di retrocessioni e promozioni automatiche.
Le cose parvero procedere in maniera positiva e nel 2006 fu aggiunta una terza divisione.
Non era proprio così, crescenti difficoltà economiche e il fallimento di un club già dal 2002, portarono gli organizzatori a dichiarare che il campionato navigava finanziariamente in pessime acque.
Oggi
La Federazione riprese ancora una volta in mano il pallino, questa vota in maniera più decisa.
La NFL fu ristrutturata, rinominata I-League e dotata di nuove risorse grazie al nuovo sponsor Oil & Natural Gas Corporation e ad un contratto di copertura televisiva decennale con la rete Zee Sports.
L’intenzione, stavolta, rendere il calcio indiano completamente professionistico per davvero.
La struttura prevedeva due divisioni da dieci squadre ciascuna, portate a dodici l’ anno dopo.
Rimaneva comunque un contesto ristretto in quanto le dodici formazioni provenivano da sole tre città, da cui seri interrogativi sul carattere nazionale del campionato.
Altre due squadre furono aggiunte nel 2009 provenienti da due nuove città.
Ciononostante la culla del calcio indiano rimane Calcutta, niente di strano comunque, basti pensare a Buenos Aires, Londra o Montevideo.
La nazionale non beneficiò molto della trasformazione del campionato, rientrata dopo un’ assenza di 27 anni in Coppa d’Asia nel 2011, fu eliminata al primo turno dopo tre sconfitte.
Questo non ha impedito alla squadra di essere accolta con grandi trionfalismi al rientro in patria.
Segno che il battage televisivo funziona, e anche che nessuno ancora ci capisce più di tanto.
Anche in termini di spettatori non è che le cose vadano così bene: la media spettatori in campionato nel 2014 è stata di 5.618 spettatori a partita.
La squadra più seguita è risultata il Mohun Bagan con una media di 17.068 spettatori a partita, davanti al Shillong Lajong con 11.308, tutte le altre sono sotto le diecimila unità.
Numeri da Serie A norvegese, un Paese di poco meno di 5 milioni e mezzo di abitanti.
Da segnalare comunque che a Calcutta, il derby di I-League del novembre 2011 fece registrare la bella cifra di 90.000 spettatori.
I club continuarono ad avere problemi finanziari.
I giocatori chiesero, e talvolta ottennero, più soldi, ma gli incassi delle partite rimasero magri, le partite giocate alle tre del pomeriggio non invogliano; il merchandising e altre entrate da partita inesistenti e i diritti tv vanno direttamente in tasca alla federazione che poi ridistribuisce con parsimonia o non ridistribuisce affatto.
Qualche giocatore nel giro della nazionale ha fatto provini in Scozia e Inghilterra e poi è finito a giocare in Danimarca.
Insomma, non tutto sto successo.
Nel 2010 però, la AIFF, in anticipo di quattro anni sulla scadenza, decise di terminare il contratto con Zee Sport in virtù di un’offerta superiore di Reliance-IMG, multinazionale con sede a Mumbay, pari a 105 milioni di dollari per i successivi quindici anni.
I club si ammutinarono rigettando l’offerta di Reliance o forse quello che la AIFF avrebbe riservato loro.
Dopo una vertenza legale senza sbocchi, l’offerta fu ritirata.
La questione non finì li perché ne Reliance ne la AIFF , che annusava il colpo grosso, gettarono la spugna.
Così, sull’onda del successo senza precedenti della cricket IPL, nel 2013 Reliance fonda, con il patrocinio federale, la Indian Super League che prese il via nell’ottobre 2014.
Anche qui l’obiettivo, dichiarato, è quello di far crescere il calcio (professionistico) in India bla bla bla, ma a guardarci dentro bene si vede che fu un’operazione di showbiz più che sportiva.
Fondata e gestita da una controllata di Reliance Industries Ltd che individuò otto città e indisse un’asta per aggiudicarsi la proprietà delle nuove franchising o franchigie.
Si può fare più o meno tutto se dietro hai reti televisive, multinazionali e stelle del jet-set indiano, dalle star di Bollywood ai nazionali di cricket, semidei dell’ India di oggi, che manifestano interesse verso un tipo di investimento del genere.
Compreso aggirare i regolamenti FIFA che vietano la disputa di più di un campionato nazionale in ogni Stato.
FIFA che però, davanti ad una potenziale esplosione del calcio in India, non ha esitato a concedere una speciale dispensa per la formazione e la disputa di questo torneo, che però non riconobbe inizialmente come campionato nazionale.
L’ asta fruttò qualche centinaio di milioni di dollari.
Quando gente come Tendulkar, Ganguli, Dhoni e soprattutto Kohli vi partecipano per aggiudicarsi la proprietà delle franchigie, il delirio massmediatico è assicurato.
E con esso la partecipazione dei colossi televisivi (a pagamento) indiani.
Star, uno dei canali più potenti, una volta terminata l’aggiudicazione delle franchigie comprò il 35% per cento della Indian Super League versando 300 milioni di dollari agli organizzatori e garantendosene i diritti televisivi per dieci anni.
Dopo questo fondamentale colpo di scena arrivò puntuale l’incredibile voltafaccia di FIFA e federazione asiatica che riconobbero la ISL come campionato ufficiale, parallelo e non organicamente inserito nella struttura della I-League che rimane il campionato ufficiale, in modo di permettere alle prime due classificate di partecipare alla Aian Champions League.
Senza vergogna.
La cosa sembra però funzionare, almeno un po'.
Dando una rapida scorsa ad alcune cifre, si scopre che il Pune FC, ad esempio, in cinque stagioni ha avuto medie spettatori comprese tra le 16.738 e le 18.724 presenze a partita, con una percentuale di riempimento dello stadio compresa tra il 91% e il 98.54%.
Tutti numeri maggiori di quelli dell’Atalanta.
Meglio ancora i Kerala Blasters, che nei primi tre campionati ha fatto registrare medie superiori ai cinquantamila spettatori a partita.
In Italia negli ultimi otto anni c’è riuscita, due volte, solo l’Inter.
Le presenze allo stadio nel 2018/19 sono state di buon livello.
Le squadre sono dieci, non ci sono retrocessioni o promozioni, ma un criterio di allargamento del franchising tipo quello della MSL.
Industria dello spettacolo pura e semplice creata per le tv.
La media spettatori più alta è risultata essere 20.016, la più bassa 4.981, quella del campionato 13.155.
La partita di campionato con il record di pubblico è stata ATK- Kerala con 42.102 spettatori, ma poi , inspiegabilmente, la finale del campionato ne ha fatti registrare solamente 7.372.
Ancora l’attenzione del pubblico non si concentra sul calcio in se, ma probabilmente sul contorno.
Diciamo comunque numeri da campionato svizzero, tanto per capirsi.
I biglietti costano l’equivalente di 3/ 4 dollari, non sufficienti a dare incassi in grado di contribuire alla gestione dei club e sono quindi i diritti televisivi, aggiudicati l’anno scorso ai due giganti Star e Hotstar a tenere in piedi la baracca.
Tutte le 100 partite del campionato vengono trasmesse in diretta.
Il pubblico televisivo potenziale nel 2019 è stato valutato in 168 milioni di telespettatori e questo, insieme alla previsione di raggiungere presto i 250 milioni, conta di più del livello mediocre del campionato.
Non così male, ma non si diventa forti con gli spettatori tv e milioni fatti in pubblicità, quelli servono per arricchire chi organizza il campionato e i proprietari delle squadre.
Si diventa forti giocando e, non si scappa, bisogna partire dal basso, dai bambini.
La Durand Cup e il Santosh Trophy hanno continuato a svolgersi, Houghton è stato rimpiazzato da Igor Stimac e la nazionale continua a combinare qualcosa solo nella Coppa dell’Asia Meridionale e neanche sempre.
Domani
Ci sono poi due problemi , escludendo il cricket, con il calcio in India.
Il primo è che, anche a chi il calcio piace importa poco del calcio indiano.
Guardano quasi tutti la Premier League o altri campionati europei e sono tifosi di Manchester United, Real, Barcellona o Liverpool.
Sembra esserci una totale ignoranza sui protagonisti attuali del calcio indiano giocato, tra i calciofili indiani tutti conoscono Messi e Ronaldo, ma nessuno sa dire la formazione della nazionale e a malapena conoscono nome del giocatore più famoso.
Un fatto questo che evidenzia la mancanza di campioni e/o idoli locali o meglio ancora la tendenza a snobbare i calciatori del posto preferendogli le superstar mondiali.
Forse può non sembrare ma credo che lo spirito di emulazione, molto importante tra i giovani sportivi, possa risultare poco determinante quando gli idoli cui ispirarsi non sono del posto.
Risulta inoltre mortificante per i calciatori indiani come puntualizza il capitano della nazionale che afferma di preferire gli insulti all’indifferenza, almeno sarebbe segno che a qualcuno di noi importa qualcosa.
In un panorama del genere, scalzare il cricket dal piedistallo sul quale si trova mi pare come voler scalare il Mortirolo con un triciclo.
Il calcio oggi in India non dà nessun tipo di visibilità, celebrità o tantomeno ricchezza per chi lo pratica, soldi e prestigio sono associati al cricket.
Ed ecco qui ecco il secondo problema che riguarda la società indiana e la mentalità corrente.
Se giochi nella IPL, o per i Mumbai Indians o meglio ancora in nazionale, benissimo.
Se sei un calciatore del Dempo è meglio che lasci stare e finisci di studiare.
Questo è il pensiero dominante, quello che i genitori impongono ai figli.
I genitori vogliono avere motivo di vanto per i loro figli verso altri genitori, questa è la mentalità imperante.
Quindi, a meno che tu non sia un cricketer promettente, i genitori scoraggiano apertamente la pratica sportiva e non accettano altro dai figli che non sia lo studio.
Alcuni incolpano la mancanza di strutture, ma non mi pare essere questo il problema quando posti come il Sud America, soprattutto, ma anche l’Africa, producono giocatori e squadre di grande livello partendo da una mancanza di strutture di base.
Ma i bambini e ragazzini sudamericani e africani giocano a calcio ovunque, così come i bambini indiani giocano a cricket ovunque capiti.
Bisogna invogliarli a giocare.
A Pune, il presidente del Pune FC, un businessman che ha studiato in Inghilterra, fanatico del calcio e tifoso del Liverpool (ma si può?) sta organizzando un settore giovanile partendo dalla realizzazione di un impianto sullo stile dei club europei che ha intenzione di alimentare andando a rastrellare talenti negli slums della città , ce ne sono in abbondanza.
E’ convinto di poterci trovare il prossimo Maradona.
Al di là degli auguri mi sembra comunque questa la strada da seguire.
A Pune il calcio è comunque molto popolare.
La nazionale continua il suo percorso deludente, inserita nel gruppo D di qualificazione al mondiale 2018, si è piazzata ultima in gruppo che comprendeva anche Iran, Oman, Turkmenistan e Guam; non esattamente delle potenze.
In quelle per il prossimo mondiale a fine 2019 è penultima nel gruppo E con 3 punti in cinque partite, staccatissima da Oman (13) e Qatar (12).
Se avranno il coraggio di destinare una grossa fetta degli introiti della ISL per finanziare il calcio alla base, creare settori giovanili con allenatori provenienti da paesi calcisticamente evoluti, invece di strapagare il CT della nazionale o gli allenatori e giocatori stranieri della squadre della ISL, e la pazienza di aspettare, magari fra una ventina d’anni cominceremo a vedere qualcosa. Ma sembra che la strada imboccata si a un’altra.
Le squadre della ISL non hanno settori giovanili, non servono per un campionato che dura tre mesi.
Non rischiano di far giocare un ragazzo indiano senza esperienza in un torneo ad alta spettacolarità (televisiva).
Molto triste.
Si rischia inoltre di mandare in crisi il campionato vero, la I-League, che non è in grado di pagare i giocatori allo stesso livello della ISL.
Parecchi sono i giocatori che già hanno cambiato campionato.
La struttura a franchigia tipo NBA non prevede, almeno nell’immediato futuro, una struttura piramidale che rimane per me requisito fondamentale per l’allargamento della base, del consenso verso il calcio e il conseguente aumento di competitività.
Struttura che la I-League ha, in quanto campionato ufficiale, e che andrebbe sostenuto e potenziato mentre invece stà soccombendo, schiacciato dal peso dei milioni di dollari dell’altro campionato.
Non stanno cercando di far crescere un movimento sportivo che eventualmente potrà avere consenso e un certo successo di pubblico, ma stanno cercando di formare squadre per uno spettacolo televisivo che ha già trovato un pubblico.
Sconsolante.
La sconfitta dello sport e il trionfo dello showbusinness.
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