mercoledì, maggio 13, 2020
Hazel Scott
Riprendo l'articolo che ho scritto per IL MANIFESTO di sabto 9 maggio 2020.
Il razzismo e il segregazionismo che infettarono ufficialmente gli Stati Uniti fino agli anni 70 (e successivamente in modo più subdolo e sotterraneo si sono ben conservati fino ai nostri giorni, con tanto di massiccia e gradita esportazione in Europa e resto del mondo) fecero un numero enorme e imprecisato di vittime.
Da quelle linciate e appese a una corda a quelle (tutt'ora) assassinate per “legittima difesa” da polizia e bravi cittadini timorati di Dio, fino a coloro che non poterono mai sviluppare il proprio talento e le proprie capacità, artistiche e lavorative, a causa del colore della pelle.
Alla faccia del “paese delle opportunità”.
In ambito artistico non si contano le carriere spezzate, boicottate, mai iniziate, di chi non si piegò ai brutali divieti, alla separazione, coercizione, prevaricazione.
Se in aggiunta eri pure donna e tenevi testa alle “regole”, la tua vita (artistica e non) era il più delle volte segnata.
Nina Simone fu sostanzialmente costretta a lasciare gli States (che gliela fecero pagare pesantemente, sospendendo distribuzione e pubblicazione dei nuovi album) a causa delle sue posizioni che non contemplavano alcun compromesso su certe tematiche, altre si adattarono ad aggiustamenti più o meno onorevoli, cercando di fare passare il “messaggio” in modo meno diretto ed esplicito.
Hazel Scott, eccelsa pianista, voce potente, caldissima e suadente, genio del jazz e della musica, spesso reputata di essere degna di apparire, nella storia, al fianco di nomi tutelari come Duke Ellington o Count Basie (nella cui orchestra suonò all'età di 15 anni, in radio e nei club!), stretta amica di Billie Holiday che la aiutò ad entrare nello star system, è stato un esempio perfetto, nella sua perversa negatività, in tal senso.
Negli anni 50 fu severamente punita per il suo impegno per i diritti civili e per quelli della comunità nera, inserita dal Comitato per attività anti americana nel famigerato “Red Channels” che indicava gli artisti vicini al Partito Comunista Americano, che di fatto la privò della possibilità di svolgere un'attività artistica negli Stati Uniti.
“C'è solo un tipo di persona libera in questa società ed è bianco e maschio” (Hazel Scott).
Se ne andò a Parigi, esibendosi per anni in Europa, tornando in patria solo a metà degli anni Sessanta, quando però ormai reinserirsi nel circuito era impresa ardua (anche a causa dei cambiamenti stilistici e del gusto del pubblico). Nata a Trinidad, di origine nigeriana Yoruba, cresciuta a New York, bambina prodigio (definita già all'età di otto anni “un genio”), stella predestinata del jazz, incominciò prestissimo, in virtù di una tecnica smisurata e di una capacità esecutiva pressoché unica, a farsi strada nel mondo dello spettacolo.
“Ho sempre saputo di essere dotata, che non è la cosa più semplice da far conoscere al prossimo perché non sei consapevole del dono ricevuto ma solo per quello che ci fai”.
Arrivò a Hollywood negli anni 40, entrando nel cast di diversi film e diventando protagonista di numerosi musical teatrali di grande successo da “I dood it” diretto da Vincent Minelli a “Raphsody in blue”, sulla vita di Gershwin.
Divenne famosa per sapere arrangiare pezzi classici (da Liszt a Bach e Chopin) in chiave jazz e blues, il cosiddetto “Swinging Classic”, entusiasmando anche la first lady Eleanor Roosvelt, presente a un suo concerto. Ma il ruolo perennemente assegnatole, come era prassi ai tempi, di macchietta (la donna di servizio nera che suona allegra e sorridente per i padroni bianchi, in un cast in cui non ci sono altri personaggi di colore) che non volle sapere di accettare (clausola che poneva sempre come essenziale prima di firmare un contratto) la indusse a lasciare il cinema e a tornarsene a New York.
Dove ottenne, prima donna nera in assoluto, un proprio show televisivo, l'“Hazel Scott Show”, dove, per tre giorni la settimana, suonava la musica che preferiva (jazz, boogie, blues), anticipando di parecchi anni, quello che divenne il primo importante show musicale condotto da un nero, di Nat King Cole, personaggio molto più accomodante e sicuramente meno impegnato politicamente. Intransigente, pose sempre regole ferree sulle modalità dei suoi concerti, come ad esempio il rifiuto di esibirsi in luoghi in cui vigeva la separazione razziale (cosa che ovviamente le tagliò un gran numero di possibilità di live).
Negli anni 50 una corda divideva il pubblico bianco da quello nero nei club e nei teatri (talvolta sistemata in fretta e furia quando gli organizzatori si rendevano conto di avere chiamato a esibirsi un artista nero, del cui colore della pelle era ignari in precedenza).
Ray Charles fu condannato, ancora nel 1961, per avere annullato un concerto in Georgia, una volta saputo che gli spettatori sarebbero stati separati.
Alla fine degli anni 50 al gruppo di colore dei Flamingos, prima di un concerto in Alabama , fu intimato dalla polizia locale di cantare guardando solo in alto, verso il loggione, dove erano confinati i neri e di non azzardarsi a volgerlo verso la platea dove avrebbero potuto vedere o incrociare lo sguardo con qualche donna bianca.
Certo, si tratta di casi limite dai tratti, drammaticamente, quasi folkloristici, ma il clima generale, soprattutto al Sud, era questo.
E se quanto descritto era l'aspetto più visibile ed eclatante, nella vita quotidiana, nei rapporti sociali, nelle situazioni più banali, le differenze erano marcate e il solco profondo.
“Perché qualcuno dovrebbe venire ad ascoltare una “negra” e poi rifiutare di sedersi vicino a una persona come me?”, dichiaro' la Scott.
La sua vita le poteva bastare, era famosa, ben pagata e il futuro le avrebbe riservato ancora di meglio. Ma la sua caparbietà e onestà la spinsero a presentarsi al Comitato di cui sopra con una dichiarazione chiara, pulita e precisa:
“Gli attori, i musicisti, gli artisti, i compositori e tutti gli uomini e le donne delle arti sono desiderosi e ansiosi di aiutare e servire il nostro paese. Il nostro paese ha bisogno di noi oggi più che mai.
Non dovremmo essere cancellati dalle feroci calunnie di uomini piccoli e meschini."
Parole che le costarono la carriera e la cancellarono di fatto dalla scena artistica. Lo show fu sospeso, le date divennero sempre più rare. Partì per Parigi (dove frequentò altri artisti fuggiti dall'America sempre più Maccartista, da Dizzie Gillespie a James Baldwyn), si esibì in Africa, Medio Oriente, si separò dal marito Adam Clayton Powell, attivista e politico, primo afroamericano a essere eletto membro del Congresso nello stato di New York. Tornò in America solo nel 1967 dove ritrovò solo una piccola parte della considerazione artistica precedente, continuando a suonare in tutto il paese, fino al 1981 quando un cancro la portò via definitivamente all'età di 61 anni.
Il suo nome scomparve velocemente dalla storia e finì a lungo nel dimenticatoio.
Nel 2019 Alicia Keys, durante la consegna dei Grammy Awards ha voluto onorare il talento di Hazel, suonando in contemporanea due pianoforte, pratica che rese famosa la Scott in una ripresa cinematografica. I giornali hanno ripreso l'immagine, il video e la notizia riportando agli onori della cronaca il ricordo dell'immensa pianista jazz.
Per apprezzare il talento smisurato di Hazel Scott ci sono antologie in abbondanza ma un disco in particolare svetta per importanza, classe e soprattutto tecnica, che unisce la genialità di tre mostri sacri della musica jazz.
Hazel al piano è superlativa ma ad accompagnarla, seppure in modalità rispettosa e mai prevaricante niente meno che Charlie Mingus al contrabbasso e Max Roach alla batteria.
“Relaxed piano moods”, del 1955, è un disco superbo (valga, da solo, “The jeep is jumping”, sublimazione dello swing e della tecnica jazzistica).
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Complimenti,
RispondiEliminasplendido articolo e blog veramente interessante!
Grazie,
Ste