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Ho già parlato di un po’ dei miei artisti preferiti: Doors (21 ottobre 2011) Redskins (5 ottobre 2011), Undertones (25 ottobre 2010), Dungen (8 settembre 2010), Bob Dylan (17 giugno 2010), Supergrass (13 aprile 2010), Iggy Pop (17 marzo 2010), Secret Affair (11 novembre 2009), Kinks (15 settembre 2009) The X (24 giugno 2009), Area (11 giugno 2009),Statuto (3 aprile 2009) ,Clash (13 marzo 2009) Small Faces (6 feb 2009), Rolling Stones (23 genn 2009) De Andrè (8 genn 09) Beatles (9 dic 08), Graham Day (27 ott 08), Oasis (7 ott 08), Paul Weller (27 mag 08) Prisoners (6 giu 06), , Ruts (23 sett 06), Who (22 mag 06), Monkees (28 giu 06).Artista a 360 gradi tra i principali protagonisti della musica contemporanea DAVID BOWIE ne ha esplorato ogni meandro sperimentando, rivoluzionando, mettendosi in costante discussione.
Uno dei pochi che lo ha potuto fare mantenendo una totale credibilità.
Ha consegnato alla storia almeno tre/quattro capolavori e un’altra serie di interessantissimi album di altissimo livello.
Fino al lento declino e alla dignitosa forza di ritirarsi e non pubblicare più nulla (da quasi 10 anni).Tra il 1963 e il 1967 David Bowie è stato piuttosto attivo, anche in ambito discografico, con una serie di bands vicine alla scena mod (di cui era parte): KingBees, Manish Boys, Lowerd Third, The Buzz, Riot Squad oltre a Kon Rads, Hooker Brothers tutte più o meno protagoniste di un buon ma anonimo rythm and blues bianco e beat.David Bowie (1967) 5Un esordio acerbo e traballante tra occhiate vaudeville psichedeliche (“Uncle Arthur”), qualche brano pop, ballate bizzarre con fiati e archi (“Rubber band”), molti episodi trascurabili.
Space Oddity (1969) 6La famosa “Space oddity” indirizza meglio l’ispirazione e l’immagine di Bowie più “onirica” e “spaziale”, con ottimi inserti psych (l’ottima ballad “Janine”) in chiave decisamente beatlesiana (l’epico finale di "Memory of a free festival”) e virate folk rock.
L’album era intitolato come il primo “David Bowie” ma fu ristampato con questo titolo nel 72.
Man who sold the world (1971) 8Il primo album importante di Bowie e tra i migliori della carriera.
Apre all’immagine “ambigua” e ad un hard rock pre glam (volutamente ispirato dall’amore di David per i Cream) anche se non mancano ballate acustico di sapore decadente ed episodi di sapore teatrale (“Running Gun Blues”) e dagli accenni lirici (“Saviour Machine”) che si sovrappongono a ritmiche e riff duri e diretti.
Un album di rara personalità ed unico nel suo genere in quegli anni.
Hunky Dory (1971) 7Un nuovo gioiello in cui la personalità di Bowie esplode in tutta la sua caleidoscopica varietà.
Abbandonato l’hard rock (anche se rimane evidente nel “minor hit” “Queen bitch” dai tratti proto punk) è il pianoforte a dominare omaggi espliciti a Andy Warhol, Bob Dylan ma anche a sbarazzini e agrodolci brani vaudeville come “Kooks” o “Fill your heart”. Ottimo anche se non pienamente definito.
Ziggy Stardust (1972) 10Il capolavoro assoluto.
Un concept senza passi falsi, perfetto nell’equilibrare una vena compositiva al suo apice, suoni duri e hard con liricità, epica, poetica, passaggi quasi sinfonici, ironici, drammatici, energici.
Capolavoro, tra i migliori album in assoluto della storia del rock e di enorme influenza su generazioni di artisti.
Alladin Sane (1973) 7Spesso considerato una prosecuzione di “Ziggy Stardust” appare in realtà come un’opera ben distinta. Bowie la definì come “un Ziggy in America” (a cui spesso si riferisce nei testi e anche nei riferimenti musicali).
“Alladin Sane” è più rilassato e meno drammatico dei predecessori, non risparmia omaggi al glam (“Jean Genie” , “Panic in Detroit”, “Watch that man”, “Cracked actor”) seppur filtrato da mille influenze ma si avvale anche di stupende ballate (la title track su tutte).Ottimo.
Pin Ups (1973) 6Divertente, non sempre ispirato ma ce ne vorrebbero di album di cover del genere.
David omaggia il suo recente passato beat coverizzando Who, Pretty Things, Kinks, Pink Floyd e tanti altri minori. Carino.
Diamond Dogs (1974) 7Pretenzioso concept (ispirato a 1984 di Orwell), famoso anche per la controversa copertina con Bowie raffigurato metà uomo e metà cane, mantiene alte le quotazioni e la creatività ma pur essendo considerato tra i suoi lavori più significativi non convince a pieno, in bilico tra il classico glam d’epoca (la title track, la famosissima “Rebel rebel”) e riferimenti al recente passato di Ziggy (la teatrale “Sweet thing”) anche se introduce il sorprendente omaggio al funk soul di “1984”.
David Live (1974) 8Stupendo doppio live che raccoglie una ventina di brani dei lavori più recenti splendidamente riarrangiati in chiave più soul e black (ascoltare ad esempio “Rebel rebel” o la sorprendente pur se accademica cover del classico soul “Knock on wood” di Eddie Floyd e di “Here today gone tomorrow” degli Ohio Players). C’è anche la bellissima “All the young dudes” donata ai Mott the Hoople. Il miglior live di Bowie.
Young Americans (1975) 6Abbracciati i nuovi suoni easy funk americani Bowie ci si butta a capofitto, sterzando bruscamente rotta (pur se già esplicitamente indicata nel live dell’anno precedente).
Compone con Lennon il funk “Fame” e ne rifà l’ “Across the universe” beatlesiana in una versione enfatica e poco convincente (in entrambi suona e canta John) e riempie di soul, blackness e soul tutto il resto.
Plastic soul lo definirà lui stesso. Esatto.
Station to Station (1976) 6.5Si ritrova immerso in un periodo di grave assuefazione alla cocaina, pervaso da fantasmi (dalla magia al nazismo) di ogni tipo e, si mormora, tra la vita e la morte sia psichica che fisica.
In questo contesto partorisce un album controverso e discusso in cui abbandona le suggestioni black americane, torna in Europa e si innamora del sound elettronico e “cosmico” tedesco (Kraftwerk, Tangerine Dream, Neu, Can) che incomincia, solo a tratti, a trasparire. “Station to station” è il prologo della famosa trilogia berlinese.
I retaggi del recente passato glam (“Station to station”) e di quello funk (la hit “Golden years” o l’incedere ritmico di “Stay”) sono però ancora evidenti anche se si mischiano ai nuovi gusti.
Un lavoro transitorio, non definito, da alcuni amatissimo da altri molto criticato.
Low (1977) 7Esce nel gennaio del 1977 e segna l’inizio di quella che è stata definita la “Trilogia Berlinese” (e che comprende anche la produzione e composizione dei due album della “rinascita “ di Iggy Pop “The idiot” e “Lust for life”. Registato in realtà in Francia e solo mixato a Berlino Ovest , segna l’inizio della collaborazione di
Brian Eno, la cui impronta è determinante in tutta la “Trilogia”.
L’album è algido, duro, assume toni apocalittici (“Warszawa”, gli strumentali “Art Decade” e “Subterraneans”), fortemente sperimentali (“Weeping Wall”), quasi caotici (“What in the world”), riesce a trovare il successo commerciale con la più accessibile “Sound and vision” e momenti meno claustrofobici (l’intro strumentale di “Speed of life” , “Be my wife”, “A new career“, l’ispirata “Always crashing in the same car”).
Accolto con diffidenza e non molto favorevolmente dalla critica, troverà il successo del pubblico e dei fans.
Heroes (1977) 910 mesi dopo, nell’ottobre del 1977 è la volta di “Heroes”, uno dei capolavori di Bowie e dell’intera storia del rock.
Interamente registrato a Berlino, più accessibile, meglio definito, meno sperimentale di “Low”, con Eno ancora più determinante ed equilibrato, regala in apertura lo stupendo glam/new wave di “Beauty and the beast” e il rock sporcato di kraut wave di “Join the lion”, brani nervosi e tirati.
La chitarra di Robert Fripp dei King Crimson, i synth di Eno e l’incredibile interpretazione vocale di Bowie sono le colonne portanti di uno dei brani più celebri della storia, “Heroes”, canzone iconica che meglio di ogni altra può rappresentare quei luoghi, quelle atmosfere in quel periodo.
Più convenzionali “Sons of the silent age” e “Blackout” introducono all’omaggio ai Kraftwerk di “V-2 Schneider”, alle catartiche atmosfere strumentali di “Sense of doubt” , “Moss garden” e “Neukoln”.
Chiude l’ironica e stramba “The secret life of Arabia” e riporta l’album in binari meno sperimentali.
Lodger (1979) 7E’ del maggio 1979 “Lodger”, il terzo atto della “Trilogia” per quanto registrato in realtà tra New York e Svizzera e palesemente lontano dalle atmosfere dei due precedenti lavori.
Il tono è sicuramente più leggero e pop, ci sono incursioni pionieristiche nella world music (il reggae orientaleggiante “Yassasin” , “African night flight” , brani immediati, nessun strumentale), qualche residuo “berlinese” (“Red sails”) ma soprattutto brani destinati a diventare piccoli classici come “DJ” , “Boys keep swinging”, “Don’t look back in anger”.
A chiudere l’ossessiva “Repetition” e “Red money” originariamente apparsa nell’album di Iggy Pop “The idiot” con il titolo di ”Sister midnight”
Scary monsters (1980) 7Forse non sbaglia chi lo definisce l’ “ultimo grande album di Bowie”.
Dopo l’esperienza con Eno riesce ad andare addirittura più in là riuscendo a fondere sperimentazione con melodia, personalità, credibilità soprattutto nello spiazzare e seppellire in creatività, stile e classe buona parte del post punk e della new wave a lui contemporanea. Classico ed innovatore allo stesso tempo.
“Scary monsters” è a tratti più ostico e ruvido dei precedenti (la title track nè è un esempio, mentre “Teenage wildife” è una specie di “Heroes” di serie B ) ma ricalca l’equilibrio di “Lodger”.
Torna Fripp che ben si affianca a Carlos Alomar.
L’album avrà un grande successo commerciale (anche grazie al singolo “Ashes to ashes”) e rimane tra i capolavori di Bowie.
Let’s dance (1983) 6.5Il Bowie camaleonte a tutti i costi cambia di nuovo rotta, si affida alle cure di Nile Rodgers degli Chic e si abbandona a suoni e atmosfere pop, dance, accessibili e “pulite”.
Ripesca “China girl” che compose per Iggy e “Criminal world” dei new wavers Metro, la title track sfonda le classifiche, “Cat people” (composta con Moroder) è un’altra hit.
C’è anche Steve Ray Vaughan per qualche ottimo assolo bluesy. Ma in generale lo spessore è scarso.
Tonight (1985) 5
Never let me down (1987) 4.5Con il proposito di bissare i fasti commerciali di “Let’s dance” Bowie sceglie una strada il più possibile mainstream, filtrando addirittura con il reggae nella title track (con Tina Turner), viaggiando tra brani pop poco defniti e soprattutto evidenziando come l’album sia stato confezionato con numerosi riempitivi (dal recupero di due brani già negli album di Iggy Pop, una cover dei Beach Boys e di “I keep forgettin” un classico rythm and blues che furoreggiava nella scena mod dei 60’s).
L’ovvia professionalità e la classe non bastano a riscattare un album debole e poco significativo nonostante l’hit “Blue Jean”.
Praticamente rinnegato dallo stesso David
“Never let me down” è tra i momenti meno riusciti della carriera.
Manierismo, scarsa creatività, suoni pomposi, enfatici, nessun brano da ricordare, un brano di Iggy (peraltro tra i meno interessanti della sua discografia). Da dimenticare.
Tin Machine “1” 5.5 (1989) “2” (1991) 5Un altro cambiamento di rotta ancora più forzato del solito.
Bowie decide per la dimensione della rock band “tradizionale” tra ritmi southern blues, ballate mid tempo, ritmiche serrate, schitarrate, confezionando due album (più il prevedibile live) di cui si capisce poco il significato, l’utilità e di cui sicuramente non si sentiva la necessità.
Di per sè non malvagi ma perfettamente inutili.
Urla invece vendetta la versione rock tamarra di “Working class hero” di Lennon sul primo album !Black tie white noise (1993) 6.5A sei anni dall’ultimo deludente album il ritorno si tinge di ottime tinte.
Bowie ritrova classe, equilibrio e un sound distintivo che mischia passato remoto (la presenza di Mick Ronson), prossimo (Nile Rodgers) e un presente felice e di forma eccellente. C’è il funk nella title track, “Berlino” in “Jump they say” (che sembra preso da “Lodger”), un ispirato omaggio ai Cream (“I feel free”) e uno ai Walker Brothers.
Perfino qualcosa di più attuale come “I know It’s gonna happen...” di Morrisey.
L’album fu di difficile reperibilità a causa del fallimento dell’etichetta, impedendogli visibilità e buoni risultati di classifica.
The Buddha of Suburbia (1995) 6Normalmente considerato “solamente” una colonna sonora è in realtà un vero e proprio album di Bowie che se non riluce particolarmente nella discografia è comunque degno di nota sia per l’omonimo singolo (con citazione di “Space Oddity”) che per un livello compositivo e creativo più che dignitoso, pur restando un episodio minore.
Outside (1995) 7David ritrova Eno, compongono liberamente in studio e ne scaturisce un concept dai contenuti nebulosi ma musicalmente valido, debitore all’interesse del nostro ai Nine Inch Nails al cui martellante industrial rock questo album è stato spesso accostato.
Una prova di vitalità ritrovata e un profluvio di idee al passo (talvolta, come sempre, anche più avanti) con i tempi.
Un lavoro non facile (anche gli intermezzi che uniscono il concept non aiutano la linearità) ma di alto livello.
Earthlings (1997) 6.5E’ la volta del drum and bass, dei Prodigy e della nuova elettronica industrial.
Bowie prova anche questa strada.
Inutile sottolineare per l’ennesima volta il livello sempre eccelso dell’approccio, all’insegna della professionalità, dello stile e della personalità. Ci sono echi di Tin Machine (“Seven years in Tibet”), tuffi nel techno funk (“Dead man walking”) mix di elettronica e riff hard rock. Dignitoso ma poco più.
Hours (1999) 6
Heathen (2002) 5
Reality (2003) 5Prima del lungo silenzio in cui rimane ormai da tempo tre album fotografano impietosamente il declinare artistico di una carriera unica e di primaria importanza nell’ambito della musica contemporanea.
Se “Hours” regala ancora sprazzi di vitalità riportandoci talvolta ai suoni dei primi 70’s. “Heathen” e “Reality” sono capitoli di scarsa ispirazione, monotoni, prevedibili, risaputi.
Coverizza Pixies, Neil Young, George Harrison e Modern Lovers, si avvale della consueta capacità di rivestire i brani di eleganza e fascino ma non basta.
Non più.